Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Clima: mala tempora currunt! Di Fiorentino Bevilacqua

Posted by on Nov 14, 2019

Clima: mala tempora currunt!                                      Di Fiorentino Bevilacqua

Giorni fa è balzata agli onori della cronaca la notizia che “oltre 11000 scienziati da tutto il mondo si sono uniti” e hanno dichiarato “chiaramente e inequivocabilmente che la Terra è di fronte a una emergenza climatica1.

“…sulla base di alcuni indici inequivocabili” (dei quali, evidentemente, non fanno parte, per esempio, questi2, questi3 e questi4, “ben 11258 scienziati e scienziate di 153 nazioni” hanno sottoscritto il solenne monito1.

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Woodall: «Eco-peccati? Attenzione, qui si rischia l’idolatria»

Posted by on Ott 28, 2019

Woodall: «Eco-peccati? Attenzione, qui si rischia l’idolatria»

«Ogni peccato è contro Dio e, in questo caso, è contro la natura umana, contro il prossimo. La natura sub-umana si ripercuote sulla natura umana. Negare, sminuire o offuscare la vera differenza tra l’essere umano e ogni altro elemento della creazione non è solo un grosso errore, ma è anche una violazione della fede». Il moralista George Woodall spiega alla Nuova BQ che i cosiddetti “peccati ecologici” «devono essere intesi in modo giusto». 

Nel corso dei briefing del Sinodo sull’Amazzonia di questi giorni, alcuni interventi hanno chiesto di porre maggiore attenzione ai cosiddetti “peccati ecologici”. Abbiamo domandato a don George J. Woodall, Ordinario di Teologia Morale al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum di Roma, qualche delucidazione in merito. Professor Woodall, tradizionalmente i peccati vengono distinti in peccati contro Dio, la prima tavola del Decalogo, e peccati contro il prossimo, la seconda tavola del Decalogo. Ironicamente: i “peccati ecologici” sono una terza tavola della legge? Le due tavole del Decalogo, precetti di amore che ci dicono come vivere l’Alleanza con Dio, rimangono quelle e sono sufficienti. Il settimo ed il decimo precetto aveva in origine il significato di non sequestrare le persone, ma presto divenne un problema di beni terreni, perché chi non ha da vivere rischia di morire, o di vivere al di sotto di un livello degno, a causa della trascuratezza e dell’egoismo degli altri. Ho fatto questa precisazione per dire che i due comandamenti che riguardano “le cose”, devono sempre essere considerati in relazione al prossimo e sono lo specchio del nostro amore verso Dio. Mi pare che i cosiddetti “peccati ecologici” devono essere intesi in modo giusto: se noi sfruttiamo i beni della terra, sprecando le risorse destinate per il bene di tutti, allora facciamo un torto al prossimo, sia per quanto riguarda il presente che il futuro: è il concetto di “giustizia intergenerazionale”, presente nella Caritas in Veritate. Da quanto lei dice, emerge un primo aspetto: il discorso ecologico lo si comprende eticamente solo se centrato sull’uomo. Nel Messaggio della Giornata mondiale per la Pace del 2010, Benedetto XVI metteva in evidenza il rischio di fraintendimento di un ecologismo che elimina la differenza tra l’uomo e la natura. Intendere il peccato ecologico come un peccato contro la natura e non contro il prossimo, non comporta proprio questo rischio? Ogni peccato è primariamente contro Dio e, in questo caso, è contro la natura umana, contro il prossimo. La natura sub-umana si ripercuote sulla natura umana. Negare, sminuire o offuscare la vera differenza tra l’essere umano e ogni altro elemento della creazione non è solo un grosso errore, ma è anche una violazione della fede. La Bibbia è chiarissima su questa distinzione. Anche San Tommaso si chiede se sia lecito uccidere qualsiasi essere vivente e risponde chiaramente che il mondo sub-umano è dato all’uomo per i suoi bisogni; non deve sfruttarlo irresponsabilmente, non deve essere crudele verso gli animali, ma può servirsene. Negare questo è una violazione della fede. Il discorso sull’ecologia all’interno della Dottrina sociale della Chiesa inevitabilmente deve fare i conti con una mentalità che considera l’uomo come frutto del caso o di un determinismo evolutivo. Non si rischia di creare un cortocircuito quando, per custodire il creato, si avallano posizioni di personaggi e movimenti che partono da presupposti di questo tipo? Questo è un grosso rischio, a diversi livelli. Diversi filosofi sostengono la pretesa che l’essere umano non sia altro che un animale così come attribuiscono il concetto di persona agli animali, attribuendo loro dei diritti. Dall’altra parte sostengono la liceità dell’eliminazione dell’essere umano, tramite, per esempio, l’aborto. Non stiamo parlando di un pensiero marginale, ma di una posizione ormai sempre più diffusa, esplicita ed influente. Gli animali non hanno diritti, bisogna dirlo chiaramente. E nel contempo si deve affermare che noi abbiamo delle responsabilità verso gli animali, perché parte della creazione di Dio. Gli animali, per esempio, sono esseri senzienti, che sentono piacere e dolore; riconoscendo questa loro natura, data dal Creatore, non ci è consentito essere crudeli o sfruttarli in modo insensato. Possiamo invece servircene nella misura del necessario. C’è anche l’altro problema, messo in evidenza da Caritas in Veritate, il panteismo. Esatto. Il creato non è sacro, se non nel senso di una realtà creata da Dio. Noi non possiamo adorare ciò che non è Dio, non possiamo pregare qualcosa che non è Dio. Questo è l’idolatria. Nella lettera ai Romani, Paolo afferma di essere stato “prescelto per annunziare il vangelo di Dio, […] riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore”. E denuncia coloro che “si dichiaravano sapienti”, ma sono invece stolti, perché “hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili”. E poi ai Corinzi dice che se la nostra fede riguarda solo questo mondo, allora la nostra predicazione è senza valore e siamo degli ingannatori. Non dobbiamo cadere né nell’idolatria, fosse anche velatamente, né nel sincretismo, che sono errori gravissimi. Altro discorso è rispettare quanti non sono ancora cristiani, dialogando con loro, ma in base a ciò che è vero, non a ciò che è falso. Esiste la tentazione di sostituire l’evangelizzazione con un’azione per corrispondere ai bisogni intramondani dell’uomo. Non sono un esperto, però mi pare che in qualche parte del mondo l’orizzontalismo abbia preso il sopravvento rispetto alla dimensione trascendente. E non mi sorprende che in queste zone vengano a mancare le vocazioni sacerdotali, mentre invece alcune sette pentecostaliste riescono a realizzare alcuni progressi. Se non si parla della vita dello spirito, della trascendenza di Dio, delle realtà escatologiche, perché rinunciare ad una vita “normale” per vivere il sacerdozio? Qualche giorno fa, l’Huffington Post ha pubblicato alcune annotazioni che Benedetto XVI aveva scritto in preparazione all’enciclica Caritas in Veritate, mettendo in evidenza che l’insegnamento della Chiesa sulla giustizia sociale “è etico (normativo)”. È chiaro che nella misura in cui la Dottrina sociale si pronuncia sul giusto (e quindi anche sull’ingiusto) rapporto dell’uomo con Dio e con il prossimo, essa risulta normativa. Però bisogna anche ricordare che lo stesso Benedetto XVI, sempre nel Messaggio per la Giornata per la Pace del 2010, aveva nel contempo chiesto di evitare “di entrare nel merito di specifiche soluzioni tecniche”. La competenza del Magistero riguarda la fede, per scongiurare qualsiasi animismo, sincretismo e idolatria, e poi la sfera morale. Il criterio fondamentale, che Giovanni Paolo II aveva già messo in luce, soprattutto nella Centesimus Annus (1991), è che la prima responsabilità ecologica è quella che riguarda la vita umana e la famiglia. Benedetto XVI lo ha ribadito nella Caritas in Veritate. Mi dispiace molto che più recentemente si sia utilizzata l’espressione “sviluppo sostenibile” di Jeffrey Sachs, che sostiene un’ideologia neomalthusiana, secondo la quale occorre ridurre le nascite, anche con la contraccezione, perché il sovrappopolamento è la prima minaccia. La Chiesa deve aprire gli occhi e percepire queste minacce ideologiche, per non compromettere le proprie affermazioni. Per quanto riguarda, l’uso della plastica, l’inquinamento degli oceani, etc., dobbiamo dire che ci sono delle minacce evidenti all’ambiente e quindi all’essere umano. La Chiesa ha in questo senso tutto il diritto di alzare la voce; ma le soluzioni tecniche non spettano al Magistero, anche se ci fosse un papa eminente scienziato. Altra è la norma morale positiva (prendersi cura dell’ambiente per il bene dell’uomo) e quella negativa (non sprecare le risorse, non inquinare), e altra la modalità concreta con cui questo deve avvenire, che dipende da concrete variabili tecniche, economiche, etc. Alla luce delle norme morali del Magistero, queste ultime spettano ai laici, secondo la loro vocazione, e le loro capacità e competenze specifiche. È questione di prudenza, di sobrietà. Certo. Il discorso è complesso. Per esempio, dei genitori che hanno risorse limitate, devono prima di tutto badare ai bisogni dei propri bambini e questo può significare dover acquistare prodotti che hanno un prezzo più contenuto ma non sempre sono “ecologici”. Occorre la prudenza, che valuta le circostanze concrete. Di certo, il Magistero non ha competenza scientifica e tecnologica; esso deve aiutarci a comprendere che siamo custodi del creato e darci indicazioni generali in questo senso. A volte si ha l’impressione che il problema dello sfruttamento delle risorse, del rispetto della natura debba essere risolto con una “marcia indietro” o una frenata dello sviluppo. Non dobbiamo fare una retromarcia, ma capire il concetto di sviluppo integrale, che Benedetto XVI ha approfondito e che papa Francesco ha ripreso. È nel Vaticano II che è stata messa a fuoco la distinzione tra ciò che un uomo ha e ciò che un uomo è: l’essere precede l’avere ed è gerarchicamente superiore all’avere. Di per sé, avere di più, pur essendo necessario per lo sviluppo integrale, non garantisce un autentico sviluppo umano. Neanche avere di meno… Neanche avere di meno. Il punto è lo sviluppo di tutte le dimensioni dell’essere umano, compresa quella spirituale, anzitutto all’interno della famiglia in cui le persone nascono e crescono. La cultura è un elemento chiave per lo sviluppo umano. Quanto più la cultura dell’uomo avanza e si libera da deviazioni ed errori, tanto più il suo rapporto con l’economia e l’ambiente diventa sano. Giovanni Paolo II ha fatto delle importanti differenze. C’è cultura e cultura; c’è la cultura della vita e la cultura della morte. Nelle diverse culture non tutto è buono; è assolutamente vero che bisogna vedere i pregi presenti nelle diverse culture, senza pregiudizi, però bisogna anche criticare quegli aspetti mancanti o peccaminosi, che esistono dappertutto. È quanto la Chiesa ha sempre cercato di fare. Evangelizzare la cultura significa purificarla. Giovanni Paolo II, nella Sollicitudo Rei Socialis, scrisse con chiarezza che la questione dello sviluppo è fondamentalmente culturale e morale. Per esempio, le persone analfabete sono sprovviste delle possibilità concrete per promuovere il proprio sviluppo e dipendono radicalmente dagli altri per ogni cosa. E qui c’è un rischio di sfruttamento. Ecco l’importanza dell’educazione, dell’accesso alla cultura, ma sempre tenendo presente il divario tra la cultura buona, valida, moralmente giusta e quella della morte e del peccato. E qui si comprende ancora di più l’importanza dell’evangelizzazione, senza la quale mancano un “punto di osservazione” e i criteri per giudicare una cultura. Esattamente. Questo è il perno di tutto il discorso. In tutte queste questioni il criterio del bene e del male è decisivo, e lo comprendiamo sempre più profondamente alla luce della Rivelazione. Lo sviluppo che ignora o scarta la dimensione trascendente dell’uomo è un falso sviluppo. Chiaramente l’uomo ha bisogno dell’ambiente, però è anche vero che l’ambiente ha bisogno dell’uomo; la natura non è in sé perfetta. Purtroppo c’è questa ideologia, ma è del tutto insensata. La natura in se stessa può essere terribile; quando gli scienziati danno il meglio di sé, si può arrivare ad un controllo della natura che permette di prevenire inondazioni, limitare i danni di un terremoto, impedire epidemie. Senza questa attività dell’uomo la natura può diventare matrigna e noi non avremmo la possibilità di tutelarci. Non esistono paradisi su questa terra, nemmeno paradisi ecologici.

Luisella Scrosati

fonte https://lanuovabq.it/it/woodall-eco-peccati-attenzione-qui-si-rischia-lidolatria

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“Ideologia climatista”

Posted by on Ott 6, 2019

“Ideologia climatista”

Il relativismo è la linfa dell’ambientalismo trasformato in religione millenarista

Quando è nato il mostro? Da quando esattamente l’ambientalismo ha abbandonato il suo core business – il miglioramento della qualità della vita umana attraverso la salvaguardia dell’habitat naturale – per trasformarsi in una religione millenarista della dea Gaia? Da quando la lotta all’inquinamento si è trasfigurata in una “crociata dei bambini” “condita da toni apocalittici, in un culto settario che minaccia catastrofi e fine del mondo imminente, predicando al genere umano penitenza per la sua impurità, mortificazione, decrescita economica, povertà? La verità è che fin da quando ha cominciato a prendere forma come cultura politica l’ecologismo ha manifestato una certa tendenza a essere declinato come lotta per la “salvezza del mondo”: non a beneficio della civilizzazione umana, ma in primo luogo da essa. E la ragione di questa tendenza sta nella grande frattura storica nella quale i movimenti e i partiti “verdi” occidentali affondano le loro radici: la grande ribellione generazionale degli anni Sessanta. Le ideologie otto-novecentesche, con i loro sviluppi totalitari, erano state le più potenti espressioni della pretesa gnostica insita nella modernità secolarizzata europea: liberare l’umanità dal male attraverso la costruzione di una società perfetta, senza conflitti né squilibri.


Nella seconda metà del Novecento l’implosione tragica dei totalitarismi o la loro consunzione (come nel caso del comunismo sovietico) generavano un enorme vuoto culturale e psicologico, non compensato dal loro principale antagonista, il modello occidentale di democrazia fondato su mercato, welfare e consumi: troppo lontano da un’idea condivisa di “vita buona” per poter colmare una sete di senso radicale, non più soddisfatta dall’appartenenza religiosa. A quel vuoto i movimenti giovanili dell’epoca risposero – sulla scorta di nuovi ideologi come i pensatori “impegnati” di scuola esistenzialista o francofortese – costruendo un nuovo mito gnostico di liberazione: il rinnegamento della ragione occidentale come strutturalmente imperialista e dominatrice, in favore di un ideale neo-rousseauiano di ritorno dell’umanità all’innocenza primitiva. Questo mito si traduceva da allora in poi in una cultura politica presto egemone tra le nuove élite occidentali: quella che Mathieu Bock-Côté ha definito “utopia diversitaria”. Un relativismo radicale in cui tutto ciò che è Altro rispetto alla tradizione euro-occidentale di civiltà – culture, religioni, condizioni esistenziali, stili di vita – assume in quanto tale un ruolo di modello virtuoso, e anzi salvifico. Il multiculturalismo da un lato, l’idea di una totale autodeterminazione soggettiva in campo biopolitico dall’altro, sono state le architravi del progressismo diversitario, le basi su cui si è consolidata quella che Joseph Ratzinger ha definito la “dittatura del relativismo”.

Ma l’interesse politico per i temi ambientali sviluppatosi a partire da allora ha assimilato lo stesso presupposto antioccidentale, la stessa aspirazione alla purificazione, lo stesso relativismo, declinato come visione antiumanistica del rapporto tra l’umanità e il pianeta. La cultura ecologista era nata in occidente tra Otto e Novecento come reazione agli squilibri causati dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione, e si traduceva in un’idea “conservazionista”: preservare il paesaggio e l’ambiente naturale come patrimonio della civiltà, suo valore aggiunto, elemento non semplicemente naturale ma culturale. Con l’affermarsi del neo-naturalismo proclamato dai contestatori degli anni Sessanta, l’ambiente cominciava a essere considerato come un valore in sé, un Eden a cui ritornare, e l’uomo come un elemento complementare, quando non addirittura un possibile disturbo all’armonia naturale. Nel decennio successivo, poi, il neo-misticismo ambientalista si fuse con il neo-malthusianesimo tecnocratico, da quando nel 1972 il rapporto Meadows del Club di Roma elaborò l’idea dello “sviluppo sostenibile”: la civilizzazione umana può sussistere soltanto se si autolimita (nelle nascite, nei consumi, nello sviluppo industriale), pena uno squilibrio ambientale complessivo dagli esiti catastrofici.

Il terrore instillato dai possibili esiti apocalittici dell’èra nucleare (tanto militari quanto civili) fece il resto. Sicché i movimenti verdi cominciarono fin dalla loro origine (tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta) ad allontanarsi decisamente dal conservazionismo per concentrarsi sull’idea che occorresse fermare una deriva altrimenti inarrestabile verso la distruzione totale della civiltà e della vita sul pianeta, riportando indietro in qualche modo l’orologio della storia. L’ambientalismo si nutrì sempre più di teorie come, appunto, l’“ipotesi Gaia” di James Lovelock (la teoria secondo cui il pianeta è un grande essere vivente, di cui l’umanità è parte non indispensabile) o quella dell’“impronta ecologica” di Wackernagel e Reeves, in base alla quale la civiltà umana è tanto migliore quanto meno modifica e condiziona l’equilibrio ambientale complessivo. Ne deriva la crescente caratterizzazione dell’ambientalismo come teoria della decrescita, anti industrialismo, talvolta esplicito antiumanesimo (come nell’antispecismo animalista). E parimenti una altrettanto crescente tendenza alla sua declinazione in termini dogmatici, una propensione alla condanna di ogni critica al catastrofismo come eresia, e infine la sua riduzione a un rito di purificazione ed espiazione collettivo, con le sue liturgie (l’ossessione del riciclo dei rifiuti tra queste) e i suoi profeti.

La santificazione della giovane Greta come Giovanna d’Arco, vergine e martire, della nuova religione secolare è un esito logico di questa vicenda. Solo uscendo dall’equivoco antioccidentale, neo rousseauiano e relativista da cui l’ambientalismo politico contemporaneo ha tratto molta della sua linfa si potrà tornare a trattare dei problemi di salvaguardia dell’ambiente nei termini e nelle proporzioni a essi adeguati. E soprattutto come parte di un discorso sulla civilizzazione umana, e sui suoi necessari fondamenti spirituali.

Di Eugenio Capozzi da Il Foglio del 27/09/2019

fonte https://alleanzacattolica.org/ideologia-climatista/

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Olive in Salamoia

Posted by on Set 27, 2019

Olive in Salamoia

La conservazione degli alimenti è da sempre un argomento di fondamentale importanza e la sopravvivenza stessa di intere popolazioni è stata spesse volte pregiudicata dall’impossibilità di custodire e preservare i prodotti dell’agricoltura, della caccia e dell’allevamento dall’inevitabile deterioramento dovuto ai processi di decomposizione.

Nel secolo ultimo scorso, ed in parte anche in quello precedente, si sono susseguite diverse invenzioni tutte rivolte al perfezionamento dei cicli industriali utili al prolungamento della commestibilità dei cosiddetti prodotti alimentari deperibili.

Anticamente il sistema principe della conservazione era rappresentato dalla salatura ed essiccazione.

Pochi erano i cibi che potevano garantire naturale durabilità quali l’olio d’oliva, i legumi, le granaglie, la frutta secca etc.

Molti prodotti elaborati quali il formaggio, il vino, le melasse, le frutte candite etc., da un punto di vista prettamente alimentare rappresentano un “modo” per garantire una maggior durabilità nel tempo dell’alimento base di partenza.

Parliamo delle olive in salamoia

Vi sono delle qualità di olive, ricche di polpa, che fin dai tempi più remoti sono state utilizzate, dopo opportuna lavorazione, come utile companatico o contorno.

I processi di addolcimento sono molto semplici, se ne citano alcuni:

  1. Dilavaggio ( ricambio continuo dell’acqua in cui il prodotto è immerso al fine di far perdere e/o diluire l’acqua di vegetazione contenuta nella polpa)
  2. Immersione in salamoia ( acqua e sale, in tal modo oltre all’addolcimento si ha un prolungamento della durabilità del prodotto)
  3. Immersione in acqua e cenere ( come sopra )
  4. Essiccazione al sole o in forno con contemporanea salatura.

Dopo la “purificazione”, ovvero l’eliminazione dei componenti chimici che danno all’oliva fresca il classico sapore amaro, si procede al condimento e quindi al consumo.

Si evince dunque che il metodo principale di conservazione è quello di mantenere il prodotto in salamoia, di estrarlo poco prima del consumo procedendo, prima di servirlo ( 12-24 ore prima) a condirlo secondo i propri gusti e/o le più disparate ricette regionali.

Al giorno d’oggi l’oliva in salamoia è di fatto un prodotto industriale e pochi super-affezionati del prodotto naturale si cimentano ancora nella conservazione di tipo familiare per quanto semplice essa possa essere.

Vediamo cosa ci offre il mercato!

Entriamo in un supermercato/ipermercato che sia , nella cosiddetta zona “scatolame” si rintraccia il sottoreparto delle confezioni di olive che sono vendute o in vasetto di vetro, o in lattina o in blister di PET.

Ultimamente, in taluni ipermercati, hanno fatto di nuovo capolino le olive sfuse e/o comunque confezionate sotto vuoto.

Detto questo, possiamo tranquillamente premettere, se non concludere, che oggi l’oliva in salamoia giunge sulle nostre tavole o sui banchi dei bar, previo confezionamento industriale.

Cosa offre il mercato per il consumo al dettaglio?

Diverse marche sono presenti sugli scaffali, quali (si useranno dei nomi di fantasia): Pontiac, Pollix, Oplà, etc.; ultimamente le grandi catene di ipermercati e supermercati hanno scoperto il loro marchio, cioè fanno confezionare da aziende terze, prodotti a marchio proprio come Ippert, Ellecorta, Osceanix, Gigantibus etc…

Per brevità di esposizione sono stati presi ad esempio due confezioni di olive in salamoia in vasetto, una Pontiac e l’altra Ellecorta, acquistate ambedue nel medesimo supermercato, vediamone i risultati:

Vasetto PONTIAC

Provenienza dichiarata del prodotto: GRECIA

Aspetto prodotto : Verde, integro con nocciolo

Peso complessivo netto : 360 g

Peso del prodotto sgocciolato : 210 g

Ingredienti : olive, acqua, sale, antiossidante acido L-ascorbico, correttore di acidità, acido lattico.

Prezzo del vasetto : 1,75 € ( 3.380 Lit)

Luogo di produzione : Ghemme ( Novara)

Cimentiamoci ora nell’analisi industriale del valore.

  1. Tenendo conto che il prezzo delle olive, prima di qualsiasi trattamento è di ca. 51,65 € al q.le ( 100.000 Lit/qle)
  2. Si calcola il valore del prodotto di base all’interno del barattolo pari a : 0,11 € ( Lit. 213 )
  3. Il valore della lavorazione in salamoia, stoccaggio, trasporto etc. : 0,15 € ( Lit. 300 )
  4. Costo del vasetto, capsula, etichetta ….: 0,18 € ( Lit. 350 )
  5. Costo della distribuzione : 0,05 € ( Lit. 100 )
  6. Prezzo al distributore : 1,25 € ( Lit. 2.420 )
  7. Prezzo al pubblico : 1,75 € ( Lit. 3.380 )

Dall’analisi dei costi sopra riportati si evince che il valore del prodotto, all’interno della confezione ( olive lavorate ) , pari a 0,26 € , rappresenta il 15 % del valore terminale di filiera, cioè del prezzo al pubblico.

All’azienda PONTIAC, resterebbe un margine netto, prima dei costi generali e delle tasse di ( 1,25-0,49)= 0,76 € cioè il 43 % del prezzo al pubblico.

Alla catena dei distribuzione resterebbe un margine netto, prima delle spese generali e delle tasse, di (1,75-1,25)= 0,5 € cioè il 28,5% del prezzo al pubblico.

I dati sopra elencati dimostrano perché le grandi catene di distribuzione abbiano da qualche tempo iniziato a produrre con proprio marchio, sfruttando la cosiddetta fidelizzazione della clientela.

E’ evidente che erodere il margine dell’azienda “produttrice”, che nel nostro caso è risultato del 43% rispetto al prezzo terminale, può essere di grande impatto da un punto di vista commerciale, vediamo come.

Vasetto ELLECORTA (prodotto per conto della catena di distribuzione)

Provenienza dichiarata del prodotto: NON DICHIARATA

Aspetto prodotto : Verde, snocciolato

Peso complessivo netto : 350 g

Peso del prodotto sgocciolato : 160 g

Ingredienti : olive HAJBLANCA, acqua, sale, antiossidante acido L-ascorbico, correttore di acidità, acido citrico.

Prezzo del vasetto : 1,16 € ( 2.240 Lit)

Luogo di produzione : Sossano ( Vicenza)

Cimentiamoci ora nell’analisi industriale del valore.

  1. Tenendo conto che il prezzo delle olive, prima di qualsiasi trattamento è di ca. 51,65 € al q.le ( 100.000 Lit/qle)
  2. Si calcola il valore del prodotto di base all’interno del barattolo Compresa la snocciolatura pari a : 0,11 € ( Lit. 213 )
  3. Il valore della lavorazione in salamoia, stoccaggio, trasporto etc. : 0,15 € ( Lit. 300 )
  4. Costo del vasetto, capsula, etichetta ….: 0,18 € ( Lit. 350 )
  5. Costo della distribuzione : 0,02 € ( Lit. 50 )
  6. Prezzo pagato all’azienda affiliata per la produzione : 0,81 € ( Lit. 1.568 )
  7. Prezzo al pubblico : 1,16 € ( Lit. 2.240 )

In questo caso il valore del prodotto all’interno del vasetto ( olive lavorate ) , pari a 0,26 € , rappresenta il 22,4 % del valore terminale di filiera, cioè del prezzo al pubblico.

All’azienda “LABORATORIO AFFILIATO di ELLECORTA”, resterebbe un margine netto, prima dei costi generali e delle tasse di ( 0,81-0,49)= 0,32 € cioè il 27,6 % del prezzo al pubblico.

Alla catena dei distribuzione resterebbe un margine netto, prima delle spese generali e delle tasse, di (1,16-0,81)= 0,35 € cioè il 30,% del prezzo al pubblico.

E’ del tutto evidente che la grande distribuzione spinge tale prodotto poiché, pur guadagnando più o meno la stessa cifra in termini percentuali ( 28,5 % contro il 30 %), garantisce un certo richiamo di clientela poiché il prezzo del vasetto “ELLECORTA” è del 32 % inferiore rispetto al vasetto PONTIAC, e un primo prezzo così allettante è sicuramente garanzia di afflusso di clientela.

Ma il prezzo è giusto ?

Abbiamo detto che le olive già trattate e all’ingrosso, possono avere un costo così composto:

Prodotto base : 51,65 € ( Lit. 100.000/qle)

Lavorazione : 25, 82 € ( 50.000 / qle)

Stoccaggi e trasporti : 25,82 € ( 50.000 / qle)

Dunque il costo di un kg di olive in salamoia, acquistate all’ingrosso e/o fatte in casa può collocarsi intorno ad 1 €/kg ( 2000 Lit/kg)

Vediamo ora quanto costa il prodotto industriale confezionato:

Caso PONTIAC

Prezzo del vasetto : 1,75 € (Lit. 3380)

Peso del prodotto sgocciolato : 210 g

Prezzo al kg : 8,31 € ( 16.095 Lit/kg), pari a nove volte il valore del prodotto sfuso a “Bocca” di salamoificio.

Nel caso ELLECORTA

Prezzo del vasetto : 1,16 € (Lit. 2240)

Peso del prodotto sgocciolato moltiplicato per 1,3 perché snocciolato : 208 g

Prezzo al kg : 5,56 € ( 10.770 Lit/kg), pari a sei volte il valore del prodotto sfuso a “Bocca” di salamoificio.

E’ evidente che siamo di fronte a prodotti di lusso e non è escluso che prossimamente le olive in salamoia saranno vendute in oreficeria.

Conclusioni

Non si vuole assolutamente entrare nel merito della qualità ma è evidente che i prodotti che sono stati oggetto di tale verifica si collocano nella media di un prodotto industriale assolutamente non comparabile con quello artigianale o casalingo.

Non risulta altresì che la campagna del novarese o quella vicentina siano ricche di ulivi e pertanto sarebbe anche imbarazzante, a mio avviso, parlare di garanzia di qualità del prodotto, quando questo è trattato e confezionato in zone così lontane dai luoghi di coltivazione.

Tralasciamo inoltre gli aspetti ecologici connessi con il confezionamento parcellizzato all’estremo e facciamo le seguenti semplici considerazioni.

  1. Il valore aggiunto della lavorazione delle olive e del relativo confezionamento è a tutto vantaggio delle industrie la cui gran parte è ubicata, chissà perché, a ca. mille chilometri, nella migliore delle ipotesi, dalle zone di coltivazione.
  2. Nella zona di produzione il coltivatore guadagna percentuali a livello di prefisso telefonico o peggio.
  3. Sulle confezioni raramente è indicato il luogo di provenienza delle olive e ciò è estremamente disorientante oltre che scorretto nei confronti del consumatore.
  4. L’industria di confezionamento è concentrata al centro/nord, dunque ivi trattiene il quasi totale valore aggiunto ( 70 % del prezzo terminale)
  5. Le Aziende della distribuzione hanno tutte sede nel centro/nord, con punti vendita ovviamente anche al Sud, pertanto anche il residuale 30% di margine è drenato dal Sud verso Nord a meno della retribuzione del personale ivi operante.
  6. Perché i nostri politici non incentivano il confezionamento dei prodotti agricoli in prossimità delle zone di produzione ? e perché i consumatori con le relative associazioni non si rendono conto di ciò?
  7. Non si creda, ma il business dell’industria conserviera in genere, ovvero del porzionamento e confezionamento è notevolissimo nel panorama del settore alimentare; senza addentrarci in altri prodotti, meritevoli di indagini più approfondite, si intuisce che dietro quest’industria, che esporta anche all’estero, ci sono molti posti di lavoro, che per il momento devono restare al Nord anche se ciò va a scapito della qualità e della tutela del consumatore.

Un po’ di speranza…

In effetti qualche azienda della grande distribuzione inizia a commissionare il confezionamento ad aziende meridionali e dunque prossime ai territori di coltivazione, anche diverse aziende produttrici meridionali iniziano a far capolino sugli scaffali, qualcosa si muove, ma siamo ancora di fronte a casi sporadici e ancora lontani da una replicazione significativa.

Cosa può fare il consumatore?

  1. Privilegiare il prodotto confezionato nel meridione d’Italia, generalmente migliore e più economico.
  2. Privilegiare l’acquisto del prodotto sfuso con dichiarazione di provenienza.
  3. Se può, vuole ed è vicino alle zone di produzione delle olive da salamoia, cimentarsi nell’autoproduzione, sicura garanzia di enormi risparmi, genuinità assoluta e successo in tavola.

Meditate gente… meditate.

Domenico Iannantuoni

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Quando i Borbone vietavano con un Decreto l’uso di veleni in agricoltura – 1837

Posted by on Lug 19, 2019

Quando i Borbone vietavano con un Decreto l’uso di veleni in agricoltura  – 1837

Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, 6 agosto 1837

Nella “Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie (del 6 agosto 1837)” vi era anche il decreto numero 4164,  che nell’agosto 1837 vietava l’uso di veleni in agricoltura nel regno delle Due Sicilie. Si legge : “Decreto con cui vien prescritto essere reati di competenza delle Commissioni militari lo spargimento di sostanze velenose, ovvero le vociferazioni che si sparga veleno, tendente a turbare la pubblica tranquillità“.

Questo decreto giunse dopo le insurrezioni del colera di un mese prima, allorchè i Borbone furono accusati dai liberali, di essere stati loro a introdurre il colera.

L’Europa del 1837 era invasa dal colera che fra aprile e giugno si diffuse anche a Napoli e in Sicilia. In quegli anni i medici non sapevano bene quale fosse l’origine e come si fosse propagata la malattia, ed erano divisi tra epidemisti e contagionisti. Fu proprio Ferdinando II che confutò le tesi contagioniste. In quei mesi a Napoli si erano verificate tensioni popolari in quanto si era diffusa la notizia che il colera fosse stato causato da un veleno portato in città e diffuso attraverso il pane. Ferdinando II incurante di quella notizia si recò a piedi nei vicoli popolani napoletani e “a stretto contatto con il suo popolo […] mangiò con essi il calunniato pane“.

L’ipotesi che il colera sarebbe stato provocato da un veleno (cvd) fu sfruttata dai liberali e dai carbonari meridionali per insorgere contro i sovrani duosiciliani e, sia con fini politici sia con fini personali, furono loro a cacciare l’ulteriore notizia che quel veleno sarebbe stato diffuso dallo stesso governo borbonico. La calunnia, che avrebbe dovuto sollevare la Sicilia contro i Borboni, scatenò una serie di feroci cacce agli untori, provocando il massacro di molti innocenti. Spesso i liberali non riuscirono a controllare la furia popolare che essi stessi avevano eccitato. L’insurrezione iniziò a Palermo il 15 luglio. La paura dilagò fra la popolazione tant’è che in Siracusa ad esempio, molti siracusani vennero accusati di essere gli “avvelenatori” e furono massacrati dai loro stessi concittadini. Il 23 luglio il popolo insorse contro i borbonici, abbandonandosi ad ogni sorta di violenza.

Fu istituita una commissione di cittadini “probi e preparati” con il compito di giudicare i fatti e gli accusati; ma in essa c’erano anche i propugnatori della teoria del veleno, che erano tutti filo liberali e filo unitari. La commissione stabilì quindi, che la sostanza adoperata era il nitrato di arsenico. Ne conseguì che  si instaurò un governo provvisorio (filo liberale, filo unitario e inneggiante al tricolore italiano savoiardo), il quale proclamò lo stato d’assedio, dispose l’arresto delle autorità governative (fedeli ai Borbone), e costituì un comitato di salute pubblica.

 Nei mesi successivi  Ferdiando II riportò ordine nel suo regno e amnistiò tutti i popolani che avevano aderito alla rivolta, ma non concesse il real perdono ai capi politici e a coloro  che avevano fatto furti, saccheggi e omicidi.

fonte http://belsalento.altervista.org/quando-i-borbone-vietavano-con-un-decreto-luso-di-veleni-in-agricoltura-nel-1837/

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Ischia, V secolo a.C.: la nascita di un nuovo vulcano

Posted by on Lug 2, 2019

Ischia, V secolo a.C.: la nascita di un nuovo vulcano

a cura di Sandro de Vita, Socio AIV

INGV, Sezione di Napoli Osservatorio Vesuviano

Anno 474 a.C., la colonia greca di Cuma ha appena sconfitto gli Etruschi in una sanguinosa battaglia navale, combattuta nelle acque antistanti il promontorio di Miseno, e vinta solo grazie all’intervento della flotta di Ierone di Siracusa.  Il debito di Cuma nei confronti del tiranno siracusano è grande, in quanto la sconfitta etrusca aveva segnato la fine dell’egemonia di questo popolo sul Tirreno, lasciando ampi spazi all’espansione dei commerci della Magna Grecia e isolando la dodecapoli etrusca in Campania. In segno di gratitudine, quindi, ma anche per mantenere un saldo avamposto alleato, i cumani offrirono a Ierone la possibilità di stabilire un presidio sull’isola d’Ischia, detta allora Pitecusa, l’isola dei vasai.

Le brume dell’alba lentamente si dissolvono al levar del sole sulla palude costiera, all’estremità nord-orientale dell’isola. Il promontorio basso e tozzo che la delimita a oriente sembra una piccola acropoli: il luogo ideale per costruire il tempio che darà protezione all’attracco delle barche da pesca, nella baia e sulla spiaggia, al di là della collina. Ierone, ad Olimpia, ha già offerto a Zeus gli elmi sottratti ai nemici. E’ tempo quindi che anche la guarnigione siracusana a Pitecusa renda il suo tributo agli dei: ad Apollo, forse, o ad Artemide, protettrice di Siracusa.

D’improvviso uno stormo di folaghe si alza in volo, con fragore, abbandonando il canneto fra le grida di altri uccelli nascosti, una coppia di aironi silenziosamente si allontana: forse un predatore, chissà. Poi torna la quiete, un silenzio quasi innaturale, e la terra comincia a tremare, brevemente, in un sommesso brontolio che viene dal profondo, dalle viscere della terra. Ma d’altra parte si sa, i coloni locali e gli indigeni lo dicono, questa terra è inquieta e l’isola va spesso soggetta a scuotimenti tellurici. Poco male, il progetto è già pronto, il tempio si farà…

Anno 2005, i lavori per la costruzione di un depuratore sulla collina di S. Pietro, a est del Porto d’Ischia, mettono in luce i resti della costruzione di un tempio, risalenti al V secolo a.C.: pile di tegole accatastate, lastre di rivestimento decorate, frammenti di antefisse acrome, cataste di mattoni e altri elementi architettonici, testimoniano della presenza di un vero e proprio cantiere, approntato sulla collina per la costruzione di un tempio e abbandonato frettolosamente con tutti i materiali pronti all’uso, seppelliti dai depositi dell’eruzione che formò il cratere dell’attuale Porto d’Ischia (Figg. 1a e b).

L’eruzione (Fig. 2a-d) cominciò con un’esplosione probabilmente innescata dal rilascio improvviso dei gas in pressione, dovuto al surriscaldamento e alla vaporizzazione di acqua superficiale o di una falda a bassa profondità. L’esplosione provocò la formazione di una nube eruttiva di cenere accompagnata dall’espulsione di una grande quantità di frammenti litici, prodotti dall’apertura e dall’allargamento del condotto eruttivo (Fig. 2a).

Blocchi litici fino ad un metro di diametro e brandelli di magma ancora parzialmente fuso furono scagliati tutt’intorno al centro eruttivo e depositati al suolo seguendo traiettorie balistiche, durante la ricaduta continua della cenere dalla nube eruttiva. I primi frammenti balistici, ricadendo sulla collina, impattavano le pile di materiali da costruzione, determinandone la distruzione e il ribaltamento (Fig. 3).

Dopo l’espansione esplosiva di gas e vapore che aveva causato l’apertura del condotto eruttivo l’acqua di falda, inizialmente allontanata dall’onda d’urto, cominciava ad invadere il condotto, interagendo efficacemente con il magma in risalita e provocando forti esplosioni freatomagmatiche (Fig. 2b). La disponibilità di acqua in abbondanza, probabilmente connessa con l’esistenza di una palude costiera in corrispondenza del centro eruttivo, è testimoniata dalla presenza nei depositi cineritici di resti di materiale torboso e sedimenti palustri di argille ancora plastiche.

Durante questa fase dell’eruzione l’esplosività andava progressivamente aumentando, determinando la frammentazione spinta del magma e la formazione di ceneri finissime, che venivano distribuite attorno al centro eruttivo attraverso la formazione di correnti piroclastiche diluite e turbolente (base surges). Questa è la fase più energetica dell’eruzione, durante la quale le correnti piroclastiche si propagavano radialmente a partire dal centro eruttivo (Fig. 2b), spazzando ad alta velocità la collina e lasciando su di essa un deposito di cenere di circa 3 m di spessore, che seppellì il sito su cui si stava edificando il tempio. L’accumulo dei materiali piroclastici anche attorno al centro eruttivo e il probabile allargamento del condotto, unitamente ad una ridotta disponibilità di acqua di falda, rimasta in qualche modo tagliata fuori dal condotto, determinarono un cambiamento nello stile eruttivo, probabilmente dovuto anche all’arrivo in superficie di un magma già in parte degassato e quindi meno esplosivo. L’eruzione quindi proseguì con una fase Stromboliana che, verosimilmente, dovette protrarsi a lungo, per giorni o settimane, determinando la deposizione di uno spesso livello di scorie da caduta e di ceneri grossolane, connesse con la formazione di una colonna eruttiva bassa e instabile (Fig. 3c). Con l’arrivo di magma sempre più degassato e con la progressiva diminuzione dell’esplosività, dopo una breve fase di fontanamento di lava che depose scorie saldate attorno al centro eruttivo (Fig. 3c), l’eruzione andò perdendo di energia e si esaurì con il ristagno del magma residuo che si solidificò all’interno del condotto (Fig. 3d). L’eruzione lasciò un cratere di circa 400 m di diametro, che in seguito venne colmato dall’acqua, formando un piccolo lago costiero, separato dal mare da una barra di poche decine di metri di larghezza (Fig. 4a).

Sebbene questa eruzione sia stata di energia abbastanza ridotta, essa ebbe un impatto locale devastante, distruggendo l’insediamento che stava nascendo sulla collina e modificando l’aspetto del territorio circostante, con la formazione di un nuovo lago. Le fonti storiche confermano che furono abbandonati sia il progetto della costruzione del tempio sia il presidio da parte della guarnigione siracusana. La locale colonia greca di Pitecusa invece, sebbene profondamente colpita da questa calamità naturale, proseguì la sua esistenza sull’isola, anche a dispetto di due ulteriori episodi effusivi che, successivamente, interessarono la zona del lago.

Il lago d’Ischia, o lago de’ Bagni, come a lungo è stato chiamato nei secoli a venire, ha continuato ad essere frequentato fino ai nostri giorni, dimostrando una eccezionale resilienza della locale popolazione, che ha imparato a sfruttare la potenziale fonte di ricchezza costituita dalle sorgenti termali e dalle fumarole ad alta temperatura a scopi curativi e per attività ricreative.

Fino alla metà del XIX secolo il lago rimase tale, anche se sin dal 1670 era stato aperto un canale artificiale, non navigabile, per consentire il ricambio delle acque. Nel mese di luglio del 1853 infine, per ordine del re Ferdinando II di Borbone, cominciarono i lavori per la rimozione dell’istmo di terra che separava il lago dal mare per trasformare l’antico cratere in un porto (Fig. 4b). Il 17 settembre del 1854, con una solenne cerimonia, il nuovo porto fu inaugurato e ancora oggi costituisce il principale approdo dell’isola (Fig. 5).

Fino alla metà del XIX secolo il lago rimase tale, anche se sin dal 1670 era stato aperto un canale artificiale, non navigabile, per consentire il ricambio delle acque. Nel mese di luglio del 1853 infine, per ordine del re Ferdinando II di Borbone, cominciarono i lavori per la rimozione dell’istmo di terra che separava il lago dal mare per trasformare l’antico cratere in un porto (Fig. 4b). Il 17 settembre del 1854, con una solenne cerimonia, il nuovo porto fu inaugurato e ancora oggi costituisce il principale approdo dell’isola (Fig. 5).

fontehttps://www.aivulc.it/it/archivio-notizie/107-ischia-v-secolo-a-c-la-nascita-di-un-nuovo-vulcano.html?fbclid=IwAR36qeZOjf74dZEnw0Azsb2BOtNTL2rYE8mdL8Eavn680-ErKchUREPFDVg

segnalato da Fiorentino Bevilacqua

Figura 1. a) le cataste di tegole abbattute dai depositi dell’eruzione. (foto di S. De Vita)
Figura 4b) dettaglio dei materiali da costruzione (foto di S. de Vita)
Figura 2. Le fasi dell’eruzione del Porto d’Ischia. a) fase di apertura; b) fase freatomagmatica principale; c) fase stromboliana; d) solidificazione del magma residuo all’interno del condotto eruttivo (da de Vita et al., 2013)
Figura 3. L’impatto dei blocchi balistici sulle cataste di materiali da costruzione. Le frecce rosse indicano la direzione di provenienza (da de Vita et al., 2013)
Figura 4. a) il lago d’Ischia nel XVIII secolo
Figura 4b) i lavori per l’apertura del Porto d’Ischia nel 1853
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