Appresi la notizia della sua morte, quel 1°settembre 1999, mentre ero in auto, insieme con Silvio Vitale – altro pilastro del revisionismo storico delle Due Sicilie – e Gennaro De Crescenzo, immarcescibile presidente del Movimento Neoborbonico. Ci accompagnava anche il battagliero Gabriele Marzocco, compianto amico di tutti noi. Eravamo diretti a Sala Consilina, in provincia di Salerno, invitati dall’allora dirigente della locale Pro Loco che, attraverso di noi, voleva far sapere ai suoi concittadini quanto poco ci fosse, in realtà, da festeggiare nelle loro tradizionali “giornate garibaldine”. Eravamo in pochi, ma eravamo una falange molto determinata.
Firma del mercenario dei due mondi che, non ancora sazio dei saccheggi che ci inflisse, chiese al BANCO di NAPOLI, un prestito per i figlio di quasi un milione di euro di oggi.
Nè il mercenario e nè i suoi eredi, ancora oggi viventi, hanno mai restituito un solo centesimo di quel prestito.
Qualche settimana fa, l’Italia letteraria ha perso due pezzi
da novanta; due scrittori che, negli ultimi lustri, si sono imposti
all’attenzione del grande pubblico: Andrea Camilleri e Luciano De Crescenzo,
ambedue meridionali che – se fossero vissuti nell’Ottocento – avremmo potuto
definire duosiciliani.
Sia dell’uno che dell’altro ho letto qualche libro: qualcuno
m’è piaciuto di più, qualcun altro di meno. Succede. Scorgendo, in più di un
romanzo di Camilleri qualche decisa stoccata all’unità d’Italia pensai subito
che da siciliano “controcorrente” qual era sapesse veramente come erano andate
le cose nel 1860; per di più, nei primi anni ’70, egli aveva curato – insieme
con Leonardo Sciascia – una trasmissione radiofonica nella quale immaginava una
“intervista impossibile” con Maria Sofia l’ultima Regina di Napoli,[1]
il cui finale dava ulteriormente credito alla mia supposizione. Tutto questo
convincimento è, però, decadde quando, non molto tempo fa, in una trasmissione
televisiva di… bla-bla-bla (quelle che vengono definite talk-show) esaltò
l’unificazione della penisola italica, nonostante in più di un libro avesse fatto
intendere il contrario come, per esempio, quando afferma che il nuovo governo
sabaudo risponde con la sola parola che sa adoperare per ogni moto
meridionale nato a torto o a ragione: repressione;[2]
o parla di una politica economica dissennata nei riguardi del Mezzogiorno
d’Italia:[3]
come, per esempio, quando Garibaldi sbarcò a
Marsala, funzionavano circa tremila telai; dopo l’unità ne restarono in
funzione meno di duecento e la stoffa che cominciò ad arrivare da Biella la si
dovette pagare a prezzo doppio… e la gente che si guadagnava il pane coi telai
andò, con rispetto parlando, a minarsela…[4]
Evviva la coerenza!
Quello che,
però, mi ha maggiormente colpito è il fatto che, nella giornata della sua morte,
ogni rete RAI abbia interamente stravolto il suo palinsesto quotidiano per
trasmettere immagini, interviste, motti e sentenze del “caro estinto”, in tutte
le salse possibili e immaginabili. Con conseguente ipertrofia di… cabasisi,
come Lui stesso si avrebbe detto col suo tono di voce roco e sornione.
Addirittura ogni TG ha dedicato più del 50% del suo tempo di trasmissione al
triste avvenimento!
Il caso ha
voluto che, nemmeno ventiquattr’ore dopo, ci lasciasse anche Luciano De
Crescenzo. Per lo scrittore partenopeo, però, i notiziari radiotelevisivi, hanno
diffuso solo un normale servizio di tre minuti relegato, peraltro, al termine
del telegiornale. “Perché mai?” mi sono chiesto, in un primo momento. Ma non
c’era da pensarci tanto: Luciano De Crescenzo era sì uno scrittore, uno
scrittore famoso che ha prodotto, come Camilleri, un infinito numero di opere e
come lui letto in tutto il mondo ma… aveva il difetto, il peccato originale,
oserei dire, di non appartenere al carrozzone politico della sinistra come invece Andrea Camilleri, rigoroso
militante prima del PCI e poi del PD che sempre di sinistra (sic!) è e, come
ben si sa, la cultura è di sinistra, come lo sono gli intellettuali e gli
intellettualoidi radical-chic…
Non a caso, prima parlavo di coerenza:
ambedue i romanzieri si sono affermati ed hanno fatto la loro fortuna di
scrittori raccontando, nel bene e nel male, la propria terra. Ambedue vivevano
a Roma. Uno di loro ha disposto di rimanervi anche da morto facendosi
seppellire in un camposanto “acattolico” (definizione ripetuta all’infinito
dagli speaker della Radio e della Televisione per paura che non si capisse
bene). L’altro, invece, ha scelto l’abbraccio dalla sua Napoli, che,
prontamente, ha ricambiato all’illustre figlio quell’amore mai tradito.
Erminio de Biase
[1]
Anche se erroneamente, nel titolo, le aveva attribuito la casata d’Asburgo
anziché di Wittelsbach.
[2]
A. Camilleri – Biografia del figlio cambiato – Milano 2003 – p.12
Qualche
domenica fa, passeggiando per il centro di Sant’Agata dei Goti, mi incuriosì il
testo di una locandina che faceva mostra di sé nelle vetrine di quasi tutti i
negozi del paese invitando alla presentazione di un libro il cui autore era un
certo Giancristiano Desiderio.
L’incontro, infarcito dalla presenza di tanto illustri quanto
altrettanto sconosciuti storici c’era stato solo il giorno prima e… quanto mi
rammaricai di non aver potuto parteciparvi! Gli argomenti mi stuzzicavano ma…
ormai era fatta. Per una riflessione, però, sono ancora in tempo.
Innanzitutto, già dalle parole del manifesto era chiaro che
l’autore fosse un paladino dei piemontesi, degli invasori. Era lampante che
egli appartenesse allo stesso filone: un diretto discendente di coloro che
applaudirono gli stessi i savoiardi, cioè gli invasori di cui sopra. Lo strano, però, era il fatto che il Corriere del Mezzogiorno, diretta
emanazione del Corrierone nazionale, dedicasse
ben un’intera pagina a quel libro! Un testo, oltretutto, edito da una casa
editrice “minore”, oltre che meridionale. La spiegazione non poteva essere che
una sola, lapalissiana: era un affare, diciamo così, di… “famiglia”. Già,
perché non bisogna dimenticare che il Corriere
della Sera, fondato da un ex garibaldino, nel corso della sua storia è
stato sempre in… odore (odore?) di massoneria. Motivo per il quale un
malpensante come me ha immediatamente dedotto che autore… editore… recensore… e
quotidiano siano tutti affratellati,
insomma facciano parte tutti della stessa famiglia liberal massonica…
A
prescindere da queste considerazioni “formali”, sono – però – alcune
affermazioni dell’articolo che turbano: il
fatto di sangue più atroce di quell’agosto ci fu il giorno 11, quando i soldati
furono uccisi da prigionieri e disarmati… Quella subìta dai militari
sabaudi sì che fu una vera e propria strage mentre a Pontelandolfo, invece, i
morti furono “solamente” tredici (di cui “solo” dieci pontelandolfesi furono
uccisi, gli altri tre morirono intrappolati
nell’incendio (per autocombustione?!?) della
propria abitazione… e dunque non fu
una strage…
Probabilmente
l’esimio (!) autore del saggio sarà a conoscenza di una codificazione a noi
ignota che fissa la definizione di strage a partire solo da un certo numero di
morti.
È
bene aggiungere anche che i bravi bersaglieri, di ritorno da Pontelandolfo
fucilarono diligentemente altri sette cittadini di un paese vicino, Fragneto
Monforte, e siamo a venti. Che ne dici, Gian…Cristiano, questo numero ti va
bene per definire quell’azione dei piemontesi una strage?!?!
Forse,
solo su una cosa, egli ha ragione: quando accusa chi, con una certa faciloneria,
se non addirittura imperdonabile superficialità, riporta gli avvenimenti
gonfiando notevolmente numeri e dati. Da qui, l’accusa ai filoborbonici di
costruire su questi “falsi dati” i loro
miti positivi… È, infatti, grazie a costoro, a questi neo “vati” (che hanno
avuto la fortuna di inserirsi in un contesto ideologico nel momento più
propizio, appropriandosi di lavori altrui ed elaborandoli a loro piacere, senza
i dovuti, necessari riscontri e, soprattutto, ben guardandosi dal citarne le
fonti) che la nostra revisione storica offre il fianco, venendo accusata di
falso e diventando, così, vulnerabile e facilmente attaccabile. E si rischia non
solo di buttare al vento tutto il lavoro fatto da anni ma, soprattutto, si
rischia di seppellire di nuovo i martiri di Pontelandolfo, di Casalduni, di
Fragneto Monforte e di tanti altri posti sotto la tossica polvere della
storiografia ufficiale.
Sabato 19 maggio 2018 a 150 anni dall’esecuzione barbara di Michelina Di Cesare per mano della canaglia Piemontese Savaiorda, a Roccasecca s’è tenuto un importante convegno sulle Brigantesse Postunitarie con relatori di altissimo livello. Fernando Riccardi storico Laborino e padrone di casa, Prof. Erminio De Biase studioso Napoletano, uno dei più brillanti ricercatori del mondo identitario napolitano, e per la prima volta, in Alta Terra di Lavoro, il più importante e il più preparato studioso sulle Brigantesse postunitarie, l’accademico Prof. Domenico Scafoglio.
Nonostante la pioggia il convegno ha registrato un pubblico numeroso che è stato anche allietato dai Musicanti Laborini Silvano Boschin e Giuseppe Marro, alias Peppe Ghiacciolo
Di seguito tutti i video del convegno organizzato dall’associazione P.A.M.A. e dall’Ass. Id. Alta Terra di Lavoro
Miracolo! La RAI che, coi soldi che estorce a tutti i suoi abbonati (quindi, filoborbonici compresi) foraggia, di norma, programmi di “alta cultura” storica con l’ausilio di “accademici di chiara fama”….