Alta Terra di Lavoro

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Contro i giacobini al grido di Viva Maria!

Posted by on Set 2, 2019

Contro i giacobini al grido di Viva Maria!

Una pagina davvero poco conosciuta della storia delle Insorgenze controrivoluzionarie che tra il 1796 e il 1799 infiammarono tutta la Penisola, per opporsi all’invasione francese e all’insediamento di governi rivoluzionari guidati da traditori giacobini locali. La rivolta dei “Viva Maria”, in Toscana, testimonia che l’elemento propulsore e unificatore delle sollevazioni popolari scoppiate i tutti gli Stati preunitari fu la difesa della Religione Cattolica e dei troni tradizionali. L’articolo che segue è firmato da Massimo Viglione, docente presso la cattedra di Storia Moderna dell’Università di Cassino, autore e curatore di numerosi testi sulle insorgenze del 1799, ed è apparso sul numero di gennaio 2008 del mensile Radici Cristiane.

La conoscenza della storia della grande rivolta anti-illuminista prima, antigiacobina poi, in una parola, controrivoluzionaria, avvenuta in Italia durante gli anni della Rivoluzione Francese e dell’invasione napoleonica, va ormai sempre più affermandosi nonostante la congiura del silenzio di cui per decenni e decenni è stata vittima. Questo anche grazie a tutta una serie di pubblicazioni e al succedersi di innumerevoli convegni tenutisi in ogni angolo della Penisola, soprattutto a partire dal bicentenario di tali eventi (1996). Tutta la Penisola insorse contro l’invasore napoleonico, venuto a imporre con le baionette e la ghigliottina le idee di democratismo repubblicano e laicismo anticattolico della Rivoluzione Francese. Gli italiani insorsero a difesa della propria civiltà, allora monarchica, sacrale e profondamente cattolica. Insorgenze controrivoluzionarie vi furono in tutti gli Stati preunitari, al grido collettivo di “Viva Gesù”, Viva Maria”, “Viva il Papa” o “l’Imperatore” o “il Re”, “Viva san Pietro”, ecc., al seguito sovente di stendardi regali e imperiali o di immagini sacre della Vergine o dei santi, a volte guidate da sacerdoti ed ecclesiastici (fra cui il celebre cardinale Ruffo, a capo dell’”Armata Cristiana e Reale della Santa Fede” nel Meridione). Si trattò di rivolte popolari e spontanee, causate della guerra che la Rivoluzione, precipitata in Italia con la sua tipica violenza e intolleranza, aveva portato contro la Chiesa, la Fede e i legittimi secolari governi (oltre che contro le tasche degli italiani, e contro i loro inesauribili tesori artistici). Si calcola oggi che insorsero in armi contro i francesi e i giacobini locali fino a 300.000 italiani, e ne morirono non meno di 100.000! Una epopea del nostro popolo tanto gloriosa e tragica quanto sconosciuta. Il perché è facile da capire per chiunque: gli italiani di quei giorni insorsero… dalla parte sbagliata… contro il “progresso” laicista in difesa della tradizione cattolica e della Chiesa. Pertanto, hanno meritato il silenzio della storia. Le prime insorgenze Ad Arezzo e in Toscana, nel 1799, si svolse una delle pagine più gloriose di tutta la storia della Controrivoluzione italiana. Premettiamo che i toscani furono i primi della storia italiana ad insorgere contro i lumi del “progresso” che venivano dalla Francia di Voltaire e Rousseau. Ciò accadde ancor prima del 1789, quando un vescovo eretizzante, il giansenista Scipione de’ Ricci, tentò per ben due volte (‘87 e ‘90) nella sua diocesi di Prato e Pistoia di abolire il culto delle reliquie, il culto pubblico alla Madonna, tolse gli altari laterali nelle chiese, e tentò perfino l’avventura dello scisma da Roma. Fu entrambe le volte riportato ai miti consigli dalle popolazioni toscane, che non esitarono ad assaltare la diocesi, fino a costringerlo alla fuga definitiva. Nel 1796 arrivarono poi i napoleonici, ma non invasero immediatamente il Granducato di Toscana (al contrario di quanto accadde agli altri Stati della Penisola). Questo fu di fatto conquistato per ultimo, solo nella primavera del 1799, proprio mentre tutto il resto della Penisola, sotto il tallone francese (eccetto il Triveneto), insorgeva in armi contro l’invasore. I napoleonici, appena insediatisi a Firenze e ovunque nel Granducato, iniziarono la loro usuale politica di spogliazioni economiche indiscriminate e di fiscalismo esorbitante. né vennero meno alla costante usanza di rubare le meraviglie dell’arte dalle chiese, dai palazzi e dai musei. Inoltre, neanche in Toscana mancarono le offese alla fede, gli oltraggi alle chiese e al clero, la politica di laicizzazione dello Stato. Per qualche settimana i toscani sopportarono. Poi in aprile vi furono le prime insorgenze sparse localmente in alcune città. prime scintille del grande fuoco che stava per divampare. Ma l’esplosione doveva avvenire ad Arezzo, e fu un’esplosione che portò alla Controrivoluzione generale e alla riconquista del Granducato. La Vergine del Conforto e i “Viva Maria” Arezzo era una città particolarmente legata ai Lorena (a differenza di tante altre zone toscane nostalgiche dei Medici), i quali l’avevano sgravata delle sovrattasse medicee, ed avevano iniziato la bonifica della Val di Chiana. Ma soprattutto gli aretini erano fortemente religiosi, e questa loro devozione si era accresciuta particolarmente dal 1796, quando il volto di un’immagine della Vergine, conservata nel Santuario della Grancia, ospizio dei Padri Eremitani di Camaldoli a Porta San Clemente, fu visto irradiare luce, da nero divenendo bianco, durante un pellegrinaggio effettuato il 15 febbraio 1796 con lo scopo di ottenere la grazia della sospensione delle scosse di terremoto che si erano succedute negli ultimi giorni. L’immagine fu subito intronizzata nella cappella centrale del Duomo (dove è ancora oggi), e le fu attribuito il titolo di “Madonna del Conforto”. Quando Arezzo venne occupata ai primi di aprile dai francesi e cisalpini, iniziarono subito gli insulti alla religione cattolica, e in più si obbligavano tutti gli abitanti a portare la coccarda tricolore, ai canonici si proibiva di indossare il loro colore distintivo, il paonazzo, si atterravano gli stemmi gentilizi dalle case, le iscrizioni ed ogni altro segno di distinzione, si ponevano giansenisti nelle cariche pubbliche, arrivando perfino ad arruolare forzatamente il clero nella guardia nazionale, anche nelle mattine di festa! Si può facilmente immaginare lo stato d’animo degli aretini. La notte del 5 maggio tutte le colline antistanti la città erano piene di fuochi, sia per festeggiare il genetliaco di Ferdinando III, sia per la notizia dell’avvicinamento degli eserciti austro-russi. La mattina del 6 maggio centinaia di contadini erano entrati in città con intenzioni non molto pacifiche. Verso le ore otto accadde l’episodio decisivo: dalla Porta di Santo Spirito entrò una carrozza, guidata da un vecchio contadino, sulla quale sedeva una signora con in mano una bandiera imperiale austriaca; alla vista della bandiera la gente iniziò ad urlare “Viva Maria!”; la carrozza fece un rapido giro per la città, fomentando ovunque l’entusiasmo, e quindi uscì da dove era entrata. Rapidamente si sparse la voce che sulla carrozza vi erano San Donato e la Vergine del Conforto in persona; tanto bastò a far iniziare senz’altro l’insorgenza. Immediatamente fu abbattuto ed incendiato l’albero della libertà, al posto del quale fu innalzata una croce, liberati i prigionieri, arrestati i giacobini, rialzate le armi granducali, e tutta la città si adornò di bandiere toscane, pontificie ed austriache, mentre le campane suonavano a martello ovunque per invitare i contadini alla controrivoluzione. I francesi tentarono una formale resistenza, ma dopo un breve scambio di fucilate, che procurarono due morti e numerosi feriti, abbandonarono velocemente la città. Arezzo rimase così in mano agli insorgenti, e il 7 maggio, dopo una solenne cerimonia di ringraziamento nel Duomo ed una processione nella quale furono portati oltre alle sacre immagini i ritratti del Granduca e della consorte, fu eletta una Giunta Civile. Le forze degli insorti furono divise in compagnie ciascuna di 130 uomini, più un corpo di cavalleggeri, formato per lo più da giovani aristocratici. Il piccolo esercito improvvisato divenne in breve un esercito vero, per via della ferrea organizzazione militare e logistica. Si fecero anche delle bandiere, che avevano i colori regolamentari delle truppe granducali e dello Stato toscano: il cam po giallo circondato di nero o quello bianco circondato di rosso, mentre le scritte erano sempre dedicate o alla Vergine del Conforto, proclamata ufficialmente “Generalissima dell’Armata”, o a San Michele Arcangelo, “Protettore del nostro paese, in atto di fulminare il demonio”. Gli uomini senza uniforme indossavano la coccarda, il “brigidino” rosso-bianco o giallo-nero con l’immagine impressa sul petto della Vergine del Conforto e dell’aquila bicipite imperiale, dalle due teste coronate. Nei momenti di massi mo sforzo militare, l’esercito controrivoluzionario giunse a contare circa 38.000 uomini, reclutati per lo più fra gli abitanti del territorio aretino e di quelli circostanti, ma non si arrivò mai ai criteri di una leva di massa. Era pronto l’esercito per la riconquista del Granducato! La riconquista del Granducato Lo stesso giorno del 6 maggio insorse anche Cortona, ove fu abbattuto l’albero della libertà, imprigionati i francesi ed iniziata una caccia al giacobino; quindi i contadini della Val di Chiana, del Casentino, delle alture della Verna, che armi in pugno inseguivano per le vallate i francesi ed i giacobini; saputo ciò, gli aretini si misero in marcia per raggiungere i luoghi delle rivolte. In poco tempo ad Arezzo convenne un esercito di 18.000 uomini, il cui comando supremo fu assegnato al cavaliere gerosolimitano G.B. Albergotti. Gli insorgenti non tardarono a passare ai fatti. Si assalì e conquistò Cortona, quindi si marciò su Siena, che fu presa d’assalto. Nel frattempo insorgevano in armi decine e decine di cittadine ed intere vallate, come il Casentino, la Val d’Orcia, la Val d’Orbia, la Val di Chiana e la Val d’Arno. Dopo la conquista di Siena, l’intero Granducato era ormai insorto in armi, e ogni cittadina esortava gli aretini ad arrivare e prendere possesso della municipalità. Così, di città in città, l’ “Inclita Armata della Fede” (così venne chiamata) giunse in poche settimane a marciare su Firenze, mentre i francesi fuggivano miseramente verso il Nord. Il 7 luglio, al grido di “Viva Maria!”, l’Inclita Armata entrò in trionfo nella capitale. Vittorio Alfieri, attesta in una sua lettera che l’entusiasmo era alle stelle, e grandi furono i festeggiamenti. Generosi fino in fondo Riconquistato il Granducato, gli aretini avrebbero potuto godersi la loro gloria in pace in attesa del ritorno dei Lorena. Invece decisero di non sciogliersi, e continuare la guerra di liberazione nello Stato Pontificio. Dapprima riconquistarono molte città dell’Umbria, poi volsero verso Viterbo, infine verso Roma, ove parteciparono alla riconquista, avvenuta il 30 settembre, della Città Eterna insieme alle truppe della Santa Fede del Cardinale Ruffo e agli inglesi. Alla fine del 1799 l’Italia era libera dai francesi: si tratta della più gloriosa pagina della storia nazionale degli italiani. Nel 1800 però Napoleone, con la vittoria di Marengo, ricominciò la progressiva conquista della Penisola. Allora gli aretini tornarono di nuovo in armi per altri due anni, combattendo eroicamente contro i napoleonici. Ma, come è noto, nella vita certe cose… “riescono una volta sola”… e così questa ultima rivolta andò a finire nel 1801 senza un esito positivo. Rimane però la gloria che il popolo aretino si è per sempre conquistato con il suo eroico e disinteressato servizio alla causa della Chiesa e della civiltà cristiana in Italia. Rimane anche il dispiacere che in tutta Arezzo non vi sia una Piazza o via o anche un semplice monumento a memoria di tutto questo: vi era stato posto dalla precedente giunta di centro-destra in occasione del bicentenario, ma l’attuale, di centro-sinistra, ha pensato bene di toglierla. Il silenzio deve continuare…

fonte http://www.editorialeilgiglio.it/storia-1799-contro-i-giacobini-al-grido-di-viva-maria/

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Significato nazionale e controrivoluzionario del «Dos de Mayo»

Posted by on Ago 23, 2019

Significato nazionale e controrivoluzionario del «Dos de Mayo»

1.Una considerazione sul «senso nazionale» che ebbe il 2 maggio 1808 (1), ossia su quanto questa data ha aggiunto all’identità spagnola, può partire dalla seguente affermazione: il risultato di questo episodio storico non si limita a quanto è accaduto in tale data. Il 2 maggio si sarebbe ridotto a una gloriosa benché sterile ribellione contro il dispotismo di Napoleone, se non avesse avuto la capacità di avviare un duplice processo: una trasformazione politica, iniziata mediante la costituzione di «giunte», prassi normale nella Spagna di antico regime in momenti di crisi politica e, pertanto, di natura per niente rivoluzionaria; e una guerra d’indipendenza, la cui importanza al fine di provocare il collasso del progetto napoleonico non è necessario sottolineare in questa sede.

2. Anche se nel 2 maggio e nella guerra che scoppiò allora esistette un elemento causale che potremmo chiamare d’«indipendenza nazionalista», nel senso di volontà di auto-affermazione di fronte allo straniero, a mio giudizio non si trattò del fattore decisivo. È certo che i madrileni furono presi allora da un rabbioso impulso di rivolta quando si accorsero drammaticamente che erano i francesi a determinare la vita politica spagnola. «Per loro, come giustamente ha segnalato Lovett (2), la Spagna era il miglior Paese del mondo, le spagnole le più belle fra le donne, la loro religione l’unica autentica e il loro monarca il migliore dei re. Un popolo così profondamente orgoglioso e contento di sé stesso difficilmente poteva essere dominato da una nazione straniera»

(3). Senza dubbio, non è meno certo che la Francia da anni andava determinando la politica spagnola, ma ciò non destava la minima preoccupazione in persone come Manuel Godoy Álvarez de Faria Ríos Sánchez Zarzosa (1767-1851) – già primo ministro dal 1792 al 1808 –, che vedeva rafforzata così la sua politica. «La Spagna – scriveva –, fra tutte le nazioni vicine alla Francia, è stata l’unica che lungo quindici anni consecutivi di scossoni violenti, mentre si vedevano gli imperi e i regni frastornati, scossi fin dalle fondamenta, mutilati delle loro province, rimase in piedi, conservando i suoi Principi legittimi, la religione, le leggi, le abitudini, il diritto e il completo possesso dei suoi vasti domini in entrambi gli emisferi» (4). E i francesi erano anche i «centomila figli di San Luigi» ricevuti con entusiasmo nel 1823 per far fronte ai rivoluzionari che erano insorti in caccia del potere durante il cosiddetto «Triennio liberale».

3. Non siamo, quindi, solo di fronte a una guerra «antifrancese», ma anche davanti a una guerra contro la «fase imperiale» della Rivoluzione francese, così come quella combattuta nel 1793-1795 contro la Repubblica rivoluzionaria era stata una guerra contro la fase «giacobina» di tale Rivoluzione. Il «bonapartismo» – nome che deriva da quello del Côrso – indica storicamente qualunque processo rivoluzionario quando entra nella sua fase di «istituzionalizzazione» e le guerre napoleoniche non sono una semplice espansione nazionalista, ma la diffusione a livello europeo dei principi «giacobini».

Si spiega così che, per la stragrande maggioranza degli spagnoli, la Guerra d’Indipendenza del 1808-1813 fu una «guerra di religione» contro le idee eterodosse del XVIII secolo diffuse dalle legioni napoleoniche. Da qui derivano altresì l’attivismo della gerarchia ecclesiastica e la sua partecipazione operosa all’insurrezione e alla guerra contro i francesi. Basta ricordare la deliberazione dell’ottantenne vescovo di Coria, nell’Estremadura, Juan Alvarez de Castro (1724-1809) d’incoraggiare e di sostenere lo sforzo dei suoi diocesani nella guerra. La sua azione venne stroncata nell’arco di appena un anno, poiché la vendetta francese pose fine a quello che non era altro che un brillante punto di arrivo di un percorso coerentemente iniziato in precedenza. Infatti, quando era scoppiata la guerra degli spagnoli contro i rivoluzionari come conseguenza dell’esecuzione di Luigi XVI, il vescovo aveva scritto una pastorale ai suoi diocesani affinché aiutassero l’esercito spagnolo. Dopo l’inizio della rivolta del maggio 1808 contro i francesi mons. Alvarez de Castro invitò il suo capitolo a contribuire al sostentamento delle truppe e, dopo aver ottemperato agli obblighi dell’episcopato, destinò le residue entrate alle spese della campagna militare e ordinò preghiere pubbliche per il trionfo dell’esercito spagnolo (14 giugno 1808); il 23 giugno esortò a rispondere al bando di reclutamento che la Giunta Suprema di Governo della sua provincia aveva proclamato. Secondo il presule tutti i fedeli dovevano prestare un giuramento nelle loro parrocchie davanti al Santissimo Sacramento esposto: in primo luogo dovevano giurare gli ecclesiastici, che avrebbero poi dovuto spiegare al popolo, riunito in un giorno prestabilito di comune accordo fra i sacerdoti e le rispettive Giunte, i doveri contenuti nella formula impiegata: «Giuriamo e promettiamo al Divino Signore Sacramentato di mantenere la più perfetta unione, rispetto e venerazione alla Giustizia, di dimenticare per sempre con tutto il cuore i sentimenti personali, di difendere la nostra Santa Religione, il nostro amato Sovrano e Signore don Ferdinando VII e le proprietà, fino allo spargimento delle ultime gocce del nostro sangue» (5).

La ripercussione di queste pastorali e circolari del vescovo dentro e fuori la diocesi fu grande. L’Estremadura insorse come un sol uomo e le sue catene montuose diventarono a lungo impenetrabili per gli eserciti napoleonici. Il prelato promise, in nome di Dio, la beatitudine eterna a coloro che fossero morti per la patria; diede alla causa tutto quello che possedeva; le sue chiese si impoverirono; consegnò i propri gioielli per essere fusi; e i suoi granai rimasero aperti… Quando un esercito francese, guidato dal maresciallo Nicolas Jean-de-Dieu Soult (1769-1851), s’impossesserà di Plasencia e il 13 agosto 1809 entrerà in Coria, si riseppe quanto il vescovo di Coria aveva contribuito allo sforzo bellico, così come che si era rifugiato a Hoyos. Il 29 agosto uno squadrone francese arrivò fin là, tirerà giù dal letto il venerabile prelato – che, oltre ai problemi dell’età, si trovava assai debilitato e in pericolo di morte – e dopo che fu caduto per terra, gli sparò due colpi di fucile, non senza aver prima saccheggiato la casa e provocato la morte di uno degli anziani che si erano lì rifugiati, ferendo uno dei familiari e altri cinque anziani.

Esempi simili si potrebbero moltiplicare. È assai noto il racconto di Marcelino Menéndez Pelayo (1856-1912): «La resistenza si organizzò, quindi, democraticamente e alla spagnola, con quel federalismo istintivo e tradizionale che nasce nei grandi pericoli e nei grandi capovolgimenti, e fu, come si poteva sperare, ravvivata e infervorata dallo spirito religioso, che viveva integro per lo meno negli umili e nei piccoli, e venne capeggiata e diretta in gran parte da frati. Di ciò danno testimonianza la dittatura di p. Rico a Valencia, di p. Gil a Siviglia, di fra’ Mariano di Siviglia a Cadice, di p. Puebla a Granata e del vescovo Menéndez di Luarca a Santander. La Vergine del Pilar animò lo sforzo degli abitanti di Saragozza e i gironesi si posero sotto la protezione di san Narciso; nella mente di tutti, a parte lo scarso numero dei cosiddetti liberali che per encomiabile incoerenza smisero di “infrancesarsi”, quella guerra, sia guerra spagnola sia guerra d’indipendenza, era in realtà una guerra di religione contro le idee del XVIII secolo diffuse dalle armate napoleoniche. Com’è certo che in quella guerra l’alloro più alto spettò a ciò che il suo coltissimo storico, il conte di Toreno (6), con il suo aristocratico disprezzo di insigne dottrinario, definisce straordinaria demagogia, pezzentemente e fratescamente superstiziosa e assai ripugnante! Peccato che senza questa demagogia così maleodorante, e che tanto dava sui nervi all’illustre conte, non sarebbero state possibili né Saragozza né Girona!» (7).

Né mancherà la giustificazione teologica dello sforzo. Come scrisse padre Rafael Vélez nel 1813: «La stessa religione ha dato forza alle nostre truppe per vendicare gli insulti che hanno patito dai francesi nella nostra terra. Essa ha rinfrancato la nostra debolezza quando si vide che stavamo per essere privati del culto: ci ha messo in mano le armi, per resistere all’aggressione francese, che al tempo stesso attaccava il trono e distruggeva l’altare. La religione ci ha condotto nei suoi templi, ha benedetto le nostre armi, ha dichiarato solennemente guerra, ha santificato i nostri soldati e ci ha fatto giurare ai piedi delle sante are, alla presenza di Gesù Cristo nel Sacramento e della sua Santissima Madre nelle sue chiese, di non abbandonare le armi fino alla distruzione totale dei piani della filosofia della Francia e di Napoleone contro il trono dei nostri re e contro la fede della nostra religione» (8). «Tutta la Spagna riuscì a convincersi che se avesse dominato la Francia avremmo perso la nostra fede. Fin dall’inizio questa guerra fu chiamata guerra di religione: gli stessi sacerdoti presero le spade e persino i vescovi si posero alla giuda delle truppe per incoraggiarli a battersi» (9).

Benché sia certo che nel 1808 si realizza lo smantellamento di una struttura politica che nelle sue forme esistenti era stata incapace di far fronte alla crisi che va dalla rivolta di Aranjuez (17 marzo 1808) alle abdicazioni di Bayona (5 maggio 1808) e all’invasione francese, non mi sembra che questo debba avere un significato politico, ma solo un senso eminentemente bellico. La crisi politica dell’antico regime in Spagna non è una conseguenza naturale del 2 maggio, bensì dello svolgimento di eventi di carattere militare in cui agiranno come meccanismo scatenante le Cortes di Cadice, un organismo in cui si rilevano in primo luogo il carattere nettamente innovatore delle decisioni, con pochissime concessioni alla corrente tradizionale. Federico Suárez ha definito «innovatori» i membri del gruppo che pretendeva di adottare il modello rivoluzionario francese, più o meno moderato e più o meno tradotto in spagnolo, ma dal quale necessariamente sarebbe risultato un regime ex novo, cioè i liberali (10). Quindi, la perfetta omogeneità del programma, imposto con assoluta consequenzialità dall’inizio alla fine. Sembra chiaro che gli innovatori, senza essere la maggioranza, seppero prendere in ogni momento l’iniziativa, presentarono piani più articolati e completi e dominarono la variegata folla di quelli che non la pensavano come loro.

4. Sul terreno religioso i liberali si mostrarono continuatori della corrente giansenista-regalista e, mentre il popolo combatteva per la fede e la Costituzione proclamava la confessionalità dello Stato e l’unità cattolica – articolo 12: «La religione della Nazione spagnola è e sarà perpetuamente quella cattolica, apostolica, romana, unica autentica. La Nazione la protegge con leggi sagge e giuste e proibisce la pratica di qualsiasi altra» –, i deputati favorivano la creazione di un ambiente pubblico in cui – al riparo della libertà di stampa e con un linguaggio spudorato e ironico – nei loro periodici i liberali disonoravano il clero e la religione. Nessuno, tuttavia, arrivò a superare in fama Bartolomé José Gallardo (1776-1852), il quale dall’aprile del 1812 suscitò un clamoroso scandalo con il suo Diccionario crítico burlesco, pieno di irriverenze volterriane al limite della bestemmia (11). Basta citare in quale considerazione sono tenuti i religiosi, contro i quali il liberalismo sparerà tute le sue bordate di artiglieria negli anni successivi: «[…] Sono sempre stati la peste della repubblica […] sia nel secolo scorso sia in quello presente; ciononostante, per evitare grattacapi, non sono mai stati, da cent’anni fino ad oggi, come certe categorie di persone che gridano e strillano a favore dell’ispanità quando si tratta di diritti, senza mai parlare dei doveri. Sono animali immondi che, non so se è perché generalmente si danno ai vizi, emanano una puzza o un tanfo che ha un nome particolare, che trae origine da loro stessi: si chiama “fratesco”. Questo odore, tuttavia, che è insopportabile per noi uomini, pare che allo stesso tempo sia molto gradito all’altro sesso, specialmente alle bigotte, perché fa meraviglie contro l’isteria.

Conosco un dottore, uomo di singolare talento, che aveva scritto in forma di romanzo un’opera di linea classica sull’istinto, l’ingegno, le inclinazioni e le abitudini di tutti gli animali buoni e cattivi del genere fratesco che si danno sul nostro suolo. Se questo libro pregevole, diverso dalla Monacologia latina (12), fosse stato pubblicato anni fa in Spagna, avrebbe potuto essere di somma utilità per la religione e per i buoni costumi; ma già quando vedesse la luce, se mai la vedrà, lo considererei inutile e impertinente, perché non sarà uscito a tempo; perché al loro passaggio tutte queste categorie di animali nocivi periranno, finché non rimarrà anima viva; per la ragione irrefutabile per cui stanno togliendo loro il cibo, e ogni animale, qualunque esso sia, vive di ciò che mangia. Ovvero: tolgono loro anche le tane, in modo che restino come insetti in un sottobosco bruciato. Poveri animali di Dio! Vederli camminare trascinandosi, squamarsi come i serpenti, storditi e senza sapere dove proteggersi è una cosa che fa spezzare il cuore. Oh tempora!».

Ci si sorprenderà, dunque, se nella Spagna liberale, con un’ideologia imperante cullata dalla cantilena di concetti così affascinanti come quelli affermati delle Cortes di Cadice, vi saranno massacri di frati? A suo tempo l’assemblea di Cadice si dedicò a promuovere iniziative quali l’espulsione del vescovo di Orense, Pedro de Quevedo y Quintano (1776-1818), la soppressione del cosiddetto «Voto di Santiago» – un contributo pagato dai contadini di alcune regioni al capitolo compostelano –, l’abolizione dell’Inquisizione, la riforma dei conventi, l’abolizione della manomorta, l’espulsione nel nunzio pontificio card. Pietro Gravina Moncada (1742-1830)…

Nella reazione dottrinale assumerà particolare rilievo la pastorale del 12 dicembre 1812, un’Istruzione collettiva volta a orientare dottrinalmente i fedeli, emessa da sei vescovi i quali, per sfuggire agli abusi degli eserciti napoleonici e alla pressione della legalità imposta da Giuseppe I Bonaparte (1768-1844) nei territori delle diocesi sottomessi alla loro giurisdizione, si erano rifugiati a Majorca. Il testo ha come data di stampa quella del 1813 e i suoi quattro capitoli trattano de La Chiesa oltraggiata nei suoi ministri, La Chiesa combattuta nella sua disciplina e nel suo governo, La Chiesa travolta nella sua immunità e La Chiesa attaccata nella sua dottrina. Nell’analisi di questo documento Román Piña conclude che: «senz’alcun dubbio è la prima dimostrazione di uno scontro aperto fra un parlamento considerato depositario della sovranità nazionale e un settore importante della gerarchia ecclesiastica del Paese, che vede in pericolo tanto i diritti e le prerogative della Chiesa quanto l’influenza o il peso sociale dei valori religiosi che difende» (13).

5. Sulla base di quanto è stato esposto si possono trarre alcune conclusioni. La prima verte sul radicamento nel passato del secolare conflitto che attraversa la storia contemporanea spagnola, che non è qualcosa di congiunturale o il risultato di problemi più o meno pratici – per esempio una semplice querelle dinastica. La seconda, evidenzia l’incapacità del liberalismo spagnolo di strutturare un processo di modernizzazione economica e di partecipazione politica che risale alle sue origini le quali coincidono con un modello basato sui propri interessi e non sulle rivendicazioni più autentiche della nazione. L’assenza delle tante volte ripetute libertà e uguaglianza nei pochi sistemi politici della Spagna del XIX secolo e degl’inizi del XX, rende appena necessario ricorrere alla critica filosofico-teorica per demolire polemicamente il liberalismo spagnolo. Ancora, si segnala la stretta relazione fra ortodossia politica e ortodossia religiosa e l’impossibilità pratica di perseverare nella seconda quando essa non è coerente con la prima. Per «eterodossia politica» intendo l’eterodossia di tutti coloro che di fatto negano la dimensione teologica nell’agire politico, di coloro che, adottando politicamente un criterio puramente meccanicistico, si rifiutano di riconoscere le esigenze etiche dell’agire politico, considerano la religione come un assunto valido per gli atti di valore personale e non valido per quelli a dimensione sociale. Infine, l’esistenza – benché ancora minoritaria – di un episcopato e di un clero «infrancesati» e collaborazionisti, e anche gl’indecorosi intenti di riconciliare il liberalismo con la Chiesa messi in pratica più tardi, mettono in evidenza la liceità e la necessità di una resistenza sul terreno culturale e politico fondata religiosamente, nonostante l’opposizione di qualche ecclesiastico, per quanto elevata sia la sua posizione.

Ángel David Martín Rubio

Note

(1) Il 2 maggio 1808 scoppiò a Madrid una grande rivolta popolare contro il governo della Spagna completamente dominato da Napoleone Bonaparte. Con questa rivolta si apre la vicenda storica, che durerà sei anni, della grande e sanguinosa guerra di liberazione, d’indipendenza e contro-rivoluzionaria che gli spagnoli combatteranno, con l’appoggio inglese, contro l’occupazione francese del loro suolo patrio, in difesa del loro re, delle loro antiche libertà e della Chiesa cattolica, realtà tutte radicalmente aggredite dall’espansionismo dei principi dell’Ottantanove imposti in tutta Europa dalle baionette dell’Armée. Si tratta forse del più ingente duraturo fenomeno di insorgenza popolare contro-rivoluzionario del periodo napoleonico: di esso nel 2008 è ricorso il secondo centenario (ndr).
(2) Cfr. Gabriel H. Lovett, Napoleón and the birth of modern Spain, 2 voll., University Press, New York 1965.
(3) Alfonso Bullón de Mendoza, in Francisco Javier Paredes Alonso (a cura di), España. Siglo XIX, Actas, Madrid 1991, p. 64.
(4) Manuel Godoy, Memorias del Príncipe de la Paz, 2 voll., BAE, Madrid 1956, vol. I, pp. 14-15.
(5) Cit. in Miguel Ortí Belmonte, Episcopologio Cauriense, Deputazione Provinciale di Cáceres-Servizi Culturali, Cáceres 1959, p. 157.
(6) Cfr. José Maria Toreno Queipo De Llano y Ruiz de Saravia (1786-1843), Storia della sollevazione, guerra e rivoluzione della Spagna, trad. it., Angelo Bonfanti, Milano 1838.
(7) Marcelino Menéndez Pelayo, Historia de los heterodoxos españoles, BAC. Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1978, libro VII, cap. 1 (consultato su <http://www.cervantesvirtual.com>, 21-6-2008).
(8) Fray Rafael de Vélez (1777-1850), Preservativo contra la irreligión o los planes de la filosofia contra la religión y el Estado, realizados por la Francia para subyugar a la Europa, seguidos por Napoleón en la conquista de España, 2ª ed. accresciuta, Ibarra, Madrid 1812, p. 100.
(9) Ivi, ibid., p. 110 (consultato su <http://www.books.google.es>, 21-6-2008).
(10) Cfr. Federico Suárez, La crisis política del Antiguo Régimen en España (1808-1840),Rialp, Madrid 1988, passim.
(11) Cfr. Bartolomé José Gallardo, Diccionario crítico-burlesco del que se titula «Diccionario razonado manual para inteligencia de ciertos escritores que por equivocacion han nacido en España», Pedro Beaume, Burdeos 1819; cfr. anche <www.cervantesvirtual.es>.
(12) Cfr. [Ignaz von Born (1742-1791),] La monacologia, ossia descrizione metodica de’ frati di Giovanni Fisiofilo, nell’italica favella recata da C. B. [scil. Carlo Botta (1766-1837)], trad. it., Dai tipi filantropici, Eridania [ma Torino] anno IX (1801 ca.).
(13) Román Piña Homs, Parlamentarismo y poder eclesiástico frente a frente: la Instrucción Pastoral conjunta de 12 de diciembre de 1812, in Estudios de Historia Moderna y Contemporánea. Homenaje a Federico Suárez Verdeguer, Rialp, Madrid 1991, pp. 404-405.

fonte http://www.identitanazionale.it/inso_1013.php





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COME GENNARO AGRILLO

Posted by on Ago 22, 2019

COME GENNARO AGRILLO

Prendo distanza da qualunque movimento meridionale politicizzato.
Il fregiarsi dello stemma di Casa Reale Borbone Due Sicilie indica solo ed esclusivamente appartenenza storico-culturale ad un Popolo che è esistito, che esiste e che continuerà ad esistere.

Vivere la vita come una colonna sonora su di un susseguirsi di immagini, passando da uno stato d’animo ad un altro.
La mente va, viaggiando attraverso l’infinito universo delle note.
Ad ogni passo un ricordo . . . bello . . . brutto . . . odioso . . . piacevolmente intenso.
Un viso, una frase pronunciata da qualcuno che credevo di aver dimenticato o di aver rimosso dalla mia vita . . . da qualcuno che ricordo con affetto, con amore, con passione, con tristezza, con dolore, con gioia.
Ad ogni passo il presente . . . con i suoi attimi già passati . . . perchè il presente non esiste . . . ciò che accade è già andato o sta diventando futuro di timori . . . di speranza . . . di quella che sarà o potrebbe essere la mia vita.

Gennaro Agrillo

fonte http://lazzaronapoletano.it/

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Il saccheggio di Capoliveri nell’Isola d’Elba: un esempio di falso storico

Posted by on Ago 5, 2019

Il saccheggio di Capoliveri nell’Isola d’Elba: un esempio di falso storico

1. Premessa

Fra i numerosi saccheggi effettuati dalle truppe francesi all’isola d’Elba, uno dei più ingiustificati ed efferati fu quello perpetrato nella cittadina di Capoliveri, nella parte meridionale orientale dell’isola (1).

Le radici cristiane dell’isola d’Elba risalgono all’apostolo della sua “prima evangelizzazione” san Cerbone, vescovo di Populonia (Grosseto) del VI secolo (2); la chiesa di San Michele di Capoliveri è citata in scritti dell’inizio del XIII secolo; che poi il cristianesimo vi avesse attecchito in modo fecondo è dimostrato, fra gli altri, da questo episodio accaduto nel 1779, anno in cui si verificò una grande siccità: “Piove pochissimo nell’autunno; passa tutto l’inverno e comincia la primavera senz’acqua, talché i pozzi, le fonti e perfino le polle si seccano. Il popolo di Capoliveri implora la Divina assistenza. Sono ordinate processioni a S. Filippo Neri e a San Sebastiano. È esposto S. Vincenzo Ferreri. E sebbene nel primo giorno del triduo che fu il 27 marzo cadesse un poco di pioggia, pure non fu sufficiente. Il dì 5 d’aprile si portò processionalmente detta immagine e il dì 11 il simulacro di Cristo morto da preti scalzi, ma invano. Il dì 12 il popolo va processionalmente al Santuario della Vergine di Lacona, in cui entra, dietro alla confraternita, il clero scalzo, ma invano. Il dì 17, veduta il popolo l’inclemenza del cielo e accortosi che Dio era sordo alle sue preghiere, porta con grande solennità il quadro della Vergine delle Grazie in paese. Bandita una processione popolare, i fanciulli precedono gli uomini senza cappa, questi le donne, la confraternita del Corpus Domini e questa il clero. Giunti al Santuario, entrano scalzi sacerdoti e chierici soltanto: l’arciprete col canapo al collo e una corona di spine in testa, con pianto universale. Tengono esposta per undici giorni la sacra immagine, guardata notte e giorno dalla milizia […] muovono a visitare la Vergine le Confraternite della Piazza e della Marina di Longone e di Rio: un popolo innumerevole, moltissimi vestiti alla foggia di pellegrini con cappa e bordone e altri non pochi scalzi con corone di spine in capo e una corda al collo” (3).

D’altro canto, pochi anni prima, nel 1735, si trovava a Capoliveri san Paolo della Croce (1694-1775), fondatore dei padri passionisti, […] a dare le missioni” (4). Il santo visitò più volte l’Isola d’Elba, dove voleva stabilire la sede dell’ordine da lui fondato, ma […] nel 1730 si vide respinta una richiesta intesa ad ottenere il santuario della Madonna delle Grazie ed allo stesso modo, successivamente, gli fu negato di ritirarsi con i suoi confratelli nel santuario della Madonna di Monserrato di Porto Longone” (5).
 

2. Il saccheggio di Capoliveri

L’episodio narrato di seguito conferma che la storia è sempre scritta dai vincitori, e che, spesso, non è rispettato nella ricostruzione il criterio di verità circa gli accadimenti. Nel nostro caso, quanto è stato trasferito dalla “storiografia ufficiale”, è che il saccheggio di Capoliveri abbia costituito una giusta rappresaglia, a seguito di gravi provocazioni ed attacchi operati dagli abitanti contro i francesi (6). A questo proposito, si deve tenere presente, che, mentre a Portoferraio regnava il Granduca di Toscana Ferdinando III di Lorena (1769-1824), e Porto Longone, l’attuale Porto Azzurro, era sotto il dominio della casa di Borbone, l’isola nella sua restante parte — che comprendeva Capoliveri e le zone limitrofe — apparteneva ai nobili Appiani, signori di Piombino — sulla costa toscana di fronte all’isola —, che erano alleati della Francia. La cittadina, quindi, non avrebbe dovuto essere ostile ai francesi.

Ancora, occorre ricordare che Giuseppe Ninci, giacobino di Portoferraio, autore di una nota Storia dell’Elba (7), fu parte attiva nel tentativo di imporre la Repubblica nell’isola, tanto che, quando la guarnigione granducale di Portoferraio tentò di opporsi all’incorporazione della piazzaforte, l’ultima rimasta libera, alla Repubblica Francese, nel marzo 1799, fu lo stesso Ninci a essere protagonista degli eventi. Nella sua storia egli infatti racconta che […] fortunatamente lo scrittore della presente opera, trovandosi a diporto sul molo, sentì, con raccapriccio ed orrore le minacce di quegli empi [i difensori della piazza].Egli volò ad avvertire i capi guardia [degli assedianti] dei posti indicati, affinché si ponessero a difesa” (8). Autore di parte, dunque, che l’altro storico dell’Elba, Vincenzo Mellini Ponçe de Leon (9) conferma abbia partecipato alle trattative fra i rivoluzionari e la piazzaforte, soprattutto al momento della consegna della lettera […] con cui si ordinava alla municipalità di Capoliveri di mettersi sotto il governo francese e somministrare alle truppe di quella Repubblica tutti i soccorsi possibili” (10). Il cronista elbano riferisce che il 4 aprile 1799 alla consegna della lettera, a Capoliveri, Ninci fosse presente: […] vuolsi che fra detti emissari vi fosse il nostro Giuseppe Ninci” (11). 

Ma la posizione di attesa dei capoliveresi ha termine proprio in questo momento. Si ignora […] ciò che riposero gli anziani, sappiamo solamente che gli emissari mandati allo scopo di democratizzare i capoliveresi, trovarono in essi una ripugnanza invincibile alle nuove idee; e, corse offese da una parte e dall’altra, andarono debitori alla velocità delle gambe, della salvezza delle loro spalle” (12).
 

3. La ricostruzione “ufficiale” di Giuseppe Ninci

Lo storico filo-giacobino racconta che, quando scoppiò il conflitto fra Regno di Napoli e Francia repubblicana nel 1799, nel corso dell’assedio stretto dai francesi alla piazza napoletana di Porto Longone, nell’aprile dello stesso anno, i capoliveresi […] passati ai campi francesi, invitarono gli assedianti di portarsi a Capoliveri per approvisionarsi, e che, per contrario, massacrarono. Il tradimento di questi, però, non andiede impunito; imperciocchè il generale Miolis [sic], passato da Livorno a Portoferraio e che comandava le forze francesi nell’Elba, spedì il giorno appresso [9 aprile] a Capoliveri un mezzo battaglione di fanteria, con l’ordine di saccheggiare quella terra, e passare a fil di spada chi si fosse opposto con le armi in mano” (13). Nel mese seguente, perdurando l’assedio di Porto Longone, la situazione ebbe un’evoluzione, nel senso che i francesi tentarono di pacificare gl’“insurgenti” (14), anche perché, dalle altre parti dell’isola, si erano manifestati contemporaneamente altri focolai di contro-rivoluzione, che rischiavano di mettere in difficoltà i giacobini.

In un primo tempo, i capoliveresi, rispetto agli altri moti reattivi, si mantennero neutrali, ma, secondo Giuseppe Ninci, […] non fu però, che i capoliveresi mancassero di maleanimo contro i francesi, ma solo non si mossero per non troppo arrischiare alla scoperta, imperocché, armatisi i medesimi, e ben postati alle finestre delle loro abitazioni, riceverono a colpi di fucile un picchetto francese, che ai loro nuovi inviti si era portato ad approvvisionarsi a Capoliveri. Questo secondo, non men del primo marcato tradimento per parte dei capoliveresi, meritossi la giusta vendetta delle truppe francesi. Queste la fecero di fatti, imperciocché la mattina del dì seguente, portatesi in numero sotto Capoliveri, e circondatolo in un momento, vi entrarono a baionetta in canna, ponendo a morte tutti quei che si vollero opporre, e dando un sacco generale a quella terra non senza attaccare il fuoco” (15). 
 

4. La verità storica ristabilita da Vincenzo Mellini Ponçe de Leon

Il maggiore storico elbano ricostruisce la vicenda in altri termini, partendo dal fatto che Capoliveri nell’aprile del 1799 fu occupata da un presidio di circa 60 francesi, sloggiato successivamente, nel maggio, dai soldati napoletani di Porto Longone. Questi uomini, fuggiti da Capoliveri, si unirono alla colonna francese inviata contro Capoliveri con l’ordine del comandante francese di mettere Capoliveri a ferro e a fuoco e di ritirarsi successivamente a Portoferraio: […] quell’orda di feroci predoni più che soldati, giunse silenziosa nel cuore della notte a quel castello; lo investì improvvisamente da tutti i lati, ne sorprese gli abitanti che dormivano quieti e tranquilli nei loro letti e tutt’altro pensavano che dar piglio alle loro armi che non avevano, ed a scontare con il sangue le strette di mano scambiate con loro compatrioti a servizio di Napoli, e vi cominciò un sacco così tremendo, da far dimenticare l’altro del 6 di aprile che durò dal giovedì notte a tutto il lunedì veniente […]. Sacerdoti, vecchi, donne, e fanciulli, massacrati, donne violate nelle pubbliche vie e persino in chiesa, bambine stuprate, chiese profanate, oggetti consacrati al culto, sacrilegalmente rotti, rubati; immagini sacre guaste e deturpate; case completamente svaligiate; mobili preziosi a calciate di fucili infranti; quadri di famiglia sciabolati; botti di vino, a spillarle a colpi di fucile, forate, lasciandone scorrere il liquido per le cantine, per le vie; orgia dovunque; e il paese ridotto prima ad un pianto, poscia ad un deserto. Non mancò che il fuoco a compiere l’opera nefanda ed a distruggerlo” (16).

Fra gli episodi più raccapriccianti c’è la morte, il 23 maggio 1799, di don Antonio Becci, anziano prete di antica famiglia capoliverese, da tutti conosciuto per le sue virtù, assassinato a colpi di arma da fuoco e di baionetta, per aver alzato la voce contro i violatori delle donne e delle bambine in chiesa e nelle pubbliche vie (17). Il limite tragico e grottesco di questa come di altre vicende è delineato da un episodio che ha inciso sulla memoria storica di Capoliveri e dell’Isola d’Elba in modo irrimediabile: la distruzione dell’archivio dell’antichissimo municipio. Il cancelliere della cittadina, certo Luigi Bracci, nella notte tra il 23 e il 24 maggio 1799, mentre i francesi imperversavano, temendo la loro ferocia, […] tolse i libri e le filze di maggior interesse dagli scaffali, e, favorito dalla vicinanza del Palazzo Pubblico alla Chiesa Parrocchiale, li portò a nascondere alla sepoltura degli uomini. Vi si calò dentro e poscia, sui libri e su se stesso calò la lapide che la chiudeva” (18). Poco dopo, la Chiesa fu invasa da donne, vecchi, e fanciulli che cercavano scampo pensando che la sacralità di quel luogo avrebbe fermato i francesi, che invece li inseguirono anche lì per depredarli. A questo punto il Bracci, non si sa per il fetore della sepoltura o per la paura, o per la curiosità delle grida udite, sollevò un poco con la schiena la lapide. A questo punto, i soldati francesi, prima meravigliati e poi incuriositi, la scoperchiarono e tirarono fuori per il colletto il vecchietto ben vestito, scambiandolo per un ricco che aveva nascosto i propri tesori nel sepolcreto. E, non trovando invece niente altro che carte e ossa, furibondi, stracciarono e bruciarono tutte le carte e i libri ivi giacenti, prendendo a colpi di calcio di fucile il cancelliere e lasciandolo semivivo sul pavimento della chiesa. L’archivio di Capoliveri era stato risparmiato da tante guerre e saccheggi nei secoli passati, perfino dai saraceni e dai turchi.
 

5. Conclusioni

Amore di verità impone di stigmatizzare le menzogne che vengano lapidariamente consacrate dai canali della storiografia ufficiale, anche se si tratta di piccoli episodi della vita quotidiana, di cui pure la storia si compone. Grazie a Dio, spesso la grossolanità delle bugie nel racconto storico è tale da trasparire e da fare scoprire di suo l’imprecisione del relatore. Anche in questo caso, lo storico filo-giacobino, e giacobino egli stesso, Ninci cade in un insuperabile imbroglio, quando omette di citare la presenza dei francesi in presidio a Capoliveri dal 6 aprile, e omette altresì di menzionare la data del saccheggio del 22 maggio, giorno del Corpus Domini, che lasciò gli abitanti senza alcuna difesa, prostrati dal dolore e dalla falcidie di anime. Semplicemente afferma che l’inazione dei capoliveresi fu data dalla loro ignavia, pur sapendo gli stessi, che i napoletani necessitavano di appoggio dalle popolazioni territorialmente vicine. Un’altra menzogna del racconto di Ninci sta nella descrizione del saccheggio e della strage, che secondo lui avvenne in pieno giorno, così che la popolazione avrebbe potuto respingere l’attacco, mentre in realtà l’assalto fu proditoriamente effettuato nella notte del 22 maggio, quando i capoliveresi giacevano nel sonno. Da ultimo, il fantomatico invito rivolto dai capoliveresi ai francesi — appena scacciati o ancora di presidio! — di andare ad approvvigionarsi presso gli assediati, per poi aggredirli con fucili di cui già non disponevano più a causa del saccheggio subito. Non è chi non veda una profonda ingenuità, assai poco probabile, da parte dei francesi che sarebbero di certo caduti in un agguato, dal momento che il contrasto infuriava in quei giorni tra l’una e l’altra fazione. Vero è, purtroppo, che i contemporanei dei fatti, come in tutti questi frangenti accade, si distinguevano in due categorie: coloro che, come i capoliveresi, per essersi mantenuti fedeli ai propri principi, vennero passati a fil di spada fra atroci sevizie, e chi, come certi storici svelano con il proprio oscuro lavoro di ricostruzione, si fa corifeo del dominio straniero, volendo la sottomissione o, in caso contrario, lo sterminio di chi la pensava diversamente, appoggiandosi alle baionette straniere.

Benedetto Tusa

NOTE

(1) Situata sopra un monte spianato in vetta ed elevata a m. 167 sul livello del mare, è posta nella parte sud ovest dell’Isola. Fondata, si dice, da liberti o da adoratori “libertini” del dio Bacco, “Caput Liberum” era abitata da una popolazione con marcati caratteri di autonomia, la cui istituzione più eminente nei secoli è stata il “consiglio degli anziani”, organismo di governo con forti poteri legislativi e deliberativi. 

(2) L’esistenza storica di San Cerbone non è del tutto certa; cfr. Piero Bargellini, Mille Santi al giorno, Vallecchi-Massimo, Milano 1980, p. 567. 

(3) Cfr. Vincenzo Mellini Ponçe de Leon, Delle memorie storiche dell’Isola d’Elba, Tipografia Raffaele Giusti, Livorno 1890, vol. V, rist. a cura di Gianfranco Vanagolli, Le Opere e i Giorni, Roma 1996, pp. 92-93. 

(4) Cfr. ibid., p. 77.

(5) Cfr. ibidem, ex archivio Mellini Ponçe de Leon, cit. in Enrico Lombardi, Santuario della Madonna del Monte di Marciana nell’Isola d’Elba, a cura dell’Opera del Santuario, Queriniana, Brescia 1964, p. 77, nota 125; cfr. anche Idem, Vita Eremitica nell’Isola d’Elba, Queriniana, Brescia 1957, pp. 51-52, e A. Ripabelli, S. Paolo della Croce all’Isola d’Elba, in Corriere Elbano, 10-9-1975 e 20-9-1975. 

(6) Per il quadro generale della situazione elbana nel 1799, cfr. 1799: l’Insurrezione popolare contro-rivoluzionaria dell’Isola d’Elba, in ISIN, Nota Informativa, anno II, n. 5, gennaio-aprile 1997, pp. 3-10.

(7) Cfr. Giuseppe Ninci, Storia dell’Isola d’Elba, Portoferraio (Livorno) 1815, rist. anast., Forni, Bologna 1968.

(8) Ibid., pp. 215-216.

(9) Maggiore storico dell’Isola, nacque a Marina di Rio, nel 1819; il padre, Giacomo, era stato un ufficiale al seguito di Napoleone. Laureato in giurisprudenza e in scienze naturali, rinunciò alla carriera universitaria per vivere sulla sua isola e studiarne la storia e le tradizioni. Fu anche sindaco del suo paese natale e direttore delle miniere di ferro dal 1871 al 1891, senza però smettere di esplorare archivi e biblioteche. La sua opera maggiore sul periodo del triennio giacobino (1796-1799) è il quinto libro — intitolato I francesi all’Elba —, della sua Storia (Giusti, Livorno 1890). Morì a Livorno nel 1897. Per una più completa notizia bio-bibliografica, cfr. V. Mellini Ponçe de Leon, op. cit., pp. VIII-IX, da cui sono state tratte anche le seguenti notizie. Cfr. anche Alessandro Canestrelli, Elba, un’isola nella storia, Litografia Felici, Ospitaletto di Pisa (Pisa) 1998, pp. 20-23.

(10) V. Mellini Ponçe de Leon, op. cit., p. 33.

(11) Ibid., p. 38, nota 32.

(12) Ibid., p. 33.

(13) G. Ninci, op. cit., p. 217.

(14) Ibid., p. 219.

(15) Ibid., p. 220.

(16) V. Mellini Ponçe de Leon, op. cit., pp. 171-172.

(17) Ibid., p. 172.

(18) Ibid., p. 173.

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«ALTAMURA. LA STRAGE DELLE INNOCENTI». UN FALSO STORICO CONTRO L’INSORGENZA ITALIANA

Posted by on Lug 27, 2019

«ALTAMURA. LA STRAGE DELLE INNOCENTI». UN FALSO STORICO CONTRO L’INSORGENZA ITALIANA

1. IL FATTO

Il Corriere della Sera di mercoledì 17 febbraio 1999 ha pubblicato con ampio risalto sulla prima delle sue pagine culturali un articolo di Maria Antonietta Macciocchi dal titolo Altamura. La strage delle innocenti (1).

Nell’articolo è narrato un fatto di sangue che sarebbe accaduto duecento anni or sono, nel corso della guerra civile che nella prima metà del 1799 vide contrapposte le popolazioni del Regno di Napoli — inquadrate in gran parte nell’esercito della Santa Fede, guidato dal cardinale Fabrizio Ruffo dei duchi di Baranello (1744-1827), vicario generale di re Ferdinando IV di Borbone (1751-1825) — e i rivoluzionari francesi, affiancati dalle milizie della giacobina Repubblica Napoletana, proclamata il 21 gennaio dello stesso anno. Secondo la studiosa, le truppe sanfediste avrebbero perpetrato, nel corso del saccheggio seguito all’espugnazione della città pugliese di Altamura, roccaforte giacobina, nel maggio 1799, lo «stupro di massa» e il massacro di quaranta religiose di clausura, di cui non viene specificato l’ordine di appartenenza, ma che sarebbero orsoline, secondo le fonti di cui si è avvalsa.

2. LA NARRAZIONE

Maria Antonietta Macciocchi nasce il 22 luglio 1922 a Isola del Liri, in provincia di Frosinone; nel 1942 aderisce al Partito Comunista Italiano e nel 1950 si laurea in storia dell’arte all’Università La Sapienza di Roma. Sposa il giornalista Alberto Jacoviello, dal quale poi divorzierà. Dal 1956 al 1961 dirige il settimanale comunista Noi donne e dal 1961 al 1968 la rivista, sempre comunista, Vie nuove; è quindi corrispondente de l’Unità, l’organo ufficiale del Partito Comunista Italiano, da Algeri, da Bruxelles e da Parigi. Nel 1968 è eletta deputata nelle file del PCI. Nel 1971 entra in dissenso con la linea ufficiale del partito, che di conseguenza non la ricandida al Parlamento. Nel 1972 si trasferisce a Parigi, doveconsegue il dottorato in scienze politiche alla Sorbona e ottiene un lettorato all’università di Parigi VIII a Vincennes. Nel 1977 lascia il PCI e aderisce al Partito Radicale, nelle cui liste è eletta nel 1979 sia alla Camera dei Deputati, sia al Parlamento Europeo. È ancora parlamentare europea dal 1984 al 1989 con la Sinistra Indipendente. Collabora attualmente con i quotidiani Corriere della Sera, Le Monde, di Parigi, e El País,di Madrid. È promotrice della Convenzione di Venezia degli intellettuali europei e nel 1986 riceve dal governo francese l’Ordre des Arts et des Lettres. Ha pubblicato una quindicina di libri — per lo più su temi interni al movimento rivoluzionario italiano ed europeo —, gli ultimi dei quali dedicati alle due maggiori esponenti femminili della Repubblica Napoletana, Eleonora de Fonseca Pimentel (1752-1799) e Luisa Sanfelice (1764-1800), entrambe vittime della «ferocia misogina dei crocesegnati», ovvero dei sanfedisti (2).

Prendendo spunto dal clamore suscitato da una sentenza della Corte di Cassazione relativa a un caso di stupro e sfavorevole alla vittima — sentenza definita senza mezzi termini «sgangherata e beffarda» —, la scrittrice introduce il tema, connesso al primo, del duecentesimo anniversario dei moti repubblicani di Altamura, del quale sono in corso rievocazioni da parte di un comitato locale, e di uno «stupro di massa consumato dalle bande dei sanfedisti contro le suore di clausura del Monastero del Soccorso» di quella città. L’iniziativa nasce dalla scoperta fortuita, nel fondo Ginguené (3) della Biblioteca Richelieu di Parigi, del diario manoscritto relativo al saccheggio della città pugliese, in cui l’episodio dello stupro sarebbe narrato con efferati particolari. L’episodio sarebbe divenuto oggetto dell’attenzione della scrittrice non solo perché giudicato particolarmente grave e odioso e perché ne ricorre il secondo centenario, ma anche in quanto suonerebbe come l’ennesima conferma della tesi femminista secondo cui la violenza sessuale sulle donne, e in generale l’oppressione dell’elemento femminile, sarebbero un dato strutturale della società occidentale, da cui le interessate dovrebbero emanciparsi attraverso un’azione politica e sociale organizzata. Secondo questa prospettiva, lungo i secoli si sarebbe attuato un ininterrotto «martirio delle donne», di cui sarebbero responsabili non soltanto il maschio uti singulus, ma anche e soprattutto le leggi, il «sistema», ovvero le istituzioni sociali e religiose. Alla radice di tale oppressione plurisecolare sarebbe una ideologia «maschilista», misogina e illiberale, che risalirebbe in ultima analisi alla cultura e alla mentalità cattoliche — o, forse, a una concezione del cristianesimo «deviata» in quanto istituzionalizzata — e al potere esercitato dalla Chiesa sulle coscienze. Questa mentalità sarebbe particolarmente radicata in correnti ideologiche considerate come avverse pregiudizialmente alla modernità, di cui il sanfedismo sarebbe l’estrema manifestazione (4). La figura del cardinale Ruffo (5) e quella di re Ferdinando IV di Borbone, che rappresentano rispettivamente il «sacerdozio» e il «dispotismo», ovvero i due cardini della repressione istituzionale, vengono così percepite come gli emblemi della più bieca repressione anti-femminile. La responsabilità del «martirio» di Altamura e delle esecuzioni di numerosi «patrioti», vittime della giustizia borbonica dopo la caduta della Repubblica Napoletana — in particolare le donne, due volte martiri, della libertà e della condizione femminile —, viene attribuita in ultima istanza alla Chiesa e al Papa. Pertanto la Macciocchi, che pure si dichiara favorevole alla «rievangelizzazione del mondo» — che equivarrebbe curiosamente solo a «una Chiesa riconciliata con il Vangelo» e non a un mondo riconciliato con la Chiesa, quindi con il Vangelo —, si sente autorizzata a domandare pressantemente a Papa Giovanni Paolo II, definito un «Papa colossale» (6), di aggiungere l’eccidio delle «innocenti» di Altamura alla lista degli atti di contrizione che la Chiesa sarebbe prossima a compiere in occasione del Giubileo dell’anno 2000. Questo gesto, inoltre, dovrebbe essere accompagnato dalla condanna ufficiale del cardinale calabrese, reo di aver insignito del nome di «Esercito della Santa Fede un’accozzaglia di assassini e di stupratori», troppo a lungo «difeso da una fitta rete di complicità che passa per gli intellettuali borbonici, i fascisti e persino la Chiesa». La condanna dovrebbe essere estesa a re Ferdinando IV «[…] che allagò del sangue delle sue vittime tutta Napoli».

3. CONSIDERAZIONI STORICHE

L’episodio di Altamura e il modo con cui è affrontato dalla Macciocchi si prestano ad alcuni rilievi, sia sul piano della verità dei fatti — ovvero sul piano storico, con la sua premessa di metodologia storiografica —, sia su quello politico ed etico in generale. Va premesso che la Macciocchi aveva già fatto menzione tanto delle suore di Altamura — senza però citare come fonte il diario anonimo parigino, che peraltro avrebbe già dovuto conoscere —, quanto del mea culpa cattolico nella sua opera su Luisa Sanfelice, pubblicata nel 1998 (7).

3.1. Le fonti a disposizione

Sotto il profilo storico, il fatto rievocato — oltre a essere tutt’altro che inedito — poggia su basi molto fragili, se non del tutto inesistenti. Non risulta infatti dalla stragrande maggioranza delle fonti che vi sia stato ad Altamura nel 1799 un eccidio di religiose, tanto meno con le modalità particolarmente efferate denunciate. L’unico dato certo è che ad Altamura vi sono stati un assedio e una battaglia, culminati con l’espugnazione della città murata da parte dei «crociati» e con il saccheggio — non esente da tutte le intuibili forme di violenza privata proprie della rappresaglia —, che venne peraltro temperato proprio dal cardinale Ruffo e dai suoi ufficiali. Inoltre, non risulta che esistano rami claustrali delle orsoline, né che vi sia mai stato un convento di tale ordine in città.

Queste riserve sono state espresse da uno storico di Altamura, Giuseppe Castelli — i cui antenati furono fra i difensori della città in occasione dell’assedio sanfedista del 1799 —, che in un articolo sul quotidiano Avvenire ha precisato che dall’abbondante documentazione esistente — fra cui tutto quanto pubblicato in occasione del primo centenario dei fatti, non escluse le dichiarazioni di testimoni oculari, raccolti molti anni prima — non risulta alcun fatto nei termini riferiti dalla Macciocchi (8).

Fra le fonti disponibili figurano non poche cronache locali del tempo, anzitutto i resoconti di Gian Carlo Berarducci (1762-1837) e del sacerdote Vitangelo Bisceglia (1749-1817), pubblicati dallo storico Giuseppe Ceci (1863-1938) nel 1900 (9). Il primo, più laconico, si limita ad affermare che nel sacco di Altamura «si contano […] due monache, una morta e l’altra ferita» (10); il secondo precisa che «[…] il cardinale Ruffo, per risparmiare le claustrali dalle violenze, ordinò che fossero uscite [sic] dalla città, ed avessero occupata la casa di Montecalvario, dove con esse furono trasportate molte dame» (11). Il curatore precisa in una nota al testo: «Talune [donne] per minacce, altre co’ doni presi dal saccheggio, altre lusingate da promesse di matrimonio, si prestarono alle infami voglie» (12); parla però di «prostituzione» e non di violenze, e non dice nulla sulle religiose. Medesima impostazione ha l’abate Domenico Sacchinelli (1766-1844), il quale, scrivendo nel 1836, sostiene che «[…] le donne Altamurane (facendo le dovute eccezioni) produssero all’armata Cristiana quegli stessi effetti, che un tempo cagionarono ai soldati di Annibale le donne Capuane» (13). Nel 1899, in occasione del primo centenario del sacco di Altamura, il senatore pugliese Ottavio Serena (1837-1914) dà alle stampe un saggio su Altamura nel 1799, non favorevole al cardinale Ruffo, che non fa cenno alcuno dell’episodio raccontato dalla Macciocchi e pubblica l’importante relazione del parroco della cattedrale di Altamura, che, attingendo ai registri parrocchiali, riporta i nomi di tutte le vittime del saccheggio del 10 maggio — in totale trentasette, cioè tre di meno delle asserite vittime religiose — e la precisa indicazione: «Ora in Altamura non vi fu mai un monastero di Orsoline; le monache Clarisse del Soccorso prima dell’assalto abbandonarono il monastero» (14). Inoltre, nell’appendice documentaria sono edite le Notizie di un Anonimo altamurano, il quale, a proposito delle «Signore Monache di Clausura d’ambi i Monasteri del Soccorso e S. Chiara» (15), scrive che il cardinale «[…] ordinò che trasportate fossero nelle rispettive abitazioni ed ivi fossero custodite» (16); quindi «[…] anche le clausure delle monache sacrate se ne uscirono, e lasciarono in abbandono gli Monasteri e si ritirarono tutte unite in casa sicura di un Signore con guardia permessa dal Ruffo» (17). Lo stesso anonimo cronista altamurano, testimone dei fatti, è ripreso senza riserve dallo storico degli anni 1930 Massimo Lelj (1888-1962) — di orientamento sfavorevole ai sanfedisti e in genere piuttosto ben documentato — al capitolo XI della sua opera La Santa Fede. La spedizione del cardinale Ruffo (1799) (18). Infine, la tesi della protezione richiesta dalle religiose al cardinale è confermata dal tenente colonnello borbonico Domenico Petromasi, commissario di guerra presso l’armata sanfedista ed estensore di una cronaca della riconquista del Regno di Napoli, che è testimone oculare senz’altro interessato dei fatti, ma fondamentalmente equilibrato e onesto nel suo resoconto (19).

3.2. Le fonti utilizzate

Se mancano testimonianze tali da accreditare la versione della Macciocchi, a smentire la realtà dell’eccidio, per la loro intrinseca debolezza e inattendibilità, sono proprio le fonti utilizzate dalla scrittrice. Francamente non basta un diario — anche se manoscritto e inedito, e per di più letto dalla studiosa «quasi tremante» — per stabilire la verità di un fatto storico. Tanto più se il cronista non è testimone oculare dei fatti e, come traspare dai toni «apocalittici» utilizzati, si tratta di un «giovane che si era battuto», quindi di un militante rivoluzionario, di un giacobino, ossia di una persona pregiudizialmente avversa per ragioni ideologiche ai sanfedisti. Inoltre la prosa del cronista non convince: è troppo stranamente simile a quella di una qualunque delle gazzette giacobine del periodo, per le quali era più importante combattere la «battaglia delle idee» che riferire la verità. Basta aprirne una a caso, a Napoli come a Brescia o a Milano, per accorgersi che le vicende dell’Insorgenza sono generalmente riferite negli stessi termini e con i medesimi toni, faziosi e altamente emotivi, dell’anonimo.

Quanto ai «testi più solidi» cui la studiosa dice di essersi rifatta, sono molto dubbi il loro valore e la loro attendibilità. Tutti sono marcatamente favorevoli alla Rivoluzione: Jules Michelet (1798-1874), anticlericale e partigiano a oltranza dell’Ottantanove (20); Carlo Botta (1766-1837), ex giacobino, autore di un’ampia sintesi della storia d’Italia che si avvale spesso di fonti di dubbio valore (21); Pietro Colletta (1775-1831), prima seguace di Gioacchino Murat (1767-1815), poi carbonaro, autore di una Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, sulla quale lo stesso curatore esprime il seguente giudizio: «Quella del Colletta è una delle opere che maggiormente hanno bisogno di chiarimenti e di delucidazioni per esser ricca di errori, o voluti dall’autore per motivi di ordine politico o personale, o da attribuire alle fonti da lui usate» (22); Vincenzo Cuoco (1770-1823), già protagonista della Repubblica Napoletana (23); Adolf Wilhelm Theodor Stahr (1805-1876), autore di Die Republikaner in Neapel, «I repubblicani a Napoli», il cui anonimo traduttore precisa che «l’opera che pubblichiamo[,] tradotta dal tedesco, appartiene a quel genere commisto di vero e di falso del quale più si piacque questo secolo e che romanzo-storico vien detto» (24). Così non si capisce se la scena descritta da Stahr, nella quale il diacono cardinale Ruffo — che, ammette per inciso lo studioso, «[…] sentiva talora qualche piccolo accenno di umanità» (25) — celebra la Messa al campo, sia una forzatura romanzesca oppure l’autore — non alieno da studi presso facoltà teologiche protestanti — alluda a una partecipazione del cardinale stesso alla Messa nel suo limitato ruolo ministeriale (26).

La sorpresa maggiore, però, deriva dalla consultazione delle opere di Giovanni La Cecilia (1801-1880), perché si constatata che gran parte del testo della Macciocchi, sia fra virgolette sia in parafrasi, come pure tutti gli autori citati come fonti autorevoli e più solide, sono ripresi letteralmente da un volume del polemista napoletano (27). In particolare, la descrizione della truculenta scena dell’eccidio non è tratta dalle pagine dell’anonimo «parigino», che sarebbe stato senz’altro più autorevole, ma, senza avvertirne il lettore,dalla prosa dello scrittore mazziniano, confidando forse sul fatto che, siccome lo stile dei due autori è affine, il lettore inavvertito non se ne accorga. Anche La Cecilia, comunque, non suffraga il fatto specifico con alcuna «pezza d’appoggio», anzi ricorre al discorso diretto (28), come se si trattasse di una parentesi romanzata nella narrazione. Ciò avvalora l’ipotesi che sia una interpolazione dell’autore, fatta quanto meno a scopo narrativo, di spunti forniti da altri.

Del resto, La Cecilia, carbonaro e poi mazziniano, è un militante a tempo pieno, un «rivoluzionario di professione» — in una nota del volume confida di credere che «[…] il papato fu ed è il flagello d’Italia» (29) —, non uno storico ma un propagandista e un uomo d’azione, giudicato da Alessandro Galante Garrone come autore di «pittoresche romanzature» (30) e una «testa calda» (31). Il libro in questione colpisce immediatamente per la sua scarsa scientificità. La versione dei fatti è inattendibile, le fonti citate sparute e quasi mai di prima mano, l’apparato critico nullo, il linguaggio inadeguato a un’opera storica. Lo studio, quindi, si colloca all’interno del genere letterario del «romanzo d’appendice» — molto in voga nell’Ottocento e in verità mai tramontato —, piuttosto che in quello storiografico. La Cecilia si sforza di trasmettere della monarchia borbonica di Napoli l’immagine di un regime corrotto e inetto, che si avvale di ogni bassezza e di agenti spregevoli — per esempio, del cardinale Ruffo dice che manteneva un «Harem di corrotte femmine» (32) — pur di conservare il potere. Per rafforzare questo quadro La Cecilia non esita a far dipingere ad hoc ben cinquanta illustrazioni a colori, che raffigurano scene fra le più inverosimili — ma efficaci —, come quella del capitano borbonico Gennaro Rivelli, aiutante di campo del cardinale e particolarmente inviso a La Cecilia, che offre a Ruffo le teste mozzate di una madre incinta e della bambina strappatale dal ventre, al fine d’intascare due volte la taglia posta dal re sulle teste dei giacobini (33). In un’epoca in cui non esisteva la televisione, si può intuire come queste scene s’imprimessero nell’immaginario del lettore e dessero vita ad altrettante leggende. Pubblicato alla vigilia dell’invasione garibaldina del Regno di Napoli — e ripreso da non pochi scrittori politici «nazionali» che, evidentemente, lo hanno trovato utile (34) —, è difficile non vedere il volume come un lavoro di propaganda, inteso a «preparare il terreno» alle camicie rosse di Giuseppe Garibaldi (1807-1882). Questa è l’opera da cui la Macciocchi trae il succo della sua argomentazione: quando si trattano temi delicati e complessi come quello evocato, che stanno a cuore a molti, sia favorevoli che contrari, sarebbe però opportuno fondare la propria argomentazione su «pezze d’appoggio» un po’ meno fragili e screditate.

Per completezza di quadro, occorre esprimere non poche riserve sullo stile. In una persona di cultura, e in particolare in uno storico, i già segnalati toni altamente emotivi — verrebbe spontaneo scrivere «che rasentano l’isteria» — di cui risente pesantemente la prosa dell’illustre pubblicista sono stonature fatali. Alcuni passaggi meritano di essere riportati: «Su Parigi l’aria era fredda, pioveva, mentre continuavo a decifrare quasi tremante il manoscritto che avevo messo sul leggio. Tutto sembrava silenzio»; il diario scoperto a Parigi è un «eccezionale testo», scritto «con una calligrafia limpida e una prosa poderosa»; la folla di Altamura che ascolta la rievocazione della stessa studiosa è «fitta, bella e severa, assiepata davanti al monumento della Libertà». Frasi a effetto, che scadono però in autentiche contumelie e «clave ideologiche» quando, passando ai fatti storici, la Macciocchi descrive l’esercito della Santa Fede come un insieme di «bande» o di «orde», «un’accozzaglia di banditi e di stupratori», ignorando o dimenticando che con il cardinale Ruffo — «un vero bandito», che «si abbeverava di sangue» — combattevano reparti dell’esercito regolare napoletano. Oppure quando lascia cadere attributi enigmatici sui sanfedisti, come quando — riprendendo acriticamente un tema caro a La Cecilia — ricorda che il «mostro» Gennaro Rivelli, aiutante di campo di Ruffo, era stato «meniño», ovvero «fratello di latte» di re Ferdinando, lasciando intendere velatamente che il capo sanfedista e il re avessero condiviso chissà quali turpitudini (35). Oppure ancora quando, per accentuare la corresponsabilità del cardinale nei massacri, parla di una «piena assoluzione della Chiesa» che Ruffo avrebbe impartito ai suoi accoliti prima di lanciarli al massacro e al saccheggio, cosa da intendersi eventualmente nel senso di mancata o ridotta sanzione giudiziaria, civile o ecclesiastica, e non certo di assoluzione sacramentale, l’autentica «piena assoluzione della Chiesa», dato che, essendo solo diacono, «in virtù del [suo] sacro ministero», il cardinale non poteva assolvere proprio nessuno.

Certo la riconquista borbonica del Regno di Napoli avviene e culmina in un quadro di guerra civile, che causa profonde divisioni e odi. Essa costa sangue, come in genere tutte le guerre civili, ma nel 1799 la popolazione è tutta con il re. E non si può dimenticare che gli «illuminati» dirigenti della Repubblica Napoletana — in via di «beatificazione laica» — nei nove mesi della loro permanenza al potere comminarono migliaia di condanne, nel tentativo di «purificare» la repubblica proprio dallo spirito sanfedista. Come meravigliarsi che vi siano state vendette, anche sanguinose, da parte degli avversari? Del resto, proprio ad Altamura, come riferisce Lelj, i giacobini assediati, prima di fuggire ingloriosamente, avevano passato a fil di spada circa cinquanta realisti, politici e ostaggi, fra i quali più di un ambasciatore inviato dai sanfedisti (36). Di queste rappresaglie il cardinale Ruffo, come ormai è riconosciuto unanimamente, fu sempre, sia durante la guerra, che soprattutto dopo, moderatore intransigente, indipendentemente dal fallimento dei suoi tentativi di opporsi al re e ai britannici.

In conclusione, sotto il profilo storico quello della Macciocchi sembra un modo di accostarsi ai fatti scorretto e dilacerante, che rischia di risvegliare artificialmente passioni civili del tutto fuori luogo. Non è questo il metodo giusto per iniziare una serena e fondata revisione della storia italiana e per ricostruire una memoria comune del nostro popolo, sulla quale fondare — come è pressante necessità — nuove regole di convivenza civile.

4. CONSIDERAZIONI POLITICHE

Tutti questi elementi lasciano intravedere la trama di fondo, rigidamente ideologica, in cui l’intervento si situa. La storia, lo studio dei fatti del passato, in questa prospettiva, diventa puramente strumentale a obiettivi extra-storici, in genere politici o, nel caso della studiosa, funzionali a una militanza ideologica che talora va oltre la politica.

Rievocare un massacro di monache, vero o falso che sia, per la Macciocchi serve solo alla «prassi», cioè a «mettere in azione» persone e gruppi umani — quanto meno il comitato delle sue «amiche» di Altamura — in una prospettiva assunta apoditticamente e pregiudizialmente — verrebbe da dire «metafisicamente» — come buona, ovvero il trionfo del femminismo. E se i fatti scarseggiano o sono dubbi o mancano del tutto, tanto peggio per i fatti! Bastano quattro frasi di un romanzo d’appendice e un diario ideologizzato e i fatti si piegano al wishful thinking o alla «volontà di potenza» di chi scrive. E in questo la studiosa sembra davvero non avere dimenticato le sue radici culturali marxiste…

Quest’ultimo tratto suggerisce alcune riflessioni di tipo generale, che si traducono in altrettanti quesiti. Con tanti tragici casi umani davanti agli occhi, come mai questo interesse per una categoria femminile, normalmente non particolarmente in auge negli ambienti femministi? E perché un interesse che si spinge fino a rivendicare le doti delle religiose, quando si dimentica che cosa ne è stato — non solo delle doti, ma dei monasteri stessi, soprattutto nel Mezzogiorno — in altre condizioni e sotto altri regimi, giudicati invece con favore o comunque meno sgradevoli di quello borbonico restaurato, come le repubbliche giacobine o lo Stato italiano post-unitario? È proprio vero che, quando si tratta di «fare rivoluzione», marxisti o femministe non guardano tanto per il sottile quanto alla «materia prima» disponibile. L’illustre esponente progressista si sofferma sulla «pagliuzza» sanfedista, peraltro non provata, e dimentica l’enorme «trave» costituita dagl’innumerevoli eccidi — di uomini e di donne, anche religiose — e dai saccheggi con i quali i francesi e le milizie giacobine hanno funestato per anni regioni e province intere in Italia — e in tutta Europa —, soprattutto nel Mezzogiorno, dove infieriscono per oltre quindici anni (37). E sempre nella predetta metafora evangelica, sarebbe da chiedere alla studiosa da che parte si situano i massacri di migliaia di religiosi e di religiose perpetrati dai comunisti e dagli anarchici durante la guerra civile spagnola, quando monache e frati vennero uccisi non perché ricchi di famiglia o perché di piacevole aspetto — ma quale «misoginia» si può imputare ai «crocesegnati» nella versione dei fatti della Macciocchi? — e neppure sotto l’influsso del delirio da saccheggio, ma, freddamente, in quanto religiosi, e nessuno si curò che fossero «innocenti» o meno, per riallacciarsi al titolo dell’articolo. E come non ricordare, da ultimo, l’annientamento di intere chiese e comunità religiose — certamente composte da un’alta percentuale di donne — attraverso la deportazione nel GuLag in tutti i paesi sovietizzati a partire dal 1918? Ha letto la Macciocchi quale fu per esempio la sorte dei religiosi russi deportati nel Lager delle isole Solovki a nord-est di Leningrado, nel Mar Bianco, ai limiti del Circolo Polare Artico, di cui solo recentemente — dopo ottant’anni dal martirio — sono state ricostruite le indicibili sofferenze (38)?

Riguardo, infine, al tema della Chiesa e del perdono: certo, la Chiesa e il Papa, quando imperativi di verità lo hanno richiesto, non hanno esitato e non esiteranno a rivedere la propria interpretazione consueta di vicende storiche, che hanno visto un cattivo comportamento da parte di cristiani. Così, se l’eccidio di Altamura fosse autentico, esso potrebbe di certo finire nel novero di tali vicende. Non risulta invece che i responsabili di almeno ottanta milioni di vittime — uomini e donne, laici e religiosi —, a fianco dei quali ha militato per anni e forse ancora milita la Macciocchi, abbiano ancora in qualche forma chiesto perdono del loro operato. Quale senso ha, in questa prospettiva oggettivamente mutila e «squilibrata», avanzare arrogantemente richieste come quelle formulate, se non cercare di sfruttare furbescamente — o marxisticamente — tutte le opportunità, tutte le «contraddizioni» — reali o create ad arte — offerte dalla situazione, sforzandosi nel caso specifico di «arruolare» alla propria causa, sempre più in crisi, le forze ideali dell’avversario?

5. CONSIDERAZIONI FINALI

Concludendo, un ultimo appunto merita la sede in cui la Macciocchi ha potuto divulgare le sue tesi, più consone a testate di parte che non al più diffuso quotidiano italiano. Come mai questo ha ospitato sulla sua prima pagina culturale un contributo così discutibile e gli ha concesso tanto spazio? Semplice ricerca dello scoop? «Simpatia» di fondo per le tesi? Autorevolezza della scrittrice? O forse un «segnale» alla Chiesa e ai vescovi italiani, troppo «schierati» in occasione della battaglia parlamentare sulla legge relativa alla procreazione assistita?

Comunque — tornando a orizzonti maggiori, cioè nell’ottica della storia come deposito di esperienze per la politica e come ricostruzione del passato che, se non spiega il presente, almeno lo fonda —, si deve registrare il fatto che, dopo le dichiarazioni d’inesistenza dell’Insorgenza e/o quelle di perfetta conoscenza dei fatti a essa relativi, si è prodotto anche un nuovo tipo di attacco a un momento essenziale della storia degli italiani: il falso storico. Oscar Sanguinetti

Note

(1) Cfr. Maria Antonietta Macciocchi, Altamura. La strage delle innocenti, in Corriere della Sera, 17-2-1999, p. 33. Tutte le citazioni senza rimando sono tratte da questo articolo.
(2) Cfr. Eadem, Cara Eleonora. Passione e morte della Fonseca Pimentel nella Rivoluzione Napoletana, Mondadori, Milano 1996; ed Eadem, L’amante della Rivoluzione. La vera storia di Luisa Sanfelice e della Repubblica Napoletana del 1799, Mondadori, Milano 1998. Sulla scrittrice vedi I deputati dell’ottavo parlamento repubblicano, La Navicella, Roma 1979, sub nomine; Le donne italiane. Il chi è del ’900, a cura di Miriam Mafai, Rizzoli, Milano 1993, p. 272; e Who’s who in Italy, Sutter’s international red series, Milano 1998, vol. II, pp. 1147-1148. (3) Pierre Louis Ginguené (1748-1816) fu letterato rivoluzionario e uomo politico — ambasciatore presso la corte sabauda nel 1798 — nonché autore di una Storia letteraria dell’Italia in 10 volumi, scritta fra il 1811 e il 1819, in collaborazione con il giacobino Francesco Saverio Salfi (1759-1832). Fece parte della corrente culturale degli «idéologues»; cadde in disgrazia presso Napoleone Bonaparte (1769-1821) per essersi rifiutato di accettare la nuova costituzione del 1799.
(4) Sulla Santa Fede vedi Francesco Pappalardo, 1799: la crociata della Santa Fede, in Quaderni di «Cristianità», anno II, n. 3, inverno 1985, pp. 34-50, rielaborato in Idem, 1799. Rivoluzione e Contro-Rivoluzione nel Regno di Napoli, Istituto per la Storia delle Insorgenze, pro manuscripto, Milano 1999; e Idem, Il sanfedismo, in IDIS. Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Voci per un «Dizionario del Pensiero Forte», a cura di Giovanni Cantoni e con una presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità, Piacenza 1997, pp. 215-220.
(5) Su di lui, cfr. Giovanni Ruffo, Il cardinale rosso, Calabria Letteraria Editrice, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1998.
(6) Soprattutto — e forse solo — perché autore della «magnifica frase, quella sul genio delle donne» legato in qualche modo — non è ben chiaro il senso della frase della Macciocchi — alla «mulieris dignitatem», la lettera apostolica di Papa Giovanni Paolo II sulla dignità e la vocazione della donna, pubblicata nel 1988 in occasione dell’Anno Mariano.
(7) Cfr. M. A. Macciocchi, L’amante della Rivoluzione. La vera storia di Luisa Sanfelice e della Repubblica Napoletana del 1799, cit., rispettivamente alle pp. 204-209 e 224-227.
(8) Cfr. Giuseppe Castelli, Troppe leggende sul cardinale Ruffo, in Avvenire. Quotidiano d’ispirazione cattolica, 25-2-1999; cfr. pure Giovanni Formicola, Altamura, gli errori di Maria Antonietta Macciocchi, in Roma, 7-3-1999.
(9) Cfr. Cronache di fatti del 1799, a cura di G. Ceci, Tip. Vecchi, Andria (Bari) 1900.
(10) Diario di Gian Carlo Berarducci, in Cronache di fatti del 1799, cit., pp. 1-279 (p. 121).
(11) Memorie storiche contenenti la serie degli avvenimenti che hanno avuto luogo nella città di Altamura dal principio della rivoluzione fino all’ingresso e dimora dell’armata regia e cristiana nella medesima, vale a dire dal principio di Gennaio 1799 per tutto il mese di Maggio dello stesso anno, scritte nel tempo istesso da un testimonio di vista, in Cronache di fatti del 1799, cit., pp. 281-399 (p. 391).
(12) Ibid., p. 393, nota 2.
(13) Memorie storiche sulla vita del Cardinale Fabrizio Ruffo, con osservazioni sulle opere di Cuoco, di Botta e di Colletta. Edizione seconda, Tip. Poliglotta, Roma 1895, p. 161.
(14) Cfr. Ottavio Serena, Altamura nel 1799, Casa Editrice Italiana, Roma 1899, p. 79, nota 1.
(15) Ibid., p. 23 dell’appendice.
(16) Ibidem.
(17) Ibidem.
(18) Cfr. Massimo Lelj, La Santa Fede. La spedizione del cardinale Ruffo (1799),Mondadori, Milano 1936, pp. 127-147.
(19) Cfr. Domenico Petromasi, Alla riconquista del regno. La marcia del cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli, Editoriale il Giglio, Napoli 1994 (prec. ed. Manfredi, Napoli 1801), p. 71.
(20) Su di lui vedi Paul Vialleneix, Jules Michelet, in L’albero della rivoluzione. Le interpretazioni della Rivoluzione francese, a cura di Bruno Bongiovanni e Luciano Guerci, Einaudi, Torino 1989, pp. 481-490.
(21) Su di lui vedi Walter Maturi (1902-1961), Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Einaudi, Torino 1962, pp. 36-91.
(22) Nino Cortese (1896-1972), in Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, 3 voll., Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1956-1957, vol. I, p. XII. Colletta, comunque, descrivendo il saccheggio di Altamura, accenna in meno di una riga a «[…] un convento di vergini profanato» (ibid., vol. II, p. 64). Sull’opera di Colletta, vedi il giudizio del Dizionario di Storiografia (Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 222), secondo cui «[…] quest’opera storico-memorialistica fu largamente discussa e si rivelò un importante strumento politico contro la monarchia borbonica».
(23) A proposito di Altamura Cuoco parla «di cadaveri intrisi di sangue» (Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799, a cura di N. Cortese, Vallecchi, Firenze 1926, p. 270), ma è smentito dal curatore dell’edizione, che precisa: «La città fu data al saccheggio; ma, contrariamente a ciò che dice il Cuoco, è da avvertire che gli abitanti abbandonarono interamente il paese, al momento della resa» (ibid., p. 271, nota 2). Su di lui vedi Stefano Nutini, Vincenzo Cuoco, in L’albero della rivoluzione. Le interpretazioni della Rivoluzione francese, cit., pp. 152-158.
(24) Adolf Wilhelm Theodor Stahr, I repubblicani di Napoli. Romanzo storico, 2 voll., G. Lobetti-Bodoni, Pinerolo (Torino) 1854, vol. I, p. I. Stahr, storico prussiano dell’antichità greca e romana, scrittore assai prolifico, dopo un viaggio in Italia, in Svizzera e a Parigi, intrapreso nel 1845 e durato un anno — a Roma fra l’altro conobbe la sua futura consorte, la letterata Fanny Lewald (1811-1889) —, pubblicò alcuni volumi di ricordi di viaggio: Ein Jahr in Italien [Un anno in Italia, 1847], Herbstmonate in Italien [Mesi d’autunno in Italia, 1860] e Herbsmonate in Oberitalien [Mesi d’autunno in Italia settentrionale, 1866], nonché — unico suo lavoro di epoca moderna — Die Republikaner in Neapel, apparsonel 1849 a Berlino, un romanzo storico dedicato alla Repubblica Napoletana del 1799 e, in particolare, alla figura dello storico e militante repubblicano Colletta. Su Stahr vedi Allgemeine Deutsche Biographie, 56 voll., Dunder & Humblot, Lipsia 1874-1912, vol. 35, 1893, pp. 403-406.
(25) Ibid., vol. II, p. 115.
(26) Cfr. ibid., vol. II, p. 113.
(27) Cfr. Giovanni La Cecilia, Storie segrete delle famiglie reali o misteri della vita intima dei Borboni di Francia, di Spagna, di Parma, di Napoli e della famiglia Absburgo-Lorena d’Austria e di Toscana per Giovanni La-Cecilia [sic], 4 voll., Tip. Toscana Cecchi, Genova-Firenze 1859, vol. II, I Borboni di Napoli.
(28) Un esempio: «Olà (disse [il capitano Rivelli, indicato quale leader degli stupratori assassini]) mie tenere colombe, cessate dal guaire e andate a provvedere e qui recate quanto avete di meglio di cibi e di vini» (ibid., p. 386).
(29) Ibid., pp. 294-295, nota 1.
(30) Alessandro Galante Garrone, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828 -1837), 2< sup>a ed., Einaudi, Torino 1975, p. 170.
(31) Ibid., p. 175. Lo storico torinese, riguardo ad altra opera storica di La Cecilia, le Memorie storico-politiche dal 1820 al 1876. Risorgimento italiano (5 voll., Artero, Roma 1876-1878), dice trattarsi di «[…] opera notoriamente screditata nel campo storico per le sue gravi inesattezze e fantasiose invenzioni […] spesso accolta come verità sacrosanta, anche per penuria estrema d’altre sicure fonti» (ibid., p. 199, nota 16).
(32) G. La Cecilia, op. cit., p. 271.
(33) Cfr. ibid., inserto a pp. 430-431.
(34) Cfr., per esempio, Giovanni Firrao, Cenni storici sulla città di Altamura e i suoi avvenimenti. Dalla sua origine al 1860, Borsella, Cantatore e Soci, Andria (Bari) 1880, che riprende con ampio risalto da La Cecilia il tema della violenza alle religiose. Su di lui lo storico Serena esprime il seguente giudizio: «[…] il Firrao, seguendo ciecamente le storie segrete di Giovanni La Cecilia, ripete cose che possono trovar luogo in un romanzo, […] ma non in una vera e propria narrazione storica» (op. cit., p. 79, nota 1).
(35) Il rapporto fra i due «fratelli di latte» — la madre di Rivelli, Agnese, era stata balia del piccolo Ferdinando — è descritto con maggiore obiettività in Giuseppe Campolieti, Il re lazzarone. Ferdinando IV di Borbone, amato dal popolo e condannato dalla storia, Mondadori, Milano 1999, pp. 10 e 22-23, che tratta anche della deformazione della figura del re e di Rivelli operata da La Cecilia.
(36) Cfr. M. Lelj, op. cit., p. 134.
(37) Cfr., fra l’altro, Marcello Veneziani, 1799: Massacri in Puglia come nel Kosovo d’oggi, ne il Giornale, 1-4-1999. Il giornalista e scrittore si sofferma in particolare sui massacri giacobini di Andria e di Trani, che costarono alcune migliaia di vittime fra gl’insorgenti e i semplici civili e qualche centinaio tra i francesi. L’articolo polemizza en passant con quello della Macciocchi su Altamura.
(38) Cfr. Jurij Brodskij, Solovki. Le isole del martirio. Da monastero a primo lager sovietico, con una prefazione di Vittorio Strada, con illustrazioni, La Casa di Matriona, Milano 1998.

fonte http://www.identitanazionale.it/inso_1007.php

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La grande impresa del Cardinale Ruffo

Posted by on Lug 21, 2019

La grande impresa del Cardinale Ruffo

L’uomo, cui il destino riserva, in quel fatidico principiare dell’anno 1799, il gravoso incarico di risollevare l’onore delle armi napolitane contro l’invasore francese, veste panni assai strani. Almeno per un condottiero. E’ un cardinale di Santa Romana Chiesa, si chiama Fabrizio Ruffo ed è calabrese purosangue. La sua famiglia, di antica nobiltà, ha, da sempre, infatti, vastissimi feudi nella Calabria meridionale. 

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