Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Tarantella Ballo Napolitano

Posted by on Mar 27, 2019

Tarantella Ballo Napolitano

Venerdì 29 marzo 2019 dalle 19.00 alle 22.00 presso il Centro di Cultura Domus Ars sito in via Santa Chiara 10C Napoli, avrà luogo una presentazione e workshop sulla tarantella Napoletana tratta dalla raccolta iconografica di Gaetano Dura dal titolo: “Tarantella” Ballo Napolitano, pubblicata a Napoli dalla litografia Gatti nel 1834. L’opera, che costituisce un documento molto importante per la ricostruzione della tarantella napoletana, presenta diciannove tavole, corredate da didascalie esplicative, che illustrano, passo per passo, tutte le diverse fasi del ballo. Maria Grazia Altieri e Antonio Esposito hanno ricostruito la tarantella a partire da tali iconografie esplicative, rispettando fedelmente le descrizioni. Il ballo, che già sicuramente era una ricostruzione di danza da salotto, le viene ridata vita e vigore.

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“Voci, Suoni e Canti di Briganti in Terra di Lavoro”

Posted by on Mar 26, 2019

“Voci, Suoni e Canti di Briganti in Terra di Lavoro”

     Il Circolo di San Michele Arcangelo in collaborazione con l’ ”Ass. Id. Alta Terra di Lavoro” e l’associazione culturale “L’Albero di Holda”  organizza presso la sede del Circolo sito a Gallo, frazione di Roccamonfina, il giorno 30 marzo 2019 alle ore 17:30, la rappresentazione teatrale, un inedito e per la prima volta in provincia di Caserta , “Voci, Suoni e Canti di Briganti in Terra di Lavoro”.

     Con l’avvento dell’illuminismo e del razionalismo l’uomo cerca di spiegare e interpretare la realtà e se stesso attraverso la ragione e il pensiero con il solo risultato di aver portato la mente umana in un labirinto senza via d’uscita e con il decadimento dell’ uomo inversamente proporzionale allo progresso tecnologico e scientifico, i protagonisti dello spettacolo hanno l’ardire e la presunzione di cavalcare il tentativo di Ovidio nella “Metamorfosi” di indagare la realtà e di spiegarla attraverso il mito.

     La nostra terra, la Terra di Lavoro che è la provincia più antica d’Italia e forse d’Europa, che nel Regno di Napoli ha raggiunto il suo massimo splendore, dove nasce prima il Mito e poi la storia, che durante la nascita dell’Unità d’Italia e dell’invasione dell’esercito giacobino Francese nel 1799 ha visto come protagonisti personaggi che la vulgata dominante ha etichettato, in senso dispregiativo, come Briganti ma che in realtà sono stati soltanto degli insorgenti che hanno difeso le proprie radici, la propria identità e la propria storia fino ad arrivare all’estreme conseguenze.

     Verranno narrate le gesta di Fra’ Diavolo, Berardo Tancredi, Cosimo Giordano, Rosa Antonucci, Michelina Di Cesare e Domenico Fuoco che a differenza dei personaggi Omerici non sono di fantasia ma sono realmente esistiti, divenuti eroi per come hanno vissuto e dei Miti per come sono morti. L’unico personaggio di fantasia è “Marietta” che è comunque esistita in quegli anni tragici nelle donne del circondario di Sessa e delle terre molisane che cercavano di salvarsi dalla violenza degli “scauzacani” piemontesi.

     Tra i protagonisti dello spettacolo ci sarà il gruppo musicale popolare “La Controra”  di Loredana Terrezza e Silvano Boschin che con un repertorio di più di 500 brani di musica tradizionale calcano le scene di tutta Italia da più di 20 anni.

     La voce narrante maschile sarà quella di Raimondo Rotondi che reciterà testi scritti dall’ Ass. Id. Alta Terra di Lavoro e da lui liberamente tradotti in lingua Laborina, lingua che si parla in Terra di Lavoro. Si ricorda che la Terra di Lavoro iniziava a Sora e terminava a Nola.

     La voce narrante femminile sarà quella di Loredana Terrezza che reciterà anch’ella in lingua Laborina testi scritti dall’ Ass. Id. Alta Terra di Lavoro e sempre liberamente tradotti da Raimondo Rotondi.

     Ci saranno come ospiti d’onore alla recitazione, Elena Sorgente da Cellole e Cinzia Zomparelli da Cassino e come musicista Francesco Smirne 

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Abitare un fondaco al Cavone. Centro Studi per la Storia dell’Arte e dell’Architettura delle città portuali

Posted by on Mar 10, 2019

Abitare un fondaco al Cavone. Centro Studi per la Storia dell’Arte e dell’Architettura delle città portuali

Sylvain Bellenger, direttore della Reggia-Museo e del Real Bosco di Capodimonte, ha organizzato, con la collaborazione del texano The Edith ‘O Donnell Institute of Art History, il “Centro Studi per la Storia dell’Arte e dell’Architettura delle città portuali”. Un centro internazionale che, nato nel settembre scorso, in un edificio borbonico nel Real Bosco, chiamato la Capraia, lunedì ha fatto la sua prima relazione pubblica. L’argomento: “Abitare un fondaco al Cavone. Dall’archivio alle fonti orali, tracce e memorie della cultura popolare”.

Due i relatori: la professoressa Brigitte Marin, che, docente di Storia Moderna all’ Aix-Marseille Université, è onusta di altri prestigiosi incarichi, e Marcello Anselmo, storico contemporaneista, ricercatore nella stessa università marsigliese e autore di réportages e di studi sociali sulle città dell’Europa Meridionale. 

La professoressa Marin ha  iniziato parlando del suo condiviso metodo di studio: definire un fenomeno urbano risalendo alle sue  origini storiche, attraverso la ricerca e l’attenta lettura di documenti di archivio. In più, la professoressa dimostra di tener conto anche degli scritti di altri studiosi sull’argomento, rifacendosi al compianto Giuseppe Galasso (1929/ 2018), storico accademico e importante politico che, come tale, aveva dovuto attenersi a una considerazione del passato napoletano soprattutto quale causa dei mali presenti, secondo la prassi solita di ogni governo.

La Marin, quindi, riferisce di Galasso l’affermazione che i problemi della città vengono dal passato e che la difficile situazione abitativa in cui versa il popolo è “la continuità di un problema irrisolto”. In realtà, durante il governo spagnolo, quando Napoli era capitale di una delle Spagne, qui ci fu uno straordinario aumento del numero degli abitanti che, dai 40.000 esistenti durante il precedente governo aragonese, passarono a centinaia di migliaia.

Nel frattempo, furono costruite nuove mura, mentre veniva emanato il divieto di costruire fuori dalla loro cinta. Di conseguenza, i palazzi si innalzarono tanto che ai visitatori dell’epoca Napoli apparve come una città di grattacieli. E piacque. Ma esistevano ancora, al suo interno, i giardini delle case nobiliari e dei monasteri e c’era la vista amena delle verdi colline.

L’aumento demografico continuò anche dopo la terribile peste del 1656, per la quale morì – si dice- metà della popolazione, tra cui anche artisti famosi come Massimo Stanzione Battistello Caracciolo.

Dal Seicento la professoressa riporta l’uso fatto da uno scrittore francese in visita a Napoli, della parola “fondachiera”, per indicare la povera gente abitante dei fondaci napoletani, detta, poi, “plebe” e “gentaglia”. Nello stesso periodo (è forse interessante notarlo), un napoletano di genio come Gianlorenzo Bernini, che era stato chiamato da Luigi XIV per costruire il “Palazzo del Re”, veniva continuamente criticato dalla Corte e dal Colbert, Controllore Generale delle Finanze del Regno, e poi era ignominiosamente rimandato a casa. Così il “Palazzo del Re”, il Louvre, oggi ha le forme classiche della colonnade di Claude Perrault.

Delle incomprensioni e dei contrasti tra il razionalismo dei francesi e il naturalismo libero e ardito del Bernini riferì, nel suo diario, Paul Fréart de Chantelou, Mastro di Casa del Re, rivelandosi amico dell’artista italiano. Il che dimostra che ancora perdurava in Francia, nella seconda metà del ‘600, l’ammirazione per la creatività nostrana, ma stava per nascere, da un estremo razionalismo cartesiano, quell’illuminismo che si esprimerà, più di un secolo dopo, nel neoclassicismo giacobino.

Del suo lavoro di ricerca sul fondaco del Cavone, la professoressa Marin non nasconde le difficoltà. E ricorda come un colpo di fortuna, ma fu premio al suo impegno, l’essersi imbattuta nei documenti relativi ai monasteri scomparsi. Tra questi c’è il monastero femminile di santa Monica, nato come tale nel 1646 da un conservatorio del 1628.

Nell’insula, intorno al monastero, le monache costruirono un complesso di abitazioni modeste, il Fondaco del Cavone appunto, che dettero in fitto a basso prezzo a gente che aveva scarsi mezzi economici. Fu speculazione o beneficenza? L’uno e l’altro probabilmente, secondo i casi – suggerisce la professoressa. Che, citando i documenti, riferisce di numerosi interventi di manutenzione e decoro fatti, per queste abitazioni, nel Seicento e nel Settecento, che poi, nella seconda metà dell”800, vennero a mancare, determinandone il degrado.

Ma la situazione di degrado esistente in questo periodo storico riguardò tutta la città, e fu quello che Matilde Serao descrisse ne “Il ventre di Napoli”. Che non fu soltanto delle sue strutture materiali. Precedentemente, nel Settecento, invece, la maggior parte dei visitatori, notoriamente Goethe ma non solo,  avevano considerato il popolo napoletano, compresi i poveri, libero e felice.

Era ammirato il suo essere “picturesque”, termine inglese che allora sorse per connotare ciò che è veracemente originale ed è amabile per la sua diversità. Ma poi, appunto nella seconda metà dell”800, la povertà diventò miseria. Mentre, come dice la Marin, spesso il sorriso divertito dei turisti diventava una sorta di sprezzante ironia. Siamo negli anni successivi all’unità d’Italia. Il degrado delle abitazioni e dei relativi servizi portò all’emergenza sanitaria. A Napoli scoppiò il colera. E, di conseguenza, si giudicò necessario procedere alla bonifica del suo centro e del suo sistema fognario attraverso quello che fu detto il Risanamento oppure “lo sventramento”. Che diventò “la più estesa trasformazione urbanistica che la città storica abbia conosciuto”- ricorda, intervenendo nel colloquio instauratosi tra i relatori e il pubblico, un architetto, esperto urbanista.

È il professore Italo Ferraro, già docente alla Federico II e autore di un atlante in 12 volumi (edizioni Oikos), che racconta la storia di Napoli nella sua concreta realtà edilizia. Da cui si evince, non come semplice ipotesi ma come indubitabile testimonianza, l’eccezionale continuità storica dell’antica città partenopea.

Una continuità che ha fatto si che Napoli, che non è “una città con un porto” costruito successivamente (come Atene), ma una città-porto fondata da greci marinai, abbia potuto mantenere l’impronta delle sue origini marine, nell’organizzazione sociale, nella filosofia e nell’arte.

Infatti le antiche lcittà costiere greche, come Neapolis, Palepolis, o Elea, la patria di Parmenide, modellarono la loro organizzazione sociale tenendo conto dell’esperienza che ne avevano fatto sulla nave prima di stanziarsi sulla costa. Sulle antiche navi, non si eleggevano quali capi i politici-oratori. Ma era capo il nostromo (cubernetes in greco, gubernator in latino), il governatore, che otteneva la sua legittimità dando prova delle sue reali capacità. E ognuno dei marinai aveva le mansioni relative alle proprie possibilità, il che non comportava la sanzione di una superiorità degli uni sugli altri, perché era evidente il fatto che si era tutti sulla stessa barca: una paritaria società di disuguali.

Così, alla caduta dell’impero romano, Napoli fu, per molti secoli, guidata da un dux con le funzioni di governatore, e fu un ducato. Finché, dopo l’esperienza normanna, la città non conobbe gli Angioini, che la resero capitale di un Regno. E fu il centro conservatore di una cultura anomala, invisa agli accademici e temuta dalle Autorità. Una corrente filosofica diversa da quella classica improntata al razionalismo socratico-aristotelico. Fu l’empirismo contro il razionalismo, l’esperienza contro lo scientismo, la libertà di vivere contro l’eccessiva regolamentazione, contro la cosiddetta normalità.

Un fil rouge lega il filosofo marinaio Parmenide, di cui si era impadronito Aristotele travisandolo, al filosofo naturalista Bernardino Telesio, a Giovanbattista della Porta e alla sua associazione dei Secreti, accusata di occultismo, fu chiusa per ordine papale, a Tommaso Campanella, torturato e imprigionato, a Giordano Bruno, bruciato vivo in Campo dei Fiori, agli Investiganti seicenteschi, al principe di Sansevero, mago lo dissero e non  scienziato quale fu, a misconosciuti uomini geniali, come Giacinto De Cristofaro, chiuso in prigione per molti anni, e a tanti altri ancora.

Tra i quali, presumibilmente, quelli di cui è stata completamente cancellata la memoria. Questo fil rouge ci conduce a Gian Battista Vico. Negli scritti di questo grande filosofo napoletano si legge una concezione del tempo e dello spazio che ci riporta al marinaio Parmenide.

Il tempo, per Vico, non è un’entità unidirezionale e la realtà non è statica ma è ritmo che si muove ritornando su se stesso, come il mare. Come la musica napoletana che nutrì il mondo dai tempi di Nerone a quelli di Paisiello. E lo spazio, per Vico, non è quello definito dalla geometria cartesiana ed euclidea. Ma è quello che si apprende “con una mescolanza di corporeità e di pensiero”. 

Certamente anche la gente di mare nella mente non poteva avere lo spazio euclideo ma quell’ampio spazio marino che si conforma alla curva linea dell’orizzonte e alla volta del cielo. È un’immagine espressa anche nell’arte figurativa napoletana.  E che è ben diversa da quella dello spazio-scatola a tre dimensioni che Euclide teorizzò, pubblicandolo nel 300 a. C., e che viene realizzato dal 1400 in poi, per mezzo della classica prospettiva toscana. Che è la prospettiva per antonomasia, l’unica accettata accademicamente e considerata reale, sebbene, precocemente, L. B. Alberti la avesse definita artificialis, cioè meramente astratta. Eppure quella pittura napoletana che non si attiene alle sue regole è stata spesso considerata arretrata o errata. 

Erwin Panofsky, nel suo famoso libro “La prospettiva come forma simbolica”, riferisce della realizzazione dello spazio sulla curva superficie dei vasi magnogreci del IV secolo a C. e di una prospettiva simile a quella canonica (ma erroneamente realizzata) in alcuni affreschi pompeiani. Di errori di prospettiva hanno parlato ancora i dotti riferendosi alle vedute napoletane del Settecento. Non si tratta di errori ma di una prospettiva diversa che nel Settecento ha raggiunto la sua piena espressione, tanto da poter essere oggi tradotta in computer grafica.

È la prospettiva di quello spazio che la gente di mare aveva nel cuore e nella mente:  la prospettiva  napoletana. (cfr. “Lo spazio a 4 dimensioni nell’arte napoletana. La scoperta di una prospettiva spazio-tempo” ed T. Pironti). Uno spazio attualissimo, coerente a quest’epoca di imprese spaziali, mentre la prospettiva toscana del ristretto spazio-scatola è contestata da tempo. Nei dipinti napoletani considerati sbagliati, c’è la visione di uno spazio in movimento, che è visto da più punti di vista e ha quattro dimensioni. Napoli ha intuito da sempre quello che la scienza ha teorizzato soltanto nei primi anni del Novecento, con Albert Einstein, che d’altronde ha scritto: “Le origini del nostro pensiero sono nella Magna Graecia”. La prospettiva non è soltanto un fatto pittorico: essa rispecchia la mentalità, ovvero la struttura del pensiero, del pittore-autore, ma anche del suo ambiente. E la prospettiva napoletana.si basa sui plurali punti di vista di una società coesa, che danno concretezza a uno spazio iperbolico.

La persistenza nell’arte figurativa degli stessi caratteri si apparenta alla persistenza delle stesse famiglie nei quartieri popolari napoletani, come il Fondaco del Cavone. Famiglie che costituiscono una società coesa, con gli stessi modi di pensare, di sentire e di atteggiarsi. Di questa società racconta l’accurata indagine fatta sul posto dall’attento studioso Marcello Anselmo, che ha intervistato persone e ha filmato interviste e luoghi, indagando su importanti fenomeni ma anche su particolari, apparenti minuterie del modo di vivere del popolo povero, e così ricostruendone la vita.

Tutto questo è reso noto ora al pubblico nella vivace relazione dello studioso. Che chiarisce come la densità demografica del Fondaco del Cavone si sia andata via via accentuando. Già era accaduto dopo “lo sventramento” operato dal Risanamento del centro storico della città, un luogo densamente popolato, i cui abitanti, quindi, dovettero trasferirsi altrove. Di questi, mentre i più ricchi occuparono i nuovi appartamenti e quelli di media fascia andarono ad abitare al Vomero, i poveri andarono ad addensarsi nei luoghi già sovraffollati come i fondaci. Le condizioni degli abitanti peggiorarono.

Tuttora la densità demografica tende ad aumentare, perché, a volte, pur potendosi trasferire altrove, i giovani sono rimasti qui, accanto ai genitori, ai nonni, agli zii e agli amici di sempre. E anche coloro che si erano allontanati, andando ad abitare le case nuove della periferia, ritornano qui, nella vecchia Napoli,tra i parenti e gli amici, tra gente conosciuta, in quella società che gli è propria, a quel modo di vivere che è la loro vita. Così gli ambienti abitativi, per dar loro posto, si sono solidarmente divisi. Ma sono tenuti ordinati e lindi, e sono forniti di bagni e di moderne tecnologie casalinghe. I piani del fondaco si sono innalzati e vengono preferiti quelli più alti.

Certo ora, come nei vecchi vicoli napoletani, sta sorgendo, ed è una novità, un senso di insicurezza. Testimoniato anche dalla chiusura delle porte dei “bassi”, le case a pian terreno, con la “finestra zoppa” e, come nota acutamente Anselmo, dalla presenza dei cani – non i randagi a cui si dà il cibo, un calcio e una carezza – ma cani da difesa e robusti cani da guardia. Ora vi sono, anche nel Fondaco del Cavone, molti abitanti che vengono dall’estero, soprattutto africani e cingalesi, gente sconosciuta. Alcuni rimangono più a lungo, altri fanno un turn-over.

Ma sono sempre di più  e l’atteggiamento di accoglienza proprio delle civiltà di mare… da Nausica in poi… si chiude in un atteggiamento di faticosa sopportazione. E ogni tanto si protesta per piccole cose, che fanno emergere in superficie la diversità tra le etnie. Pure lo spazio, qui, al Cavone, scarseggia e rende più aspri gli attriti tra persone che sono profondamente diverse. Mentre l’armonia di una società è fatta dalla omogeneità dei suoi componenti.

Dalla relazione degli studiosi molte cose sono state chiarite. Ma una domanda rimane senza risposta. Se i fondaci sono una sorta di antichi magazzini portuali, di origine medievale, che si trovavano un tempo lungo i moli, a Napoli come a Venezia e a Genova, il fondaco del Cavone, come quello, anch’esso napoletano, di San Gregorio Armeno, che non sono costruiti nel porto, perché si chiamano fondaci?

Adriana Dragoni

fonte http://www.agenziaradicale.com/index.php/rubriche/arte-e-dintorni/5739-abitare-un-fondaco-al-cavone-centro-studi-per-la-storia-dell-arte-e-dell-architettura-delle-citt

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Capodimonte è uno sballo di Adriana Dragoni

Posted by on Feb 17, 2019

Capodimonte è uno sballo di Adriana Dragoni

Il museo napoletano tira fuori dal suo deposito una serie di opere per una storia dell’arte ancora da scrivere, ripudiata dalla “moda” e dalla politica. Che riavvampa con gusto

La mostra “Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere”, in esposizione al Museo di Capodimonte di Napoli fino al 15 maggio 2019, è uno sballo, una sfida e una scommessa. Che sia anche un importante avvenimento lo si capiva già dai tanti giornalisti che affollavano la conferenza stampa nella magnifica Sala degli Arazzi, quelli che narrano della battaglia di Pavia del 1525. Di quando Napoli era capitale spagnola e il napoletano Francesco d’Avalos vinceva le truppe di Francesco I, quel re di Francia che aveva pianto il suo amico Leonardo (da Vinci) sul letto di morte. Anche questi arazzi sono stati per un po’ nella polvere di un deposito. Fin quando, nel 1998, non furono restaurati. Ora a Capodimonte, c’è, quale direttore, un altro francese amante dell’arte italiana, Sylvain Bellenger, che ha voluto questa mostra di opere tratte dai depositi del museo.

Già l’apertura di questi depositi è stato un fatto eclatante. Infatti, erano rimasti chiusi anche a lungo e si racconta che un tempo, con il successore del sovrintendente Raffaello Causa, ne fu vietato l’accesso finanche agli studiosi e all’ANISA-Associazione Nazionale Insegnanti Storia dell’Arte, dando adito a sospettosi perché. Ora finalmente sono visitabili. È c’è anche un video di presentazione, caricato su Youtube, in cui un uomo con un grande mazzo di chiavi avanza verso i depositi e li apre, come per liberare le opere, le vite, le storie che vi sono prigioniere. Il 20% di queste opere – e ne sono più di 1200 – costituisce la mostra. La sua preparazione ha coinvolto tutto il personale del museo, dai funzionari, ai restauratori, agli uomini di fatica. Si è lavorato tanto, fino all’ultimo momento. La mattina della conferenza stampa, c’erano ancora delle scope in un angolo e, su un tavolo, i bigliettini delle didascalie che sarebbero stati al proprio posto per l’inaugurazione nel pomeriggio. Nell’aria, grande entusiasmo. Soddisfatti i curatori, Carmine Romano e Maria Tamajo, sorridenti insieme ai loro collaboratori. Come Linda Martino che, vivace, leggera, quasi saltava di gioia. E più leggera era anche Aurora Giglio, la vivacissima presidente di MusiCapodimonte, l’associazione di promozione della musica popolare napoletana, (altra iniziativa osé del direttore Bellenger).

Ma quello che di straordinario, dirompente, “sballante” c’è in questa mostra intelligente è l’affermazione della libertà di pensiero, che si esprime nell’apparente disordine secondo il quale sono state collocate le opere. Che non seguono il filo di una logica progressiva, per esempio non sono state messe secondo un ordine cronologico del prima e del dopo. Qui si invita il visitatore a uscire dagli schemi già dati, lo si incita all’attenta osservazione della realtà e a usare una logica fondata su di essa, una logica analogica. E gli si suggerisce di lasciarsi guidare dalle suggestioni delle analogie. Che possono essere tante. Qui si sfida il visitatore a trovarle e magari, in base a queste, ad assemblare dei gruppi di opere e scoprirne gli sconosciuti autori. E si può accostare un’opera a un’altra per un’affinità nascosta, per il carattere dei personaggi rappresentati, per la forza dei loro sguardi, per l’espressività di questo o quel sentimento, per la costruzione degli spazi, per l’omogeneità del colore e così via. È una sfida e una scommessa. E può essere un test divertente, che rivela le capacità di ciascun visitatore. Da qui, da queste opere, tante idee, tante vite, tante storie. Ancora tutte da scrivere. I cataloghi, infatti, saranno pubblicati soltanto alla chiusura della mostra, arricchiti dalle osservazioni dei visitatori.

Ma come nascono i depositi dei musei?

A volte allo stesso modo con cui noi abbandoniamo, magari in fondo a un cassone, qualche vestito che ci è venuto in uggia o che non è più di moda ma potrebbe tornarvi e chi lo sa. Così un’opera museale vien messa in deposito non solo per mancanza di spazio, per un cattivo stato di conservazione e in attesa di restauro come gli arazzi d’Avalos ma, soprattutto, per un cambiamento del gusto di un’epoca, ha spiegato il Direttore. E anche, aggiungerei, per motivi politici. Capodimonte è diventato museo nazionale negli anni Cinquanta del Novecento. Molte sculture ottocentesche all’epoca furono messe da parte: la scultura non era più di moda. Perché, mentre la pittura si era evoluta, la scultura era rimasta ancorata ai vecchi schemi. Inoltre, dopo il referendum “monarchia o repubblica?” del ’46, le opere sfacciatamente savoiarde erano state confinate nei depositi. Da cui ora sono stati tirati fuori i busti di un compassato Umberto I e di un Vittorio Emanuele II dalla faccia assatanata. Nella stessa sala, accanto a questi busti, vi sono le sculture eseguite da Leopoldo di Borbone, le quali, per il 1860, dormivano nei depositi: c’è l’Angelo della Carità in gesso, di un dolcissimo sentimentalismo ottocentesco ma incorniciato dal curvo disegno, accentuato in senso astratto, di due grandi ali imponenti.

C’è, tra le sculture, anche un divertente tacchino perfettamente eseguito. È assurdamente seduto su un porco e attrae lo sguardo per l’originale composizione cui dà luogo. Molti sono i capolavori da scoprire in questa mostra, che vanta preziose porcellane e opere di Battistello Caracciolo, Bernardo Cavallino, Mattia Preti e anche di Luca Giordano che – notizia in anteprima – quest’autunno partirà, insieme a Vincenzo Gemito, per Parigi, dove alloggerà al Musée du Petit Palais.

Molto interesse suscitano anche gli oggetti in mostra portati in Europa dal Capitano James Cook e poi donati al re di Napoli Ferdinando IV da Lord Hamilton, ambasciatore inglese presso la Corte Borbonica. Sono armi e altri oggetti provenienti dall’Oceania, che testimoniano la civiltà e il senso della bellezza e dell’arte di un popolo ritenuto selvaggio. Un popolo allora dignitoso e libero perché era diverso dagli altri ma certo non era diverso da sé. Ammiriamo, tra l’altro, un aggraziato copricapo, dei bracciali e delle cavigliere femminili. Appartenevano a una principessa? Dov’è ora questa principessa che, regalmente, danzava muovendo le piume infilate nei bracciali e nelle cavigliere? Vola leggera nel cielo? Il suo popolo, camuffato dagli abiti occidentali, non esiste più. Nella stessa sala, statuette in terracotta riprendono precisamente le figure di popoli esotici vestiti nei loro abiti tradizionali. Sono riproduzioni perfette ma senz’anima. In occasione della mostra, altre novità: la Flagellazione caravaggesca è circondata da un cornice coeva. Mentre tante lampadine a led, imitando molto bene il brillante luccichio delle candele di un tempo, illuminano la favolosa Sala delle Feste.

E c’è anche un’altra novità: parte da questa mostra il progetto di digitalizzazione delle opere di Capodimonte, con l’uso dell’ultimissima tecnica della Art Camera «Per la quale si potrà distinguere anche il filo della tela di un dipinto. È perfetta più dell’occhio umano», dice il Direttore, entusiasta. Ma c’è chi dice di preferire conoscere l’opera nella sua realtà, sentire il suo magnetismo e di provare a volte il desiderio peccaminoso di toccare la ruvidezza di una tela, la profondità del legno di una tavola dipinta, di accarezzare le curve levigate di un marmo. E considera con raccapriccio la fotografia dell’opera un’astrazione, un suo avatar. Ma «Non vi potrebbe essere un manuale di storia dell’arte senza fotografie e sarebbe bello, ma non è pensabile, vedere tutte le opere d’arte in originale» dice Bellenger. E ha ragione.

Adriana Dragoni

fonte http://www.exibart.com/notizia.asp?IDNotizia=61207&IDCategoria=1


Giuseppe Casciaro, Paesaggio (Napoli da Posillipo)

Annibale Carracci (copia da?), Due giovani che ridono (1584/85 ca)
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Carlo Faiello Concerto al Tan

Posted by on Feb 13, 2019

Carlo Faiello Concerto al Tan

Il nostro CantoLibre la rassegna musicale giunta al suo terzo anno di vita, ideata e curata dall’associazione “Noi&Piscinola”, per il Teatro Area Nord.
Sabato 16 Febbraio alle ore 21,00 presenterà “ArgientoVivo” di Carlo Faiello.
Una performance coinvolgente, dove il ritmo, l’energia e la danza, hanno un ruolo determinante. Un moto perpetuo, continuo, senza fine. Carlo Faiello autore della Nuova Compagnia di Canto Popolare, Roberto Murolo, Lina Sastri, Maria Nazionale, Isa Danieli, 99 Posse, etc. in questo concerto, propone brani di sua composizione, dove le sonorità tradizionali diventano linguaggio contemporaneo, in un “continuum” che appartiene alla grande storia della canzone napoletana; colta e popolare.
“Argiento Vivo” è un’ occasione per sentire il proprio corpo, riscoprire la propria anima, la mente e il cuore . . . come in un “Ballo Infinito”, naturale e benefico, nel tempo e nello spazio, attraverso l’ energia e la potenza della musica.

Carlo Faiello Ensemble:

Vittorio Cataldi _ Fisarmonica
Fulvio Gombos _ Contrabbasso
Gianluca Mercurio e Francesco Manna _ Percussioni
Pasquale Nocerino _ Violino
con Tania Aulicino, Daniela Prevete, Erminia Parisi
e la partecipazione di Patrizia Spinosi.

Teatro Area Nord _ Piscinola / Marianella
Via nuova Dietro la Vigna 20
Ingresso con spuntino compreso 10€
Ampio e gratuito parcheggio custodito
Info: 3935985003 (��

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Alan Lomax racconta come Sanremo ha annientato la musica italiana

Posted by on Feb 2, 2019

Alan Lomax racconta come Sanremo ha annientato la musica italiana

Negli anni 50 il festival nacque puntando sulla canzone di derivazione Usa. Il risultato è che siamo condannati al provincialismo musicale. E a imitare le popstar Usa

E’ un perfetto cold case antropologico e cultural-musicale. L’assassinato lo conoscevamo: si tratta del pop italiano. Ci siamo mai chiesti perché il mainstream musicale d’Italia è da sempre così integralmente debitore, come produzione, sound e perfino birignao compositivi, della musica inglese e americana? Ci siamo chiesti perché, mentre altre culture si sono manifestate con caratteristiche se non altro riconoscibili, da noi in un modo o nell’altro (e a parte meravigliose eccezioni, ovvio) siamo ancorati a un altrove che ci relega al ruolo di provinciali? Ci siamo chiesti perché le nostre popstar negli Usa o in Inghilterra non attecchiscono e vengono sempre viste, quale più quale, meno, come cloni di un qualcun altro?

A parte le solite eccezioni: David Byrne che elogia De Andrè, Bowie che ama Anima Latina di Battisti, il progressive, poco altro, musicalmente risultiamo non pervenuti.

E infine chiediamoci come mai altre tradizioni hanno proposto nel Novecento musiche pop fatte di fortissime radici locali, etniche (o come direbbero i musicologi: extracolte) come il blues, il jazz, il rock e poi il folk di varie derivazioni, il flamenco, il fado, la samba. E invece da noi niente o quasi. Per chi ci guarda da fuori l’Italia è ancora l’Opera, apprezzata in tutto il mondo. E forse, un po’ Modugno, o Napoli. Per il resto (a parte le solite eccezioni: david Byrne che elogia De Andrè, Bowie che ama Anima Latina di Battisti, il progressive, poco altro), non pervenuti. Un suono italiano mainstream non c’è.

La risposta è in quel rituale, anno dopo anno più stanco e meno facente funzioni, che si chiama Sanremo, che è anche di fatto l’assassino della musica popolare italiana, cioè di quella scintilla archetipica che ci avrebbe potuto rappresentare nel 900 con una fisionomia culturale. E’ un fatto, non una supposizione. Sanremo in tv è nato con il preciso intento di fare fuori la musica popolare italiana.

Stiamo solo riportando il racconto del più grande musicologo del 900. Vale a dire Alan Lomax, l’uomo che con le sue registrazioni ha scoperto buona parte del blues (Muddy Waters, tra i tantissimi altri), i padri del jazz (Jelly Roll Morton, ripescato in un infimo albergo), molta musica sudamericana, e ha reso consapevoli gli spagnoli di possedere un tesoro chiamato flamenco
Bene, proprio Lomax nel 1954-55 riuscì a organizzare un viaggio in Italia, sponsorizzato dalla Bbc, insieme a un giovane ricercatore (da quel momento in poi considerato il fondatore dell’etnomusicologia italiana) Diego Carpitella. Un anno on the road, dalla Sicilia alla Val d’Aosta, al Veneto. Registrazioni nelle strade, nelle piazze, nelle case di paese: dai canti dei pescatori calabresi di pescespada ai cori della Liguria.
Sorpresa: secondo Lomax “il paesaggio sonoro italiano era il più ricco, vario e originale” da lui mai incontrato, come ha ricordato la figlia Anna.
Lomax riteneva la tradizione musicale italiana la più interessante in Europa. Il resoconto del viaggio si legge nel libro autobiografico L’anno più felice della mia vita (Il Saggiatore) e si ascolta nella serie dei dischi Italian Treasury. Accessibilissimi, e a tutti sconosciuti meno agli specialisti.

E qui viene il bello, o meglio, il giallo, o meglio il noir. Lomax entusiasta, dopo aver incontrato Alberto Moravia e Francesco Rosi, e dopo aver fornito le sue registrazioni a Pier Paolo Pasolini (che le userà per Decameron, senza citarlo), andò a parlare alla dirigenza Rai. Citò l’esempio delle piccole stazioni radio negli Usa, che trasmettevano musica del posto finanziandosi con la pubblicità locale. Il dirigente, il maestro Giulio Razzi, nel frattempo sorrideva.

Fu una scelta precisa della Rai, puntare su Sanremo (di cui Razzi era uno degli organizzatori) per la tv. La più potente e centralista azienda culturale italiana decise di concentrarsi sulla canzone derivata dalla tradizione Usa di Tin Pan Alley, il popolare italiano venne tolto di mezzo dai media prima ancora di entrarci. Risultato di questa scelta di paradigma: il pop della penisola nacque facendo fuori le proprie radici, e imitando la canzone Usa. Sarebbe giusto ricordare che l’irrilevanza di tanto pop mainstream italiano ha un’origine precisa.

Lomax riteneva la tradizione musicale italiana la più interessante in Europa. Bene: Sanremo l’ha distrutta

fonte https://www.linkiesta.it/it/article/2016/02/13/alan-lomax-racconta-come-sanremo-ha-annientato-la-musica-italiana/29259/

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