REAL SITO BORBONICO (Casina Vanvitelliana ) FUSARO…BACOLI
La Loggia del Fusaro è un’altra delle delizie architettoniche costruite da Carlo e da Ferdinando.
Nel 1752 Re Carlo acquistò il Fusaro creando, proprio in mezzo al lago, su un naturale livello granitico, una “casinetta ottagonale”. Ferdinando IV nel 1782 diede poi incarico all’architetto Carlo Vanvitelli, figlio di Luigi, di progettare e realizzare la residenza di caccia, la Casina Reale del Fusaro.
Furono costruiti “sei bassi terranei’ destinati alla scuderia reale, a “osteria per gli ospiti che vi si recavano a diporto”; fu restaurata l’antica foce di Torre Gaveta, e soprattutto, fu incrementata la coltura delle ostriche, di cui il re era molto ghiotto (al punto che si divertiva a partecipare alla vendita del pesce e delle ostriche del Fusaro).
Verso la sponda del lago “furono costruiti vari fabbricati, uno detto Baraccone, che un altro fabbricato detto Cassone per conservarvi i “pesci a vivo che comprendeva una grande tettoia sostenuta con archi e pilastri per porvi a riparo barche ed attrezzi da pesca ad uso della famiglia reale”; la vendita”.
Così quello che un tempo era l’alloggio del guardiano divenne il “Real Casino” al centro del Fusaro.
Solo successivamente verrà costruito il pontile di legno, mentre l’ “Ostrichina”, ossia la villa a riva, progettata dall’architetto di Casa Reale Antonio De Simone, inaugurata nel 1825, aveva anche un ampio spazio per consentire la sosta delle carrozze reali.
Molti furono i grandi eventi che vi ebbero luogo e gli ospiti illustri. Ad esempio, il 15 maggio del 1819 Re Ferdinando offrì al Fusaro un pranzo in onore dell’Imperatore d’Austria Francesco II.
Ma se sotto l’aspetto architettonico questo monumento è legato al prestigioso nome di Carlo Vanvitelli, sotto quello decorativo richiama il nome di uno dei più illustri paesaggisti del ‘700: Philipp Jacob Hackert.
La struttura è composta da due piani sovrapposti, ma non simili. Quello inferiore risulta più ampio a causa di due ambulacri posti l’uno verso nord, l’altro verso sud ed ambedue ai lati delle arcate frontali. Tra questi due ambienti e la sala centrale vi sono due vani semicircolari utilizzati come corridoio, quello a lato nord e come cassa scale, quello opposto, al lato sud. Queste aree furono adibite a cucina, alloggi per il personale di servizio, dispensa e, più tardi, uffici e ripostiglio. Attualmente, dal mese di ottobre del 2001, gli ambulacri sono stati trasformati in “galleria degli ospiti illustri”.
Accedendo a questi locali si può provare l’incredibile sensazione di trovarsi sospesi sulle acque del lago; inoltre si possono leggere le biografie e i motivi di legame dei prestigiosi personaggi che hanno segnato la storia d’Europa per oltre due secoli e che furono ospiti al Sito Reale del Fusaro. L’intera dinastia dei Borbone, lo Zar di Russia Nicola I, il Principe di Metternich, Francesco I Imperatore d’Austria, sir William Hamilton, Giuseppe II d’Asburgo-Lorena, e quindi Gioacchino Rossini e Wolfang Amadeus Mozart, per citarne solo alcuni.
Vanvitelli ed Hackert, attraverso il loro genio creativo, avevano fatto ancora di più. Il piano nobile presentava infatti uno splendido pavimento il cui colore di fondo era un raffinato azzurro pastello, con temi floreali e multiformi decori gialli.
La volta era finemente affrescata con temi pertinenti alla caccia, alla pesca ed alla natura in genere. Le pareti invece erano state coperte da quelle che lo stesso Hackert, rivolto a J.W. Goethe, aveva definito la migliore opera eseguita per la corte di Napoli: il ciclo delle quattro stagioni. L’artista aveva pensato di intervallare ciascuna stagione con il panorama che si può ammirare attraverso le ampie finestre. I dipinti infatti, a grandezza naturale, quindi a tutta parete, presentavano la linea d’orizzonte esattamente coincidente con quella naturale del lago senza alcuna soluzione di continuità. Una fusione completa tra i suoi capolavori e quelli che la natura aveva generosamente distribuito intorno al lago. Una sintesi di tutti i luoghi più amati da Ferdinando IV.
Purtroppo i capolavori di Hackert scomparvero durante la Rivoluzione Napoletana nel gennaio del 1799. Gli originari pavimenti furono invece rimossi dopo il secondo conflitto mondiale.
L’opera meno appariscente, ma sicuramente di grande ingegno è rappresentata dal tetto, sorretto da un complesso sistema di travi e supporti che hanno garantito grande tenuta contro gli agenti atmosferici, ma anche notevole resistenza alla natura vulcanica dei Campi Flegrei.
Dal Casino si ammira un panorama di eccezionale bellezza e, in particolare, il tramonto rappresenta uno spettacolo unico che estasiò e continua ad estasiare, con immutata intensità, potenti, artisti e gente comune.
Nelle giornate di bel tempo è di ineguagliabile suggestione vedere l’immagine della Casina riflessa nelle calme e trasparenti acque del lago, come fosse uno specchio ed ancora vere e proprie colonie di pesci che disegnano strane figure geometriche mentre compiono straordinarie evoluzioni fra gli scogli o ancora i rocchi, proprio quelli voluti da Re Ferdinando IV, pietre ammucchiate in una sorta di conca sulle quali venivano deposte le fascine con le ostriche perché queste non entrassero in contatto con il fango, disseminati, come tanti crateri, intorno all’isolotto.
Il posto è stato definito più volte un luogo d’incanto, un gioiello architettonico sull’acqua muta e trasparente. Maurice Coste inviato dal governo francese proprio per studiare l’allevamento delle ostriche del Fusaro, gridò ad un miracolo che andava “fatto anche in Francia”. Un gioiello che destò le meraviglie di geni, come Mozart e Goethe.
Caserta – “Nessun uomo, nessuna famiglia,
nessuna città, nessuno Regno può sussistere, e prosperare
senza il timor santo di Dio. Dunque la principal cosa, che Io impongo a voi, è
l’esatta osservanza della sua santissima Legge.”
Con queste parole comincia lo Statuto che il
Re di Napoli Ferdinando IV volle dare
alla Real Colonia di San Leucio: un utopia, un sogno, una città modello,
Ferdinandopoli, che il Sovrano tramutò in realtà. Una
siffatta città ideale, divenuta sito per la lavorazione su scala industriale
della seta, necessitava di un codice di leggi contenente i principi
fondamentali che avrebbero dovuto guidare la comunità e
favorirne il florido sviluppo. Fu così che nel 1789 nacque lo Statuto di San
Leucio o Codice Leuciano, un chiaro esempio di norme ispirate ad ideali di
uguaglianza sociale e di solidarietà.
A questo esempio più unico che raro di
Utopia “Reale”(nella duplice accezione “del Re” ed “effettiva”), a duecentotrenta anni dalla sua firma, è
dedicato il convegno che l’Istituto di Ricerca Storica delle Due Sicilie terrà proprio
nel Belvedere di San Leucio sabato 1
giugno p.v. alle ore 17,00.
A fianco dell’Istituto prestigiose
istituzioni: in primis la Pro Loco Real Sito di San Leucio con il suo
presidente Domenico Villano, l’Associazione Corteo Storico con il suo
presidente Donato Scialla, ma anche la Società di Storia
Patria di Terra di Lavoro il cui presidente Avv. Alberto Zaza d’Aulisio sarà uno dei
relatori, l’Associazione Nazionale dei Cavalieri Costantiniano ed il suo
presidente il Marchese Avv. Giuliano Buccino Grimaldi, il Consiglio dell’Ordine
degli Avvocati di Santa Maria C.V. con il suo presidente avv. Adolfo Russo.
Riconoscendo l’importanza dell’evento, la
Regione Campania, il Comune di Caserta, il Sacro Militare Ordine Costantiniano
di San Giorgio, la Real Casa di Borbone delle Due Sicilie, l’Associazioni Due
Sicilie e l’Associazione Culturale Prometeo hanno volentieri concesso il loro
patrocinio ed il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati ha concesso tre crediti
formativi agli iscritti che parteciperanno.
Oltre all’avvocato Zaza, gli altri due
importanti relatori saranno il dr. Fernando Riccardi, presidente dell’Istituto
ed il dr. Giuliano Capecelatro di Morrone, storico del diritto.
Siamo certi che anche quest’ultimo evento organizzato dall’Istituto si aggiungerà ai successi passati tra cui ricordiamo la presentazione sul libro dedicato al Principe Alfonso di Borbone, Conte di Caserta (2014) presso l’allora Jolly Hotel, il convegno su la Regina Maria Sofia a Napoli (2015), la celebrazione Eucaristica (2016) alla Vaccheria in onore della Beata Regina consorte del Regno delle Due Sicilie Maria Cristina di Savoia officiata da S.A.R. il M. Rev. Don Alessandro di Borbone delle Due Sicilie, i convegni sul cardinale Riario Sforza (2017) a Roma nel Palazzo della Cancelleria Apostolica ed a Napoli in Castel Capuano.
I Borbone furono meridionali. Erano come noi. Il Re ed il
“lazzaro”, nell’innegabile diversità di ruolo, erano parte di un
unico organismo sociale, che funzionava.
Ma lo Stato non era “borbonico”, era bensì il nostro Stato.
Eppure quando si ricordano gli avvenimenti risorgimentali, i più pensano che la
guerra la persero i Borbone da soli, assumendoli a simbolo convenzionale di
un’entità estranea e desueta, cui tutti i mali vanno ascritti, quale panacea
delle coscienze di ieri e d’oggi.
Così, in questa narcotica trasposizione, la Nazione
viene sostituita dalla stessa Monarchia, ed il Re considerato un estraneo
nemico del tessuto sociale.
Questa visione è presente anche tra gli eruditi: coloro che hanno immagazzinato
tantissimi dati, ma non hanno saputo sintetizzare una cultura propria,
omologandosi così a quella convenzionale.
Costoro sono
pronti a condannare, con severa sicumera, chi non si adatta a questa operazione
di rimozione della memoria storica, bollandone il pensiero quale revisionismo
“spazzatura”.
Sopravvive
pertanto la visione del passato distratta e rassicurante per le italiche
coscienze che il Borbone passasse le giornate assiso sul trono, in una
pittoresca e tragica rincorsa verso sempre più dispotici ed estemporanei
capricci.
Questa visione
risulta conveniente anche alle coscienze meridionali che, identificando
l’Antico Stato con la Dinastia, si affrancano dalla sconfitta e, soprattutto,
dal peso di ciò che i nostri padri avrebbero dovuto esprimere, in campo
politico sociale civile economico, e che invece non seppero esprimere.
Così è nata la trasposizione d’ogni responsabilità,
passata presente e futura, ai Borbone, compendio di un Male talmente
inamovibile, da spiegare e giustificare l’imperfezione dell’attuale Bene.
Ma la verità è che i Borbone non erano un tumore in un corpo sano.
Non erano gli
oppressori stranieri da sostituire con l’Italia: essi erano Meridionali, con
pregi e virtù, e se il Regno cadde, ciò fu anche dovuto alle colpe dei liberali
meridionali.
L’Antico Regno
era uno Stato costituito: aveva leggi, governi, ministeri, funzionari,
burocrati, magistrati, militari e tutti questi erano Meridionali, che
condividevano le responsabilità di Stato.
Sia ben chiaro: l’Antico Regno di Ferdinando II è
stato quanto di meglio il Sud ha saputo, in completa autonomia, esprimere in
campo istituzionale.
Ricordiamoci perciò che quando si dice “lo Stato borbonico, l’esercito
borbonico, la burocrazia borbonica, il dispotismo borbonico, ecc”, si
stanno usando simboli atti a rimuovere il ricordo del nostro passato, l’unico
che ci appartiene, e per far apparire naturale esigenza storica il confluire
nell’Italia dei Savoia, quelli sì stranieri.
La guerra del 1860 l’abbiamo persa noi Meridionali,
con la nostra incapacità e con i nostri traditori.
I soldati di Franceschiello non erano un esercito stravagante, un po’
sfortunato, un po’ ridicolo: era il nostro esercito formato da giovani
pugliesi, lucani, abruzzesi, calabresi, campani, ecc.
Tutti
ugualmente traditi da pochi e dimenticati dalla Storia nelle squallide prigioni
sabaude, o in un bosco di Ripacandida, in una infame e disperata guerra
partigiana. I morti di quella guerra furono i nostri morti, non quelli dei
Borbone.
Le conseguenze di quella sconfitta esplosero nelle nostre mani, come una
bomba a orologeria che scoppia ad intervalli successivi con deflagrazioni
sempre più laceranti: miseria, emigrazione, sottosviluppo, malavita,
imbarbarimento sociale e civile.
“Na bbona parola nu custa turnisi” Una buona porola
non costa tornesi
dicevano i nostri avi salentini. Ma anche altri detti
antichi (e ormai dimenticati), erano colmi di quella saggezza popolare e
contadina dettata sia da azioni concrete come anche di ricchezza d’animo e
ironia di spirito. Tutti elementi utili oggi a recuperare un mondo trascorso ma
denso di significati. Altri proverbi salentini contenenti la parola tornesi
“turnisi”, recitavano “Ci nu ttene turnisi, nu vascia alla fera” chi non ha
tornesi, non vada alla fiera; “Ci nu ttene turnisi, prugetta la luna” chi non ha
tornesi, fa progetti campati in aria; “Ci nu vvite cca li turnisi, num
bole bbene a cciuveddi” chi non vede altro che tornesi, non vuole bene a
nessuno.
Ho arricchito la mia collezione numismatica delle monete circolate nella Terra
d’Otranto durante il periodo borbonico con questa 6 tornesi del 1801,
una moneta in rame coniata al tempo di Ferdinando IV (1759-1816) fra
il 1799 e il 1803 (secondo periodo, 1799-1805), nella Zecca Napoli. Non è una
moneta comune ma non è nemmeno particolarmente rara. L’esemplare comunque è
unico nel suo genere per il Regno Borbonico delle Due Sicilie degli anni
1799-1803. *testa del Sovrano a dx. / *Valore e data. . . Questa moneta
valeva 1/40 di una piastra. 6 Tornesi = 3 Grano = 1/40 Piastra (1/40). Il SCWC
nota che 240 tornesi = 6 tari = 1 piastra, dove una piastra è
approssimativamente uguale a un peso.
Si legge sul fronte: FERDINAN·IV·SICIL·ET HIE·REX P·
Nel verso si legge: TOR NESI A. 6 P. 1801
Durante la Repubblica Napolitana del 1799 furono
coniate due monete da 6 e 4 tornesi. Entrambe recavano al diritto il fascio
consolare sormontato dal berretto frigio. La seconda monetazione di Ferdinando
IV (1799-1805) presenta monete da 6 e 4 tornesi. Sulla moneta da 1 tornese
c’era l’indicazione del valore in cavalli.
FERDINANDO IV DI BORBONE (Napoli 1751 – ivi 1825). Re di Sicilia come Ferdinando III (1759-1816), re di Napoli come Ferdinando IV, re delle Due Sicilie come Ferdinando I (1816-1825). La monetazione di Ferdinando IV è stata vastissima e comprende tre periodi. Sotto il suo regno la coniazione aurea durò fino al 1785 e fu enorme, oltre 3 milioni di pezzi. Notevole anche la coniazione in argento e rame. La moneta da tre tornesi di FerdinandoIV aveva invece la scritta “PVBLICA COMMODITAS”. Sulla moneta da un tornese era scritta l’indicazione del valore “TORNESE CAVALLI VI” su quattro righe. Furono coniate anche monete da 10, 8, e 5 tornesi, tutte di rame.
Ricerche a cura del dott Giovanni Greco;
dott in Conservazione dei Beni Culturali, con laurea in archeologia industriale, è studioso e autore di numerose ricerche sul Salento, Erasmus in Germania nel 1996, ha viaggiato per venti anni in Italia e in Europa, ha lavorato un anno in direzione vendite Alitalia nell’aeroporto internazionale di Francoforte, ha diretto per cinque anni la sezione web di un giornale settimanale cartaceo italiano a Londra, libero professionista, videomaker, artista raku, poeta, webmaster, blogger, ambientalista, presentatore, art director, graphic designer, speaker radio, giornalista freelance Internazionale iscritto presso l’agenzia GNS Press tedesca, collabora come freelance con diverse realtà sul web e sul territorio locale. Dal 1998 è direttore responsabile della rivista on line “BelSalento.com – arte, storia, ambiente, politica e cultura della Terra dei Due Mari – Servizi di Fruizione Culturale”.
Organizzò e divise il suo esercito in tre parti, minacciando Catanzaro dalle montagne di Girifalco e Cosenza per la
via di Nicastro, tenendo la terza parte con l’artiglieria sotto il suo comando,
per dirigerla ove il bisogno avesse richiesto. Ricevette deputazioni
dappertutto, rimise l’ordine nelle città ove la reazione era forte, fece guerra
agli stranieri e alla rivoluzione, cercando, per quanto poteva, d’impedire
guerra civile e fratricida.
Fu però Crotone teatro di orribile saccheggio, ed
il Cardinale vi accorse dalla marina di Catanzaro, e mise fine colla sua presenza
a quel selvaggio operare.
Le vittorie della Calabria destarono grande
entusiasmo nel Regno. Il Cilento, la Basilicata, gli Abruzzi, si sollevarono
cacciarono i repubblicani, rialzarono gli stemmi dei Borboni.
Le Puglie seguirono il movimento, appoggiate da
navi russe, inglesi e turche, le quali incoraggiavano la rivincita contro i
francesi.
I capi della Repubblica Partenopea volevano che i
generali francesi marciassero contro i propri connazionali. Si fecero due
spedizioni, una per le Puglie, l’altra per le Calabrie. Soggiogarono ed
abbruciarono città e villaggi, uccisero donne e fanciulle. A San Severo
trucidarono circa mille persone di ogni età e sesso.
I capi della Repubblica Partenopea volevano che
i generali francesi marciassero contro i propri connazionali. Si fecero due
spedizioni, una per le Puglie, l’altra per le Calabrie. Soggiogarono ed
abbruciarono città e villaggi, uccisero donne e fanciulle. A San Severo
trucidarono circa mille persone di ogni età e sesso.
Nella città di Andria, ove trovarono, fecero
eguale macello, e per nefando consiglio del conte di Recco, D. Ettore Caraffa,
antico feudatario di quel sito, bruciarono la città, passando al fil di spada
circa duemila cittadini.
E
sono quelle jene sitibonde di sangue umano che ardiscono dare del tiranno, e
vogliono esecrato il nome dei Borboni !
A Trani superarono ancora, se è possibile, in crudeltà gli orrori accennati,
riducendo quella fiorente città a cumuli di cadaveri e ruine.
Seguendo
la loro sanguinosa marcia entrarono in Bari.
Il 5 aprile s’impossessarono del castello di Brindisi, ma lì si arrestò il loro
trionfo, e furono dalle popolazioni battuti, tanto da doversi in tutta fretta
ritirarsi a Napoli.
La stella rivoluzionaria principiò ad
eclissarsi. Poco lontano da Napoli cominciarono a sbarcare soldati siciliani e
napoletani, che occuparono le isole di Procida e di Ischia.
Gli
inglesi furono padroni del golfo, occuparono Castellamare, ed il generale
francese la riprese, facendo strage e non dando quartiere a’ prigionieri.
Il Cardinal Ruffo affrettò la sua marcia su Napoli, e l’Esercito Cristiano,
forte di 10 mila soldati e di 7 mila cittadini armati proseguiva la sua marcia.
Le
milizie francesi partirono finalmente dal Regno, e le popolazioni devote al
legittimo Re Ferdinando IV distrussero ovunque ogni vestigio di Partenopea
Repubblica. Gli stranieri rivoluzionari che aggravano tanto la memoria di
quell’epoca, che eccidio ed obbrobrio vogliono riversare sul capo di quelle
eroiche popolazioni, tacciono i massacri, i saccheggi, gli incendi, di quegli
stranieri che tanto lutto e tanto sangue sparsero dovunque.
Napoli, bloccata dal mare, assediata da terra, soffriva la fame.
I repubblicani si bisticciavano fra loro,
destituivano ed incarceravano sospetti, perseguitavano fin quelli che si
chiamassero col nome di Ferdinando, Francesco, Carolina, e pretendevano che
dovessero cambiarli con quelli di Bruto, Cassio e Cornelia.
Intanto il Cardinale, il 12 di giugno, da
Resina emanò le disposizioni per investire la capitale l’indomani, e difatti,
appena sorto il nuovo sole, i borbonici, che bivaccavano in vari campi, si
avanzarono sopra Napoli.
L’assalto fu sanguinoso, i fratelli
combatterono i fratelli. Orrenda sventura delle guerre civili! I Borbonici però
di Napoli uscirono dalle case gridando Viva il Re!, e attaccarono i calabresi
repubblicani alle spalle, ed il Cardinale profittando di quel disordine, si
avanzò fino alla Marinella.
I
giacobini fuggivano cercano asilo nei castelli; in quello Nuovo si rifugiarono
i ministri ed altri partigiani. Fucilarono i fratelli Cocker ed altri
prigionieri complicati nella congiura svelata dalla Sanfelice, finendo nelle
stragi la loro potenza repubblicana in quel giorno 13 giugno 1799
Terribile fu la reazione popolare nella notte, prima che le truppe entrassero
nella città. Per porvi fine il Cardinale emanò un editto in cui ordinava:
”Tutti coloro che sono attualmente colle armi
in mano, e che non fanno alcuna resistenza o ingiuria, quantunque avessero per
lo passato avessero ciò fatto, non si dovranno ulteriormente offendere, sotto
le più gravi pene, da estendersi eziandio alla pena di morte.”
Ci
vollero diversi giorni prima di rendersi padroni dell’intera città, e giorni
furono quelli scellerata efferatezza, e la plebaglia commise dannosi eccessi
che colpirono tutti i partiti.
Al 21 giugno venne finalmente firmata la capitolazione. Il 24 giugno giunse
l’ammiraglio inglese Nelson colla sua flotta.
Egli
non volle riconoscere quella capitolazione e fu necessario uno scambio di
lettere durissime gravissime prima di decidere il Nelson a non infrangerla del
tutto.
Egli però con ferocia tratto i prigionieri e fece per odio arrestare
l’ammiraglio Caracciolo, e condurlo sulla nave inglese prima, e poi sulla
napoletana Minerva, ove, fattolo, “giudicare” da un consiglio di guerra, cambiò
la sentenza di perpetua prigionia con quella di morte, ed al 29 giugno lo fece
appiccare sulla nave stessa, che comandata dal Caracciolo, era stata teatro dei
suoi trionfi.
Novantanove furono i giustiziati in quell’epoca tristissima.
Capua si rese a’ 28 luglio, Gaeta a 31 del mese stesso.
Fu così che il Regno tornò sotto lo scettro del
Sovrano, il quale elesse il Principe di Cassano in Luogotente e Capitan
Generale dell’esercito.
Riordinò
tutti i rami dell’amministrazione, che erano in grande disordine, sollevò molti
e molti infelici, mitigò i rigori della Giunta di Stato, e così finì quell’anno
memorabile e quel secolo di sventure, cominciando questo secolo Decimonono, che
dicono dei lumi e che a noi ha provocato una vita tanto disgraziata, armandoci
gli uni contro gli altri, e facendoci spettatori e vittime della sua
immoralità, della sua ingiustizia del suo orgoglio.
Pareva che nel cominciare del nuovo secolo che la rivoluzione fosse battuta,
anzi lo fu di fatto. Ma surse da questa un uomo all’Europa egualmente nefasto,
e Napoleone portò sangue e lutto ovunque.
Ferdinando IV, vinta la rivoluzione nei suoi
Stati il giorno 30 maggio del 1800, pubblicò un indulto pei delitti di Stato e
disse essere tempo di riposo, e bramare che i sudditi fossero come figli suoi
tenuti, e tra loro come fratelli si amassero, e perciò sospendere e cancellare
i giudizi di Stato, vietare le accuse e le denunzie, e perdonare, obliare e
rimettere i delitti di Lesa Maestà.
Eppure
egli si sapeva ancora insidiato dalla rivoluzione. Coll’Erario esausto,
riorganizzò come potè l’esercito. Ritirò 24 milioni di ducati in fede di banco,
ed in pochi mesi il commercio e l’industria ressero il corso ordinario. Mandò i
principe ereditario in Napoli, che vi giunse il 30 gennaio fra grandi feste.
Un corpo di esercito fu mandato in Toscana per combattere i francesi, ad
istigazione inglese e austriaca; abbandonato però da queste due potenze,
dovette il Re firmare un armistizio e le truppe si ritirarono, con patti gravi
per lo Stato.
Nel
26 giugno il Re, per esaudire il voto del suo popolo, fece ritorno in Napoli,
proclamando generale indulto e dispensando grandi onori a coloro che avevano
ben servito.
In quell’anno morì a Napoli la Santa Regina di Sardegna la quale, vi si trovava
insieme all’augusto suo sposo, tutti e due in esilio a causa dell’invasione
francese del Piemonte.
La Regina Maria Clotide morì il 7 marzo 1802 e fu seppellita nella chiesa di Santa Caterina a Chiaia. Fu dopo 5 anni dichiarata , da papa Pio VII , venerabile, e cominciò la causa per la beatificazione di lei.
“……Ferdinando IV e
Maria Carolina seppero a Vienna i fatti della rivoluzione francese, e
ritornarono in patria, ove le smodate passioni si svilupparono rapidamente.
Resistette il Re dalle cominciate riforme, e pensò invece a difendere i suoi
Stati da’ suoi nemici esterni, e da quelli che congiuravano per dare il proprio
paese in preda allo straniero.
Propose una lega tra
Principi italiani e concludeva così la sua Nota:
“Il Re delle Due Sicilie,
ultimo al pericolo, si offre primo a’ cimenti, e ricorda ai Principi italiani
che la speranza di campar soli è stata sempre la rovina d’Italia.”
Egli fece il possibile per
salvare l’Italia dall’invasione e dal saccheggio francese, eppure dicono che
quello era il sovrano tiranno.
Quella saggia ed animosa proposta non ebbe effetto.
Il Re di Sardegna, che aveva
aderito alla Lega, si mostrò pentito della data adesione, ed i suoi popoli
furono i primi spogliati e fatti servi da’ rivolzionarii francesi.
Volle Ferdinando organizzare
la difesa, ordinò nuove leve, assoldò Dalmati e Svizzeri, accrebbe i Reggimenti
mercè molti volontarii di famiglie patrizie; mancando di Generali invitò
forestieri, tra questi diversi Principi di casa Reale. Il Principe di Assia
Philipstail si distinse molto.
Gli arsenali del Regno fabbricavano armi, nel deposito di Castel Nuovo si
stabilì un deposito di 60 mila fucili. L’artiglieria fu accresciuta, le navi da
guerra aumentate, epperò i settarii gridavano alla tirannia ed alla
dissipazione del denaro dello Stato.
Il Re delle Due Sicilie non
poteva lottare colla repubblica francese; non poteva che esserne la vittima.
Lasciato solo, e per non
esporre Napoli ad esserne bombardata, dovette accettare l’ultimatum
dell’ammiraglio La Touche, e permettere che le sue navi col pretesto di
approvvigionarsi restassero a Napoli, dando i suoi Ufficiali consigli ed
istruzioni per la rivolta.
Quella sanguinosa Repubblica
francese, dopo di aver distrutto nella propria patria leggi, culti, proprietà e
vita, si sparse per l’Europa, colle sue terribili legioni, avendola prima
invasa colle folle dottrine, spargendo i semi di ribellioni. L’Italia fu la
prima aggredita.
L’esercito francese, condotto dai generali Scherer, Massena, Kellerman, invase
il Piemonte. Gli austriaci l’arrestarono per poco. Fu nelle battaglie di
Montenotte, Millesimo, Dego e Mondavi che si rivelò il genio guerriero di
Napoleone Bonaparte, che aveva dato già prova di sé all’assedio di Tolone.
Quell’uomo tanto fatale
all’Italia ed all’Europa, dopo aver vinto gli Austro-Sardi, si avanzò terribile
e baldanzoso nelle pianure Lombarde, saccheggiando ed incendiando villaggi e
città.
Il Re delle Sicilie, vedendo approssimare il nemico, provvide alla difesa.
Formò un campo nelle pianure di Sessa, spedì truppe in Lombardia, ed i nostri
soldati di cavalleria si distinsero a Cotogno, sul ponte dell’Oglio a
Villeggio. I francesi però si resero padroni di tutta l’alta Italia, obbligando
l’esercito austriaco ad abbandonare la penisola.
Poté Francesco conchiudere,
il 1° novembre, a Parigi, un trattato di pace, pagando alla Repubblica di
Francia otto milioni di lire; fu però solo aggiornato l’invasione del Regno,
mentre i francesi, accantonati nello Stato Pontificio, incitavano i popoli alla
rivolta, facendo propaganda repubblicana, e centro di cospirazione il ministro
francese di Gazot a Napoli.
Pretensioni e provocazioni
incominciarono più apertamente a farsi strada, ed indussero Ferdinando ad
uscire dalla neutralità che era per lui peggiore della guerra.
Si avanzò dunque alla testa di 50 mila uomini nello Stato Pontificio. Comandava
l’esercito Napoletano il generale austriaco Mack, mostrando in quell’occasione
quanto era usurpata la sua fama di valoroso.
Egli divise e suddivise quelle truppe, ed entrò in Roma gonfio di effimero
trionfo, mentre il generale francese Championnet, dalla frontiera ove erasi
ritirato, prendeva l’offensiva, profittava degli errori del Mack, e batteva i
Napoletani divisi in piccole colonne.
Lo disfece presso Ancona, ed al 20 dicembre marciò con tutto l’esercito
francese sul Regno di Napoli.
Le popolazioni in armi, gli
fecero, accanita resistenza.
Il popolo ruppe ogni freno, ed il Re fu costretto dagli inglesi a lasciare
Napoli e stabilirsi a Palermo, raccomandando al suo Vicario Generale, Principe
Pignatelli Strangoli, di salvare la sua diletta Napoli a costo di qualunque
sacrificio, sacrificio che anche più nobilmente fu rinnovato dopo sessant’anni
dal suo pronipote Re Francesco la sera del 6 Settembre 1860.
La mattina del 22 dicembre 1798 il Re colla real famiglia s’imbarcò per Palermo
sopra un vascello inglese comandato dall’ammiraglio Nelson. Per tre giorni la
mancanza di vento lo trattene nel golfo di Napoli.
Il popolo mandò diverse
deputazioni per farlo desistere dal viaggio, ma la politica inglese prevalse.
Nella traversata sorse una tempesta che cagione di morte del piccolo Principe
reale D. Alberto, il quale aveva appena 6 anni.
Feste e dimostrazioni di
gioia accolsero il Re a Palermo, mentre a Napoli il popolo, esasperato per la
partenza sua, si abbandonava alla più selvaggia anarchia, non bastando la
pedante vanità del Pignatelli a mantenere l’ordine e la quiete.
Altro ostacolo non trovarono
i francesi che le popolazioni in armi. Anche allora tradimenti, diserzioni e
vigliaccheria di capi paralizzarono ogni difesa militare, restando solo le
masse del popolo armate, per difendere l’indipendenza del Regno e l’onore della
Nazione.
Gli abruzzesi specialmente
fecero prodigi di valore ed avrebbero forse respinto da soli gli invasori, se
il Pignatelli ed il Amck non avessero, l’11 gennaio del 1799, stabilito una
tregua di due mesi, con patti vergognosi. Il popolo non volle accettarli. Il
Vicario fuggì a Palermo. Il generale Championet marciò su Napoli.
E’ indescrivibile l’ira del popolo Napoletano a quella notizia. Tutti si
armarono. Elessero a capo due uomini oscuri e animosi che andarono incontro ai
nemici.
La plebe cominciava gli
eccessi, ed il 31 gennaio 1799 popolani e lazzaroni corsero ai castelli,
presero i più grossi cannoni, li trascinarono a Poggioreale, assalirono gli
avamposti francesi, ma battuti, retrocessero.
Championet si avanzò a
Capodimonte, ove avvenne altra mischia tra francesi e popolani. Malgrado i
rovesci che le masse soffrivano, pure tenevano ancora la linea difesa.
Numerosissime si trovarono a Porta Capuana, ove s’avanzava una forte divisione
francese.
Il macello fu orrendo, e
quei popolani che non avevano armi scagliavano pietre. I francesi furono
respinti più volte, e sarebbero stati distrutti, se al valore avessero le masse
aggiunto la prudenza. Furono ingannate da mosse strategiche, sbagliate al
sopraggiungere di francesi rinforzi.
Sanguinosa pugna avveniva
nella stessa città lungo la strada Foria, ed i popolani furono colà attaccati
alle spalle da una turba di studenti. Molti lazzaroni furono fatti prigionieri,
e vennero immediatamente fucilati.
Entrarono così i francesi a
Napoli. Il generale scelse per sua residenza il palazzo di Angrè e proclamò
aver liberato Napoletani dalla tirannide, minacciando esemplari castighi a chi
non avesse quella libertà voluto accettare, e peggio a chi la avesse
ostacolata.
Istituì lo Stato a
Repubblica, e scimmiottando la Convenzione francese abolì il Calendario
cristiano, incamerò i beni ecclesiastici, soppresse i Conventi, piantava alberi
della libertà nelle pubbliche piazze, mandava Commissarii nelle provincie per
estorcere denaro a qualunque costo, stabilì una tassa di guerra in 16 milioni
di ducati; ma parendo troppo mite (!) quella dittatura, fu richiamato a Parigi
dal Direttorio, e prima di giungere a Roma fu arrestato e condotto nella
Cittadella di Torino, mandando a Napoli un Fraipoult per esigere da’ Napoletani
nuove tasse ed altre spogliazioni.
Odiati gli invasori anche da
quelli che in buona fede avevano aiutato la loro venuta, si giudicò opportuno
operare un ardito colpo, e volendo restaurare il trono con armi popolari si
decise il re Ferdinando a spedire il Cardinale Fabrizio Ruffo, che aveva
seguito la Corte a Palermo, gli conferì il grado di Vicario Generale del Regno,
assegnandogli solo 30 mila ducati ed un piccolo seguito, e quel coraggioso
Cardinale, fidando nella giusta causa che difendeva, s’imbarcò per le Calabrie.
Arrivò a Catona l’8 febbraio, e cominciò la difficile impresa con soli trecento
contadini armati.
Ma, appena divulgatosi in Calabria il suo arrivo, torme di soldati gli si unirono, ed in poco tempo aveva a’ suoi ordini 17 mila uomini che si dissero dapprima esercito della Santa Fede, poi esercito cattolico. Espose in un manifesto la missione ricevuta, esortando tutti ad armarsi per difendersi la causa del legittimo Sovrano e della Chiesa, per rivendicare la sua patria, le sostanze e l’onore napoletano oltraggiato. Vedutosi forte di armi e di armati, risoluto marciò sopra Monteleone, centro delle Calabrie, ove entrò il 1° marzo, restaurando il governo del Re.