Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Quando i Borbone vietavano con un Decreto l’uso di veleni in agricoltura – 1837

Posted by on Lug 19, 2019

Quando i Borbone vietavano con un Decreto l’uso di veleni in agricoltura  – 1837

Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, 6 agosto 1837

Nella “Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie (del 6 agosto 1837)” vi era anche il decreto numero 4164,  che nell’agosto 1837 vietava l’uso di veleni in agricoltura nel regno delle Due Sicilie. Si legge : “Decreto con cui vien prescritto essere reati di competenza delle Commissioni militari lo spargimento di sostanze velenose, ovvero le vociferazioni che si sparga veleno, tendente a turbare la pubblica tranquillità“.

Questo decreto giunse dopo le insurrezioni del colera di un mese prima, allorchè i Borbone furono accusati dai liberali, di essere stati loro a introdurre il colera.

L’Europa del 1837 era invasa dal colera che fra aprile e giugno si diffuse anche a Napoli e in Sicilia. In quegli anni i medici non sapevano bene quale fosse l’origine e come si fosse propagata la malattia, ed erano divisi tra epidemisti e contagionisti. Fu proprio Ferdinando II che confutò le tesi contagioniste. In quei mesi a Napoli si erano verificate tensioni popolari in quanto si era diffusa la notizia che il colera fosse stato causato da un veleno portato in città e diffuso attraverso il pane. Ferdinando II incurante di quella notizia si recò a piedi nei vicoli popolani napoletani e “a stretto contatto con il suo popolo […] mangiò con essi il calunniato pane“.

L’ipotesi che il colera sarebbe stato provocato da un veleno (cvd) fu sfruttata dai liberali e dai carbonari meridionali per insorgere contro i sovrani duosiciliani e, sia con fini politici sia con fini personali, furono loro a cacciare l’ulteriore notizia che quel veleno sarebbe stato diffuso dallo stesso governo borbonico. La calunnia, che avrebbe dovuto sollevare la Sicilia contro i Borboni, scatenò una serie di feroci cacce agli untori, provocando il massacro di molti innocenti. Spesso i liberali non riuscirono a controllare la furia popolare che essi stessi avevano eccitato. L’insurrezione iniziò a Palermo il 15 luglio. La paura dilagò fra la popolazione tant’è che in Siracusa ad esempio, molti siracusani vennero accusati di essere gli “avvelenatori” e furono massacrati dai loro stessi concittadini. Il 23 luglio il popolo insorse contro i borbonici, abbandonandosi ad ogni sorta di violenza.

Fu istituita una commissione di cittadini “probi e preparati” con il compito di giudicare i fatti e gli accusati; ma in essa c’erano anche i propugnatori della teoria del veleno, che erano tutti filo liberali e filo unitari. La commissione stabilì quindi, che la sostanza adoperata era il nitrato di arsenico. Ne conseguì che  si instaurò un governo provvisorio (filo liberale, filo unitario e inneggiante al tricolore italiano savoiardo), il quale proclamò lo stato d’assedio, dispose l’arresto delle autorità governative (fedeli ai Borbone), e costituì un comitato di salute pubblica.

 Nei mesi successivi  Ferdiando II riportò ordine nel suo regno e amnistiò tutti i popolani che avevano aderito alla rivolta, ma non concesse il real perdono ai capi politici e a coloro  che avevano fatto furti, saccheggi e omicidi.

fonte http://belsalento.altervista.org/quando-i-borbone-vietavano-con-un-decreto-luso-di-veleni-in-agricoltura-nel-1837/

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Il Gargano tra ‘700 e ‘800: la Valle Carbonara e il suo prezioso grano (di Michele Eugenio Di Carlo)

Posted by on Lug 7, 2019

Il Gargano tra ‘700 e ‘800: la Valle Carbonara e il suo prezioso grano (di Michele Eugenio Di Carlo)

L’identità di un territorio, o se preferite il suo genius loci, è determinata da ciò che quella terra è stata nel passato, da ciò che ha fatto e prodotto, e che ha trasmesso. Ne fornisce una impareggiabile e molto efficace dimostrazione Michele Eugenio Di Carlo, che, per vocazione e inclinazione, quando parla delle produzioni agro-alimentari del Gargano, veramente riesce a dare il meglio di se stesso. Studioso, saggista, agronomo, “il racconto della terra e dei suoi prodotti” raggiunge in Di Carlo livelli veramente ragguardevoli. Ma anche particolarmente utili a leggere la realtà di oggi, a comprenderla meglio, e quindi ad immaginare il futuro con maggior consapevolezza. Dalle prossime settimane, un pastificio artigianale di Monte Sant’Angelo, Casa Prencipe di Domenico Prencipe, metterà in produzione una linea di pasta esclusiva dal grano di valle Carbonara. Dietro questa coraggiosa scelta c’è una storia antica, che Michele ha ben pensato di raccontare. Gli sono grato per aver scelto Lettere Meridiane per la pubblicazione. Dietro questa storia, ci sono tante altre possibili storie che potrebbero essere raccontare se il Mezzogiorno ritroverà, come sembra stia accadendo, l’orgoglio del suo genius loci(g.i.) * * * Ad est di San Giovanni Rotondo, oltrepassati il lago di S. Egidio, oggi prosciugato,  e l’altipiano di Campolato, sorgeva su un’altura Monte Sant’Angelo, circondata da «ripe, da balze, e da valloni»,  dove solo i montanari sapevano avventurarsi con destrezza, accompagnati dalla presenza alpestre dei corvi. Monte S. Angelo era passata dai 146 fuochi del 1532 ai 556 del 1669 [1], alle 2508 anime indicate da Giovan Battista Pacichelli nel suo primo viaggio in Puglia del 1682 [2]. Agli inizi dell’Ottocento Manicone la trovava «talmente popolata» da contare 11.500, quindi la città più abitata del Gargano all’epoca [3]. Secondo la dettagliata relazione di Lorenzo Giustiniani, Monte S. Angelo produceva grano, legumi, vino, olio, carrube, oltre che miele, manna e pece [4]. Persino nei boschi di Monte S. Angelo, che si estendevano fino ai limiti della Foresta Umbra, si seminavano in coltura asciutta cavoli e broccoli che vegetavano anche solo grazie alla rugiada abbondante dei declini boscosi posti sulle alture del Gargano; rugiada e alture permettevano che il terriccio rimanesse umido nonostante i prolungati e frequenti periodi siccitosi. A Monte si coltivavano anche le tipiche essenze orticole, che all’impossibilità di irrigare e al basso regime pluviometrico sopperivano con l’umidità notturna e mattutina, tipica delle medie quote altimetriche garganiche. Anche nei boschi di Monte si era diffusa, seguendo l’esempio di San Marco, la coltivazione del granoturco.  Il frate Michelangelo Manicone, visibilmente appagato, annotava che nel decantare le  benefiche virtù del granoturco aveva convinto un “galantuomo” a coltivarlo, imitato in seguito da altri paesani.  A Monte i vigneti erano stati ovunque estirpati per favorire la produzione olearia. Anche nella contrada di “Matinata” le vigne, sommerse dal fango e dai detriti provenienti dal canalone di sbocco della valle Carbonara, erano state sostituite dagli oliveti. Essendo protetta dai venti boreali e posta in piano, a ridosso di un lungo arenile, la contrada di Mattinata produceva oltre ad un eccellente olio, carrube e frutta di vario genere [5]. Luigi Gatta, preparato storico locale, sostiene che nella prima parte dell’Ottocento nel villaggio di Mattinata l’attività agricola aveva mantenuto gli stessi sistemi di coltura. Pur essendo aumentate le porzioni di terra da coltivare a seguito delle «numerose usurpazioni effettuate nel Demanio e nelle Difese Comunali di Vota e Casiglia», che non avevano tuttavia aumentato più di tanto la produzione agricola [6].  Sempre secondo il Gatta, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, dissodamenti abusivi e usurpazioni non avevano interessato i grandi boschi delle contrade di “Vergone del Lupo”, “Davanti”, “Finocchito” e “Spillacardillo”. Disboscamenti e relative “cesinazioni” con costruzioni di muri a secco, cisterne e pagliai abusivi, erano stati realizzati nelle vicinanze del nascente villaggio, nelle località “Copparosa”, “Paratina”, “Parco Mingarello”, “Don Leonardo”. Fenomeni insediativi che sicuramente determinarono un aumento della popolazione e lo sviluppo del primo nucleo abitato di Mattinata sulla collina del “Castelluccio” [7]. Un altro storico di Mattinata, Michele Tranasi, riporta in maniera dettagliata il tipo di coltivazioni presenti all’inizio dell’Ottocento nelle contrade Carbonara e Mattinata. E se si tengono in conto le affermazioni del Gatta sull’insignificante trasformazione del paesaggio agrario tra fine Settecento e primi decenni dell’Ottocento, diventa possibile ricostruire agevolmente il paesaggio agrario di questo lembo del Gargano.  La strada che da valle Carbonara raggiungeva Monte era scoscesa, eppure i pellegrini e le carovane di muli che trasportavano in continuazione vino, agrumi e frutta, spesso da Vico del Gargano, dovevano necessariamente percorrerla. Manicone proponeva la costruzione di una comoda e larga strada con tornanti da valle Carbonara alla “Sacra Spelonca” passando per “Croci”. Nelle aree meno scoscese della valle di Carbonara erano presenti anche i cereali, tra i quali non poteva mancare il grano, soprattutto dopo la carestia del 1764 che aveva causato migliaia di vittime in tutta la  Capitanata e che, come spiega lo storico di  Monte S. Angelo Giuseppe Piemontese [8], aveva indotto i poveri braccianti ad un disboscamento selvaggio proprio per coltivare grano. La coltura prevalente lungo i pendii era il vigneto, impiantato lungo ingegnosi terrazzamenti che avevano la duplice funzione di permettere la coltivazione in piano e di conservare il terreno fertile, altrimenti destinato ad essere asportato dall’azione dilavante delle acque meteoriche. La descrizione dello sbocco della valle Carbonara nella piana di Mattinata del meridionalista di Altamura, Tommaso Fiore, in “Terra di Puglia e di Basilicata”, pubblicata nel 1968, resta una delle testimonianze più limpide e toccanti di questa margine di territorio: 

«È qui che, penetrando nella zona di Mattinata ancora prima del bivio, ho ricevuto la rivelazione che nessuno mi avrebbe potuto fare, ho constato con i miei occhi quel che mai avrei creduto, me l’avessero detto in cento, il prodigio di un lavoro immenso, di un’opera paziente, senza limiti, forsennata, di un popolo di formiche, o di schiavi ostinati, e il sacrificio di generazioni di lavoratori. Oh, avevo ben conoscenza io, da gran tempo, di muretti a secco, specialmente nella dolce plaga tutta a collinette, a sud-est di Bari […] Ma qui non è più una collina, o non c’è più dolcezza; qui, salendo verso il bivio, ai due fianchi, su per la gran massa montuosa, aspra come qualche cocuzzolo che se ne stacca d’improvviso per la regolarità di cono, tutti gli aspetti intorno non sono che muri rustici, a secco, saldamente piantati per contenere appena un piccolo lembo di terra; e non dieci muretti, non venti, non cinquanta, ma a centinaia, a migliaia, senza numero…»[9].

La contrada di Mattinata, all’epoca non ancora Comune, era una delle aree più fertili del territorio di Monte Sant’Angelo. Era passata dalla proprietà delle badie di Pulsano e di Monte Sacro a quelle della Mensa Arcivescovile di Manfredonia, della Basilica di San Michele, dei monasteri delle Clarisse, dei Celestini e dei Carmelitani, per poi finire, prima e dopo la promulgazione delle leggi eversive del 1806, nel possesso esclusivo della borghesia agraria di Monte S. Angelo, che aveva allontanato forzosamente i poveri contadini e braccianti che avevano tentano di colonizzare quei terreni per ragioni di pura sussistenza. Tranasi elenca persino le famiglie agiate che grazie a quella «corsa alla terra» si strutturarono al vertice politico, economico e sociale della comunità di Monte S. Angelo e che, nel bene e nel male, avrebbero condizionato la vita cittadina nelle vicende legate al Risorgimento e al periodo post unitario: Gambadoro, Vischi, Rago, Torres, d’Angelantonio, Basso, d’Errico, Giordani, de Angelis, Prencipe, del Nobile, Cassa, Ciampoli, Capossela, Gelmini, Bisceglia, Azzarone, Amicarelli.  Anche Tranasi conferma, nella piana di Mattinata, l’attività agricola volta alla produzione di cereali e, in misura minore, quella dedicata all’olivo e al mandorlo, segnalando anche in maniera rilevante la presenza di alberi fruttiferi quali fico, pesco, pero e melo [10].  Infatti, il Gargano non presentava il clima rigido del “Piano Cinque Miglia” [11] o del gelido “Monte Corno” [12], né il caldo estivo soffocante del Tavoliere [13]. Diversi erano gli indicatori naturali, definiti “termometri”, che dimostravano la dolcezza del clima garganico. Uno di questi era costituito dalle Graminacee, le cui spighe  nel Gargano maturavano tutte entro il mese di luglio dando ottimo grano e pregevoli “biade”, mentre nei climi rigidi del nord la fase di levata delle spighe avveniva in agosto o settembre, troppo tardi per ottenere una ideale maturazione prima del ritorno dei rigori invernali. 

La questione è ora tornata d’attualità, considerata la smisurata importazione di grano duro canadese in Italia per produrre pasta. Infatti, il grano canadese spesso non giunge a piena  maturazione e deve essere trattato chimicamente con  erbicidi al fine di  anticiparla. Una pratica vietata in Italia e che scatena una furibonda polemica che tocca sia l’aspetto salutare del grano importato, sia l’aspetto commerciale, in quando negli ultimi decenni ben 600 mila ettari di grano duro del Sud  sono stati abbandonati. L’idea di Domenico Prencipe, titolare del pastificio artigianale Casa Prencipe di Monte S. Angelo, di produrre una linea di pasta dal grano di valle Carbonara ha una forte valenza storica e culturale e costituisce un modello imitabile di eccellenze giovanili che non lasciano il territorio e vincono la lotta contro la tentazione di emigrare da un’area in cui la disoccupazione giovanile ha superato il 50%. Un’ultima curiosità che riguarda l’emigrazione prima del processo unitario e che inevitabilmente farà discutere e riflettere: il non dimenticato preside di Monte S. Angelo, Antonio Ciuffreda, nel riportare in un suo testo i dati della popolazione al 31 ottobre 1820 (12 mila anime), numera solo nove emigrati [14]. Michele Eugenio Di Carlo NOTE [1]  L. Giustiniani, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, tomo VI, Napoli, presso Vincenzo Manfredi, 1803, p. 133. [2]  G. B. Pacichelli, Memorie dei viaggi per la Puglia (1682-1687), a cura di Eleonora Carriero, Edizioni digitali del CISVA, 2010, p. 6.

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span.s1 {font: 10.0px ‘Noteworthy Light’; font-kerning: none}
span.s2 {font-kerning: none} [3]  M. Manicone, La Fisica Daunica , a cura di L. Lunetta e I. Damiani, parte II Gargano, cit., p.21. [4]  L. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, tomo VI, Napoli, presso V. Manfredi, 1803, p. 132. [5]  Cfr. M. Manicone, La Fisica Daunica, parte II, cit., pp. 26-29. [6]  Cfr. L. Gatta, Mattinata frazione di Monte Sant’Angelo tra ‘800 e ‘900, Vol. I, Foggia, Grenzi Editore, 1996, p. 62. [7]  Cfr., ivi, p. 195. [8]  G. Piemontese, I Grimaldi. Monte Sant’Angelo e il Gargano dalla feudalità all’unità d’Italia , Foggia, Bastogi, 2006, pp. 81-88. [9]  T. Fiore, Terra di Puglia e di Basilicata, Cosenza, Pellegrini Editore, 1968; cit. tratta da L. Gatta, Mattinata frazione di Monte Sant’Angelo tra ‘800 e ‘900, cit., p. 208 nota 11. [10]  M. Tranasi, Dalla proprietà comune alla proprietà privata – Monte Sant’Angelo 1806-1860, Foggia, Leone Editrice, 1994, pp. 111-113. [11]  L’Altopiano delle Cinquemiglia, posto a circa 1250 metri s.l.m. nella bassa provincia dell’Aquila, è compreso nel territorio dei comuni di Roccaraso, Rivisondoli, Rocca Pia. [12]  Per Monte Corno lo scienziato Manicone non intende nessuna delle vette delle Alpi così denominate, ma il Corno Grande posto nel massiccio del Gran Sasso e che ne costituisce la vetta più alta (metri 2914 s.l.m.). [13]  Cfr. M. Manicone, La Fisica Appula, tomo V, libro VII, cit., pp. 5-8. [14]  A. Ciuffreda, Uomini e fatti della montagna dell’Angelo, Foggia, Centro Studi Garganici, 1989, p. 356.

fonte http://www.letteremeridiane.org/2018/08/il-gargano-tra-700-e-800-la-valle/?fbclid=IwAR3xYx_0sVnjKEy07RIFxtO7pXTfj1y-_lwTlfXeJKbklyLzR_jldUtGadA

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Ischia, V secolo a.C.: la nascita di un nuovo vulcano

Posted by on Lug 2, 2019

Ischia, V secolo a.C.: la nascita di un nuovo vulcano

a cura di Sandro de Vita, Socio AIV

INGV, Sezione di Napoli Osservatorio Vesuviano

Anno 474 a.C., la colonia greca di Cuma ha appena sconfitto gli Etruschi in una sanguinosa battaglia navale, combattuta nelle acque antistanti il promontorio di Miseno, e vinta solo grazie all’intervento della flotta di Ierone di Siracusa.  Il debito di Cuma nei confronti del tiranno siracusano è grande, in quanto la sconfitta etrusca aveva segnato la fine dell’egemonia di questo popolo sul Tirreno, lasciando ampi spazi all’espansione dei commerci della Magna Grecia e isolando la dodecapoli etrusca in Campania. In segno di gratitudine, quindi, ma anche per mantenere un saldo avamposto alleato, i cumani offrirono a Ierone la possibilità di stabilire un presidio sull’isola d’Ischia, detta allora Pitecusa, l’isola dei vasai.

Le brume dell’alba lentamente si dissolvono al levar del sole sulla palude costiera, all’estremità nord-orientale dell’isola. Il promontorio basso e tozzo che la delimita a oriente sembra una piccola acropoli: il luogo ideale per costruire il tempio che darà protezione all’attracco delle barche da pesca, nella baia e sulla spiaggia, al di là della collina. Ierone, ad Olimpia, ha già offerto a Zeus gli elmi sottratti ai nemici. E’ tempo quindi che anche la guarnigione siracusana a Pitecusa renda il suo tributo agli dei: ad Apollo, forse, o ad Artemide, protettrice di Siracusa.

D’improvviso uno stormo di folaghe si alza in volo, con fragore, abbandonando il canneto fra le grida di altri uccelli nascosti, una coppia di aironi silenziosamente si allontana: forse un predatore, chissà. Poi torna la quiete, un silenzio quasi innaturale, e la terra comincia a tremare, brevemente, in un sommesso brontolio che viene dal profondo, dalle viscere della terra. Ma d’altra parte si sa, i coloni locali e gli indigeni lo dicono, questa terra è inquieta e l’isola va spesso soggetta a scuotimenti tellurici. Poco male, il progetto è già pronto, il tempio si farà…

Anno 2005, i lavori per la costruzione di un depuratore sulla collina di S. Pietro, a est del Porto d’Ischia, mettono in luce i resti della costruzione di un tempio, risalenti al V secolo a.C.: pile di tegole accatastate, lastre di rivestimento decorate, frammenti di antefisse acrome, cataste di mattoni e altri elementi architettonici, testimoniano della presenza di un vero e proprio cantiere, approntato sulla collina per la costruzione di un tempio e abbandonato frettolosamente con tutti i materiali pronti all’uso, seppelliti dai depositi dell’eruzione che formò il cratere dell’attuale Porto d’Ischia (Figg. 1a e b).

L’eruzione (Fig. 2a-d) cominciò con un’esplosione probabilmente innescata dal rilascio improvviso dei gas in pressione, dovuto al surriscaldamento e alla vaporizzazione di acqua superficiale o di una falda a bassa profondità. L’esplosione provocò la formazione di una nube eruttiva di cenere accompagnata dall’espulsione di una grande quantità di frammenti litici, prodotti dall’apertura e dall’allargamento del condotto eruttivo (Fig. 2a).

Blocchi litici fino ad un metro di diametro e brandelli di magma ancora parzialmente fuso furono scagliati tutt’intorno al centro eruttivo e depositati al suolo seguendo traiettorie balistiche, durante la ricaduta continua della cenere dalla nube eruttiva. I primi frammenti balistici, ricadendo sulla collina, impattavano le pile di materiali da costruzione, determinandone la distruzione e il ribaltamento (Fig. 3).

Dopo l’espansione esplosiva di gas e vapore che aveva causato l’apertura del condotto eruttivo l’acqua di falda, inizialmente allontanata dall’onda d’urto, cominciava ad invadere il condotto, interagendo efficacemente con il magma in risalita e provocando forti esplosioni freatomagmatiche (Fig. 2b). La disponibilità di acqua in abbondanza, probabilmente connessa con l’esistenza di una palude costiera in corrispondenza del centro eruttivo, è testimoniata dalla presenza nei depositi cineritici di resti di materiale torboso e sedimenti palustri di argille ancora plastiche.

Durante questa fase dell’eruzione l’esplosività andava progressivamente aumentando, determinando la frammentazione spinta del magma e la formazione di ceneri finissime, che venivano distribuite attorno al centro eruttivo attraverso la formazione di correnti piroclastiche diluite e turbolente (base surges). Questa è la fase più energetica dell’eruzione, durante la quale le correnti piroclastiche si propagavano radialmente a partire dal centro eruttivo (Fig. 2b), spazzando ad alta velocità la collina e lasciando su di essa un deposito di cenere di circa 3 m di spessore, che seppellì il sito su cui si stava edificando il tempio. L’accumulo dei materiali piroclastici anche attorno al centro eruttivo e il probabile allargamento del condotto, unitamente ad una ridotta disponibilità di acqua di falda, rimasta in qualche modo tagliata fuori dal condotto, determinarono un cambiamento nello stile eruttivo, probabilmente dovuto anche all’arrivo in superficie di un magma già in parte degassato e quindi meno esplosivo. L’eruzione quindi proseguì con una fase Stromboliana che, verosimilmente, dovette protrarsi a lungo, per giorni o settimane, determinando la deposizione di uno spesso livello di scorie da caduta e di ceneri grossolane, connesse con la formazione di una colonna eruttiva bassa e instabile (Fig. 3c). Con l’arrivo di magma sempre più degassato e con la progressiva diminuzione dell’esplosività, dopo una breve fase di fontanamento di lava che depose scorie saldate attorno al centro eruttivo (Fig. 3c), l’eruzione andò perdendo di energia e si esaurì con il ristagno del magma residuo che si solidificò all’interno del condotto (Fig. 3d). L’eruzione lasciò un cratere di circa 400 m di diametro, che in seguito venne colmato dall’acqua, formando un piccolo lago costiero, separato dal mare da una barra di poche decine di metri di larghezza (Fig. 4a).

Sebbene questa eruzione sia stata di energia abbastanza ridotta, essa ebbe un impatto locale devastante, distruggendo l’insediamento che stava nascendo sulla collina e modificando l’aspetto del territorio circostante, con la formazione di un nuovo lago. Le fonti storiche confermano che furono abbandonati sia il progetto della costruzione del tempio sia il presidio da parte della guarnigione siracusana. La locale colonia greca di Pitecusa invece, sebbene profondamente colpita da questa calamità naturale, proseguì la sua esistenza sull’isola, anche a dispetto di due ulteriori episodi effusivi che, successivamente, interessarono la zona del lago.

Il lago d’Ischia, o lago de’ Bagni, come a lungo è stato chiamato nei secoli a venire, ha continuato ad essere frequentato fino ai nostri giorni, dimostrando una eccezionale resilienza della locale popolazione, che ha imparato a sfruttare la potenziale fonte di ricchezza costituita dalle sorgenti termali e dalle fumarole ad alta temperatura a scopi curativi e per attività ricreative.

Fino alla metà del XIX secolo il lago rimase tale, anche se sin dal 1670 era stato aperto un canale artificiale, non navigabile, per consentire il ricambio delle acque. Nel mese di luglio del 1853 infine, per ordine del re Ferdinando II di Borbone, cominciarono i lavori per la rimozione dell’istmo di terra che separava il lago dal mare per trasformare l’antico cratere in un porto (Fig. 4b). Il 17 settembre del 1854, con una solenne cerimonia, il nuovo porto fu inaugurato e ancora oggi costituisce il principale approdo dell’isola (Fig. 5).

Fino alla metà del XIX secolo il lago rimase tale, anche se sin dal 1670 era stato aperto un canale artificiale, non navigabile, per consentire il ricambio delle acque. Nel mese di luglio del 1853 infine, per ordine del re Ferdinando II di Borbone, cominciarono i lavori per la rimozione dell’istmo di terra che separava il lago dal mare per trasformare l’antico cratere in un porto (Fig. 4b). Il 17 settembre del 1854, con una solenne cerimonia, il nuovo porto fu inaugurato e ancora oggi costituisce il principale approdo dell’isola (Fig. 5).

fontehttps://www.aivulc.it/it/archivio-notizie/107-ischia-v-secolo-a-c-la-nascita-di-un-nuovo-vulcano.html?fbclid=IwAR36qeZOjf74dZEnw0Azsb2BOtNTL2rYE8mdL8Eavn680-ErKchUREPFDVg

segnalato da Fiorentino Bevilacqua

Figura 1. a) le cataste di tegole abbattute dai depositi dell’eruzione. (foto di S. De Vita)
Figura 4b) dettaglio dei materiali da costruzione (foto di S. de Vita)
Figura 2. Le fasi dell’eruzione del Porto d’Ischia. a) fase di apertura; b) fase freatomagmatica principale; c) fase stromboliana; d) solidificazione del magma residuo all’interno del condotto eruttivo (da de Vita et al., 2013)
Figura 3. L’impatto dei blocchi balistici sulle cataste di materiali da costruzione. Le frecce rosse indicano la direzione di provenienza (da de Vita et al., 2013)
Figura 4. a) il lago d’Ischia nel XVIII secolo
Figura 4b) i lavori per l’apertura del Porto d’Ischia nel 1853
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Riso di Sibari: il gioiello calabrese si classifica come “il migliore d’Italia”

Posted by on Giu 23, 2019

Riso di Sibari: il gioiello calabrese si classifica come “il migliore d’Italia”

Il Riso di Sibari si produce grazie alla coltivazione di una pianta con cadenza annuale chiamata Oryza sativa, scoperta nella catena montuosa dell’Himalaya e successivamente diffusa in Medio Oriente Africa ed Europa. Secondo alcune fonti storiche, il transito di questa pianta dal Sud Italia ne ha determinato la sua importante e preziosa presenza sul territorio calabrese.

“Nu piattu i ris, n’ura i panza tis”: (“Un piatto di riso si digerisce velocemente”) è questa la tipica affermazione del calabrese che si ritrova in tavola un piatto di riso fumante…ma non un comune riso commerciale, bensì il “Riso di Sibari”, invidiato da milioni di produttori di riso per le sue speciali proprietà organolettiche dovute al microclima e al territorio calabrese nella quale viene coltivato viene coltivato.

Coltivato nella Piana di Sibari dove sono presenti circa 600 ettari di terreno adibito alla sua coltivazione, il riso della Piana di Sibari da decenni è riuscito a posizionarsi bene sul mercato sia nazionale che mondiale e ad ottenere molta fiducia da parte dei consumatori che soprattutto in Italia lo usano, con la sua versatilità, in numerose ricette.

Riso di Sibari: alta qualità calabrese

Diverse le particolarità del Riso di Sibari: oltre ad essere coltivato nel territorio calabrese, viene anche lavorato in maniera totalmente artigianale in Calabria: mediante una sbramatura poco invasiva e leggera, il riso di Sibari giunge sulle tavole degli italiani mantenendo tute le sue qualità benefiche ed il suo sapore deciso e intenso, sinonimo della sua alta qualità.

Diverse e varie le tipologie di Riso di Sibari: si passa da un Carnaroli che mantiene al meglio la cottura ad un Integrale che sprigiona tutte le sue proprietà organolettiche, sino ad arrivare ai più pregiati “Aromatico” che sprigiona sin dal primo minuto di cottura i profumi intensi della sua terra e “Nero”, dal chicco integrale e pregiato, ricco naturalmente di antiossidanti.

Parlano gli esperti

Il Riso di Sibari, collocato tra le eccellenze calabresi, secondo gli esperti è un prodotto molto più sapido rispetto alle altre tipologie che si trovano in commercio. Coltivato a pochi passi dal mare, grazie al microclima calabrese e al territorio salmastro nella quale viene coltivato, questa tipologia di riso si classifica come “unica nel suo genere” e proprio per le sue originali caratteristiche risulta essere tra le più ricercate in Italia.

Fino al 2006, il Riso di Sibari veniva venduto data l’enorme richiesta ai produttori del Nord Italia che successivamente lo rivendevano sotto forma di riso locale. Dal 2006 in poi i coltivatori si sono occupati personalmente di tutte le fasi, dalla semina al confezionamento, consentendo così di mantenere l’originalità del prodotto e garantendo un controllo completo di tutta la produzione.

fonte http://strilleat.strill.it/riso-di-sibari-il-gioiello-calabrese-si-classifica-come-il-migliore-ditalia/?fbclid=IwAR3QIekkTYCz4neTqyS3J8hEGAOZZwKwLIcxDzpOHXV2qrkrKP8b9-_e_sk

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I capelli di Venere, una cascata da favola nel cuore verde del Cilento!

Posted by on Giu 23, 2019

I capelli di Venere, una cascata da favola nel cuore verde del Cilento!

Nel cuore del Cilento, poco distante dall’oasi di Morigerati, c’è una cascata che ci porta dritti in una mondo da fiaba. Una volta percfo5rso tutto il sentiero sembrerà di essere arrivati nella terra degli elfi e delle fate.

Stiamo parlando della cascata nota “Capelli di Venere” nel bosco nei pressi di Casaletto Spartano. La cascata ha origine dalle acque del Rio Bussentino, un affluente del fiume Bussento e prende il nome dalla rigogliosa crescita della pianta Capelvenere.

Casaletto Spartano si trova nell’entroterra del Golfo di Policastro e poco distante dal centro si raggiunge con facilità l’ “Area Capello“, da dove partire per la visita alle cascata. Da qui partono due sentieri di cui uno porta appunto alla celebre ed incantevole cascata, in prossimità della quale si conservano i resti di un vecchio Mulino ristrutturato.

Nei pressi della cascata anche i resti di un antico ponte “Normanno”.  le cascate formano delle pozze naturali dove è possibile fare il bagno e godere del refrigerio dell’acqua. Una volta ammirata la cascata è possibile seguire il corso del Rio nelle sue evoluzione attraverso i sentieri dedicati.

Aree attrezzate per pic nic rendono il bosco una meta ideale per una gita diversa dal solito.

Informazioni

Dove: Casaletto Spartano – SA

Come arrivare: Percorre la superstrada che dallo svincolo autostradale di Buonabitacolo porta a Caselle in Pittari. da qui seguire la strada provinciale fino a Casaletto Spartano. Indicazioni per l’Oasi indicano come raggiungere il punto di partenza dei sentieri.

Ingresso all’Oasi a pagamento (circa 3 Euro)

fonte https://grandenapoli.it/i-capelli-di-venere-una-cascata-da-favola-nel-cuore-verde-del-cilento/?fbclid=IwAR0FfsiQho5fV8Bv_6gWFTUQao1PVyWKSYsuJZiHQGbdMdPxXIWwaL2sYcQ

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Recessione demografica, peggio che la Grande guerra

Posted by on Giu 21, 2019

Recessione demografica, peggio che la Grande guerra

I dati Istat confermano un fenomeno allarmante: quello della «recessione demografica», termine che eravamo soliti sentire con riferimento all’ambito economico. È un’Italia che si sta spopolando. Eppure il 95% degli italiani considera la famiglia un progetto valido. Il rilancio può avvenire solo culturalmente. 

Al di là dei dati economici e occupazionali, ciò che più colpisce delle 300 pagine del Rapporto annuale 2019 dell’Istat, presentato ieri dal presidente Gian Carlo Blangiardo, sono le prospettive demografiche del nostro Paese. Prospettive per modo di dire, verrebbe con amara ironia da osservare, dal momento che questi dati non fanno che confermare un fenomeno allarmante: quello della «recessione demografica». Sì, «recessione», un termine che eravamo soliti sentire con riferimento all’ambito economico, ormai è quello ritenuto più adatto per spiegare l’andamento demografico di un’Italia che, per farla breve, si sta spopolando. E non da ora.

Infatti, la «recessione demografica» risulta rilevata già dal 2015 in modo significativo. Eppure, ci dice l’Istat, non tarda a rallentare, facendo registrare «un vero e proprio calo numerico di cui si ha memoria nella storia d’Italia solo risalendo al lontano biennio 1917-1918». Tanto è vero che a pagina 123 del rapporto è presente una sconvolgente tabella che in buona sostanza mette a confronto il triennio 1915-1918 con quello con quello 2016-2019.

Il problema è che nel Novecento, in quegli anni, il nostro Paese era stato flagellato dalla Grande Guerra e dai successivi drammatici effetti dell’epidemia di “Spagnola”, mentre oggi nulla di simile, apparentemente, sembra verificarsi. Diciamo apparentemente perché in realtà, numeri alla mano, tra un secolo fa e oggi la tendenza demografica appare, come si è poc’anzi detto, tremendamente simile al punto dall’essere perfino sovrapponibile. Con una grossa differenza: la «recessione demografica» di 100 anni fa era determinata da cause eccezionali – quelle ricordate -, mentre quella odierna risulta tendenziale. E dura da decenni. In modo grave perlomeno dal 1993, primo anno dal dopoguerra in cui la differenza tra nascite e decessi è stata negativa, con il Paese che ha sempre manifestato, con rare eccezioni, una dinamica naturale in deficit. 

Un deficit, quello di cui stiamo parlando, determinato da una riduzione costante delle nascite – dalle 576.000 nel 2008 alle circa 450.000 nel 2018 – riduzione a cui si è accompagnato, come se non bastasse, un continuo aumento di decessi legati al continuo invecchiamento della popolazione, aumento che nel 2017 ha toccato il suo apice con 649.000 morti. 

Completa questo cupo quadro una sottolineatura che l’Istat pone in evidenza, ossia il fatto che l’immigrazione, spesso invocata come panacea di tutti i mali da un certo mondo cattolico, non possa porre rimedio a tutto ciò. Per due motivi. Il primo è che nel nostro Paese gli immigrati arrivano in numero crescente da decenni, senza che ciò, demograficamente parlando, abbia determinato alcuna inversione di tendenza; il secondo consiste nel fatto che l’effetto che pur intensi flussi migratori hanno finora avuto è solo stato quello di attutire la denatalità. Decisamente troppo poco.

L’Italia ha dunque ancora qualche speranza o è destinata a estinguersi? È una domanda di certo scomoda ma, a questo punto, non più evitabile. Diciamo che ci sono dati che, in aggiunta a quelli già esposti, fanno immaginare che la nostra penisola potrebbe un giorno non così lontano davvero trovarsi in crisi, primo fra tutti quello secondo cui il 45% delle donne tra i 18 e i 49 anni non ha ancora avuto figli. Accanto a questo numero spaventoso, c’è però ancora, tra le pieghe delle statistiche Istat, qualcosa che fa sperare. Ci riferiamo a quella parte di italiani che dichiara che l’avere figli non rientra nel loro progetto di vita. Sono meno del 5%.

Questo significa che oltre il 95% del popolo italiano, sia pure con sfumature differenti, considera la realizzazione di una famiglia come un progetto valido. Ed è da questo numero, da questo 95%, che occorre ripartire. Come? 

Anzitutto rilanciando la famiglia come modello culturale, senza aspettarsi troppo da aiuti economici e bonus che pure sarebbe ora che le istituzioni iniziassero a stanziare alle giovani coppie. Ieri ad esempio il ministro della Famiglia, commentando i dati Istat, ha ribadito la volontà di presentare a breve una riforma completa dell’assegno familiare. Ma la «recessione demografica» non è dovuta a quella economica, occorre tenerlo ben presente. Perché il problema, urge ripeterlo, è culturale e ancor prima spirituale e origina da un’Italia che non ha fiducia nel futuro perché ha smesso, da tempo purtroppo, di avere fede. Tanto è vero che le famiglie più numerose sono, come i sociologi sanno da tempo, quelle più religiose. Ora, sapranno i cattolici e ancor prima i loro pastori evidenziare questa verità fondamentale? Il futuro del nostro Paese è nelle loro mani o, meglio, nei loro cuori.

fonte http://lanuovabq.it/it/recessione-demografica-peggio-che-la-grande-guerra

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