Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

La Melannurca Campana Igp, un frutto da 110 e lode!

Posted by on Ott 21, 2019

La Melannurca Campana Igp, un frutto da 110 e lode!

La mela annurca, unica nel suo genere per la sua genuinità e per le sue proprietà organolettiche, rappresenta un fiore all’occhiello della produzione ortofrutticola campana.

Il territorio casertano produce quantità e qualità, come ha sempre fatto. Una qualità, dovuta alla fertilità dei nostri suoli e alle competenze dei nostri agricoltori, a volte poco conosciuta perché manca un’efficace campagna di informazione e comunicazione per la valorizzazione e la promozione.

Un frutto straordinario e di grande pregio che non può essere clonato e trasferito altrove e, dove, il suo metodo di coltivazione è rimasto immutato. A differenza degli altri tipi di mele, che dopo la raccolta vengono destinate direttamente al consumo, necessita di un passaggio intermedio denominato “arrossamento”, processo di maturazione a terra che avviene in apposite strutture chiamate melai, dove è posta su materiale vegetale, paglia e trucioli, e rimane per un tempo che varia dai 10 ai 15 giorni.

Questa meravigliosa mela ha ricevuto il riconoscimento di “Melannurca Campana ad Indicazione Geografica Protetta Igp”, con Regolamento (CE) n. 417/2006. La costituzione del Consorzio di Tutela della Melannurca Campana risale al 28 ottobre 2005, dove hanno aderito imprenditori agricoli, confezionatori e rappresentanti del prodotto controllato e certificato, al fine di reprimere abusi ed irregolarità sull’uso della denominazione.

Nel silenzio dei melai in mezzo ad un profumo inebriante incontriamo Gennaro Granata, trentenne imprenditore agricolo
delegato regionale Coldiretti Giovani Impresa, che produce l’annurca Igp, ci racconta la sua scelta di vita, l’impegno quotidiano, le rinunce e le soddisfazioni. Le sue parole d’ordine? Formazione, aggiornamento, innovazione, tradizione. E qualità.

Inoltre, ci parla delle caratteristiche del prodotto certificato:

–        Il frutto. È medio-piccolo, di forma appiattita-rotondeggiante con picciolo corto e debole;

–        La buccia. Liscia, cerosa, mediamente rugginosa nella cavità peduncolare, è di colore giallo-verde, con striature di rosso su circa il 60-70% della superficie a completa maturazione. Dopo l’arrossamento a terra, la percentuale di sovraccolore raggiunge circa il 90%;

–        I marchi. Il prodotto si presenta con il marchio del Consorzio di Tutela e il marchio IGP di colore giallo-blu rilasciato dall’Unione Europea;

–        Il cassettino. Riconoscibile, dove sono in evidenza i due marchi;

–        La polpa. È bianca, compatta, succosa e croccante;

–        Il prezzo. Un chilo di mele al consumatore costa, mediamente, da 1,50 a 3 euro. Varia in base al calibro del frutto;

–        Proprietà nutraceutiche. Ha elevate proprietà diuretiche, rafforzate dal notevole tenore di acqua; è ricca di vitamine, minerali e di polifenoli, dove questi ultimi hanno spiccata azione antiossidante e il suo elevato contenuto di fibre esercita un ruolo importante per il buon funzionamento del transito intestinale. Risulta particolarmente consigliata nell’alimentazione dei bambini e degli anziani, ed è spesso indicata nelle diete ai malati, specie ai diabetici per l’eccezionale rapporto acidi/zuccheri;

–        Il mercato. La troviamo in grande quantità in Campania e basso Lazio, mentre, ha un mercato di nicchia in tutta Italia con la grande distribuzione.

In cucina, si presta molto bene nella preparazione di dolci, di piatti a base di carne, in particolare il maiale, e si sposa anche bene con la pasta.

Questa è una delle meraviglie che il Creatore ci ha donato. Amiamo la nostra terra e mangiamo la mela annurca, una produzione d’eccellenza soggetta a controlli intensi e capillari, vera, pulita, onesta e genuina.

Foto e testo di Antonella D’Avanzo

fonte https://www.lucianopignataro.it/a/grande-notizia-la-melannurca-campana-igp-un-frutto-da-110-e-lode/78540/?fbclid=IwAR0iF-vbQG9liWG0HtGc8q3fs4zEyupUglDoQQ8VUy1slKvtmCoaTVgSQ5U

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la mela annurca alla fine dell’arrossamento
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“Ideologia climatista”

Posted by on Ott 6, 2019

“Ideologia climatista”

Il relativismo è la linfa dell’ambientalismo trasformato in religione millenarista

Quando è nato il mostro? Da quando esattamente l’ambientalismo ha abbandonato il suo core business – il miglioramento della qualità della vita umana attraverso la salvaguardia dell’habitat naturale – per trasformarsi in una religione millenarista della dea Gaia? Da quando la lotta all’inquinamento si è trasfigurata in una “crociata dei bambini” “condita da toni apocalittici, in un culto settario che minaccia catastrofi e fine del mondo imminente, predicando al genere umano penitenza per la sua impurità, mortificazione, decrescita economica, povertà? La verità è che fin da quando ha cominciato a prendere forma come cultura politica l’ecologismo ha manifestato una certa tendenza a essere declinato come lotta per la “salvezza del mondo”: non a beneficio della civilizzazione umana, ma in primo luogo da essa. E la ragione di questa tendenza sta nella grande frattura storica nella quale i movimenti e i partiti “verdi” occidentali affondano le loro radici: la grande ribellione generazionale degli anni Sessanta. Le ideologie otto-novecentesche, con i loro sviluppi totalitari, erano state le più potenti espressioni della pretesa gnostica insita nella modernità secolarizzata europea: liberare l’umanità dal male attraverso la costruzione di una società perfetta, senza conflitti né squilibri.


Nella seconda metà del Novecento l’implosione tragica dei totalitarismi o la loro consunzione (come nel caso del comunismo sovietico) generavano un enorme vuoto culturale e psicologico, non compensato dal loro principale antagonista, il modello occidentale di democrazia fondato su mercato, welfare e consumi: troppo lontano da un’idea condivisa di “vita buona” per poter colmare una sete di senso radicale, non più soddisfatta dall’appartenenza religiosa. A quel vuoto i movimenti giovanili dell’epoca risposero – sulla scorta di nuovi ideologi come i pensatori “impegnati” di scuola esistenzialista o francofortese – costruendo un nuovo mito gnostico di liberazione: il rinnegamento della ragione occidentale come strutturalmente imperialista e dominatrice, in favore di un ideale neo-rousseauiano di ritorno dell’umanità all’innocenza primitiva. Questo mito si traduceva da allora in poi in una cultura politica presto egemone tra le nuove élite occidentali: quella che Mathieu Bock-Côté ha definito “utopia diversitaria”. Un relativismo radicale in cui tutto ciò che è Altro rispetto alla tradizione euro-occidentale di civiltà – culture, religioni, condizioni esistenziali, stili di vita – assume in quanto tale un ruolo di modello virtuoso, e anzi salvifico. Il multiculturalismo da un lato, l’idea di una totale autodeterminazione soggettiva in campo biopolitico dall’altro, sono state le architravi del progressismo diversitario, le basi su cui si è consolidata quella che Joseph Ratzinger ha definito la “dittatura del relativismo”.

Ma l’interesse politico per i temi ambientali sviluppatosi a partire da allora ha assimilato lo stesso presupposto antioccidentale, la stessa aspirazione alla purificazione, lo stesso relativismo, declinato come visione antiumanistica del rapporto tra l’umanità e il pianeta. La cultura ecologista era nata in occidente tra Otto e Novecento come reazione agli squilibri causati dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione, e si traduceva in un’idea “conservazionista”: preservare il paesaggio e l’ambiente naturale come patrimonio della civiltà, suo valore aggiunto, elemento non semplicemente naturale ma culturale. Con l’affermarsi del neo-naturalismo proclamato dai contestatori degli anni Sessanta, l’ambiente cominciava a essere considerato come un valore in sé, un Eden a cui ritornare, e l’uomo come un elemento complementare, quando non addirittura un possibile disturbo all’armonia naturale. Nel decennio successivo, poi, il neo-misticismo ambientalista si fuse con il neo-malthusianesimo tecnocratico, da quando nel 1972 il rapporto Meadows del Club di Roma elaborò l’idea dello “sviluppo sostenibile”: la civilizzazione umana può sussistere soltanto se si autolimita (nelle nascite, nei consumi, nello sviluppo industriale), pena uno squilibrio ambientale complessivo dagli esiti catastrofici.

Il terrore instillato dai possibili esiti apocalittici dell’èra nucleare (tanto militari quanto civili) fece il resto. Sicché i movimenti verdi cominciarono fin dalla loro origine (tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta) ad allontanarsi decisamente dal conservazionismo per concentrarsi sull’idea che occorresse fermare una deriva altrimenti inarrestabile verso la distruzione totale della civiltà e della vita sul pianeta, riportando indietro in qualche modo l’orologio della storia. L’ambientalismo si nutrì sempre più di teorie come, appunto, l’“ipotesi Gaia” di James Lovelock (la teoria secondo cui il pianeta è un grande essere vivente, di cui l’umanità è parte non indispensabile) o quella dell’“impronta ecologica” di Wackernagel e Reeves, in base alla quale la civiltà umana è tanto migliore quanto meno modifica e condiziona l’equilibrio ambientale complessivo. Ne deriva la crescente caratterizzazione dell’ambientalismo come teoria della decrescita, anti industrialismo, talvolta esplicito antiumanesimo (come nell’antispecismo animalista). E parimenti una altrettanto crescente tendenza alla sua declinazione in termini dogmatici, una propensione alla condanna di ogni critica al catastrofismo come eresia, e infine la sua riduzione a un rito di purificazione ed espiazione collettivo, con le sue liturgie (l’ossessione del riciclo dei rifiuti tra queste) e i suoi profeti.

La santificazione della giovane Greta come Giovanna d’Arco, vergine e martire, della nuova religione secolare è un esito logico di questa vicenda. Solo uscendo dall’equivoco antioccidentale, neo rousseauiano e relativista da cui l’ambientalismo politico contemporaneo ha tratto molta della sua linfa si potrà tornare a trattare dei problemi di salvaguardia dell’ambiente nei termini e nelle proporzioni a essi adeguati. E soprattutto come parte di un discorso sulla civilizzazione umana, e sui suoi necessari fondamenti spirituali.

Di Eugenio Capozzi da Il Foglio del 27/09/2019

fonte https://alleanzacattolica.org/ideologia-climatista/

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La polenta nasce a Napoli..

Posted by on Ott 2, 2019

La polenta nasce a Napoli..

Salve amici, la polenta é della Padania, del freddo nord, chiunque mangi questa pietanza l’associa all’immaginario collettiva trascurando la verità storica.

Molti non conoscono la vera storia, la polenta in realtà era una prelibatezza per i Greci, nella antica Neapolis era città fiorente e prettamente agricola, dove venivano coltivati molti legumi.

Esistevano tante varianti di polenta a seconda delle materie disponibili, sia in Africa che in Asia. La versione classica si prepara cuocendo farina di cereali a grana grossa in acqua bollente salata.

La polenta ufficialmente diventa un piatto comune grazie ai Greci nel periodo della magna Grecia, la ricetta variava con semola di Fave, di Castagne e di altri pinoli.

Ad’oggi é pervenuto nella nostra tradizione culinaria il Castagnaccio, é un dolce fatto con farina o semola di castagna che ha uno colposita simile alla Polenta, spesso viene chiamata la polenta dolce.

Altra testimonianza culinaria sono gli Scagliuzzi Napolitani, questa ricetta é molto curiosa perché sono dei triangoli di polenta fritti.

La Testimonianza storica risale nel 75 a.C. Seneca scrive: “Pulte, non pane, vixisse longo tempore Romanos manifestum“, ossia: di polta e non di pane vissero per lungo tempo i romani (fonte MBAC).

Come é arrivata la Polenta al Nord?-

Io credo; grazie agli Asburgo e gli Aragona, queste casate facevano parte dei Regni confederati di Napoli, Sicilia, Sardegna e il Ducato di Milano, quando partirono alla volta di Milano per insediare le prime risaie del Nord.

Sicuramente con se avranno di portato della polenta fritta per cibarsi durante il viaggio, in seguito questo pasto povero di ingredienti ma ricco di Sapori si affermò sul territorio prima Padano e poi Veneto.

In quel periodo storico Milanesi e Napolitani erano fratelli..

La polenta nasce a Napoli, la sua tradizione durò fino al 1946 quando il nord la industrializzo affermandola come prodotto tipico del Nord!
#TuCosaNePensi?

Sovranità Popolare Napolitana- SPN

Giuseppe Brigante Abbate

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Olive in Salamoia

Posted by on Set 27, 2019

Olive in Salamoia

La conservazione degli alimenti è da sempre un argomento di fondamentale importanza e la sopravvivenza stessa di intere popolazioni è stata spesse volte pregiudicata dall’impossibilità di custodire e preservare i prodotti dell’agricoltura, della caccia e dell’allevamento dall’inevitabile deterioramento dovuto ai processi di decomposizione.

Nel secolo ultimo scorso, ed in parte anche in quello precedente, si sono susseguite diverse invenzioni tutte rivolte al perfezionamento dei cicli industriali utili al prolungamento della commestibilità dei cosiddetti prodotti alimentari deperibili.

Anticamente il sistema principe della conservazione era rappresentato dalla salatura ed essiccazione.

Pochi erano i cibi che potevano garantire naturale durabilità quali l’olio d’oliva, i legumi, le granaglie, la frutta secca etc.

Molti prodotti elaborati quali il formaggio, il vino, le melasse, le frutte candite etc., da un punto di vista prettamente alimentare rappresentano un “modo” per garantire una maggior durabilità nel tempo dell’alimento base di partenza.

Parliamo delle olive in salamoia

Vi sono delle qualità di olive, ricche di polpa, che fin dai tempi più remoti sono state utilizzate, dopo opportuna lavorazione, come utile companatico o contorno.

I processi di addolcimento sono molto semplici, se ne citano alcuni:

  1. Dilavaggio ( ricambio continuo dell’acqua in cui il prodotto è immerso al fine di far perdere e/o diluire l’acqua di vegetazione contenuta nella polpa)
  2. Immersione in salamoia ( acqua e sale, in tal modo oltre all’addolcimento si ha un prolungamento della durabilità del prodotto)
  3. Immersione in acqua e cenere ( come sopra )
  4. Essiccazione al sole o in forno con contemporanea salatura.

Dopo la “purificazione”, ovvero l’eliminazione dei componenti chimici che danno all’oliva fresca il classico sapore amaro, si procede al condimento e quindi al consumo.

Si evince dunque che il metodo principale di conservazione è quello di mantenere il prodotto in salamoia, di estrarlo poco prima del consumo procedendo, prima di servirlo ( 12-24 ore prima) a condirlo secondo i propri gusti e/o le più disparate ricette regionali.

Al giorno d’oggi l’oliva in salamoia è di fatto un prodotto industriale e pochi super-affezionati del prodotto naturale si cimentano ancora nella conservazione di tipo familiare per quanto semplice essa possa essere.

Vediamo cosa ci offre il mercato!

Entriamo in un supermercato/ipermercato che sia , nella cosiddetta zona “scatolame” si rintraccia il sottoreparto delle confezioni di olive che sono vendute o in vasetto di vetro, o in lattina o in blister di PET.

Ultimamente, in taluni ipermercati, hanno fatto di nuovo capolino le olive sfuse e/o comunque confezionate sotto vuoto.

Detto questo, possiamo tranquillamente premettere, se non concludere, che oggi l’oliva in salamoia giunge sulle nostre tavole o sui banchi dei bar, previo confezionamento industriale.

Cosa offre il mercato per il consumo al dettaglio?

Diverse marche sono presenti sugli scaffali, quali (si useranno dei nomi di fantasia): Pontiac, Pollix, Oplà, etc.; ultimamente le grandi catene di ipermercati e supermercati hanno scoperto il loro marchio, cioè fanno confezionare da aziende terze, prodotti a marchio proprio come Ippert, Ellecorta, Osceanix, Gigantibus etc…

Per brevità di esposizione sono stati presi ad esempio due confezioni di olive in salamoia in vasetto, una Pontiac e l’altra Ellecorta, acquistate ambedue nel medesimo supermercato, vediamone i risultati:

Vasetto PONTIAC

Provenienza dichiarata del prodotto: GRECIA

Aspetto prodotto : Verde, integro con nocciolo

Peso complessivo netto : 360 g

Peso del prodotto sgocciolato : 210 g

Ingredienti : olive, acqua, sale, antiossidante acido L-ascorbico, correttore di acidità, acido lattico.

Prezzo del vasetto : 1,75 € ( 3.380 Lit)

Luogo di produzione : Ghemme ( Novara)

Cimentiamoci ora nell’analisi industriale del valore.

  1. Tenendo conto che il prezzo delle olive, prima di qualsiasi trattamento è di ca. 51,65 € al q.le ( 100.000 Lit/qle)
  2. Si calcola il valore del prodotto di base all’interno del barattolo pari a : 0,11 € ( Lit. 213 )
  3. Il valore della lavorazione in salamoia, stoccaggio, trasporto etc. : 0,15 € ( Lit. 300 )
  4. Costo del vasetto, capsula, etichetta ….: 0,18 € ( Lit. 350 )
  5. Costo della distribuzione : 0,05 € ( Lit. 100 )
  6. Prezzo al distributore : 1,25 € ( Lit. 2.420 )
  7. Prezzo al pubblico : 1,75 € ( Lit. 3.380 )

Dall’analisi dei costi sopra riportati si evince che il valore del prodotto, all’interno della confezione ( olive lavorate ) , pari a 0,26 € , rappresenta il 15 % del valore terminale di filiera, cioè del prezzo al pubblico.

All’azienda PONTIAC, resterebbe un margine netto, prima dei costi generali e delle tasse di ( 1,25-0,49)= 0,76 € cioè il 43 % del prezzo al pubblico.

Alla catena dei distribuzione resterebbe un margine netto, prima delle spese generali e delle tasse, di (1,75-1,25)= 0,5 € cioè il 28,5% del prezzo al pubblico.

I dati sopra elencati dimostrano perché le grandi catene di distribuzione abbiano da qualche tempo iniziato a produrre con proprio marchio, sfruttando la cosiddetta fidelizzazione della clientela.

E’ evidente che erodere il margine dell’azienda “produttrice”, che nel nostro caso è risultato del 43% rispetto al prezzo terminale, può essere di grande impatto da un punto di vista commerciale, vediamo come.

Vasetto ELLECORTA (prodotto per conto della catena di distribuzione)

Provenienza dichiarata del prodotto: NON DICHIARATA

Aspetto prodotto : Verde, snocciolato

Peso complessivo netto : 350 g

Peso del prodotto sgocciolato : 160 g

Ingredienti : olive HAJBLANCA, acqua, sale, antiossidante acido L-ascorbico, correttore di acidità, acido citrico.

Prezzo del vasetto : 1,16 € ( 2.240 Lit)

Luogo di produzione : Sossano ( Vicenza)

Cimentiamoci ora nell’analisi industriale del valore.

  1. Tenendo conto che il prezzo delle olive, prima di qualsiasi trattamento è di ca. 51,65 € al q.le ( 100.000 Lit/qle)
  2. Si calcola il valore del prodotto di base all’interno del barattolo Compresa la snocciolatura pari a : 0,11 € ( Lit. 213 )
  3. Il valore della lavorazione in salamoia, stoccaggio, trasporto etc. : 0,15 € ( Lit. 300 )
  4. Costo del vasetto, capsula, etichetta ….: 0,18 € ( Lit. 350 )
  5. Costo della distribuzione : 0,02 € ( Lit. 50 )
  6. Prezzo pagato all’azienda affiliata per la produzione : 0,81 € ( Lit. 1.568 )
  7. Prezzo al pubblico : 1,16 € ( Lit. 2.240 )

In questo caso il valore del prodotto all’interno del vasetto ( olive lavorate ) , pari a 0,26 € , rappresenta il 22,4 % del valore terminale di filiera, cioè del prezzo al pubblico.

All’azienda “LABORATORIO AFFILIATO di ELLECORTA”, resterebbe un margine netto, prima dei costi generali e delle tasse di ( 0,81-0,49)= 0,32 € cioè il 27,6 % del prezzo al pubblico.

Alla catena dei distribuzione resterebbe un margine netto, prima delle spese generali e delle tasse, di (1,16-0,81)= 0,35 € cioè il 30,% del prezzo al pubblico.

E’ del tutto evidente che la grande distribuzione spinge tale prodotto poiché, pur guadagnando più o meno la stessa cifra in termini percentuali ( 28,5 % contro il 30 %), garantisce un certo richiamo di clientela poiché il prezzo del vasetto “ELLECORTA” è del 32 % inferiore rispetto al vasetto PONTIAC, e un primo prezzo così allettante è sicuramente garanzia di afflusso di clientela.

Ma il prezzo è giusto ?

Abbiamo detto che le olive già trattate e all’ingrosso, possono avere un costo così composto:

Prodotto base : 51,65 € ( Lit. 100.000/qle)

Lavorazione : 25, 82 € ( 50.000 / qle)

Stoccaggi e trasporti : 25,82 € ( 50.000 / qle)

Dunque il costo di un kg di olive in salamoia, acquistate all’ingrosso e/o fatte in casa può collocarsi intorno ad 1 €/kg ( 2000 Lit/kg)

Vediamo ora quanto costa il prodotto industriale confezionato:

Caso PONTIAC

Prezzo del vasetto : 1,75 € (Lit. 3380)

Peso del prodotto sgocciolato : 210 g

Prezzo al kg : 8,31 € ( 16.095 Lit/kg), pari a nove volte il valore del prodotto sfuso a “Bocca” di salamoificio.

Nel caso ELLECORTA

Prezzo del vasetto : 1,16 € (Lit. 2240)

Peso del prodotto sgocciolato moltiplicato per 1,3 perché snocciolato : 208 g

Prezzo al kg : 5,56 € ( 10.770 Lit/kg), pari a sei volte il valore del prodotto sfuso a “Bocca” di salamoificio.

E’ evidente che siamo di fronte a prodotti di lusso e non è escluso che prossimamente le olive in salamoia saranno vendute in oreficeria.

Conclusioni

Non si vuole assolutamente entrare nel merito della qualità ma è evidente che i prodotti che sono stati oggetto di tale verifica si collocano nella media di un prodotto industriale assolutamente non comparabile con quello artigianale o casalingo.

Non risulta altresì che la campagna del novarese o quella vicentina siano ricche di ulivi e pertanto sarebbe anche imbarazzante, a mio avviso, parlare di garanzia di qualità del prodotto, quando questo è trattato e confezionato in zone così lontane dai luoghi di coltivazione.

Tralasciamo inoltre gli aspetti ecologici connessi con il confezionamento parcellizzato all’estremo e facciamo le seguenti semplici considerazioni.

  1. Il valore aggiunto della lavorazione delle olive e del relativo confezionamento è a tutto vantaggio delle industrie la cui gran parte è ubicata, chissà perché, a ca. mille chilometri, nella migliore delle ipotesi, dalle zone di coltivazione.
  2. Nella zona di produzione il coltivatore guadagna percentuali a livello di prefisso telefonico o peggio.
  3. Sulle confezioni raramente è indicato il luogo di provenienza delle olive e ciò è estremamente disorientante oltre che scorretto nei confronti del consumatore.
  4. L’industria di confezionamento è concentrata al centro/nord, dunque ivi trattiene il quasi totale valore aggiunto ( 70 % del prezzo terminale)
  5. Le Aziende della distribuzione hanno tutte sede nel centro/nord, con punti vendita ovviamente anche al Sud, pertanto anche il residuale 30% di margine è drenato dal Sud verso Nord a meno della retribuzione del personale ivi operante.
  6. Perché i nostri politici non incentivano il confezionamento dei prodotti agricoli in prossimità delle zone di produzione ? e perché i consumatori con le relative associazioni non si rendono conto di ciò?
  7. Non si creda, ma il business dell’industria conserviera in genere, ovvero del porzionamento e confezionamento è notevolissimo nel panorama del settore alimentare; senza addentrarci in altri prodotti, meritevoli di indagini più approfondite, si intuisce che dietro quest’industria, che esporta anche all’estero, ci sono molti posti di lavoro, che per il momento devono restare al Nord anche se ciò va a scapito della qualità e della tutela del consumatore.

Un po’ di speranza…

In effetti qualche azienda della grande distribuzione inizia a commissionare il confezionamento ad aziende meridionali e dunque prossime ai territori di coltivazione, anche diverse aziende produttrici meridionali iniziano a far capolino sugli scaffali, qualcosa si muove, ma siamo ancora di fronte a casi sporadici e ancora lontani da una replicazione significativa.

Cosa può fare il consumatore?

  1. Privilegiare il prodotto confezionato nel meridione d’Italia, generalmente migliore e più economico.
  2. Privilegiare l’acquisto del prodotto sfuso con dichiarazione di provenienza.
  3. Se può, vuole ed è vicino alle zone di produzione delle olive da salamoia, cimentarsi nell’autoproduzione, sicura garanzia di enormi risparmi, genuinità assoluta e successo in tavola.

Meditate gente… meditate.

Domenico Iannantuoni

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Olio d’oliva, un orgoglio meridionale

Posted by on Set 9, 2019

Olio d’oliva, un orgoglio meridionale

Cos’è l’olio d’oliva?

L’olio d’oliva è l’unico olio vegetale consumabile nello stato in cui si forma in natura, contrariamente agli oli di semi che devono essere tutti rettificati fisicamente e chimicamente.

Da un punto di vista chimico l’olio d’oliva extravergine è una miscela di gliceridi di acidi grassi saturi ed insaturi al 99%, il restante 1% è detto insaponificabile.

Tra i costituenti ricordiamo gli acidi saturi principali: Palmitico, stearico, palmitoleico, mentre tra quelli insaturi, l’oleico ( 67-81%), il linoleico (3,5.14,5%), il linolenico (0,3-1,2%).

Il cosiddetto grado di acidità, se è eseguita una corretta oleificazione, può essere compreso tra lo 0,2 e lo 0,5% e tanto minore è l’acidità, tanto migliore è la qualità dell’olio; ovvero si dice che il grado di acidità, quando va oltre certi limiti, indica una profonda alterazione dell’olio.

L’olio d’oliva, oltre ad essere un alimento ipercalorico ( ca. 8000 kCal/lt), contiene lo “Squalene”, provitamina della vitaminaA, assolutamente importante per lo sviluppo corporeo in genere.

Le “Stearine” dell’olio d’oliva inoltre, che non si trasformano in colesterolo nell’organismo umano!, hanno legami con la vitamina D ( antirachitismo).

I “ Tocoferoli”, che sono identificati dalla vitamina E, esercitano una attiva azione antiossidante ( unico rimedio al prolungamento naturale della vita delle cellule umane).

Il “Beta-Carotene”, corrispondente alla pro-vitamina A ( antixeroftalmica).

Vi sono poi la vitamina F e la vitamina K ( antiemorragica).

Oltre a tutto il ben di Dio sopra esposto, vi sono poi le sostanze aromatiche che sono presenti solo allo stato naturale, poiché scompaiono o si denaturano quasi del tutto con la rettificazione e/o la manipolazione chimica.

Per quanto sopra esposto, gli oli d’oliva non naturali, hanno un valore dietetico solo legato al potere calorico ed assolutamente scadente per quanto attiene alle peculiarità vitaminiche presenti come si è detto, nel solo olio extravergine come meglio si dirà successivamente.

Come si produce l’olio d’oliva?

L’olio si ricava dalla drupa dell’olivo e di fatto, solo dalla polpa della stessa.

Sebbene anche il seme ( mandorla contenuta nel nocciolo) contenga un discreto quantitativo d’olio, l’estrazione di quest’ultimo è relegata a sofisticati sistemi industriali di cui si accennerà successivamente.

L’olivo ( Olea Europaea L) è una pianta caratteristica del clima temperato del bacino del Mediterraneo, il frutto è una drupa dicarpica dal peso oscillante tra gli 0,4 e i 10-12 g.

Inutile soffermarsi sulla bellezza di tale specie vegetale, possiamo solo dire che la nostra Civiltà non è solo permeata dalla storia dell’olivo ma ne è addirittura radicata.

Come si raccolgono le olive e come si conserva l’olio?

Diversi sono i sistemi di raccolta delle olive:

  1. Raccattatura ( da terra o da teli stesi sotto la chioma)
  2. Abbacchiatura ( bastonatura delle ramaglie, si tende così ad evitare anche l’uso delle scale)
  3. Scuotitura ( vibrazion indotta alle ramaglie attraverso il tronco principale)
  4. Brucatura (raccolta a mano semplice con sacchetto di rimessa, aperta a rastrello con telo di raccolta sottostante, con attrezzo a rastrello in materiale ligneo o plastico
  5. Aspirazione meccanica ( con adeguata macchina aeraulica azionata da mezzo meccanico)
  6. Brucatura meccanica ( come punto 4 ma automatizzato)

Il sistema di raccolta è legato in genere agli usi e costumi ma anche ad un più stretto criterio “merceologico”.

Le drupe, si sa, dovrebbero essere raccolte al punto giusto di maturazione che corrisponde in genere alla quasi completa coloritura, cioè quando da verdi, si maculano via via fino a raggiungere la coloritura vinosa o nerastra.

Gli stadi di maturazione si dividono infatti in tre.

  1. Frutto verde, polpa bianca, consistenza dura.
  2. Chiazzatura rossastra, consistenza dura.
  3. Tinta nerastra, consistenza turgida ma già facilmente spoltigliabile.

Il momento migliore della raccolta per ottenere un ottimo olio, è quello corrispondente tra il secondo ed il terzo stadio.

E’ evidente a questo punto che per ottenere tale risultato si deve scartare la raccattatura sia da terra sia da teli sottesi all’uopo ( olive in genere ammaccate e comunque già oltre il terzo stadio), l’abbacchiatura perché rovina frutto e ramaglie e comunque il frutto è in larga misura oltre il terzo stadio, la scuotitura perché danneggia l’apparato radicale e ha effetto significativo solo per i frutti in avanzata maturazione,

Restano dunque la brucatura manuale o con rastrelli, l’aspirazione meccanica e la brucatura meccanica, poiché solo con questi sistemi si può prelevare il frutto tra il secondo ed il terzo stadio operando lo “strappo” della drupa dal relativo picciolo.

Da quanto sopra esposto si evince che il momento della raccolta è di “fondamentale” importanza per ottenere un olio di qualità.

Così come per qualsiasi frutto, se la raccolta delle olive avviene al momento giusto, frutto verde/maculato o brunastro, la raccolta non potrà che essere per brucatura, e, salvo questioni legate alla mosca olearia o altre malattie, ne deriverà un olio eccezionale, fruttato, dalla classica sensazione di “attaccare in gola”, ad acidità ridottissima e anche tendenzialmente amarognolo.

Inutile dire che solo i veri esperti vanno permanentemente alla caccia di tale prodotto che tra l’altro è anche il più ricco di tutte quelle qualità organolettiche prima menzionate.

La resa in termini di litri d’olio per quintale d’olive, in questa fase di maturazione tende a collocarsi sui 18 lt/qle.

L’olio così ottenuto può essere conservato per molto tempo, in recipienti inossidabili, di vetro, di pietra, comunque materiali inorganici non attaccabili dall’olio e non permeabili alla luce. Le morchie che si depositano sul fondo, durante il processo di chiarificazione, dovrebbero essere rimosse attraverso la tecnica del travaso, ma i nuovi sistemi di separazione per centrifuga, sono oggi dotati anche, a valle, di un sistema di filtrazione che riduce la presenza delle mucillagini di polpa a livelli così insignificanti e sicuramente deidratati che le morchie risultanti non pregiudicano più la qualità del prodotto anche dopo anni, purchè il recipiente sia dotato di chiusura ermetica.

Un doveroso accenno deve essere fatto in merito al terreno ove la coltivazione dell’olivo è operata, in quanto il gusto dell’olio è infatti molto legato anche alla tipologia del terreno.

Un terreno sabbioso e ricco di inerti ( sassoso) è il prediletto, l’olio che ne deriverà sarà tendenzialmente più delicato, beninteso sempre a parità di maturazione ; un terreno più argilloso conferirà un sapore un sapore tendenzialmente più fruttato.

Non dobbiamo dimenticare, tra l’altro, che l’olio extravergine genuino, varia il suo sapore ogni anno, poiché ogni anno l’andamento climatico è differente, ed ancora se il terreno dell’uliveto è utilizzato per una coltura parallela oppure no.

Quando si dice dunque che l’olio meridionale è più pesante di quello umbro, toscano o ligure, si dice soltanto una mezza verità se non addirittura una vera e propria inesattezza.

Il fatto è che in Sicilia le olive si dovrebbero raccogliere qualche tempo prima che in Liguria, tutto qui.

Poiché le logiche commerciali impongono una resa per ogni quintale, il produttore meridionale è assurdamente spinto ad attendere la massima maturazione, cui corrisponde anche il massimo peso e/o la massima resa in termini di litri d’olio per quintale d’olive ed anche una correlata minor spesa per la raccolta se questa non viene più eseguita per brucatura..

Il fatto che in meridione si faccia incetta da oltre 140 anni di prodotto base, olive od olio che sia, destinato alle “correzioni” degli oli poi distribuiti commercialmente, ha portato i coltivatori a vendere non la qualità bensì la quantità.

Vendere le olive, con una resa di 22 litri/qle, rende già questo il 30 % in più , mentre la raccattatura riduce, come già detto, notevolmente i costi della raccolta, il lettore può facilmente intuire che la produzione di massa così organizzata è ad esclusivo vantaggio dell’industria olearia, mentre impoverisce il coltivatore anno dopo anno.

Per concludere, i commercianti d’olio raccolgono in meridione il prodotto al prezzo più basso possibile, e questo prezzo a sua volta condiziona i coltivatori verso una ulteriore riduzione dei costi di produzione; finchè l’azienda è a conduzione familiare, con l’aiuto dell’integrazione CEE, il coltivatore mantiene in attività l’oliveto, in caso contrario, non potendo sopportare, ai prezzi attuali, l’onerosa manodopera per la brucatura si decide per la raccolta al 50 % ( ovvero divide il raccolto con altri, pur di spesare la manodopera) e per godere del quantitativo necessario agli usi familiari, oppure decide per l’abbandono se non all’estirpazione degli ulivi.

Come si estrae l’olio?

In un ciclo perfetto la frangitura/molitura delle olive deve avvenire tra le 24/48 ore successive alla raccolta.

In tale lasso di tempo le olive devono essere custodite in ambiente areato e in strati non superiori ai 20 cm., quanto sopra per evitare i processi fermentativi.

Nei frantoi tradizionali ( pressa a disco), dopo la mondatura delle drupe (si avrà l’accortezza di lasciare anche un certo quantitativo di foglie per restituire maggior tenuta alla pasta), avviene la frangitura/molitura con ruote di pietra, ad impasto omogeneo ottenuto ( ca. un ora), il primissimo olio, seppur non classificato dalle Normative, possiamo già gustarlo.

Chi può, fa fermare per pochi minuti il processo, immerge il mestolo nell’impasto e raccoglie il cosiddetto olio affiorante, una vera prelibatezza.

La pasta d’oliva viene successivamente stesa su dischi di juta ( o nylon da vent’anni a questa parte) del diametro di ca 80 cm., per uno strato di uno o due cm , sopra questo un disco d’acciaio che ha la funzione di ripartire omogeneamente la pressione sull’impasto, e così via alternativamente, fino a raggiungere una pila di 1,5 m ca.

A questo punto si dispone il tutto sotto la pressa idraulica che, alimentata da idoneo azionamento elettromeccanico, porterà la pressione tra disco e disco a 18/30 kg/cmq, con crescita progressiva.

In queste condizioni si otterrà ca. l’85 % del prodotto, senza incrementi apprezzabili della temperatura del fluido fuoriuscente.

Il disco di juta ha il compito di trattenere il residuo secco ( sansa ).

Il fluido ottenuto entrerà poi in un contenitore rotante dove, per effetto della forza centrifuga e della diverse densità , si otterrà la separazione tra l’olio extravergine d’oliva e l’acqua di vegetazione.

Cosa vuol dire prima spremitura?

Significa che può esistere una seconda spremitura ed altro ancora, ma da questo momento in poi usciamo dall’alveo della sublime genuinità del prodotto.

Non si dirà mai a sufficienza ma questo prodotto, cioè l’olio ottenuto dalla prima spremitura meccanica, rappresenta il “Top” dei desideri per chi volesse nutrirsi in modo veramente naturale.

L’oleificio non può perdere profitto e dunque procede generalmente ad una seconda spremitura; la sansa viene rimiscelata con quota d’acqua calda, ristesa sui dischi e dunque sottoposta nuovamente a pressione ma con valori compresi tra i 90 e i 120 kg/cmq cioè fino a quattro volte superiori a quelli della prima spremitura.

Sono in uso già da qualche tempo anche torchi in continuo che operano con il concetto della vite, ma trovano qualche ostacolo alla diffusione per la questione termica.

E’ a tutti noto che all’aumento della pressione corrisponde anche un aumento della temperatura per i noti attriti e che l’aumento della temperatura pregiudica i principi attivi delle vitamine e non solo.

Dunque l’olio di seconda spremitura, oltre a presentarsi già di colore e di profumo diverso, ha qualità organolettiche già molto distanti rispetto a quelle del primo prodotto.

Anche le acque di vegetazione, che contengono ancora una discreta quantità d’olio (tendenzialmente molto acido), sono soggette ad un ciclo di lavorazione (solo meccanico), attraverso una serie di sifoni (inferno), l’olio tende a separarsi per differenza di densità e viene dunque recuperato per semplice scolmatura, mentre le acque residue, rettificate con calce, sarebbero un ottimo fertilizzante.

Non è finita qui!

L’olio extravergine di prima e seconda spremitura, viene custodito in vasche di chiarificazione; i sedimenti, detti morchie, vengono assoggettati allo stesso ciclo delle sanse per ottenere oli ormai molto acidi ( come quello delle acque di vegetazione), ma ancora di valore industriale.

Le sanse e le morchie, contengono ancora una discreta percentuale d’olio, essa viene estratta con solventi quali, benzine, esano, tricloruro di etilene etc.; la successiva distillazione sotto vuoto o con sistemi diversi, porterà al prodotto “olio di sansa” che dovrà essere deacidificato con idrato sodico, decolorato con terre decoloranti, deodorato con corrente di vapore surriscaldato o idrogenato.

Gli oli così rettificati devono essere “demargarinati”, per abbattimento termico, sdoppiando così in un colpo solo il prodotto alimentare in olio di sansa più margarina.

E’ importante a questo punto una piccola annotazione.

Gli oli provenienti dalle zone calde (meridione d’italia), se ottenuti con olive in avanzato stadio di maturazione, danno al palato quel senso di “grassezza” proprio da attribuire alla margarina disciolta.

Ma come già si è detto, questo fatto non deriva da “dove” sono coltivati gli olivi ovvero dalla latitudine, ma come e quando vengono raccolte le olive; l’olio fresco siciliano può semplicemente raggiungere le nostre tavole uno o due mesi prima di quello toscano.

Come si classifica l’olio?

La Legge del 1960 ( 404) ci declama:

  1. E’ commestibile l’olio d’oliva avente “Normali qualità organolettiche” e un massimo del 4% di acidità.
  2. Si dice olio extravergine d’oliva, l’olio ottenuto solo per spremitura meccanica e con acidità inferiore all’1%. ( come si vede la Legge non distingue tra prima e seconda spremitura).
  3. Olio sopraffino d’oliva, per sola spremitura, ma con acidità non superiore all’1,5%.
  4. Olio fino vergine d’oliva, come sopra ma con acidità inferiore al 2%.
  5. Olio vergine d’oliva, come sopra ma con acidità inferiore al 4%.
  6. Olio d’oliva rettificato, ottenuto da oli lampanti, manipolati fisicamente e chimicamente.
  7. Olio di sansa rettificato, olio estratto con solventi dalle sanse etc.
  8. E’ denominato olio d’oliva la miscela di oli vergini con oli rettificati, con acidità inferiore al 2%.
  9. E’ denominato olio di sansa e d’oliva una miscela di olio di sansa e di oli d’oliva vergini con acidità inferiore al 3%.

Non c’è che dire, è una bella confusione!

E’ del tutto evidente che l’olio extravergine d’oliva di prima spremitura ( si sottolinea “primaspremitura”) è l’unico prodotto che garantisce il consumatore,attento alla propria alimentazione, da sorprese di indesiderate miscele di oli vari.

Infatti non va dimenticato che gli oli di semi vari ( arachide, colza, girasole, etc.) sono tutti assolutamente miscelabili nell’olio d’oliva, ciò rende molto facile l’adulterazione e solo con accorte analisi di laboratorio è possibile avvedersene.

Anche la sofisticazione è facile e per sofisticazione s’intende l’arricchimento di oli di dubbia provenienza con quote di olio extravergine, in questo caso anche l’analisi chimica ha qualche difficoltà ad evidenziarlo.

Dove si coltiva l’olivo?

In Spagna, Italia, Grecia, Turchia, Marocco, Algeria, ovvero nella meravigliosa fascia mediterranea a clima temperato.

Soffermandoci in Italia, risulta evidente che la coltivazione dell’oliva è massiccia al di sotto del 45mo grado di latitudine, ovvero in tutto il meridione d’Italia.

Seguono il Lazio, la Toscana, l’Umbria e la Liguria ma con ridotte quote percentuali mentre è praticamente irrilevante la produzione lacustre o pedemontana veneta.

Quanto olio si produce ?

La Spagna ne produce ca. 4.000.000 di q.li, l’Italia 3.000.000, la Grecia 1.300.000, la Turchia 700.000, il Marocco 300.000, l’Algeria 250.000; diciamo in totale ca. 10.000.000 di q.li di olio d’oliva all’anno.

Ammettiamo pure che in Italia si consumino ca. 4.000.000 di di q.li di olio d’oliva, tra prodotto nazionale ed importato, ne deriverebbe un consumo procapite di ca. 7,6 lt. all’anno (dei quali si stimano meno di 1,5 lt. procapite di olio extravergine di prima spremitura tradizionale a freddo !).

Poiché commercialmente si calcola un consumo procapite annuo di 12 lt/anno. , ovvero quasi due volte il quantitativo disponibile sul mercato, ci domandiamo da dove possa giungere il surplus di produzione.

Si obietterà che molti italiani fanno uso di burro, di olio di semi etc., ma questo semplice calcolo deve far riflettere.

Non è infatti da escludere che, in modo piuttosto rocambolesco, si moltiplichino le quantità di prodotto disponibile sul mercato, beffando il consumatore.

D’altro canto anche i “Distretti” di produzione/imbottigliamento, quasi tutti collocati in Lombardia, Liguria, Toscana ed Umbria, non ci lasciano convinti.

Com’è possibile che nei banchi dei supermercati si venda per il 90/95 % prodotto di tali distretti, quando è notorio che la maggior quota di produzione nazionale è meridionale.

E’ facile intuire una certa mistificazione (sofisticazione), ovvero una dichiarazione di produzione nel luogo che corrisponde a quello dell’oleificazione o dell’imbottigliamento ma non certo a quello della vera provenienza del prodotto.

Quanto costa il vero olio extravergine d’oliva?

Pensiamo al prodotto italiano.

Analisi del ricavato:

Appezzamento medio dell’uliveto = 2 ettari

Numero di piante = 300 ( età media 100 anni)

Produzione media annua = 40 kg/pianta ovvero totale 12.000 kg.

Ricavato in olio extravergine = 2.400 lt.

Analisi dei costi di gestione:

Lavorazione terreno ( 4 arature leggere all’anno) = 414 Euro ( 800.000 Lit.)

Potatura ( biennale 6.000.000/2)= 1.550 Euro ( 3.000.000 Lit.)

Raccolta delle olive per brucatura ( 40 giorni-uomo, 15,5 Euro/ora)= 4.958 Euro ( 9.600.000 Lit.)

Spese varie per ausilii meccanici, trasporti, etc.esclusa irrigazione= 1.033 Euro ( 2.000.000 Lit.)

Spese di frantoio, si esclude l’eventuale rimborso CEE insignificante= 1.550 Euro (3.000.000 Lit)

Totale delle spese in gestione aziendale=9.505 Euro (18.404.250 Lit.)

Dunque il recupero dei soli costi risulterebbe incidere per 3,96 Euro (Lit.7.670) per litro di olio sfuso a bocca di frantoio !

E’ evidente che il prezzo al pubblico, remunerativo per il produttore, non può che collocarsi sull’intorno dei 6,45 Euro (Lit. 12.500), sempre sfuso.

Una bottiglia di vero olio d’oliva extravergine, da 0,75 lt., ottenuto nel rispetto delle procedure di massima qualità e garanzia per il consumatore, più sopra enunciate, non può avere un prezzo al bancone di vendita del supermercato inferiore ai 7,75/8,78 Euro (15/17.000 Lit).

(In Toscana, l’olio sfuso viene venduto anche a 20/30.000 il litro, poiché chi vuole un prodotto genuino, è disposto a pagare prezzi significativi, ma ancora di mercato; pensiamo che un oggi un kg di pane fresco ha un prezzo pari al 60 % di una bottiglia d’olio extravergine da supermercato, e ciò rappresenta una evidente stortura dei valori della catena alimentare.)

Ogni riduzione del prezzo sopra calcolato lascia spazio a correlate riduzioni di costi che possono operarsi in diversi modi:

  1. Raccolta delle olive meccanizzata e distruttiva
  2. Acquisto delle olive dai paesi più poveri ( ad esempio dalla turchia arrivano olive in balle al Lit. 60/70.000 per quintale)
  3. Sofisticazione ed adulterazione

Si può quindi concludere con un piccolo promemoria per aiutare il consumatore:

  • Prediligere il prodotto ove è dichiarata, in etichetta, la zona di produzione delle olive e non solo dove è ubicato l’oleificio.
  • Prediligere il prodotto meridionale , questo fatto comporterà nel tempo la riduzione del fenomeno della mistificazione, poiché incentiverà l’estrazione dell’olio nei luoghi ove si producono le olive.
  • Orientarsi verso l’acquisto del prodotto sfuso, direttamente presso il frantoio; ciò non comporterà necessariamente una economia notevole ma sicuramente una maggior garanzia di freschezza del prodotto ed una riduzione dell’inquinamento ambientale.

Conclusione

Un giorno un avventore entra in un bar di un piccolo paese del Sud e dice:

– damme nu campare –

– cu’ghiacc o senza nent ? – chiede il barista –

– senza ghiacc, ma mittm duie vulive… – risponde l’avventore-

– e il barista di rimando – e ch’ teng a vigna !?!

L’avventore guarda stupito il barista, non sa che rispondere, e pensa che cosa c’entrino le olive con la vigna, beve il suo “campari” e se ne va pensieroso.

Questo aneddoto, realmente accaduto, evidenzia con grande semplicità come l’attuale sistema di vita, tanto frenetico quanto approssimativo, provochi l’impoverimento progressivo della nostra cultura alimentare e diseduchi al “gusto”, trasformandoci in semplici e silenziosi “tubi digerenti”.

Il barista risponde che non avendo la vigna non ha le olive da offrire all’avventore, e questo perché nei tempi passati ( ma qualcuno lo fa ancora oggi), quando si piantava una nuova vigna, contemporaneamente si piantumavano, già opportunamente distanziati gli ulivi giovani; si sa che la vigna non è eterna e quindi alla fine della sua vita il podere si sarebbe trasformato in un rigoglioso uliveto.

L’aneddoto ci spiega anche che la vite convive con l’ulivo, ovvero non sottrae sostanze a lui utili, che la lavorazione della vite, che vuole terreno fresco zappettato, garantisce anche la medesima pulizia al piede dell’ulivo, che i filari che raccordano gli ulivi non possono essere danneggiati dall’ombra di questi……e che il contadino ama accompagnare un buon bicchiere di vino con le gustose olive e con fragrante pane ben condito con quel miracolo della natura che è l’olio d’oliva .

Meditate gente, meditate…

Consigliamo di visionare il documentario da noi prodotto. 

Domenico Iannantuoni

fonte http://www.adsic.it/2001/11/05/olio-doliva-un-orgoglio-meridionale/#more-40

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Il Pane del Sud è il più buono del Mondo: alla scoperta di un’arte sconosciuta

Posted by on Lug 20, 2019

Il Pane del Sud è il più buono del Mondo: alla scoperta di un’arte sconosciuta

Il Pane del Sud è il più buono d’Italia. Basta recarsi in un qualunque forno di una qualunque regione del meridione per capire che qui, il pane, ha un’altra funzione. Non è solo cibo, non è solo alimento. È tradizione, sapienza, conoscenza arcaica. La consistenza ruvida e corposa si deve al progressivo utilizzo di grano duro, più facile da coltivare nelle nostre zone rispetto al grano tenero, diventato nel corso dei secoli  ingrediente indispensabile e segreto.

Altro elemento di grande fascino risiede nella pezzatura. Qui le forme sono tradizionalmente grandi, a volte si potrebbero definire addirittura enormi: basti pensare al pane cafone campano, al pane di Altamura, di Laterza, di Matera, di Camaldoli e di Cerchiara dove ogni pagnotta arrova a pesare anche più di due chili.

Il Pane Cafone ad esempio, ad oggi risulta essere uno tra i pani più apprezzati in tutta la penisola. Con la sua lavorazione a grano tenero infrange i dettami della tradizione meridionale, prediligendo l’utilizzo esclusivo di un solo grano tenero.

Leggenda narra che il suo nome sia stato coniato perché lavorato con una particolare farina grezza originariamente impiegata per produrlo, oggi sconosciuta e quasi esclusivamente sostituita con farina di tipo 0.

Pane Cafone equivale a dire Napoli e Provincia con tutti i suoi sapori. Tradizione vuole che venga realizzato con lievito madre, che ora però ha lasciato il posto al criscito, una pasta di riporto derivante da scarti di precedenti lavorazioni.

Il criscito viene quotidianamente “alimentato” con aggiunte di acqua e farina, come fosse un vero lievito madre. Entrambe le soluzioni conferiscono al nostro pane una nota leggermente acida, caratteristica principale del pane del Sud.

A vederlo si riconosce in fretta il pane cafone, non presenta alcun tipo di taglio o incisioni sulla sua superficie, gode di una buona sapidità, ha una crosta spessa, croccante, e la sua mollica color avorio si presenta piuttosto elastica e morbida, responsabile della creazione di occhiature irregolari presenti in tutta la pagnotta.

Il pane cafone una volta spezzato presenta una mollica solitamente leggermente umida, che consente una buona conservabilità.

Tipicamente può essere acquistata in filoni da 1 e 2 kg ma esiste una variante, la Pagnotta dei Camaldoli capace di raggiungere addirittura i 4kg di peso. Proprio per le sue inusuali caratteristica, per i suoi ingredienti e per il suo sapore esclusivo, la Pagnotta dei Calmadoli è iscritta tra i prodotti agroalimentari tradizionali italiani.

fonte https://www.vesuviolive.it/ultime-notizie/19955-pane-sud-mondo-scoperta-unarte-sconosciuta/?fbclid=IwAR2YJ59hb9rrSd9PD2SANB_QiN1XpnVG42mlmFI35aDMBmcezj6LLdjQK1w

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