Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Eleonora de Fonseca Pimentel e Maria Antonietta Macciocchi a confronto

Posted by on Nov 1, 2019

Eleonora de Fonseca Pimentel e Maria Antonietta Macciocchi a confronto

     Nella sua marcia  per restituire al legittimo sovrano un regno che i giacobini napoletani, tramandati poi come eroi, patrioti e martiri, avevano consegnato alle fameliche ed insaziabili truppe francesi, il Cardinale Ruffo era accompagnato dall’abate Domenico Sacchinelli,suo segretario, e  da Domenico Petromasi, Commissario di guerra e tenente colonnello dei Regi Eserciti di S. M. Siciliana.

Read More

Ancora sulla Eleonora de Fonseca Pimentel

Posted by on Ott 25, 2019

Ancora sulla Eleonora de Fonseca Pimentel

Riprendendo il discorso sulla de Fonseca, vorrei partire da un’affermazione fatta dalla Urgnani – estimatrice della marchesa – nell’introduzione del suo libro. L’autrice, muovendosi sempre nell’alveo della consolidata tradizione storiografica scritta prima dai giacobini e poi dai loro eredi spirituali, definisce il lavoro dei revisionisti “ambigue riletture” tendenti “a stravolgere il senso di quel passato che ha portato all’unità d’Italia”. Già l’uso dell’aggettivo “ambigue ” per definire le ricerche degli storici revisionisti può dare un’idea di come verranno affrontati e discussi sia il personaggio de Fonseca che il suo contributo alle vicende ed alla situazione storica e socio – politica di quella che diverrà, di nome e di fatto, Repubblica Italiana. Dato il taglio dell’opera, la sua pubblicazione non poteva non essere sponsorizzata che dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, a cui va la riconoscenza dell’autrice, e “in particolare, a Gerardo Marotta, che stanziando una modesta ma significativa somma a titolo di borsa di studio, hanno permesso di portare a temine questo progetto, al quale altre fonti avevano già negato il necessario supporto istituzionale” . A riprova di come vengano rigorosamente seguite le direttive impartite agli storici allineati, salta subito agli occhi il ricorso ad una comune terminologia per definire lo stesso argomento. Nel 1998, infatti, la Urgnani , per l’azione di revisione, ricorse al verbo “stravolgere”, e la Presidente della Società Napoletana di Storia Patria, dottoressa Renata De Lorenzo , nel 1999, adopera proprio lo stesso verbo in occasione dell’ annunciata rimozione del busto di Cialdini dalla Camera di Commercio di Napoli: << … La Società Napoletana di Storia Patria, cui competono anche i pareri sulla toponomastica, si esprime contro una visione del passato che stravolge gli spazi e il loro portato simbolico …>> . Questa visione revisionista del passato che “stravolgerebbe” il portato simbolico si permette di ravvisare in Cialdini un criminale di guerra mentre, secondo la visione della storiografia di regime, essendo gli eccidi di Pontelandolfo e Casalduni solo “presunti” (sic), la responsabilità di Cialdini sarebbe tutta da dimostrare. Ma ritorniamo adesso al personaggio de Fonseca per vedere quale contributo essa ha potuto apportare o ha apportato alla storia ed alla situazione socio – politica dell’Italia. Ovviamente, parlando di “contributo” (derivante da cum + tribuere), non ci si può esimere dal prendere in considerazione il significato del termine, il quale sta a indicare la partecipazione di una persona, con opere, consigli o danaro, per rendere realizzabile un’idea o un’impresa. Della Pimentel analizziamo, quindi, gli eventuali influssi che la sua opera di letterata prima e di giornalista poi hanno avuto sugli avvenimenti di fine ‘700 nel Regno delle Due Sicilie. A seguito di una serie di disavventure personali, tra cui un matrimonio mal riuscito, che fu per la nostra non causa di gioia e felicità, quanto piuttosto di dolori e di tragedie (come la morte di un figlio, a seguito di un aborto generato presumibilmente dai maltrattamenti del marito), la “tirannica”, “oscurantista” e “retrograda” Corte borbonica le offrì non solo un impiego retribuito come curatrice della biblioteca della regina, ma anche un sussidio mensile, in considerazione del suo stato di indigenza seguito al fallimento del matrimonio ed alle spese del lungo processo di separazione intentato dal padre. Per opportuna conoscenza, l’assegno concessole in data 6 agosto 1785 non le fu sospeso neanche quando perdette il posto di curatrice della biblioteca della regina né perdette l’altro assegno, quando, sospettata di tramare contro la Corte, fu rinchiusa nelle carceri della Vicaria, come attestato dalla stessa Urgnani . Questo per dimostrare quanto “insensibili” e “tirannici” fossero i Borbone! Nel periodo della frequentazione degli ambienti di corte, fra la “poetessa arcade” e i sovrani fu un ininterrotto idillio costellato da una lunga serie di sonetti, cantate e poemi in ottave per celebrare, da buona cortigiana, tutto quello che riguardava i sovrani, il loro modo di vivere, il loro rapporto con il popolo, il loro modo di governare, ecc. Fermiamoci qui per il momento e facciamo alcune considerazioni. Dal 1760, anno del trasferimento a Napoli, al 1799, chi era la “vera” de Fonseca : la poetessa di corte o quella del sonetto “Rediviva Poppea “? In entrambi i casi, a parte l’indiscutibile bagaglio culturale di cui la de Fonseca era portatrice, ci troveremo di fronte ad un soggetto la cui grandezza storica ha molti punti in comune con quella dell’”eroe dei due mondi”, del “re gentiluomo”, del “grande statista”, ecc. ai quali è stato assegnato un posto di rilievo nei libri di storia ed un’eco imperitura nella memoria collettiva. Se infatti i sentimenti e lo spirito con cui sono stati composti i numerosissimi versi scritti, come detto, per tutte le occasioni relative ai sovrani sono quelli della de Fonseca di “ Rediviva Poppea ”, ci troviamo di fronte ad una persona fondamentalmente ipocrita e falsa e quindi senza alcun titolo per poter aspirare ad essere inserita nel “Pantheon dei martiri” o nell’Albo d’oro degli eroi. Se invece, a parte le iperboli proprie della poesia encomiastica, i sentimenti espressi sono veri, allora ci troviamo di fronte ad una persona ingrata e incoerente per la quale un sovrano che le ha permesso di condurre una vita all’altezza del suo rango, prima è “Legislator dei Popoli suggetti” e “di Regal genio acceso”, “Vindice … e difensor del giusto”,e subito dopo diventa “imbecille tiranno”. Anche in questo secondo caso l’ ingratitudine e l’incoerenza non costituiscono, certo, titoli di merito, specialmente se , del personaggio, vogliamo analizzare l’aspetto giornalistico e i suoi eventuali influssi politici, in considerazione del ruolo di “opinion maker” connesso all’attività divulgativa esercitata attraverso un organo di stampa. Da quanto sappiamo dal Sacchinelli , proprio nella sua veste di maggiore responsabile del Monitore, la de Fonseca non brillò di coerenza, e, pur di non far affievolire o addirittura estinguere nell’animo dei colleghi repubblicani lo spirito rivoluzionario, inventava notizie di sana pianta, notizie che puntigliosamente il Sacchinelli si prende la briga di contestare, come quella relativa allo sbarco dei russi a Manfredonia, fatti diventare servi di pena vestiti con divise dell’esercito russo(pag. 199 par. 124 op. cit.), notizia smentita sul campo, quando – a proposito della battaglia di Resina – “… Allora gli uffiziali Russi ordinarono la carica alla baionetta, e lo stesso a loro imitazione fecero gli uffiziali di de Sectis; ma il conflitto finì prima di cominciare, perché i soldati del vecchio Regio esercito, che erano coi repubblicani, vedendo gli antichi loro compagni d’armi e i veri soldati russi e non già forzati, come aveva pubblicato il Monitore della Pimentel, posarono i fucili a terra e si dichiararono prigionieri”.(Ib. Pag. 227) Queste sono le persone che una storiografia ormai incallita si ostina a presentare come “eroi” e “martiri”, ricorrendo anche ad una prosa ricercata come un abito su misura, che definisce “aristocratiche patriote” le “donne di testa”, amiche dei salotti culturali, ancorché vestite da uomo, con i capelli corti e la camicia “alla ghigliottina”, mentre le donne dei “briganti” verranno spregevolmente definite dagli epigoni “drude”, come se non avessero combattuto anch’esse per riprendersi terre, averi, tradizioni, cultura e memoria proditoriamente sottratti.

Castrese Lucio Schiano

Read More

Eleonora Pimentel Fonseca, anniversari e celebrazioni

Posted by on Giu 27, 2019

Eleonora Pimentel Fonseca, anniversari e celebrazioni

 A volte mi chiedo come sarebbero giudicati dai loro contemporanei i discendenti degli Incas, degli Aztechi, dei Maya o degli Indiani d’America se alcuni di essi, divenuti addirittura storici di professione, considerassero liberatori  i conquistadores spagnoli o l’esercito nordista e si dessero da fare per introdurre nel calendario date e ricorrenze per commemorare il massacro di Sand Creek (29 novembre 1864) o di Wounded Knee (29 dicembre 1890) o per inserire busti o statue del colonnello John Chivington o di  James Forsyth.

Read More

La nostalgia dei Neoborbonici Risposta a Fiorentino Bevilacqua di Lucio Castrese Schiano

Posted by on Giu 3, 2019

La nostalgia dei Neoborbonici Risposta a Fiorentino  Bevilacqua  di Lucio Castrese Schiano

     La precisazione  sul termine “nostalgia” è stata esposta in maniera magistrale.

     La rettifica su quella “borbonica”, poi, non poteva essere resa in modo più chiaro ed esaustivo.  La taccia di  “questa” nostalgia non dovrebbe costituire motivo né di imbarazzo né di dichiarata inferiorità, non solo per quelli che con maggiore o minore convinzione e cognizione di causa si definiscono “borbonici” o “neo”, ma per tutti quelli che una mala unità ha costretto ad essere “educati alla minorità” (per dirla con Aprile). E proprio questa “nostalgia” dovrebbe ispirare i loro sentimenti, i loro comportamenti, le loro scelte.

Castrese Lucio Schiano

https://www.altaterradilavoro.com/la-nostalgia-dei-neoborbonici/ sdsem

Read More

Togliere la statua del generale Cialdini stravolge la storia

Posted by on Mar 3, 2019

Togliere la statua del generale Cialdini stravolge la storia

L’amico e nostro associato Lucio Castrese Schiano, ci invia un articolo di una storica italiana nata a Napoli che pubblichiamo integralmente senza nessun commento perché si commenta da solo. Due cose che mi vengono in mente “versiamo tante tasse per pagare un simile personaggio”? “Benedetto Croce non si sta rigirando nella tomba”? Credo che nemmeno lui avrebbe pensato di aver creato simili disastri!!!

Senza risposta è rimasta una mia richiesta via pec, in quanto storica e presidente della Società napoletana di storia patria, al presidente della Camera di commercio di Napoli di un confronto e di un dibattito pubblico sulla delibera di togliere dalla sede della Camera di Commercio il busto del generale Enrico Cialdini, in quanto responsabile dei presunti eccidi di Pontelandolfo e Casalduni.

La decisione è stata presa senza affrontare un problema fondamentale per chi gestisce un’istituzione con antiche radici nella vita cittadina, fornita di un’importante biblioteca e di un archivio: perché gruppi imprenditoriali della Napoli di secondo Ottocento ritennero di dover fare un omaggio al generale e a Camillo Benso conte di Cavour, il cui busto è collocato nella stessa sede?

L’opportunità di tornare sul tema, già oggetto nei mesi passati di interventi che suggerivano di contestualizzare i comportamenti dei gruppi dirigenti locali in base a una valutazione del clima complessivo che dettò scelte a suo tempo condivise (Carmine Pinto, Luigi Mascilli Migliorini, Paolo Macry, Giancristiano Desiderio) si lega alla presa di posizione delle maggiori Società degli Storici in merito all’attività di “bonifica storica” di cui la decisione della Camera di commercio è una testimonianza ulteriore.

Estrapolare personaggi e eventi dalla propria epoca, per renderli invece funzionali a problemi e questioni del presente, è un procedimento diffuso, che banalizza la complessità dei problemi affrontati.

La legge n. 680 del 6 luglio 1862 stabilì in tutto il Regno italiano le Camere di commercio e di arti, con lo scopo di valorizzare le potenzialità e il mondo produttivo locali. Rispetto alla Camera di Napoli, creata da Giuseppe Bonaparte il 10 marzo 1808, che fu sciolta, quella creata nel 1862 ebbe 21 componenti, tra cui banchieri, assicuratori, armatori.

In una memoria dei suoi consiglieri del 6 ottobre 1888, rivolta ai consiglieri del Comune di Napoli in merito all’edificazione della nuova Borsa, argomento a lungo dibattuto negli anni precedenti, si ricordava l’opera del generale Cialdini, nel 1861 Luogotenente del re per le province meridionali, che aveva allora deciso di accantonare il compenso datogli dallo Stato per questo ruolo, vincolandolo alla costruzione di una nuova sede della Borsa.

Si trattava di una cifra consistente, corrispondente a 212,500 lire dell’epoca (divenute con gli interessi 1.300 lire nel 1893). Il generale esprimeva in tal modo una decisa fiducia nel futuro della città, mentre erano in atto il taglio dell’istmo di Suez, la costruzione di ferrovie e strade, i lavori nel Porto.

Chiedeva che a realizzazione avvenuta fosse posta nelle nuova sede la statua di Cavour. La cifra iniziale, incrementata con contributi del Comune, della Provincia, del Banco di Napoli, e di altri enti, non fu utilizzata che 31 anni dopo, a causa della lunghezza delle procedure per attuare il “nobile pensiero del generale Cialdini”.

Dopo falliti tentativi di collocare la costruzione in piazza Municipio, con la disponibilità di suoli durante le operazioni del Risanamento dopo il colera del 1884, il Collegio camerale, d’intesa con l’amministrazione comunale, sottoscrisse il contratto con i banchieri finanziatori dell’opera.

I componenti della Camera, nella estenuante attività per la costruzione dell’edificio, si ritenevano “mandatarii del generale Cialdini nella esecuzione di una nobile idea… e depositarii della munificenza di lui”.

L’edificio fu quindi inaugurato nell’ottobre 1889 dal ministro Salandra e i visitatori rimasero impressionati dalla “cura architettonica” dell’edificio, “opera notevole della Napoli di allora” (La Camera di commercio di Napoli e il Palazzo della Borsa, Napoli 1987, ma si rimanda ai lavori fondamentali di Giuseppe Russo e di Giancarlo Alisio).

Cura architettonica che verrebbe profondamente alterata dalla rimozione del busto del generale; nell’edificio, costruito su progetto e direzione dei lavori dell’architetto Guerra e dell’ingegnere Ferrara, tra il 1893 e il 1898, i due busti in marmo di Cialdini e Cavour furono eseguiti dagli artisti scultori professori Raffaele Belliazzi (famoso in Europa, lavorò alla statua di Carlo III sulla facciata del Palazzo Reale) e Achille D’Orsi (artista in contatto con i maggiori esponenti della scultura del tempo), in perfetta sintonia con stucchi, marmi e dipinti della sala. In occasione dell’inaugurazione i componenti della giunta della Camera, la stampa e la società cittadine ricordarono con grande riconoscenza il lascito iniziale di Cialdini.

Il clima è evidentemente cambiato e Cialdini fu anche un generale particolarmente duro nella repressione del brigantaggio, che ebbe manifestazioni crudeli da entrambi le parti in lotta, con la distruzione di interi villaggi a opera dei briganti stessi, assalto alle case dei notabili, episodi di cannibalismo e altre aberrazioni.

Va ricordato che egli era essenzialmente un militare, educato, come i suoi colleghi napoletani, nelle scuole ad hoc, che prevedevano, di fronte alla “guerra per bande”, misure radicali, attuate nelle guerre europee ottocentesche e non a caso praticate dalla dinastia borbonica nel 1828 con la distruzione del villaggio di Bosco e nel 1848-49 contro Messina.

Re borbonici pronti ad uccidere i propri sudditi con modalità identiche a quelle degli ufficiali “piemontesi”- italiani.

In base a questa serie di valutazioni la Società napoletana di storia patria, cui competono anche i pareri sulla toponomastica, si è espressa contro una visione del passato che stravolge gli spazi e il loro portato simbolico, disancorandoli dalle motivazioni che li hanno plasmati, sulla base di sollecitazioni di parte.

Una domanda infine: non esiste un vincolo delle Soprintendenze per la tutela del patrimonio storico-artistico?

Può un Consiglio di amministrazione non tener conto delle leggi dello Stato e gestire, durante un mandato a scadenza, ciò che gli è stato affidato, ignorando competenze e normative che hanno un valore più radicato e ampio di un decisionismo occasionale?

Riportato sul n. 122 del Nuovo Monitore Napolitano

ps= vorrei ricordare alla gentile Sig.ra che da tempo cerchiamo di avere un dibattito pubblico sul 1799 senza avere nessuna risposta, alla faccia della democrazia che loro tanto esaltano

Read More

1799 IL “VELO DELL’OBLIO” : ERRORE O COLPA DI FERDINANDO IV?

Posted by on Feb 1, 2019

1799 IL “VELO DELL’OBLIO” : ERRORE O COLPA DI FERDINANDO IV?

     Di solito, alla fine di un conflitto, sia esso una battaglia di pochi giorni che una vera e propria guerra di più lunga durata, la storia che viene tramandata ai posteri è quella che reca l’ imprimatur del vincitore.

     Invece, nel caso della parentesi gennaio-giugno 1799, che interessò il Regno di Napoli la regola fece un’ eccezione, che comportò (e comporta tuttora) una lunga serie di diatribe e di accuse, che, a distanza di duecentoventi anni, non riescono ancora né a sopirsi né a trovare una soluzione.

     Avvenne che, sebbene Ferdinando IV avesse riacquistato il Regno ad opera del Ruffo e quindi fosse da considerare a tutti gli effetti il vincitore, diede agio ai vinti di scrivere la storia della loro breve esperienza politica come meglio loro aggradava, permettendogli così di fissare in maniera indelebile quella che sarebbe divenuta “la memoria” del 1799 ; per cui – caso quasi unico nella storia dell’umanità – i traditori della patria vennero elevati al rango di “patrioti” e coloro che erano insorti per difendere la propria patria, i propri beni, , la propria religione, la propria vita vennero considerati nemici della patria e persone non degne di essere ricordate, se non con gli epiteti più offensivi. A riprova di quest’affermazione, la Piazza dei Martiri situata in uno dei quartieri più eleganti della città di Napoli non è dedicata mica ai lazzari, ai sanfedisti o ai realisti, ma ai caduti della Repubblica Napolitana del 1799 (leone morente), ai caduti dei moti carbonari del 1820 (leone ferito dalla spada), ai caduti nei moti del 1848 (leone con lo Statuto del 1848 sotto la zampa), ai caduti dell’epopea garibaldina del 1860 (leone pronto ad attaccare la preda).

     Le motivazioni di fondo che indussero Ferdinando IV a volere che su tutta la vicenda del 1799 venisse steso il “velo dell’oblio” possono essere considerate un errore solo a posteriori. All’epoca dei fatti – come avverrà nel Risorgimento con la damnatio memoriae per le popolazioni dell’ex Regno delle Due Sicilie – Ferdinando IV aveva tutte le ragioni per ritenere che, decretando il silenzio assoluto sul triste periodo della Repubblica Napolitana, facendo distruggere finanche i verbali dei processi intentati contro i giacobini, il non parlarne avrebbe favorito pian piano un assopimento degli odi, e i fratelli che pochi giorni prima si erano trovati su posizioni opposte della barricata sarebbero ritornati a convivere pacificamente, come espressamente comandato anche durante i combattimenti sia dallo stesso re che dal suo vicario generale, cardinale Ruffo, che raccomandavano di non usare violenza contro persone notoriamente compromesse a livello politico, purché disarmate e in atteggiamento di dichiarata ed evidente non-ostilità.

     L’iniziativa, invece, fu e viene ancora strumentalizzata dagli epigoni dei repubblicani, che la imputano come colpa a Ferdinando, il quale, in questo modo avrebbe voluto eliminare in via definitiva  prove compromettenti a suo carico, o, comunque, a carico degli organi  della ripristinata monarchia, passando sotto silenzio che, comunque, i repubblicani condannati a morte ebbero un regolare processo  e dimenticando, invece, come furono trattati dai repubblicani i fratelli  Gerardo e Gennaro Baccker, i fratelli Ferdinando e Giovanni La Rossa e Natale D’Angelo, con un “supplizio crudele perché nelle ultime ore del governo, senza utilità di sicurezza ed esempio”, come ammise lo stesso Colletta  dichiaratamente non simpatizzante per i Borbone. [1]

     Nelle ore successive furono fucilate anche altre “undici persone della minuta plebe” e ci sarebbe stata una carneficina se ci fosse stato più tempo. [2]

“… Si era decretato di far morire nella notte il mio caro padre, li restanti fratelli con tutti li compagni carcerati ed sterminare ancora tutte e due le nostre intiere desolate famiglie  fino alli gatti…[3] (Parole della sorella dei Baccher, Angela Rosa, al medico napoletano Domenico Cotugno).

      Non è un mistero che i Borbone fossero più inclini al perdono che alla vendetta. E di prove ne esistono a iosa. Una per tutte il caso di Guglielmo Pepe.[4]  Né sono un mistero le condanne all’ esilio comminate agli esponenti repubblicani e più tardi ai liberali più compromessi al posto della condanna a morte o all’ ergastolo : esilio poi sfruttato dai beneficiati per infangare il nome del benefattore e per continuare a tramare per la sua scomparsa.

Castrese Lucio Schiano


[1] Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli, ed. Napoli, 1970, vol. II, p. 84

[2] Domenico Ambrasi, Don Placido Baccher, Napoli, 1979, p. 37 (l’Ambrasi riporta un’affermazione del Marinelli). 

[3] Domenico Cotugno, Lettere e scritti autografi, Sezione Manoscritti della Biblioteca Nazionale di Napoli, fondo San Martino, n. 122

[4] Iscritto nella milizia della repubblica, combatté contro i sanfedisti a Portici e a Napoli. Esiliato, riparò in Francia ove entrò nella legione italiana agli ordini di Napoleone. Tornato a Napoli dopo il 1801, congiurò contro i Borbone e fu arrestato per esser poi liberato nel 1806 da Giuseppe Bonaparte. Ristabilitisi sul trono i Borbone, ottenne il comando di una divisione, ma benché spedito per reprimerli, si unì, nel 1820, ai moti carbonari. Dopo il congresso di Lubiana fu sconfitto dagli austriaci a Rieti nel 1821. Nuovo esilio. Ma, nel 1848, Ferdinando II gli affidò il comando dell’esercito spedito nel Veneto contro gli austriaci. Scoppiati a Napoli i moti del 15 maggio, essendo stato invitato dal Re a tornare a Napoli, disobbedì e fu di nuovo sconfitto dagli austriaci. (in Domenico Sacchinelli – Memorie storiche sulla vita del cardinale Fabrizio Ruffo – Edizioni Controcorrente 2004, nota 59 pag. XXXIX dell’Introduzione di Silvio Vitale) ifo

Read More