Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

La legislazione della rivoluzione francese

Posted by on Mag 16, 2019

La legislazione della rivoluzione francese

La soppressione delle corporazioni

Il 17 giugno 1791 l’Assemblea nazionale votò la legge che prendeva il nome dal deputato Isaac Le Chapelier, che l’aveva redatta e proposta. Con questa legge furono dichiarate sciolte e non più ricostituibili le associazioni dei maestri artigiani e in genere di chi esercitava una stessa professione (corporazioni o “giurande”), una delle più radicate istituzioni dell’Europa di antico regime. Alla base di questo provvedimento vi erano motivazioni politiche ed economiche, ma esso ebbe in ogni caso l’effetto di lasciare i lavoratori urbani indifesi di fronte al potere sostanziale degli imprenditori.

1. Poiché l’eliminazione di ogni specie di corporazione di cittadini dello stesso stato e professione è una delle basi fondamentali della costituzione francese, è vietato ristabilirle di fatto, sotto qualsiasi pretesto e forma.
2. I cittadini di uno stesso stato o professione, gli imprenditori, chi ha una bottega in attività, gli operai e gli apprendisti di qualsiasi arte o mestiere non potranno, allorché si troveranno insieme, nominare né presidenti né segretari o sindaci, tenere registri, prendere decisioni o deliberazioni, stabilire regolamenti sui loro pretesi interessi comuni.
3. È vietato a ogni corpo amministrativo o municipale ricevere messaggi o petizioni a nome di uno stato o professione e di darvi risposta, ed è fatta loro ingiunzione di dichiarare nulle le deliberazioni che potrebbero essere in tal modo prese e di vegliare con cura a che non sia dato ad esse alcun seguito ed esecuzione.
4. Se, contro i principi della libertà e della costituzione, cittadini che svolgono la stessa professione, arte e mestiere prendessero deliberazioni o stabilissero fra di loro accordi tendenti in maniera concertata a rifiutare o a non accordare che ad un prezzo determinato la prestazione della loro industria o del loro lavoro, le dette deliberazioni e accordi sono dichiarate incostituzionali, attentatorie alla libertà e alla dichiarazione dei diritti dell’uomo e prive di effetto […].
6. Se le suddette deliberazioni, convocazioni, manifesti, lettere o circolari contenessero qualche minaccia contro gli imprenditori, artigiani, operai o giornalieri che vengono da fuori a lavorare nel luogo, o contro coloro che si contentano di un salario inferiore, tutti gli autori, istigatori e firmatari degli atti o scritti saranno puniti con una ammenda di mille lire e con tre mesi di prigione. […]
8. Ogni assembramento composto di artigiani, operai, apprendisti, salariati, eccitato da loro stessi contro il libero esercizio dell’industria e del lavoro – diritto che appartiene a chiunque e sotto qualsivoglia accordo liberamente stipulato –, ovvero sollevato contro l’azione della polizia e l’esecuzione delle sentenze emesse in questa materia, e così pure contro le aste e gli appalti pubblici, sarà ritenuto come assembramento sedizioso e come tale sarà disciolto dai depositari della forza pubblica e punito secondo tutto il rigore delle leggi sulle persone degli autori, istigatori e capi dei detti assembramenti e di tutti coloro che saranno passati a vie di fatto commettendo atti di violenza.

L. Cahen, R. Guyot, L’oeuvre legislative de la Révolution, Alcan, Paris 1913, pp. 461-463.

fonte https://keynes.scuole.bo.it/siti_tematici/farestoria/percorsi/p07_02_03.html

Read More

La Rivoluzione Francese tra l’individuo e lo Stato il nulla. La scomparsa dei «corpi intermedi»

Posted by on Mag 11, 2019

La Rivoluzione Francese tra l’individuo e lo Stato il nulla. La scomparsa dei «corpi intermedi»

La rivoluzione francese 200 anni fa negò ai lavoratori il diritto di associarsi. Pochi «clubbisti bretoni» decidevano di notte la Volontà Generale, quando i più erano andati a dormire. Già nel 1789 erano ostili a sindacati, ordini e confraternite religiose. Gli astratti furori di Rousseau preludio a liberalismo e marxismo.


Il 14 giugno 1791 l’Assemblea nazionale votava in Francia la famigerata legge Le Chapelier che toglieva ai lavoratori ogni diritto di associazione. La parabola rousseauiana che voleva ogni individuo disarmato e solo di fronte alla Volontà Generale era così completa.

Isaac-René-Guy Le Chapelier era un deputato bretone, di Rennes, avvocato, anzi «homme de loi», uomo di legge, secondo il nuovo lessico rivoluzionario che finiva per identificare gli avvocati non più con i difensori degli accusati o degli interessi particolari ma con i funzionari che applicavano una legge uguale per tutti. Leguleio, come la maggior parte dei rappresentanti del Terzo Stato, di quel fortissimo «club bretone» (ben quarantaquattro deputati) formatosi a Versailles alla vigilia degli Stati Generali, che condizionò pesantemente il dibattito nei primi e più decisivi giorni della Rivoluzione.

Provvisti di ferrea determinazione politica, di contro allo smarrimento degli altri delegati, spesso -come riferì un testimone- «come caduti dalle nuvole, in un paese, in un ordine di cose di cui non hanno la minima idea, i bretoni non avevano in realtà un progetto preciso oltre a quello di difendere a ogni costo le autonomie di cui la Bretagna godeva da secoli».


I trucchi del consenso

Ma erano molto bravi a «creare» l’unanimità con l’intimidazione degli avversari, a fabbricare il consenso, a mobilitare le voci con dei metodi che per la loro folgorante efficacia saranno immediatamente ripresi dai giacobini. Le sedute nel loro club si potraevano spesso fino alle due e alle tre del mattino così che i più (cioè quelli estranei al giro ristretto dei bretoni «illuminati» veri e propri) se ne andavano a casa per tempo.

Rimasti i soliti, del gruppo ristretto, ecco che la decisione veniva presa e l’indomani chi non c’era si sentiva comunicare cosa la maggioranza aveva convenuto (generalmente chi non c’era credeva di essere il solo o quasi ad essere andato via, e se ne vergognava un po’, per non essersi mostrato sufficientemente «patriottico»).

In Assemblea poi i clublisti si sparpagliavano, creavano capannelli di quattro o cinque deputati e riferivano loro che «on a établi…», «si è convenuto che…». Nella mente dei più si formava la convinzione che la stragrande maggioranza avesse già le idee chiare sul da farsi e l’adeguamento alla supposta volontà generale era quasi garantito.


Virtuosismi e giacobini

Il sistema, come già si è detto, sarà portato a virtuosismo dai giacobini, di cui Le Chapelier sarà tra i primi fondatori. Il «club» era il gioco di società più in voga. Clubs patriottici, di Amici della Costituzione, comitati di corrispondenza, società popolari e fraterne, di giovani, di militari, di stranieri. Tutti di derivazione massonica, negli uomini e nei rituali. Quarantaquattromila in tutta la Francia. Le Chapelier, con altri, fonderà gli Amici della Costituzione, un club installato nel convento dei giacobini. Avrà subito un migliaio di aderenti, i più estranei all’Assemblea. Ma Le Chapelier si era fatto notare per il suo furore ideologico già dal 2 novembre 1789, quando aveva decisamente appoggiato il testo di Mirabeau (alacremente difeso dal vescovo di Autun, Talleyrand) sulla nazionalizzazione dei beni ecclesiastici. Anzi, si era spinto più in là, insistendo sulla necessità di estirpare «tutte queste idee di corpi e ordini che rinascono senza posa» riferendosi agli ordini e alle confraternite religiose, nonché alle corporazioni di arti e mestieri e alle associazioni operaie, secondo il dogma rousseaniano che voleva il popolo frantumato in cittadini individui e nessun corpo intermedio tra essi e lo Stato. In fondo se lo Stato e i cittadini sono la stessa cosa (perché l’uno, grazie all’artifizio della «volontà generale» è la proiezione giuridica degli altri), qualsiasi organismo che si interponga non può essere altro che inutile e ultimamente nocivo. L’odio di Le Chapelier per i corpi intermedi (frutto di una logica spietata ma incontrovertibile, date le premesse) si spinse fino al punto di chiedere la chiusura di tutti i clubs. Egli stesso si scisse dai giacobini dopo la fuga del re a Varennes perché nella sua concezione di democrazia totale e totalizzante non c’era posto nemmeno per quegli abbozzi di partiti.

Ma dal vizio, quando lo si ha nel sangue, è difficile liberarsi del tutto e la tentazione di stare in una ristretta cerchia dalla quale si tessono incessanti trame per il «bene» della Nazione (maiuscola, come tutte le parole della Rivoluzione) è troppo forte. Così Le Chapelier diede vita al club dei Foglianti, gli ultimi «moderati» della Rivoluzione. Anche qui «era la chiesa che creava il suo vangelo», secondo l’acutissima espressione di Cochin, in uno psicodramma collettivo permanente nel quale l’unico grande assente era il senso del reale. E quando la realtà schiaffeggiava sul viso, semplicemente la si negava: Le Chapelier fu tra quelli che, dopo il fatto di Varennes, costruirono la fola del «rapimento» del re.

Fin da prima degli Stati Generali si era associato al coro che denunciava, sulla stampa, sul pulpito e sulla tribuna, la «feudalità». Sottoposti a propaganda martellante i francesi finirono per considerare l’antico ordine che aveva retto il paese per secoli, -e che era fatto di gerarchie, di privilegi, di autonomie di corpi e di garanzie, di contrappesi al Potere insomma-, come la più grande maledizione che avesse mai colpito il paese, la iattura che aveva diviso anziché unire.


Il denaro e la livella

Invece la nuova proprietà illuministicamente intesa, (in teoria) accessibile a tutti, esaltava gli animi: sarebbe stato il denaro il grande livellatore della vecchia società fondata sugli ordini. I «misfatti» della «feudalità» godettero di una sterminata letteratura; non c’era accidente che non venisse addebitato alla mancanza di una salutare «tabula rasa», fosse anche una moria di bestiame. E «tabula rasa» fu. Il 4 agosto 1789 fu votato il seguente decreto: «L’Assemblea nazionale distrugge interamente il registro feudale» (prima frase del preambolo).

Il mondo del lavoro era tuttavia rimasto fuori dal decreto, perchè i lavoratori non potevano certo essere definiti «parassiti» come i nobili o il clero. Le Chapelier e i rousseaniani «puri» erano stati messi in minoranza. Non era il loro momento, non ancora. L’occasione gliela diedero i Cordiglieri, che nell’inverno 1790-91 avevano cominciato a contare seriamente mettendosi alla guida dei clubs di quartiere (sociétés fraternelles). Questi si erano costituiti, sotto ispirazione di Danton e Marat, per organizzare il popolo minuto e gli artigiani che la costosa quota di iscrizione teneva artatamente lontani dai giacobini.


Tipografi e muratori

E i cordiglieri -dice lo storico Gaxotte- erano tanto più pericolosi in quanto non separavano le rivendicazioni corporative da quelle politiche. Erano stati loro a organizzare, a partire dal maggio 1791, i grandi scioperi di carpentieri, tipografi, cappellai e maniscalchi. Così il 14 giugno Le Chapelier aveva presentato la sua legge e l’Assemblea l’aveva approvata di getto. Da quel momento ogni «coalizione» (leggi associazione corporazione, sciopero organizzato o semplice assembramento) che cercasse di imporre un salario uniforme ai padroni veniva considerata un delitto tout court e come tale severamente repressa (leggi ghigliottina).

La legge era composta di otto articoli e vietava di ricostituire in qualsiasi forma o modo le corporazioni (già abolite il 2 marzo con la legge Allarde), di nominare rappresentanti, di proferire minacce contro i padroni o contro i crumiri, di istigare in qualsiasi forma e tali atti. L’ultimo articolo recitava: «Ogni raggruppamento composto di artigiani, operai (…) o da loro eccitato contro il libero esercizio dell’industria e del lavoro sarà ritenuto sedizioso e come tale trattato». La «libertà» del lavoro sarebbe stata assicurata, se necessario, con la forza. La motivazione della legge: «Non deve essere permesso ai cittadini di certe professioni di radunarsi per loro pretesi interessi comuni. Non ci sono più corporazioni nello Stato, ci sono solo l’interesse particolare di ogni individuo e l’interesse generale»; le teorie di Rousseau non potevano essere espresse in modo più chiaro e sintetico.

Non suscitò opposizioni, né nei giacobini né in Robespierre, e nemmeno sui giornali, tanto la filosofia illuminista aveva lavorato a fondo. I lavoratori ci metteranno un pò a capire che cosa, in base alle teorie sulla rappresentanza popolare, si erano votati contro. E quando capiranno, verranno presi a cannonate come nel caso delle successive insurrezioni di Lione. E come tante altre volte nella storia successiva, in nome del liberalismo prima e del marxismo poi, ambedue figli legittimi della Rivoluzione Francese.

Rino Camilleri

fonte https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=33605

Read More

12 MAGGIO 1799-12 MAGGIO 2019, 220 DOPO LA STRAGE DI ISOLA LIRI ALLA CHIESA DI SAN LORENZO PER MANO DEI GIACOBINI FRANCESI

Posted by on Mag 8, 2019

12 MAGGIO 1799-12 MAGGIO 2019, 220 DOPO LA STRAGE DI ISOLA LIRI ALLA CHIESA DI SAN LORENZO PER MANO DEI GIACOBINI FRANCESI

Anche quest’anno per “La Giornata della Memoria” del popolo Napolitano ricorderemo e onoreremo le anime, divenute sante per il loro martirio, che furono massacrate nella chiesa di San Lorenzo di Isola Liri 220 anni fa per volontà del Libero Pensiero Illuminista partorito dalla Rivoluzione Francese. Nell’anno 2018 alla fine della Messa, per volontà di Don Alfredo Di Stefano, s’è tenuto un convegno dove s’è parlato dei quei tragici fatti e di seguito riproponiamo i video integrali di tutti gli interventi.  

Read More

Le Pasque Veronesi del 1797

Posted by on Mag 8, 2019

Le Pasque Veronesi del 1797

1. L’Armata d’Italia nel territorio della Repubblica di Venezia
Verso la fine del 1796 tutta la parte occidentale del territorio della Repubblica di Venezia è occupata militarmente dalle forze della Repubblica Francese: a una a una le città più importanti della terraferma — Bergamo, Brescia, Peschiera e Vicenza — vedono l’arrivo dell’Armata d’Italia, guidata dal generale Napoleone Bonaparte (1769-1821). A Verona i francesi giungono il 1° giugno 1796 e s’impossessano subito dei forti della città come pure di varie chiese, adibite poi a ospedali e a ricoveri per la truppa.

Read More

Il Trattato di Tolentino (1797)

Posted by on Mag 7, 2019

Il Trattato di Tolentino (1797)

h1. Le ragioni della Campagna d’Italia

Gli scopi della Campagna d’Italia, iniziata dalla Repubblica Fran­cese — nata dalla Rivoluzione del 1789 — nell’aprile del 1796 e guidata da Napo­leone Bonaparte (1769-1821), possono rias­su­mersi così: accapar­rare quanto più possibile denaro, opere d’arte, generi alimentari, animali e armi attraverso furti e contri­buzioni forzate; oc­cupare territori da scambiare al mo­men­to del­le tratta­tive con l’Im­pero asburgico. La cessione all’Austria della Repubblica di Vene­zia con il Trat­tato di Campoformio (Udine), del 17 ot­tobre 1797, costituisce l’esempio più noto di tale inten­zio­ne. La Francia del Direttorio si trovava in una drammatica situa­zione e­conomica e fi­nanziaria. «Il tesoro nazio­nale era com­ple­tamente vuoto, non c’era un soldo», scrive nelle sue Mémoires uno dei cinque direttori, Louis Marie de la Re­vellière-Lépeaux (1753-1824), e in una lettera al commis­sario del Direttorio presso l’e­sercito in Ita­lia, Antoine Christophe Sa­li­ceti (1757-1809), os­ser­va: «Con le vostre baionette voi tro­vate più de­naro di noi con tutte le nostre leggi finanziarie». La ricca cor­ri­spon­denza del Di­rettorio con Bonaparte non lascia dubbi su quanto fosse pe­ren­to­rio l’ordine di rapina: «Le vostre spe­dizioni verso il sud d’Italia de­vono essere vive e rapide: le risorse im­mense che troverete sa­ranno spedite senza ritardo in Francia». Gli storici hanno os­ser­vato che finanziariamente gli invii di Bo­na­parte dal­l’I­talia co­stituirono un aiuto notevole per le casse pub­bli­che francesi.

2. L’armistizio di Bologna

La Campagna d’Italia, che si svolge fra il 1796 e il 1797, per la mag­gior parte nelle regioni settentrionali, contro l’esercito im­pe­ria­le, co­nosce due tappe nel­lo Stato pontificio. Da Parigi il Di­ret­torio invita più volte il ge­ne­rale còrso, impegnato in Lombardia, a mar­ciare verso i territori pontifici per ottenere nuove contribu­zioni. Le difficoltà a com­piere quanto desidera il governo pari­gino de­ri­va­no a Napoleone da più fattori: la scarsezza di uomini — entra in Italia con circa 40mila soldati male equipaggiati a cui promette le ric­chezze del­le città della Penisola —, la precarietà delle vittorie sul­l’esercito imperiale — non bisogna pensare alla campa­gna na­po­leonica co­me a una marcia trionfale — e le difficoltà a te­nere sotto con­trol­lo il territorio occupato a causa delle insorgenze, al punto che si teme una nuova Vandea in Italia. 

La prima incursione nel terri­torio pon­ti­ficio è realizzata con l’in­gan­no: infatti, nonostante le trattative in corso fra il commissario del Direttorio nell’esercito in Italia e l’in­ca­ri­cato del governo pon­ti­ficio, Bonaparte ordina di mar­ciare su Bologna, che viene pre­sa il 19 giugno 1796. Le autorità pon­ti­fi­cie evitano o­gni atteg­gia­mento d’ostilità, cercando d’im­pe­dire an­che la rea­zione popo­la­re, che però non manca. Il 23 giu­gno 1796 viene fir­mato a Bolo­gna l’armistizio fra Napoleone e i rap­pre­sen­tan­ti del Pontefice: le Le­gazioni Pontificie di Bologna e di Ferrara pas­sano alla Francia e Ancona è posta sotto il con­trollo mi­li­tare del­l’e­sercito oltre­mon­ta­no; al Papa vengono im­po­ste con­tri­bu­zioni in o­pe­re d’arte — cento tavole, busti, vasi e statue, cinquecento manoscritti —, in de­naro — ventuno mi­lioni di lire, di cui quindici in lingotti d’o­ro e d’ar­gen­to —, in der­rate e in ani­mali. Nei giorni suc­ces­sivi si ve­rificano sollevazioni popo­lari in molte località della Ro­magna contro le requisizioni e l’atteg­gia­mento anti-religioso dei francesi: il caso più noto è quello di Lugo (Ravenna), del luglio del 1796. 

3. I negoziati di Parigi e di Firenze

Nel luglio del 1796 ini­ziano a Parigi i negoziati fra la Sede A­postolica e la Repubblica Francese per una pace definitiva. Le trat­tative si presentano su­bito difficili perché il governo parigino chie­de al Papa di revocare e di sconfessare i documenti relativi alla Francia, e in particolare la condanna della Costituzione Civile del Clero, del 12 luglio 1790: richieste inaccettabili per Roma, dal momento che toc­cavano questioni religiose. Le trattative, rotte dal Di­ret­to­rio, ri­prendono a Firenze in settembre, ma lo scoglio rimane. Era opi­nio­ne diffusa che il Direttorio volesse prendere tempo, sperando in una imminente conquista di Roma a opera di Bonaparte, al fine di ottenere nuovi contributi per continuare la guerra e per co­strin­ge­re il Papa alle condi­zioni ricordate. Nelle trattative emerge la fermez­za di Papa Pio VI (1775-1799) di fronte alle richieste fran­cesi: «nel periodo più tragico» — nota lo storico Giustino Filippone — mani­fe­sta «le migliori doti del suo carattere», tanto da apparire «un personaggio nuovo, di rin­novato prestigio».

4. Il Trattato di Tolentino

La rottura delle trattative, il mancato rispetto dell’armistizio di Bologna, i sospetti di una prossima conquista delle terre pon­ti­fi­cie, inducono il governo ro­mano, fra la fine del 1796 e l’inizio del 1797, a dar vita a un esercito di difesa. Bonaparte, impegnato nel­l’assedio di Mantova, difesa dall’esercito imperiale, può dedi­carsi a nuove inizia­tive belliche nell’Italia Centrale solo dopo la caduta di quella città, il 1° febbraio 1797. Il giorno successivo le truppe fran­cesi e cisalpine sconfiggono quelle pontificie nella battaglia del fiu­me Senio, nei pressi di Fa­enza (Ravenna). Sul com­por­ta­mento dei pontifici lo stesso Filippone osser­va che «si rise […] per molto tempo sulla re­sistenza dell’esercito pontificio e forse troppo, e con non molta ra­gione». Rapida­men­te i francesi oc­cu­pano le principali città costiere delle Marche, arrivando fino al territorio di Fermo: Bonaparte de­si­derava rag­giungere un frut­tuoso accordo e realiz­zare rapine e re­qui­sizioni che gli garan­tis­sero denaro, armi, vet­to­vaglie per proseguire a nord lo scontro con l’esercito imperiale.

Domenica 19 febbraio 1797 a Tolentino, presso Macerata, vie­ne fir­mato l’omonimo trattato da Bonaparte, co­man­dante del­l’ar­mata francese in Italia, e da François Cacault (1742-1805), am­basciatore francese a Roma, per la Francia, e da mons. Ales­sandro Mattei, ar­ci­vescovo di Ferrara (1744-1820), da mons. Lo­renzo Ca­leppi (1741-1817), dal nipo­te del Papa duca Luigi Bra­schi Onesti (1745-1816) e dal marchese Camillo Massimo (1730-1801), ple­ni­po­ten­­zia­ri del Pon­te­fice Pio VI (1775-1799). Il trattato è com­posto di venticinque ar­ti­coli: i pri­­mi cinque ri­guardano i rapporti fra Ro­ma e Parigi, per cui la prima non doveva sostenere le po­tenze eu­ropee in guerra contro la Fran­cia, doveva aprire i porti del­lo Stato alle navi fran­cesi e doveva scio­­gliere l’e­sercito. Gli ar­ti­coli dal 6 al 9 stabi­li­scono la perdita da par­te del Pa­pa dei territori di Avi­gnone, in Francia, e del­le Le­gazioni di Bo­­­lo­­gna, di Fer­rara e della Ro­magna, già oc­cu­pate dai francesi nel giu­­­gno del 1796. Gli ar­ti­co­li dal 10 al 13 ri­guardano invece le contri­bu­zioni dovute dal go­verno pon­tificio alla Francia: quindici milioni di li­­re tornesi — dieci in contanti, cinque in dia­manti — per estinguere quanto il Papa doveva in base al­l’ar­mi­stizio di Bologna; a essi si aggiun­ge­vano altri quindici mi­lioni della stessa moneta da versare entro l’aprile del 1797; ottocento ca­val­li da guerra e ottocento da tiro, buoi, bufali e og­getti non pre­ci­sa­ti; infine, si conferma l’articolo 8 dell’armistizio di Bo­­lo­­gna rela­tivo ai ma­noscritti e agli oggetti d’arte. Gli altri arti­coli fis­­sano sia i tempi dell’evacuazione dei francesi dalle Marche in re­­­la­­zio­ne ai pa­ga­menti stabiliti, sia altri aspetti parti­colari dei rap­­­por­­ti tra Francia e Stato pontificio. L’importanza del trattato di To­len­­tino consiste soprattutto nel costituire il modello per le requi­si­­­zio­­ni artistiche im­poste nelle successive conquiste.

5. I limiti del Trattato

Nel trattato non si fa riferimento a questioni religiose. Sarebbe improprio dedurne un atteggiamento meno ideologico da parte di Bonaparte rispetto a quello del Diret­torio, il quale più volte in­vi­ta il generale a conquistare Roma. Ecco un saggio delle lette­re che al generale proveni­vano da Pa­rigi: «[…] nel portare atten­zio­ne su tutti gli ostacoli che si oppon­gono all’affermazione del­la Costituzione francese, il Di­rettorio ha compreso che il culto ro­mano è quello di cui i ne­mici della li­bertà possono fare fra qual­che tempo l’uso più dan­noso […] la re­ligione romana sarà sem­pre la nemica incon­ci­liabile della Re­pubblica»; quindi, per affer­mare la repubblica, era neces­sario «distruggere […], se è pos­si­bi­le, il centro di unità della Chiesa ro­mana; ed è a voi, che avete saputo riunire fino a oggi le qua­lità più distinte del ge­ne­rale e quelle del politico preclaro, re­a­liz­zare questo voto, se lo giudi­cate attuabile»: o ponendo Roma sotto un’altra potenza o, pre­fe­ribilmente, stabi­lendo un nuovo go­verno e costringendo il Papa all’esilio. Bonaparte però sa di non a­vere uomini sufficienti per l’im­presa, teme le insor­genze, che infatti si verificano in feb­braio nelle Marche, ritie­ne possibile una riconquista imperiale di Man­tova. Per questo il trattato doveva essere firmato rapi­da­men­te, senza le lunghe di­scussioni che le questioni religiose, inac­cet­tabili per il Papa, pote­vano suscitare. Come spiega al gover­no parigino, Bo­naparte riesce a ottenere il massimo possibile e so­prattutto a in­debolire Roma — privata di Bologna, di Ferrara, delle Romagne e di An­cona e depau­perata dalle richieste del Trattato —, in mo­do tale che sarebbe stato possibile in seguito la conquista.

6. La «veloce ed opulenta rapina»

Commentando il trattato di Tolentino lo scrittore lombardo, di for­mazione illumi­nistica, Alessandro Verri (­1741-1816) — fratello del più noto fratello Pietro (1728-1797) —, scrive che esso diede il via a una «veloce ed opulenta rapina». Alla fi­ne di luglio del 1796 i commissari francesi incaricati di se­le­zio­nare le opere d’arte e i manoscritti in base all’armistizio di Bo­lo­gna giungono a Roma; la commissione era presieduta dal ma­te­matico Gaspar Mon­ge (1746-1818). Interrotte le operazioni a partire dal settembre del 1796, i commissari tornano nella ca­pi­ta­le della cristianità all’indo­mani del trattato di Tolentino. A capo della cleptocrazia rivolu­zio­naria era la compagnia dell’ex banchiere svizzero Rudolf Emmanuel von Haller (1747-1833) — zio del famoso studioso e polemista contro-rivoluzionario Karl Ludwig (1768-1854) — in­ca­ri­cata dei finanziamenti del­l’ar­mata d’Italia, intorno alla quale si dà vi­ta a una note­vole specu­la­zione. Non mancano azioni di pro­testa e di resi­stenza all’attività dei commissari francesi a Roma di se­le­zione e di invio in Francia delle opere d’arte. Alcuni in­tel­lettuali, pur con­trari al governo pontificio, realizzano una mis­sione a Pa­rigi in difesa del patrimonio artistico italiano; ben cin­quanta ar­ti­sti fran­cesi scrivono una petizione al Direttorio contro la spo­lia­zione di Roma e dell’Italia. Anche la po­polazione ma­ni­festa ir­ri­tazione per l’asportazione di opere d’arte unanimemente amate e am­mirate, come l’Apollo del Belvedere, che viene so­sti­tuito dalla statua Meditazione da Antonio Canova (1757-1822), ribat­tez­zata dai romani Consolazione. L’ambasciatore francese a Roma Ca­cault così rappresentava al ministro degli Esteri Charles Dela­croix (1741-1805) il sen­timento dei romani a motivo della par­tenza delle opere d’arte: «[…] porterà grande angustia nei cuori del popolo di Roma, e di tutta l’Italia, dove ognuno è gran­de­mente attaccato a questi monu­menti». Lo stesso governo pon­ti­fi­cio, che collabora con i commis­sari, li deve difendere da attentati da parte di ele­menti del popolo. Si ricordano manifestazioni an­che ag­gressive contro i francesi da parte di popolani trasteverini a causa delle re­quisizioni artisti­che. Importanti codici rimangono a Ro­ma gra­zie al nascondi­mento da parte di archivisti. L’ultimo con­voglio carico di opere d’arte e di manoscritti parte da Roma per Parigi il 4 luglio 1797. Fra i mo­tivi delle insorgenze italiane — le solle­vazioni po­po­lari contro l’occupazione francese e le re­pubbliche giacobine che im­ponevano modelli politici estranei al­la tradi­zio­nale vita civile e religiosa dei popoli della penisola — non va trascurata la difesa del patrimonio artistico preda dei ri­volu­zio­nari invasori. Il 15 febbraio 1798 l’eser­cito francese, co­mandato da Louis Alexandre Berthier (1753-1815), che era fra l’altro te­so­rie­re della spedizione d’In­ghil­terra, occupa Roma e vi pro­cla­ma la Repubblica; il Papa la­scia la città il 20 febbraio e muore esule a Valence in Francia il 29 agosto 1799. A un anno dal trattato di To­lentino i progetti di conquista del Diret­torio si realizzano: il dre­naggio fi­nanziario coinvolge tutte le terre dello Stato pon­ti­fi­cio tra­sfor­ma­to in Repubblica Romana. Nu­merosi carri carichi di o­pere d’arte ricominciano ad affluire a Parigi da Roma nel 1798.

Sandro Petrucci (1959-2017)
fonte https://alleanzacattolica.org/il-trattato-di-tolentino-1797/

Per approfondire: Marco Albera. «Napoleone e la nascita del Louvre», in Cristianità, anno XXV, n. 261-262, gennaio-febbraio 1997, pp. 11-14; Giustino Filippone, Le relazioni tra lo Stato pontificio e la Francia rivoluzionaria. Storia diplomatica del trat­tato di Tolentino, 2 voll., Giuffrè, Milano 1961-1967; Sandro Pe­trucci, Insorgenti marchigiani. Il trattato di Tolentino e i moti an­ti­francesi del 1797, SICO, Macerata 1996; Idem, Qua­der­ni del Bi­cen­te­nario. Pubblicazione periodica per il Bicentenario del trat­tato di Tolentino (19 febbraio 1797), a cura del comune di To­len­tino, Pol­lenza (Macerata), nn. 1-3, 1995-1997; e Paul Wescher (1896-1974), I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre, trad. it., Einaudi, Torino 1988.

Read More