Nel
2017 e poi ancora nel 2018, l’Associazione “I Sedili di Napoli Onlus”,
unitamente ad altre Associazioni Culturali, di Protezione Civile, di
Restauratori, Archeologi e Curatori dei Beni Culturali, tutte squisitamente
territoriali, oltre ai Comitati Civici del Quartiere, proposero al Mibac,
Soprintendenza ai Beni Archeologici, un progetto di recupero e di
valorizzazione del sito archeologico detto “Carminiello ai Mannesi”
dall’omonima chiesa secentesca che fu edificata sopra una antica Domus con
annesso Mitreo in via Duomo e che fu distrutta da bombardamenti aerei
anglo-americani nel 1943.
Le
Associazioni napoletane manifestarono l’intenzione di provvedere a proprie
spese al recupero ed alla valorizzazione del sito archeologico per renderlo
nuovamente fruibile per la Città e per i turisti, dopo lunghi anni di abbandono
e di degrado e dopo che quest’area fu “strappata” alla criminalità organizzata
che ne aveva fatto un suo possedimento e base operativa!
Tra
gli argomenti proposti soprattutto il tema della Legalità e delle opportunità
anche di riscatto civile, morale ed occupazionali a favore di un Quartiere, in
pieno Centro Storico, dove il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 66% e
dove la criminalità organizzata continua a dettare la sua legge che si sta
manifestando con una violenza sempre più crescente, specie in questi ultimi due
anni.
A
seguito delle istanze delle associazioni territoriali, in un incontro informale
con la Soprintendenza, questa espresse diversi dubbi sulla opportunità di
affidare a delle Associazioni il sito, rinviando ad una valutazione più
approfondita la richiesta. Da allora, informa Giuseppe Serroni, Presidente
della Onlus I Sedili di Napoli, non abbiamo più avuto nessuna notizia in merito
ed oggi apprendiamo, solo dalla Stampa locale, che il MIBAC ha partecipato ad
una presentazione di un’altra Onlus, questa con sede a Roma, di un ambizioso
progetto di riqualificazione del “Rione Forcella” che comprende anche il sito
archeologico in questione, prevedendone l’apertura a visite guidate.
Accogliamo
con soddisfazione, continua Serroni, il fatto che dopo due anni di silenzio il
Mibac abbia cambiato idea su un affido ad Associazioni e di questo ovviamente
ne siamo lieti ma, non comprendiamo i motivi per i quali sono state ignorate le
istanze legittime di tante aggregazioni fortemente e notoriamente attive nel
Centro Storico che attendono ancora almeno una messaggio di diniego, mentre si
preferisce, con una “apparente” discriminazione territoriale, concordare con
un’altra Onlus che non ha nessun legame col territorio e che addirittura ha
presentato un progetto “Forcella” lontano, non solo logisticamente (nella
“borghesissima” Piazza dei Martiri) ma anche come valore “simbolico”, dal
quartiere che si vuole valorizzare e questo senza coinvolgere tutte le realtà
aggregative di Forcella e dei Decumani, oltretutto nella stessa giornata nella
quale proprio a Forcella sfilavano i bambini delle scuole del Quartiere per
protestare contro il malaffare e per rivendicare il ripristino ed il
rafforzamento della Legalità ed il diritto al Futuro!
Abbiamo
pertanto nuovamente scritto alla Soprintendenza Archeologica, conclude Serroni,
per chiedere chiarimenti su questa questione ed abbiamo anche cortesemente
richiesto un incontro con il Presidente della Onlus romana al fine di
verificare la possibilità di far coincidere gli interessi di questa e le vere
aspettative del Quartiere, confidando nel buon senso e nell’onestà
intellettuale di tutte le parti in causa.
Pasqua si avvicina e l’arte pasticciera napolitana affila le armi per deliziare i palati del Regno e non solo. Dario Saltarelli dopo averci regalato a Natale un Panettone che il mondo ci invidia e che vince premi di livello internazionale ormai da anni, per questa Pasqua ritorna alla Corte del Re presentando la colomba Pasquale che è pronta ad emozionarci ancora.
Di seguito foto scattate da Enzo de Maio al complesso del Padri Passionisti nel Parco della Reggia di Caserta dove Dario ha presentato in anteprima la colomba che vedremo sulle tavole nel 2019
Questi ortaggi sono davvero poco calorici –
circa 25 calorie per 100 grammi – mentre hanno molta fibra e vitamina C.
Nei
canaloni, nei campi baciati dal sole, lì dove ci sono rovi, acqua e terreni
bruciati. È il regno degli asparagi selvatici (Asparagus officinalis)
piante suffruticose sempre verdi dalle foglie aghiformi diffusi nell’Europa
centro-meridionale fin dall’antichità. Gli asparagi, specie quelli selvatici
sono ricchi di sostanze energetiche e vengono da sempre ritenuti dei potenti
afrodisiaci.
Questi
ortaggi sono davvero poco calorici – circa 25 calorie per 100 grammi – mentre
hanno molta fibra, vitamina C (in un etto ce ne sono 25 mg, il che equivale a
circa un terzo del fabbisogno di una persona adulta), carotenoidi (i
precursori della vitamina A, che ha un’azione antiossidante e protettiva della
pelle e delle mucose e stimola l’azione del fegato), vitamina B e sali
minerali, tra i quali calcio, fosforo
e potassio:
mangiando 100 grammi di asparagi si assume circa il 75% della quantità
quotidiana necessaria di acido folico,
sostanza molto importante per la moltiplicazione delle cellule dell’organismo e
per la sintesi di nuove proteine. Gli asparagi sono molto depurativi e
diuretici, se non ci sono controindicazioni vale la pena di
approfittarne per aiutare e eliminare il ristagno di liquidi nei tessuti e
quindi ridurre la cellulite. In generale migliorano le funzioni renali accelerando
la diuresi e rimuovendo i sedimenti. Sei soggetto ad attacchi di malumore?
Allora gli asparagi fanno al caso tuo: infatti, secondo
alcuni studi questi ortaggi avrebbero una funzione antidepressiva,
probabilmente legata alla loro azione disintossicante e diuretica. Mangiane con
parsimonia solo se tendi a soffrire di disturbi renali, di cistiti e di calcoli
renali, perché contengono acido urico che può incrementare l’infezione già in
atto.
Una ricetta semplice? Sbollentati e poi saltati in padella con olio extravergine d’oliva e parmigiano grattugiato. Oppure sbollentati e poi sistemati per 15 minuti in un cartoccio di carta stagnola con olio, aglio, pomodoro fresco e pomodoro secco. Nel forno per 15 minuti e la prelibatezza è servita.
Anni fa, in un dibattito
televisivo, si fronteggiarono, per così dire, due climatologi. Un
“vecchio” Prof. universitario e un giovane professorino, sempre
universitario, che aveva militato, mi sembra, in una associazione
ambientalista.
Il più giovane sosteneva
che la responsabilità dell’aumento della temperatura atmosferica, fosse solo e
soltanto dell’aumento della CO2 (anidride carbonica) e dell’effetto serra che
la sua presenza causa. Se aumenta la CO2, aumenta l’effetto serra che essa produce;
se aumenta questo, aumenta il calore trattenuto in atmosfera e, quindi, aumenta
la temperatura dell’atmosfera stessa.
Il vecchio Prof, invece,
sosteneva che l’aumento della CO2 non poteva essere il responsabile
dell’aumento di temperatura osservato (e c’erano pure dei dubbi su questi
valori in aumento). Faceva un esempio numerico: la CO2 è solo il 2% di tutti i
gas e vapori atmosferici capaci di trattenere il “calore” riflesso
dalla superficie terrestre che, in loro assenza, verrebbe disperso nello spazio.
Di questo 2% di molecole (CO2), solo il 2% è dovuto alle attività umane. In
numeri: su 10.000 molecole di gas (e vapori) ad effetto serra, solo 200 sono di
anidride carbonica (2% di 10.000); di queste 200 molecole di CO2, solo il 2% è
prodotto dall’uomo o, come si dice, è di origine antropica: 4 molecole (2% di
200). Quindi: su 10.000 molecole ad effetto serra, capaci, cioè, di trattenere
il calore in atmosfera e farne salire la temperatura, solo 4 sono prodotte
dall’uomo.
Possono queste 4 molecole
su 10.0000 fare tanto?
Il prof giovane, a questo
punto, si “sbracciava” chiamando in causa la teoria del caos (il
grande effetto prodotto da una piccola causa; la farfalla che batte le ali qui
causando, involontariamente, un tornado a Melbourne, per intenderci).
…E fu a questo punto che
mi venne voglia di andare via o cambiare canale: se tanto mi dà tanto, tanto mi
deve dare tanto sempre. Quella teoria la devi applicare sempre.
L’altro Prof, quello più
anziano, aveva detto che qualcuno degli altri gas (alcuni dei quali molto più
efficaci della CO2 nel trattenere il “calore” in atmosfera), variava
nel tempo molto più di quanto non variasse la CO2 antropica; inoltre c’era il
dubbio sulla costanza della quantità di energia che arriva dal Sole: se fosse
costante o fosse aumentata.
Questo fatto, i dati
paleoclimatici, storici etc. lasciavano propendere per una situazione ancora
tutta da verificare prima di lanciarsi in guerre sante.
Allora?
Forse, volendo, una certa parte, mettere sotto accusa un
certo sistema di produzione, di vita etc, e volendo, un’altra parte (quella contrapposta), approfittare di questo per
creare una situazione persino migliore, per essa, di quella che si andava
eliminando, si è scelto il mezzo della CO2 che poteva contare:
a) su un esercito di
volontari di belle speranze e grandi ideali
b) su una
“autorevole” (nonostante tutto, nonostante certe mail…) organizzazione
intergovernativa (IPPC), che sfornava previsioni allarmistiche, catastrofiche,
mai avveratesi ma in grado di motivare, alimentare e sostenere timori e aspettative dell’esercito
che, così, avrebbe continuato a marciare nella direzione creduta …”sua”, fermamente e soltantosua.
c) su ricerche sostenute e
carriere costruite solo se indirizzate nel verso giusto e, infine (poteva
mancare?) …
d) sulla gran cassa
dell’informazione mediatica che ha un fiuto eccezionale per annusare la
direzione del vento …
E’ il meccanismo solito di
quando c’è un cambiamento in atto che diventa, a torto o a ragione, epocale:
agli inizi vi sono motivazioni giuste, valide, concrete; poi, si finisce per
buttare nel calderone tutto, anche le scemenze: fanno comodo a chi, in buona
fede, lo vuole, il cambiamento (perché aiutano a raggiungere la massa critica);
sono utili a chi le usa, le “scemenze”, perché danno la possibilità di salire
sul carro che, di lì a poco, sarà dei vincitori… sono utili ai veri pupari (la
massa critica sarà raggiunta prima); ma sfugge (a quelli in buona fede) che,
così facendo, viene minata la credibilità del processo e si aprono le porte agli
opportunisti di turno che, magari, sono gli stessi di sempre; alcuni, forse,
sono proprio gli stessi che patirebbero il cambiamento in atto.
le lasagne sono un piatto napoletano e non emiliano. Già nel Duecento a Napoli si guastava la pasta a strati. Le lasagne arriveranno in Emilia solo nel primo novecento.
Non tutti sanno che le lasagne sono
napoletane, una delle tante prelibatezze nate nella Napoli borbonica.
La pasta a strati infatti nasce a Napoli e non a Bologna.
LASAGNE NAPOLETANE
Lo scrittore e saggista, Angelo
Forgione, attraverso le ricerche fatte per il suo ultimo libro “Il Re di Napoli“ racconta che le lasagne
sono un piatto della cucina napoletana e non di quella emiliana.
Come è accaduto per la parmigiana
anche la lasagna viene erroneamente attribuita alla cucina settentrionale. Le lasagne, quelle a strati ripieni, nascono a Napoli, non
a Bologna. Già nel Duecento, all’ombra del Vesuvio, si inframezzavano
sfoglie di pasta con formaggio grattugiato e spezie in polvere.
Fu nell’Ottocento che
divennero le lasagne napoletane per come le conosciamo.
Solo nel primo Novecento gli emiliani, leggendo i testi napoletani,
fecero la loro versione.
L’IMPORTANZA DEL POMODORO NELLA CUCINA
NAPOLETANA
E del resto, il pomodoro non fu mai
coltivato in Emilia prima dell’Unità.
Fu, Ferdinando I di Borbone (1751 – 1825) a spronare alla crescita la cucina
popolare napoletana. Il sovrano tornava a Napoli per reggere il Regno delle due
Sicilie dopo la breve parentesi di Gioacchino Murat.
Leggenda vuole che Ferdinando
I, fosse tanto goloso a tal punto di battersi pur di introdurre i maccheroni
con il ragù nei menu ufficiali. E quando si trovava faccia a faccia con la
sua amata pietanza non poteva fare a meno di intingere le dita nella salsa
nonostante si trovasse alla presenza di notabili stranieri. Il pomodoro fu la vera rivoluzione della cucina partenopea e gli stessi
napoletani furono molto abili nell’insegnare a tutti il modo per cucinarlo,
mangiarlo e come gustare per le sue enormi qualità.
RICETTA DELLE LASAGNE
NAPOLETANE
Ecco come si preparano le lasagne della tradizione napoletana.
Ingredienti
Dosi per 8 persone:
300
gr di sfoglie di lasagne
400
gr di fior di latte
3
uova
400
gr di ricotta romana
100
gr di pecorino
Per il ragù:
150
gr di costine di maiale
1
salsiccia
250
gr di muscolo di manzo
50
gr di pancetta
1
cipolla
1
carota
1
costa di sedano
1/2
bicchiere di vino rosso
1,5
lt di passata di pomodoro
sale
olio
di oliva extravergine
Per le polpette:
250
gr di carne macinata
1
uovo
1
fetta di pane
20
gr di parmigiano
sale
olio
di semi
Preparazione delle lasagne
Iniziate a preparare il ragù tagliando a
tocchetti i tre tipi di carne.
In una casseruola con dell’olio fate appassire il
trito di cipolla, sedano e carota assieme alla pancetta a cubetti.
Aggiungete quindi la carne e fatela cuocere per qualche minuto.
A questo punto mettete il vino e fatelo sfumare
rigirando anche la carne di tanto in tanto.
Inserite anche la passata di pomodoro e mescolate.
Dal momento in cui il sugo riprende a bollire
abbassate al minimo la fiamma e fate cuocere lentamente per 4 ore.
Quando sarà pronto sollevate i pezzi di carne più grossi e teneteli da
parte.
Intanto preparate le polpette mettendo in una
ciotola la carne macinata, l’uovo, il pane a tocchetti, parmigiano e sale.
Amalgamate bene e formate con le mani tante piccolissime polpette.
Friggete le polpette, in olio bollente,
rigirandole.
Mettete la ricotta in una ciotola ed
aggiungetegli una parte di sugo per poterla lavorare con una forchetta.
Cuocete per qualche minuto in acqua bollente
salata, con aggiunta di qualche goccia di olio, le sfoglie di lasagne.
Man mano che saranno cotte sollevatele e mettete ad asciugare su di un
canovaccio pulito.
Intanto bollite le uova per 10 minuti in un
pentolino con dell’acqua.
Quindi sbucciatele e tagliatele a fette.
Preparate la lasagna cospargendo la pirofila con
un mestolo di ragù.
Adagiate quindi il primo strato di sfoglie (se necessario tagliatene
qualcuna) e ricopritelo con della ricotta.
Aggiungete quindi il fior di latte a tocchetti e poi le uova.
Ripetete i passassi mettendo anche le polpette e
la spolverata di pecorino.
Ricoprite nuovamente mettendo ricotta e passata di pomodoro.
Terminate con una spolverata di pecorino ed
cuocete in forno già caldo a 200 °C circa 30 minuti.
Quando preparare la lasagna
di carnevale
Nonostante sia un piatto tradizionalmente
associato al periodo di carnevale, oggi la lasagna viene preparata davvero
durante tutto l’anno, anche in quei periodi durante i quali (pensiamo
all’estate) dovremmo forse metterci alla ricerca di qualcosa di più leggero da
portare in tavola.
Sarebbe secondo i canoni del mangiare moderno un piatto unico, in quanto comunque al suo interno finiscono carne, uova e altre componenti tipiche dei secondi. Non stupitevi però se, quando invitati per un pranzo in casa alla napoletana, la lasagna sarà soltanto una delle portate.
Il cane corso è una razza
molto diffusa nel meridione della penisola.
E’ un cane molto bello
all’aspetto, possente e agile ma al tempo stesso dalla scattante muscolatura, ha il pelo solitamente di colore nero ma non sono rare anche
le varianti grigio piombo o grigio chiaro e fulvo. Il pelo è corto ma non raso
ed è ispido ed è detto anche pelo di vacca. Il peso del Cane Corso varia dai 40
ai 60 kg mentre l’altezza può variare dai 60 ai 70 cm al garrese ma, non è da
escludere, che ci fossero anticamente esemplari che superavano questa stazza.
Il cane corso o
can ‘e presa, è un cane di origini antichissime. Si è evoluto assieme all’uomo
cacciatore e pastore svolgendo diverse funzioni ma, dimostrandosi
insostituibile nella caccia. In Europa, la carne di cinghiale prima e di maiale
poi, quando l’uomo imparò ad allevarlo, fu di grandissima importanza per la
sopravvivenza. Il corso era l’unico cane in grado di tener testa ad un
cinghiale e l’unico in grado di bloccare la fuga ad un maiale, quando questo
era allevato col sistema brado. Nelle nostre terre, pare che fino a 30 o 40
anni fa, vi fosse un figura particolare, il porcaro, che con l’aiuto di una
sola coppia di cani era in grado di controllare gli allevamenti di suini di un
intero paese.
Le origini del
corso, come dicevamo, sono antichissime. Durante l’impero romano, era
addestrato al combattimento per il quale aveva una grande predisposizione, o
utilizzato in battaglia contro i nemici. Tuttavia, essendo
spiccatamente territoriale era perfetto per la difesa della proprietà.
Il nome Corso non deriva, come molti pensano, da Corsica. Il termine Corso
deriva da: chors, ovvero cane che fa da guardia al cortile o guardia del corpo.
Molte sono le
testimonianze scritte che citano questo maestoso animale
Niccolò
Machiavelli in un poemetto intitolato L’Asino, scrive: “Vidi una volpe
maligna e importuna che non truova ancor reste che la pigli; e un can
còrso abbaiar alla luna”.
Nel poemetto
Leporea (1628), scritto in onore del cardinale Scipione Borghese, leggiamo:
Qui li ciechi
lepier e corsi
Can, di
ferocità rabiosa armati,
affrontar lupi,
apsi, leoni et orsi
co’ i
cacciatori suoi vedrete entrati.
Giovanni Verga,
nei Malavoglia (1881) scrive “Morde peggio di un cane corso”
Giovan Battista
Marino (1569 – 1625) racconta il mito di Atteone, formidabile cacciatore,
mutato per vendetta da Artemide in cervo e quindi rincorso e sbranato dai suoi
stessi cani e scrive:
I veltri liberi
e franchi
sono i primi
alla pesta.
Più lontani e
più lenti
vengon gli
alani e i corsi.
Seguono i medi
e i persi
temerari e
ardenti…
Il corso sempre
viene elogiato per qualità come la velocità e la forza, l’agilità e la
resistenza ed il corpo possente e massiccio. E’ molto legato al suo padrone e
si adegua a ciò che questi gli richiede. Nelle mani sbagliate, proprio per la
sua possenza, può divenire estremamente pericoloso.
A partire degli
anni 1960, con il progressivo abbandono delle campagne, l’allevamento di questi
cani subì un declino significativo che, però, fortunatamente non durò a lungo.
Già negli anni ’70 cominciò un’opera di recupero di questo cane che ben presto
suscitò l’interesse di parecchi cinofili, attratti dal fascino della razza nel
suo aspetto fisico e nella sua indole. Se cresciuto come cane da compagnia, il
corso resta legato alla famiglia, se allevato come cacciatore diviene un cane
ardimentoso e feroce.
Si racconta che
il re di Napoli Ferdinando II d’Aragona (Napoli, 26 agosto 1469 – Somma
Vesuviana, 7 settembre 1496) volle che venisse selezionata la variante “corso”
a pelo raso e richiese che venissero incrociati i nostri molossi rustici col
cane da presa di Maiorca per ottenere un animale a pelo raso diverso dal cane
che veniva utilizzato nelle campagne e che avesse caratteristiche nobiliari. Lo
scopo era quello di usarlo come cane da combattimento.
Molto interessante è il rapporto del cane corso con i Briganti. E’ possibile trovarne riscontro nell’appassionante ‘I cani in guerra. Da Tutankhamon a Bin Laden’, di Giovanni Todaro. I briganti preunitari, comuni malviventi, spesso si avvalevano di cani corsi, che servivano per fare la guardia nei rifugi e percepire, a distanza, l’avvicinarsi del nemico. Secondo le cronache dell’epoca, ma questo è tutto da verificare, alcuni briganti avevano cani corsi innaturalmente feroci, abituati addirittura a cibarsi di carne umana. L’utilizzo dei cani corsi da parte dei briganti postunitari, i nostri resistenti all’invasione piemontese, continuò anche contro l’esercito sabaudo prima e italiano poi durante il periodo 1860-70 circa. Per questo motivo le autorità militari del Regno d’Italia con ordinanza del 25 ottobre 1862 emanarono il seguente ordine: “Dalle ore 24 italiane tutti i cani, tanto dentro l’abitato che in campagna, dovranno essere rinchiusi. Quelli che si troveranno fuori saranno immediatamente uccisi”.