Alta Terra di Lavoro

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Riso di Sibari: il gioiello calabrese si classifica come “il migliore d’Italia”

Posted by on Giu 23, 2019

Riso di Sibari: il gioiello calabrese si classifica come “il migliore d’Italia”

Il Riso di Sibari si produce grazie alla coltivazione di una pianta con cadenza annuale chiamata Oryza sativa, scoperta nella catena montuosa dell’Himalaya e successivamente diffusa in Medio Oriente Africa ed Europa. Secondo alcune fonti storiche, il transito di questa pianta dal Sud Italia ne ha determinato la sua importante e preziosa presenza sul territorio calabrese.

“Nu piattu i ris, n’ura i panza tis”: (“Un piatto di riso si digerisce velocemente”) è questa la tipica affermazione del calabrese che si ritrova in tavola un piatto di riso fumante…ma non un comune riso commerciale, bensì il “Riso di Sibari”, invidiato da milioni di produttori di riso per le sue speciali proprietà organolettiche dovute al microclima e al territorio calabrese nella quale viene coltivato viene coltivato.

Coltivato nella Piana di Sibari dove sono presenti circa 600 ettari di terreno adibito alla sua coltivazione, il riso della Piana di Sibari da decenni è riuscito a posizionarsi bene sul mercato sia nazionale che mondiale e ad ottenere molta fiducia da parte dei consumatori che soprattutto in Italia lo usano, con la sua versatilità, in numerose ricette.

Riso di Sibari: alta qualità calabrese

Diverse le particolarità del Riso di Sibari: oltre ad essere coltivato nel territorio calabrese, viene anche lavorato in maniera totalmente artigianale in Calabria: mediante una sbramatura poco invasiva e leggera, il riso di Sibari giunge sulle tavole degli italiani mantenendo tute le sue qualità benefiche ed il suo sapore deciso e intenso, sinonimo della sua alta qualità.

Diverse e varie le tipologie di Riso di Sibari: si passa da un Carnaroli che mantiene al meglio la cottura ad un Integrale che sprigiona tutte le sue proprietà organolettiche, sino ad arrivare ai più pregiati “Aromatico” che sprigiona sin dal primo minuto di cottura i profumi intensi della sua terra e “Nero”, dal chicco integrale e pregiato, ricco naturalmente di antiossidanti.

Parlano gli esperti

Il Riso di Sibari, collocato tra le eccellenze calabresi, secondo gli esperti è un prodotto molto più sapido rispetto alle altre tipologie che si trovano in commercio. Coltivato a pochi passi dal mare, grazie al microclima calabrese e al territorio salmastro nella quale viene coltivato, questa tipologia di riso si classifica come “unica nel suo genere” e proprio per le sue originali caratteristiche risulta essere tra le più ricercate in Italia.

Fino al 2006, il Riso di Sibari veniva venduto data l’enorme richiesta ai produttori del Nord Italia che successivamente lo rivendevano sotto forma di riso locale. Dal 2006 in poi i coltivatori si sono occupati personalmente di tutte le fasi, dalla semina al confezionamento, consentendo così di mantenere l’originalità del prodotto e garantendo un controllo completo di tutta la produzione.

fonte http://strilleat.strill.it/riso-di-sibari-il-gioiello-calabrese-si-classifica-come-il-migliore-ditalia/?fbclid=IwAR3QIekkTYCz4neTqyS3J8hEGAOZZwKwLIcxDzpOHXV2qrkrKP8b9-_e_sk

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I capelli di Venere, una cascata da favola nel cuore verde del Cilento!

Posted by on Giu 23, 2019

I capelli di Venere, una cascata da favola nel cuore verde del Cilento!

Nel cuore del Cilento, poco distante dall’oasi di Morigerati, c’è una cascata che ci porta dritti in una mondo da fiaba. Una volta percfo5rso tutto il sentiero sembrerà di essere arrivati nella terra degli elfi e delle fate.

Stiamo parlando della cascata nota “Capelli di Venere” nel bosco nei pressi di Casaletto Spartano. La cascata ha origine dalle acque del Rio Bussentino, un affluente del fiume Bussento e prende il nome dalla rigogliosa crescita della pianta Capelvenere.

Casaletto Spartano si trova nell’entroterra del Golfo di Policastro e poco distante dal centro si raggiunge con facilità l’ “Area Capello“, da dove partire per la visita alle cascata. Da qui partono due sentieri di cui uno porta appunto alla celebre ed incantevole cascata, in prossimità della quale si conservano i resti di un vecchio Mulino ristrutturato.

Nei pressi della cascata anche i resti di un antico ponte “Normanno”.  le cascate formano delle pozze naturali dove è possibile fare il bagno e godere del refrigerio dell’acqua. Una volta ammirata la cascata è possibile seguire il corso del Rio nelle sue evoluzione attraverso i sentieri dedicati.

Aree attrezzate per pic nic rendono il bosco una meta ideale per una gita diversa dal solito.

Informazioni

Dove: Casaletto Spartano – SA

Come arrivare: Percorre la superstrada che dallo svincolo autostradale di Buonabitacolo porta a Caselle in Pittari. da qui seguire la strada provinciale fino a Casaletto Spartano. Indicazioni per l’Oasi indicano come raggiungere il punto di partenza dei sentieri.

Ingresso all’Oasi a pagamento (circa 3 Euro)

fonte https://grandenapoli.it/i-capelli-di-venere-una-cascata-da-favola-nel-cuore-verde-del-cilento/?fbclid=IwAR0FfsiQho5fV8Bv_6gWFTUQao1PVyWKSYsuJZiHQGbdMdPxXIWwaL2sYcQ

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Recessione demografica, peggio che la Grande guerra

Posted by on Giu 21, 2019

Recessione demografica, peggio che la Grande guerra

I dati Istat confermano un fenomeno allarmante: quello della «recessione demografica», termine che eravamo soliti sentire con riferimento all’ambito economico. È un’Italia che si sta spopolando. Eppure il 95% degli italiani considera la famiglia un progetto valido. Il rilancio può avvenire solo culturalmente. 

Al di là dei dati economici e occupazionali, ciò che più colpisce delle 300 pagine del Rapporto annuale 2019 dell’Istat, presentato ieri dal presidente Gian Carlo Blangiardo, sono le prospettive demografiche del nostro Paese. Prospettive per modo di dire, verrebbe con amara ironia da osservare, dal momento che questi dati non fanno che confermare un fenomeno allarmante: quello della «recessione demografica». Sì, «recessione», un termine che eravamo soliti sentire con riferimento all’ambito economico, ormai è quello ritenuto più adatto per spiegare l’andamento demografico di un’Italia che, per farla breve, si sta spopolando. E non da ora.

Infatti, la «recessione demografica» risulta rilevata già dal 2015 in modo significativo. Eppure, ci dice l’Istat, non tarda a rallentare, facendo registrare «un vero e proprio calo numerico di cui si ha memoria nella storia d’Italia solo risalendo al lontano biennio 1917-1918». Tanto è vero che a pagina 123 del rapporto è presente una sconvolgente tabella che in buona sostanza mette a confronto il triennio 1915-1918 con quello con quello 2016-2019.

Il problema è che nel Novecento, in quegli anni, il nostro Paese era stato flagellato dalla Grande Guerra e dai successivi drammatici effetti dell’epidemia di “Spagnola”, mentre oggi nulla di simile, apparentemente, sembra verificarsi. Diciamo apparentemente perché in realtà, numeri alla mano, tra un secolo fa e oggi la tendenza demografica appare, come si è poc’anzi detto, tremendamente simile al punto dall’essere perfino sovrapponibile. Con una grossa differenza: la «recessione demografica» di 100 anni fa era determinata da cause eccezionali – quelle ricordate -, mentre quella odierna risulta tendenziale. E dura da decenni. In modo grave perlomeno dal 1993, primo anno dal dopoguerra in cui la differenza tra nascite e decessi è stata negativa, con il Paese che ha sempre manifestato, con rare eccezioni, una dinamica naturale in deficit. 

Un deficit, quello di cui stiamo parlando, determinato da una riduzione costante delle nascite – dalle 576.000 nel 2008 alle circa 450.000 nel 2018 – riduzione a cui si è accompagnato, come se non bastasse, un continuo aumento di decessi legati al continuo invecchiamento della popolazione, aumento che nel 2017 ha toccato il suo apice con 649.000 morti. 

Completa questo cupo quadro una sottolineatura che l’Istat pone in evidenza, ossia il fatto che l’immigrazione, spesso invocata come panacea di tutti i mali da un certo mondo cattolico, non possa porre rimedio a tutto ciò. Per due motivi. Il primo è che nel nostro Paese gli immigrati arrivano in numero crescente da decenni, senza che ciò, demograficamente parlando, abbia determinato alcuna inversione di tendenza; il secondo consiste nel fatto che l’effetto che pur intensi flussi migratori hanno finora avuto è solo stato quello di attutire la denatalità. Decisamente troppo poco.

L’Italia ha dunque ancora qualche speranza o è destinata a estinguersi? È una domanda di certo scomoda ma, a questo punto, non più evitabile. Diciamo che ci sono dati che, in aggiunta a quelli già esposti, fanno immaginare che la nostra penisola potrebbe un giorno non così lontano davvero trovarsi in crisi, primo fra tutti quello secondo cui il 45% delle donne tra i 18 e i 49 anni non ha ancora avuto figli. Accanto a questo numero spaventoso, c’è però ancora, tra le pieghe delle statistiche Istat, qualcosa che fa sperare. Ci riferiamo a quella parte di italiani che dichiara che l’avere figli non rientra nel loro progetto di vita. Sono meno del 5%.

Questo significa che oltre il 95% del popolo italiano, sia pure con sfumature differenti, considera la realizzazione di una famiglia come un progetto valido. Ed è da questo numero, da questo 95%, che occorre ripartire. Come? 

Anzitutto rilanciando la famiglia come modello culturale, senza aspettarsi troppo da aiuti economici e bonus che pure sarebbe ora che le istituzioni iniziassero a stanziare alle giovani coppie. Ieri ad esempio il ministro della Famiglia, commentando i dati Istat, ha ribadito la volontà di presentare a breve una riforma completa dell’assegno familiare. Ma la «recessione demografica» non è dovuta a quella economica, occorre tenerlo ben presente. Perché il problema, urge ripeterlo, è culturale e ancor prima spirituale e origina da un’Italia che non ha fiducia nel futuro perché ha smesso, da tempo purtroppo, di avere fede. Tanto è vero che le famiglie più numerose sono, come i sociologi sanno da tempo, quelle più religiose. Ora, sapranno i cattolici e ancor prima i loro pastori evidenziare questa verità fondamentale? Il futuro del nostro Paese è nelle loro mani o, meglio, nei loro cuori.

fonte http://lanuovabq.it/it/recessione-demografica-peggio-che-la-grande-guerra

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In Puglia e Basilicata più scorie e radiazioni che in zone con centrali atomiche

Posted by on Giu 13, 2019

In Puglia e Basilicata più scorie e radiazioni che in zone con centrali atomiche

Ecco il primo inventario indipendente del neonato Ispettorato nazionale: le due regioni messe insieme hanno centinaia di metri cubi di materiali radiotossici in più

Puglia e Basilicata messe assieme, pur non avendo mai avuto una centrale nucleare sul proprio territorio (anche se un progetto in tal senso vi fu per Nardò, nel Salento), hanno centinaia di metri cubi di materiali radiotossici in più di quanti se ne trovino in Campania e in Emilia Romagna dove pure sono, rispettivamente, la centrale di Sessa Aurunca, nel Casertano, e quella di Caorso, vicino Piacenza. Per non parlare dell’ammontare delle radiazioni, campo in cui la Basilicata batte il Lazio. Ad affermarlo, dopo molti decenni di attività atomiche (dichiarate e “sotterranee”) durante i quali sono “volati” numeri in libertà circa il patrimonio radiotossico italiano è l’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin), che ora pubblica un «Inventario nazionale dei rifiuti radioattivi».

Ed è una buonissima notizia giacché è la prima volta che il nostro Paese può contare su un dossier prodotto da un ente statutariamente terzo rispetto alle agli attori atomici italiani. L’Isin, infatti, è diventato operativo soltanto il primo agosto del 2018. Fino ad allora, nonostante l’ovvietà di avere un controllore dichiaratamente indipendente e nonostante le richieste in tal senso di Euratom e Iaea (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica), gli italiani non avevano nemmeno potuto godere di questo genere di presidio scientifico-democratico.

È un primo passo, dunque, nella direzione dell’ordinato procedere. Sebbene non possiamo tacere che la strada sia ancora molto lunga sia da un punto di vista operativo (l’Isin è sotto organico, tanto per dirne una), sia da un punto di vista normativo (per esempio il Belpaese rischia di essere deferito alla Corte di giustizia europea per ritardi nell’adeguamento alle disposizioni Euratom in fatto di «norme fondamentali di sicurezza relative alla protezione contro i pericoli derivanti dall’esposizione alle radiazioni» della popolazione e dei lavoratori), sia sul fronte della trasparenza (su queste pagine abbiamo dato conto di come sia stato opposto il segreto di Stato alle richieste della «Gazzetta» di conoscere «come» si intenda procedere per smantellare l’Impianto trattamento elementi combustibili-Itrec che si trova in Basilicata, a Trisaia, cioè a 78 km in linea d’aria da Taranto, 108 da Bari).

Ma, tant’è, visto che un inventario c’è andiamo a scoprire cosa dice l’Isin, tenendo però a mente che i dati sono comunque un po’ vecchiotti giacché sono aggiornati al 31 dicembre 2017. Ebbene, in Puglia ci sono 1.007 metri cubi di quelli che vengono definiti «rifiuti radioattivi» e pare non siano al top della classifica di feralità giacché la loro attività complessiva è pari a 37 miliardi di Becquerel (la radioattività presente di una determinata quantità di materia si misura in Becquerel; ndr). Se non sono molti di più, è grazie alla bonifica coordinata dalla Commissario Vera Corbelli che, d’intesa con la Società Gestione Impianti Nucleari (la Sogin è una Spa a controllo pubblico) è riuscita a togliere almeno i fusti più «attivi» dal deposito mezzo marcio della ex Cemerad di Statte, in provincia di Taranto.

Tutt’altra storia nella vicinissima Basilicata. Il volume di rifiuti radioattivi è il triplo, pari a 3.250 metri cubi, ma la mole di radiazioni è enormemente maggiore: 267.007 miliardi di  Becquerel. A ciò vanno aggiunte le 64 barre uranio/torio, quelle importate dagli Usa e che nessun Governo finora è riuscito a «esportare» altrove. Queste, da sole, hanno un’attività pari a 1.562 migliaia di miliardi di Becquerel (migliaia di miliardi, non miliardi!). Per cui, sommando le due voci, secondo l’Isin in Basilicata c’è materiale per 1.829 migliaia di miliardi di Becquerel.

Per capire l’ordine di grandezza, in Campania sono 366; nel Lazio sono 989,2. E, visto che vicino Roma c’è la centrale plutonigena di Latina (le cui barre di combustibile sono state prodotte in un impianto lucano) questo lascia intendere che lo smantellamento dell’eredità nucleare laziale è progredita in modo ben spedito.

Tutto questo ammasso di veleni dovrà, stando ai piani governativi, essere stoccato in un’unica area. Non è ancora chiaro quale regione italiana si aggiudicherà il deposito nazionale dei materiali a bassa e media attività e quello, definito «temporaneo», per l’alta attività e lunga vita. L’elenco delle aree idonee è pronto da anni ma resta chiuso nei cassetti dei vari Esecutivi. Evidentemente, anche se i politici cambiano, la paura di indispettire le popolazioni-votanti è sempre la stessa.

Marisa Ingrosso

fonte https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/home/1128460/in-puglia-e-basilicata-piu-scorie-e-radiazioni-che-in-zone-con-centrali-atomiche.html?fbclid=IwAR3rScnulfYQWQG5TAIEBViZM_bqWxy9DfZmF3_MCM12CNGuxCrOUDOnjfc

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Ghana, stabilità e indipendenza dalla Francia: il pil cresce più della Cina

Posted by on Giu 5, 2019

Ghana, stabilità e indipendenza dalla Francia: il pil cresce più della Cina

Non solo problemi e povertà. In Africa ci possono anche essere sviluppo e stabilità democratica. Per esempio in Ghana, paese fuori dalla Françafrique

“Il Ghana non può più continuare a fare politica per noi stessi, nel nostro paese, nella nostra regione, nel nostro continente, sulla base di un qualsivoglia sostegno che il mondo occidentale, Francia o Unione europea possono darci. Non funzionerà. Non ha funzionato e non funzionerà. Dobbiamo uscire da questa mentalità di dipendenza. Questo pensiero su ‘cosa può fare la Francia per noi?’. La Francia farà i suoi interessi, e quando questi coincidono con i nostri, tant mieux, come dicono i francesi. Ma la nostra preoccupazione dovrebbe essere quella di capire che cosa dobbiamo fare in questo XXI secolo per togliere il cappello dalle mani dell’Africa per chiedere aiuto e carità. Semmai è il continente africano, quando si guardano alle sue risorse, che dovrebbe dare denaro agli altri. Dobbiamo avere una mentalità che ci dice che possiamo farlo. E una volta che avremo questa mentalità sarà una liberazione per noi stessi e per l’Africa”.

IL DISCORSO DI AKUFO-ADDO, PRESIDENTE DEL GHANA, DAVANTI A MACRON

Era il dicembre 2017 quando Nana Akufo-Addo, presidente del Ghana, pronunciò queste parole. Le pronunciò ad Accra, a un metro di distanza da Emmanuel Macron, il presidente francese che si trovava in visita istituzionale nel paese africano. Oggi, a distanza di poco più di due anni, il Ghana esce dal programma di aiuti del Fondo Monetario Internazionale. Al suo posto, dal 3 aprile, prende il via il programma economico di Akufo-Addo, il “Ghana Beyond Aid”, studiato per garantire ad Accra di andare avanti con le sue forze.

IL RILANCIO ECONOMICO DEL GHANA

Dopo aver beneficiato di una linea di credito da 925,9 milioni di euro, il Ghana sembra ora pronto a camminare da solo. Tutti i valori macroeconomici sono in miglioramento, dal debito pubblico tornato sostenibile alla disoccupazione, ora scesa intorno al 5 per cento. Il tutto mentre i dati sulla crescita del pil continuano a soprendere. Gli ultimi dati pubblicati dall’ente statistico ghanese fotografano il ritorno a una crescita economica sostenuta: nel 2017 l’aumento del PIL su base annua è stato pari all’8,5%; nei primi tre trimestri del 2018 al 6,1%. Negli ultimi semestri dinamiche positive sono registrate anche sul tasso d’inflazione, in progressivo calo dal picco toccato a marzo 2016, quando l’aumento dei prezzi raggiunse il 19,2%. A febbraio 2019 l’inflazione si è fermata al 9,2%. 

IL PIL DEL GHANA CRESCE PIU’ DELLA CINA. FRANCIA FUORI DALLA TOP 8 DEI PARTNER COMMERCIALI

Numeri che hanno convinto il presidente Akufo-Addo a non chiedere l’estensione del programma di credito. D’altronde il pil ghanese sta ora crescendo più velocemente di quello della Cina. Cina che, secondo i dati relativi al 2017, è il primo partner commerciale del Ghana, con oltre due miliardi di dollari di import e quasi due miliardi e mezzo di export, concentrato nei settori di petrolio e gas. Il tutto mentre la Francia non figura nemmeno tra i primi otto partner di interscambio, dove invece figurano India, Usa, Svizzera, Regno Unito, Sudafrica, Olanda ed Emirati Arabi. Un unicum per l’Africa, in particolare per quella nord occidentale e centrale, dove la presenza dell’ex impero francese è sempre molto presente. 

AFRICA, LO SVILUPPO E’ POSSIBILE

Il Ghana, colonia britannica fino al 1957 ma geograficamente circondata da paesi della cosiddetta Françafrique, è l’esempio di come anche l’Africa possa anche portare sviluppo. Un aiuto arriva dalla ricchezza dei giacimenti petroliferi concentrati sulle sue coste, senza contare che il paese è tra i primi produttori di cacao al mondo, così come è in cima alle classifiche globali per l’esportazione di oro. Ma come purtroppo è reso evidente in altri paesi africani, la ricchezza delle risorse naturali non basta per spiegare la crescita. Un altro grande aiuto attiva infatti dalla stabilità democratica e dalla sicurezza del paese, al momento risparmiato da terrorismo ed estremismi di varia natura.

fonte

http://www.affaritaliani.it/politica/geopolitica/ghana-africa-francia-cina-pil-crescita-596850.html?fbclid=IwAR2Wo3ovvvxvLwnCxkA0w60Txx9NiHrEka58HlCtcKuCH4c77_F3BX460m4

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Alcune scimmie avrebbero l’anatomia adatta per parlare… il problema però è che non parlano!

Posted by on Mag 16, 2019

Alcune scimmie avrebbero l’anatomia adatta per parlare… il problema però è che non parlano!

Alcuni scienziati avrebbero scoperto che i macachi possiedono l’anatomia giusta per poter parlare come gli umani; ma non lo fanno perché non possiedono i circuiti neuronali adatti. Un po’ strana come cosa: se hanno l’anatomia adatta per parlare, poi, da un punto di vista ugualmente anatomico, non avrebbero le possibilità di farlo. Ma perché non si dice come stanno davvero le cose? L’anatomia non spiega l’autocoscienza ed è da questa che si sviluppa il linguaggio. Ma l’autocoscienza è una caratteristica che può essere spiegata solo con lo spirito, non con il corpo. 

Le scimmie, in particolare i macachi, possiedono l’anatomia giusta per parlare. Lo hanno verificato i ricercatori dell’Università di Vienna e di Princeton, autori di uno studio su ‘Science Advances’. Secondo gli studiosi i macachi possiedono l’anatomia vocale per produrre un linguaggio umano “chiaramente intellegibile”, ma non i circuiti neurali necessari per farlo. I risultati sono stati ottenuti grazie a video a raggi X di gola e bocca delle scimmie impegnate in vocalizzi, pasti o espressioni facciali. I ricercatori hanno poi usato queste immagini per realizzare un modello al computer del tratto vocale delle scimmie.

fonte http://itresentieri.it/alcune-scimmie-avrebbero-lanatomia-adatta-per-parlare-il-problema-pero-e-che-non-parlano-teologia/

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