Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Follia e metodo di Feltri (per non dire di altri) contro il Sud

Posted by on Apr 23, 2020

Follia e metodo di Feltri (per non dire di altri) contro il Sud

 Non contento di quanto aveva scritto in un infelicissimo editoriale a proposito del Nord che presto o tardi “se ne va”, Feltri rincara la dose. Ospite ieri sera di Mario Giordano (“Fuori dal coro”), ha affermato testualmente: ““Il fatto che la Lombardia sia andata in disgrazia per via del coronavirus ha eccitato gli animi di molta gente che evidentemente ha un senso di invidia, di rabbia nei nostri confronti perché subisce una sorta di senso di inferiorità.

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VITTORIO FELTRI, APPELLO PER UNA RACCOLTA FIRME

Posted by on Apr 22, 2020

VITTORIO FELTRI, APPELLO PER UNA RACCOLTA FIRME

Stiamo assistendo ad un attacco concentrico al Sud secondo modi diversi da parte di personalità appartenenti agli schieramenti più diversi. Propongo di lanciare una raccolta firme per impedire, sulla base di ben noti principi costituzionali, che aziende, in cui enti pubblici siano presenti a qualche titolo, facciano pubblicità presso mezzi di comunicazione che diffondono contenuti di tipo razzista nei confronti dei Meridionali. Chiedo ai giuristi di costituire un gruppo di lavoro per articolare opportunamente l’iniziativa.

Il mio indirizzo è: Fernando di Mieri fdimieri@gmail.com

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Le riflessioni del 25 novembre 2019 di Fernando Di Mieri

Posted by on Nov 25, 2019

Le riflessioni del 25 novembre 2019 di Fernando Di Mieri

Il ministro delle tasse sulle merendine, quello che promette di dimettersi se non gli danno tre miliardi (si dimetterà sì, o sarà”dimissionato”, ma non per questo), quello che vuol togliere i Crocifissi dalle scuole, quello di una serie troppo lunga di amenità ci spieghi se non intenda protestare sul serio

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I Borbone e le potenze europee

Posted by on Ott 28, 2019

I Borbone e le potenze europee

1799-1861

(Appunti per una storia della politica estera borbonica)

I Questa breve relazione riprende, con poche modifiche dovute alla sede ospitante, il testo presentato ad un convegno promosso dall’Istituto per la Ricerca Storica delle Due Sicilie . Intende cogliere le linee fondamentali della politica estera portata avanti dai sovrani della dinastia borbonica, prendendo come termini di riferimento due date assolutamente centrali: da una parte il 1799, anno della Rivoluzione Napoletana e vero snodo della storia meridionale, dall’altra il 1861, che vede il definitivo disfacimento del Regno, la più importante realtà politica d’Italia. Molto si è detto e discusso in proposito. La storiografia più libera, ospitata talvolta anche in sedi accademiche (penso ai preziosissimi lavori di Eugenio Di Rienzo, ad uno dei quali il mio titolo si ispira), ha già messo in evidenza molti aspetti che spiegano le ragioni del crollo. Per quel che mi riguarda, cercherò di mostrare in particolare l’intimo intreccio tra politica internazionale, politica interna, cambiamenti culturali e interessi economici in senso ampio del Regno e delle altre grandi potenze europee. Va da sé: per un’analisi dell’argomento prescelto che voglia assurgere ad un minimo di chiarezza e approfondire in misura corrispondente si richiederebbero spazi molto più lunghi di quelli che può accogliere un sito internet di divulgazione, sicché dovrò tenermi all’essenziale, pur senza rinunciare alla volontà di comprendere le grandi questioni, che si intrecciano in un gioco perverso ai danni del Regno. Non avranno un ruolo centrale, in quello che scriverò, considerazioni che rivestono invece ben altra importanza soprattutto in esempi della letteratura revisionista. Penso, ad esempio, alle influenze massoniche, che indubbiamente vi furono e furono notevoli, ma, in vista di un’indagine scientifica, avrebbero bisogno di trattazioni specifiche, soprattutto per evidenziarne le complesse articolazioni e specificità, in riferimento ai luoghi, ai tempi e alle persone. Ho parlato di impostazione scientifica. È quella che mi propongo di adottare, anche se ben consapevole dei rischi che da altocilentano corro, quando provo ad affrontare una simile tematica. Molti (lo stesso Di Rienzo) hanno ripreso quanto Croce diceva della cosiddetta “storia affettuosa”, quella che, tanto per dire, può riguardare la biografia di una persona di famiglia, in cui il coinvolgimento affettivo rischia di prevalere sul rigore dell’analisi. Lo stesso valga per ogni oggetto di studio che procuri un sussulto emotivo nel ricercatore. Così, in questo caso potrebbe agire l’affetto per un Regno che, con tutti i suoi limiti, era il “mio” Regno, quello che peraltro aveva segnato una decisa ripresa in ogni ambito della vita pubblica del Sud. Eppure, mi sforzerò di tenermi entro i ristretti limiti di un’argomentazione algida, quasi metallica, nel discutere le varie posizioni culturali o gli eventi accaduti. Cercherò di vedere le cose con tutto il rigore di cui sono personalmente capace, senza lasciarmi prendere dall’intima nostalgia per il Regno distrutto o dal rimpianto per quello che poteva essere e non è stato. Vedrò punti di forza e debolezze; cercherò di capire delle ragioni -ideali economiche geopolitiche psicologiche culturali- le quali hanno condotto ad una situazione che, se per pochi è stata provvidenziale, per molti ha assunto i toni della tragedia. Spero solo che alla fine l’ascoltatore non ne tragga l’impressione di una vicenda, quasi come in una visione organica à la Spengler, destinata al tramonto e alla morte. Tutto ciò porterebbe ad una sorta di deresponsabilizzazione, ed è invece una ricerca e un’assegnazione di responsabilità che, a mio sommesso parere, occorre portare avanti per penetrare nelle più intime fibre lo svolgimento di una storia, per aiutarsi nella spiegazione di tante attuali difficoltà che la nostra gente ancora oggi vive. La collocazione geografica Prima di ogni ulteriore considerazione, bisogna ricordare la particolare collocazione del Regno (dirò semplicemente così, intendendo per tale l’area, neppure precisata nei dettagli, su cui si estendeva il dominio della dinastia inaugurata da Carlo di Borbone). Un Regno prestigioso per la storia e la cultura, ma anche importante poiché al centro del Mediterraneo. Ora, se è vero che tra la seconda metà del XVI secolo e il XVII il Mare Nostrum aveva perso parte della sua centralità con l’incrementarsi degli scambi con le Americhe, è altresì vero che non aveva mai cessato di essere un luogo in cui si svolgevano politiche cardine di diversi Stati. Per di più, una sempre più accentuata relazione con l’Oriente, che per altro verso si verificava, ne faceva riaffermare quell’importanza che solo ad uno sguardo parziale poteva risultare irrimediabilmente perduta. Tra l’altro, proprio Napoli, nel 1724 (il riconoscimento pontificio arriva nel 1732) in età austriaca, vede la nascita, ad opera dell’ebolitano Matteo Ripa, del nucleo originario di un istituto di studi orientali (vari i nomi che ha assunto: all’inizio “Collegio de’ Cinesi”, ora “Università degli Studi di Napoli ‘L’Orientale’ ”), che nel tempo vivrà momenti di autentica gloria. Si potrebbe parlare della diffusione di quelle che saranno dette “cineserie”, o dell’influsso del pensiero su autori europei (e.g. Leibniz) etc. per far capire come il Mare nostro aveva sempre (o di nuovo) un’importanza tale da procurare ricchezza e potere, ma anche tale da scatenare appetiti. Non è per caso che, alla fine del XVIII secolo (l’inizio è del 1798), Napoleone, allo scopo di danneggiare gli interessi inglesi e nel Mediterraneo e in Oriente, si deciderà ad attaccare l’Egitto, in un’impresa che gli sorriderà in alcune fasi, ma alla fine si rivelerà per lui disastrosa, mentre per la storia culturale avrà un’importanza incomparabile (si pensi al ritrovamento della Stele di Rosetta). Bene, se il Mediterraneo è un catalizzatore di interessi, chi vive in un regno che si trova nel cuore di quel mare potrà mai vivere in pace? Se da quella posizione derivava tanta parte del benessere che i Borbone sapranno parzialmente cogliere, da quella stessa posizione derivavano i primi pericoli di sopravvivenza. Il Sud era peraltro troppo grande per fare una politica, per così dire, di piccolo cabotaggio, come un qualsiasi Ducato, ma era troppo piccolo per poter svolgere un ruolo di competitore delle grandi potenze. È qui che si giocherà parte cospicua delle disavventure di un Regno che sostanzialmente non chiedeva certo alla storia la realizzazione di una vocazione coloniale né altro che potesse offendere altri popoli. Fernando Di Mieri Fernando Di Mieri È professore invitato di “Scienza e Religione” presso l’Istituto “Scienza e Fede” dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma. È stato altresì, oltre che docente nei Licei di Stato, visiting professor presso la University of Toronto e Faculty Researcher presso la sub-faculty of philosophy, Merton College, University of Oxford. Per lunghi anni ha insegnato filosofia della scienza e cosmologia filosofica presso lo Studio Filosofico dei Domenicani d’Italia, Napoli. Ha diretto progetti di ricerca internazionali (e.g., con il supporto del Metanexus Institute, emanazione della Templeton Foundation). Le sue pubblicazioni concernono autori come Gentile, Dante, Vico, nonché problematiche di tipo teoretico. Relativamente alla storia culturale del Meridione d’Italia ha, in occasione del bicentenario, curato l’organizzazione di un convegno, nonché gli Atti relativi, su Il 1799. Ideali ed eventi nel Salernitano (Gutenberg, 1999), al quale hanno offerto i loro contributi studiosi come Cestaro, Dente, De Mattei, Di Maio, Mazzetti, Planelli, Ruffo, Viglione; ha poi curato la pubblicazione, con relativi studi introduttivi, di opere di Sanseverino, Fergola, Colangelo, che rischiavano di patire l’oblio a causa delle loro nette posizioni culturali. Di Mieri è co-direttore della “Rivista di Studi Italiani”, nonché direttore della collana “La tavola di Vico” presso Ripostes. Tra i suoi lavori in corso v’è il coordinamento, insieme con De Jorio Frisari, di un gruppo accademico di studio sulla civiltà napoletana del 1799.

Fernando Di Mieri

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“Michael Warren Davis, Il radicalismo di Russell Kirk, traduzione a cura di Fernando di Mieri”

Posted by on Mag 30, 2019

“Michael Warren Davis, Il radicalismo di Russell Kirk,  traduzione a cura di Fernando di Mieri”

In un tempo caratterizzato dai “sogni dell’avarizia”, è ciò di cui la Destra ha maggiore bisogno

Alla fine, durante l’estate, ho fatto il mio pellegrinaggio a Piety Hill. La casa di mattoni rossi di Russell Kirk domina il villaggio di Mecosta, Michigan, coperto di ruggine. L’alloggio originale in legno era stato costruito nel 1878 dal bisnonno Amos Johnson. Dopo che bruciò il Mercoledì delle Ceneri del 1975, Russell Kirk ha realizzato questa curiosa costruzione all’italiana.

Due pistole a pietra focaia stanno sulla cappa del camino, affiancando un elmetto che sembra appartenere a Gengis Khan. La sala da pranzo è ottenuta interamente dai resti di una locale chiesa parrocchiale; i banchi sono stati usati per il tetto, mentre statue di angeli si levano in nicchie situate dietro il vecchio posto di Kirk a capotavola. Divenne cattolico nel 1963, ma il tavolo nel salotto venne usato dai suoi nonni spiritisti durante le loro sedute.

«La mia guest house era infestata dal suo prozio Raymond -così mi dice il nipote undicenne di Kirk- finché un prete in visita non convinse Ray che si era trattenuto oltre il consentito». La biblioteca del Saggio di Mecosta, ricca di 10.000 volumi, dove ha scritto la gran parte dei suoi saggi e libri, si trova in una casetta cosparsa di edera, adiacente al campus principale.

Si tratta, come ho detto, di una specie di luogo sacro per me. Sono giunto a Kirk attraverso T.S. Eliot, la cui poesia ho letto ossessivamente quando ero matricola al liceo. Il suo vecchio  amico di penna Kirk è stato la mia prima introduzione alla politica. Dieci anni sono passati e io resto un Kirkiano piuttosto irriducibile

.

Persino durante la vita di Kirk, l’ufficialità conservatrice cominciò a spacciarlo come un filosofo di corte alla Casa Bianca di Ronald Reagan, esistente solo per coprire il programma di “the Gipper”[2] con una patina di sofisticazione intellettuale. Reagan piaceva abbastanza a Kirk (come doveva), ma questi non era un reaganiano di ferro. È una verità chiara a tutti coloro che si degnano di leggere i suoi libri. Il complesso dei principi e dei programmi politici, che Kirk chiamava “conservatorismo”, non assomiglia praticamente in nulla alle tesi che esistono oggi sotto quell’egida.

Ma, esattamente, cos’ è un “Kirkiano”?

Spero che non si giudichi dagli omaggi che sono stati scritti per il centenario di Kirk. Le riviste, da The Atlantic a Newsmax, hanno pubblicato elogi commemorativi del Saggio di Mecosta. Molti di questi l’ hanno visto un po’ come un comprimario nella fondazione della National Review, un eccentrico accademico che in qualche modo si è trovato vicino all’avanguardia del movimento di Goldwater[1].

Per esempio, Kirk respinse con tutto il cuore il fusionismo di Frank S. Meyer e William F. Buckley, vale a dire l’ideologia sincretica che combina l’economia libertaria con il tradizionalismo sociale, quella a cui ora ci riferiamo semplicemente come conservatorismo. Nel suo saggio Libertà, tradizione, conservatorismo, Meyer riduce le due linee a “tendenze” o “accentuazioni” all’interno della stessa più ampia cultura del conservatorismo. Egli afferma: «Entrambe accettano implicitamente, in larga misura, i fini dell’altra».

Kirk (e la sua controparte libertaria F.A. Hayek, se è per questo) ha respinto completamente la tesi di Meyer. Come ha spiegato nel saggio Libertarians: the Chirping Sectaries, il libertarismo e il conservatorismo non sono solo diversi, sono antitetici. È arrivato persino a dire che “un conservatore libertario è un uccello raro come un nazista ebreo”. Infatti, i libertari sono “materialisti utilitaristi”, dice Kirk, mentre i tradizionalisti credono in un “ordine morale trascendente”. I libertari si occupano principalmente di questioni che concernono la libertà nella sua opposizione alla mancanza della libertà, la ricchezza contro la povertà. Per i tradizionalisti, invece, la problematica del giusto contro il male prevale su tutto. O il governo sta dalla parte del Bene contro il Male, oppure si dichiara neutrale, rivelandosi quindi complice del Male. Queste sono le nostre opzioni.

La convinzione che tutta l’attività umana – individuale, sociale, economica e politica- debba essere diretta da questo “ordine morale trascendente” al servizio del Bene è davvero l’essenza del tradizionalismo. Allo stesso modo, Kirk ha insistito sul fatto che misuriamo l’efficacia dell’azione in primo luogo (anche se non solo) sulla base della sua “conformità alle durature verità morali”. Osserva in Enemies of the Permanent Things: «Il vero progresso consiste nel movimento dell’umanità verso la comprensione delle norme e verso la conformità alle norme. La vera decadenza si manifesta allorquando l’umanità si allontana dalla comprensione delle norme e dall’obbedienza alle norme stesse».

Secondo la valutazione di Kirk, allora, la funzione principale del governo non è quella di garantire la sicurezza materiale e il comfort della sua cittadinanza. È, piuttosto, quella di prevenire l’immoralità e l’anarchia sociale. L’uomo non è homo economicus, come credono i socialisti e i libertari, ma imago Dei. Deve anche essere visto come tale in termini sociologici. Il fatto che sia stato creato a immagine di Dio, per amare e servire il prossimo come fa il suo Creatore, non è cosa di poco conto. Parla ai suoi più profondi bisogni creaturali: il bisogno di espressione creativa, amicizia, adorazione e sacrificio.

Kirk e i suoi discepoli hanno identificato questi bisogni più profondi con la triade neoplatonica di Verità, Bontà e Bellezza. Essi li trovano incarnati nell’antica cristianità: negli insegnamenti, nella pietà e nella devozione dei nostri antenati cristiani. Kirk si affretta a sottolineare che lo stato ha un ruolo da svolgere nel provvedere a questi bisogni, allo scopo di rafforzare o ripristinare l’ordine cristiano. Egli cita ripetutamente la definizione di governo proposta da Burke: «un espediente della saggezza umana per soddisfare i desideri umani». Il governo deve stare con il Vero, il Bene e il Bello contro il falso, il male e il brutto.

Da qui la sua difesa della censura. Nella sua raccolta del 1956 Beyond the Dreams of Avarice, Kirk esalta l’antico censore romano, che ha vinto “la corona di una virtuosa carriera politica”. Era suo dovere “determinare le responsabilità dei cittadini e controllare che queste responsabilità fossero adeguatamente rese esecutive […] Erano i custodi della nobile, antica virtù romana, e i loro poteri erano molto vasti”. Nell’esercizio di quei poteri, erano “responsabili solo dinanzi alle tradizioni romane e alla loro coscienza”. Quindi, il protagonista del vero progresso è il censore, non l’imprenditore, come sostiene il libertario. È il censore che protegge la società dalla vera decadenza, non l’autorità di regolamentazione, come suggerisce il progressista. Il censore garantisce la conformità alle norme morali, che è la linfa vitale di una civiltà sana.

Chiaramente, Kirk non intende la libertà alla maniera dei conservatori moderni, cioè non considera gli appelli alla “libertà” come argomenti sostanziali in e di per sé. Questa dissonanza sorge, come previsto da Kirk, da un’altra netta e inconciliabile differenza tra i principi fondamentali del libertarismo e del tradizionalismo.

«Il libertario pensa che questo mondo sia principalmente un palcoscenico per l’ego vanaglorioso», osserva Kirk, mentre il conservatore si scopre invece pellegrino in un reame di mistero e meraviglia, dove sono richiesti il dovere, la disciplina e il sacrificio, e dove la ricompensa è quell’amore che supera ogni comprensione. Il conservatore considera il libertario come empio, nel senso dell’antica pietas romana. Vale a dire, il libertario non venera antiche credenze e usanze, o il mondo naturale, o il suo paese, o la scintilla immortale che si trova nei suoi simili.

Alla fine, i conservatori furono costretti a scegliere tra l’inviolabilità della volontà individuale e la sovranità della pietas. Scelsero la prima, e così i loro presupposti e principi operativi divennero sempre più libertari. Nessun repubblicano oggi oserebbe mettere fuori legge la pornografia, per esempio, semplicemente perché è fortemente critico sul piano morale. Ma per il Kirkiano, per mettere fuori legge qualcosa non c’è motivo migliore del fatto che è semplicemente malvagio.

Si prenda l’esempio della riforma dell’istruzione. Anche in questo settore i conservatori sono indistinguibili dai libertari. Di fronte all’indottrinamento marxista nelle università, non fanno una battaglia per difendere le verità tramandate dai nostri antenati nella cristianità, come invece farebbe un tradizionalista. Non richiedono dei programmi radicati nel canone occidentale. No: piangono disperatamente per la “libertà accademica” e insistono sul fatto che le università dovrebbero essere un “mercato di idee”, proprio come farebbe un libertario.

Nel frattempo, i veri tradizionalisti del mondo accademico – la facoltà dei college di arti liberali classiche, come il “Thomas More” nel New Hampshire e il “New Saint Andrews” nell’Idaho- guardano molto spesso al campo di battaglia dei bolscevichi della Ivy League con una sorta di rispetto rancoroso: un soldato un altro. Come Kirk si aspetterebbe: «I conservatori non hanno intenzione di scendere a compromessi con i socialisti; ma anche una simile alleanza, per quanto risulti ridicola, è quasi più concepibile della coalizione di conservatori e libertari. Almeno i socialisti dichiarano l’esistenza di una sorta di ordine morale; i libertari non vedono praticamente limiti».

Insiste nel dire: «Ogni società, di solito in teoria e inevitabilmente in pratica, ha affermato il suo diritto di frenare coloro che distruggerebbero le fondamenta della società». Credere che ai giovani debba essere permesso di “pensare da soli” al college – che, alla veneranda età di 18 anni, sono intellettualmente abbastanza sofisticati da non aver bisogno praticamente di istruzioni da un accademico più anziano e più qualificato – suona come il genere di idiozia che sarebbe stata smerciata dai progressisti del tardo XIX secolo.

In effetti, lo è. E questo è il motivo per cui i tradizionalisti possono essere prontamente d’accordo con la battuta di Chesterton: “Tutto il mondo moderno si è diviso tra Conservatori e Progressisti. Il compito dei Progressisti è continuare a commettere errori. Il compito dei Conservatori è di evitare che gli errori vengano corretti”. I Conservatori americani sono stati a lungo i difensori del liberalismo milliano leggermente spalmato di cristianesimo. Kirk non aveva parole più amichevoli per J.S. Mill che chiamarlo un “intelletto ripulito”.

“La conformità alle verità morali durature non è servile”, scrive Kirk. “L’obbedienza alle convenzioni di un ordine civile giusto non è stupida”. Egli avrebbe ben compreso il monito di san Paolo ai Romani: «Non sapete che se vi ponete  al servizio di qualcuno come schiavi ubbidienti, siete schiavi di colui al quale ubbidite, sia esso il peccato, che conduce alla morte, ovvero dell’obbedienza, che conduce alla rettitudine? Ma ringraziato sia Dio che voi, una volta schiavi del peccato, siete diventati obbedienti dal profondo del cuore all’insegnamento che avete ricevuto e, essendo stati liberati dal peccato, siete diventati servitori della giustizia»[3].

A questo punto possiamo vedere come Kirk sia compatibile con una certa maniera pragmatica di intendere il conservatorismo moderno. Anche se dimentichiamo tutto su Meyer e Buckley – e, in effetti, molti di noi l’hanno fatto – possiamo ancora usare gli argomenti di Kirk per rafforzare l’ala socialmente conservatrice del Partito Repubblicano e salvare il consenso di Reagan. Potrebbe non essere teoreticamente consistente, ma sarebbe retoricamente incisiva.

Il problema è che il pensiero di Kirk non tollera nemmeno il secondo “ingrediente” del fusionismo: non era un sostenitore del capitalismo laissez-faire. Ne era lontano. In Prospects for Conservatives, Kirk mette in guardia i fautori del libero mercato dall’assunzione innocente che “la libertà politica e personale durerà, nella misura in cui continuiamo a ripetere la parola ‘libertà’, non importa quanto il processo di concentrazione del potere economico in grandi società nominalmente ‘private’ sia portato avanti […] Mentre il consolidamento del potere economico avanza, il reame della libertà personale diminuirà, sia che i padroni dell’economia siano servitori statali o servitori di società private”.

Questi “servitori di società private” rendono poveri anche i signori del corpo politico. «Troppo stupido anche solo per intravedere la necessità di riverire e obbedire alla legge che lo protegge dalla rivoluzione sociale -scrive in The Conservative Mind- il capitalista manca di capacità sufficiente per l’amministrazione della società che egli ha fatto sua».

Non dobbiamo aspettarci che il capitalista comprenda la delicata rete di consuetudini, pregiudizi e lealtà che costituiscono una civiltà sana. Egli compra e vende il lavoro degli altri e scommette sulle loro fortune. Gli altri non sono i suoi vicini o i compatrioti, ma i suoi investimenti.

Kirk nutrì grande interesse verso Wilhelm Röpke, un economista tedesco dell’era della Guerra Fredda che cercò una “Terza Via” che ci avrebbe “condotto fuori dal dilemma tra ‘capitalismo’ e collettivismo”. Come Kirk, non poteva tracciare alcuna distinzione sostanziale tra il “proletario sradicato” e i “monopolisti e dirigenti”.

Piuttosto, i due vedrebbero positivamente la restaurazione di un’economia decentralizzata e su piccola scala. Rifiutavano l’ossessione condivisa dei socialisti e dei capitalisti della crescita – l’omonimo “sogni dell’avarizia” – favorendo la proprietà di massa dei beni e l’ampia distribuzione dei mezzi di produzione. Kirk dice di Röpke in The Politics of Prudence: «Il suo obiettivo è ripristinare la libertà per gli uomini promuovendo l’indipendenza economica. Il miglior tipo di contadini, artigiani, piccoli commercianti, uomini d’affari piccoli e medi, esponenti delle libere professioni e funzionari fidati e servitori della comunità – questi sono i destinatari della sua sollecitudine, poiché tra loro la natura umana tradizionale ha ancora le sue radici più vitali, e in quasi tutto il mondo, si stanno radicando tra la specializzazione “capitalistica” e la consociazione “socialista”. Non hanno bisogno di scomparire dalla società, ancora una volta possono costituire i maestri della società».

L’impresa competitiva non è sbagliata in sé, naturalmente. Kirk sarebbe più probabilmente d’accordo con Chesterton sul fatto che “troppo capitalismo non significa troppi capitalisti, ma troppo pochi capitalisti”. Infatti, ecco di nuovo Kirk, ora in The American Cause: «Economicamente e moralmente, un sistema competitivo non ha nulla di cui vergognarsi. Al contrario, soddisfa i desideri umani e rispetta la libertà umana molto meglio di qualsiasi vago schema di affidamento basato unicamente sull’altruismo o su qualsiasi sistema di lavoro forzato. In sostanza, non è la competizione che è brutale; piuttosto, è la mancanza di competizione che rende brutale una società».

Kirk ha semplicemente capito che il sistema del laissez-faire non sempre favorisce la competizione. Potrebbe anche produrre monopoli, depressioni o rivoluzioni. Quindi, dovremmo fare attenzione a quegli “zeloti” che “ci insegnano che ‘la prova del mercato’ è  il tutto dell’ economia politica e della morale” e “ci assicurano che le grandi società non possono sbagliare”, ha scritto Kirk in The Intercollegiate Review nel 1986, a metà quasi del secondo mandato di Reagan.

Dobbiamo dire una breve parola anche a proposito di politica estera. Le parole più famose di Kirk sull’argomento derivano probabilmente da un discorso del 1988 alla Heritage Foundation, quando osservò che “non di rado sembrava come se alcuni eminenti  neoconservatori scambiassero Tel Aviv per la capitale degli Stati Uniti”. Il commento fu tipico di chi non riesce a percepire le note, ma indegno delle accuse di antisemitismo che seguirono, come spiega Bradley Birzer, uno studioso del The American Conservative, nella sua biografia Russell Kirk: American Conservative.

Chiaramente, tuttavia, Kirk era un deciso anti-interventista. Ma lui non era, dobbiamo notare, un American Firster[4]. La sua opposizione al neoconservatorismo non derivava principalmente dal timore di sprecare sangue e soldi americani per popolazioni che non li meritavano. Piuttosto, ha avversato l’idea che gli Stati Uniti possano “liberare” un paese più di quanto possano conquistarne e occuparne uno. Così scrive nel suo contributo alla What is Conservatism ?: «Imporre la costituzione americana a tutto il mondo non lo renderebbe felice; al contrario, la nostra costituzione funzionerebbe in pochi Paesi e renderebbe molti uomini miserevoli in breve tempo. Gli Stati, come gli uomini, devono trovare le proprie strade per l’ordine, la giustizia e la libertà. Di solito quei percorsi sono antichi e tortuosi e le loro indicazioni sono Autorità, Tradizione, Prescrizione».

Quindi, ha messo in guardia contro coloro che “immaginano che la politica estera possa essere condotta con zelo religioso, sulla base di un diritto assoluto e di un torto assoluto”. Naturalmente, questo non accade perché il bene e il male non contano in politica, o che noi dovrebbe abiurare qualsiasi tipo di nozioni religiose. Anzi. Come disse in un altro discorso della Heritage Foundation nel 1991, trattando la Guerra del Golfo:

“Il sangue di un uomo non dovrebbe mai essere versato, se non per redimere il sangue dell’uomo”, ha scritto Burke nella sua prima Lettera su una pace regicida. «È giustamente versato per la nostra famiglia, per i nostri amici, per il nostro Dio, per il nostro paese, per la nostra specie. Il resto è vanità; il resto è crimine». Burke desiderava che l’Inghilterra dichiarasse guerra alla Francia a causa della minaccia dei rivoluzionari francesi all’ordine civile dell’Europa, e a causa dei loro crimini sistematici. Ma si è posto contro la guerra per mero vantaggio commerciale. Così dovrebbero fare i repubblicani. “Il resto è vanità; il resto è crimine”.

Il problema a proposito degli interventi, spiega Kirk, è che non possiamo redimere gli uomini, che vivono nel paese che invadiamo, perché non accettano la nostra definizione di redenzione. Non abbiamo speranza, quando vogliamo imporre le nostre nozioni liberali e laiciste di bene e male ad una nazione musulmana fondamentalista come l’Afghanistan, o una nazione mezzo stalinista/mezzo ortodossa come la Russia. Dovremmo aiutare quei popoli a percorrere la loro strada verso l’ordine, la giustizia e la libertà, ma solo se siamo pronti ad accettare le loro nozioni di autorità, tradizione e prescrizione. Altrimenti, intervenendo causeremo a loro (e a noi stessi) solo danni maggiori.

Il conservatorismo di Russell Kirk non ha molti tratti in comune con il Partito Repubblicano o i media di centro-destra del 2019. Che lo vogliano o meno, i conservatori moderni leggono Kirk in modo selettivo, scegliendo solo quelle citazioni o idee che concretizzano il consenso reaganiano. Naturalmente, si può concludere che Kirk aveva torto e Buckley (o Hayek o Strauss) aveva ragione. Non voglio dire che qualcuno di questi possa essere un argomento per il conservatorismo kirkiano. Né voglio sostenere che la parola “conservatorismo” sia appannaggio dei Kirkiani e quindi non dovrebbe essere usata dai seguaci di Buckley, o di Hayek o di Straussi.

Vorrei solo lasciare che Kirk parlasse per sé stesso per una volta. Dopo cento anni, credo che si sia guadagnato questo diritto. Certo, è semplicemente allettante indorare le nostre idee con il suo prodigioso capitale intellettuale, specialmente ora che è morto. Ma forse dovremmo chiederci: se lo rispettiamo abbastanza da invocare il suo nome e citare i suoi libri, non sarebbe saggio considerare la sua filosofia in toto? Avendo trascorso così tanti anni a scavare i suoi capitoli e saggi per cavarne citazioni prima di riporli con reverenza sul ripiano più alto, non gli dobbiamo un’adeguata lettura?

Non si può nutrire molta fiducia nel fatto che i conservatori più anziani siano ora disposti a riconsiderare i loro punti di vista, anche se hanno avuto il tempo di rimuovere i loro occhiali a strisce e di leggere da cima a fondo The Conservative Mind. Non è tanto una riflessione su quei conservatori quanto sulla natura umana, e la flemma della vecchiaia è solitamente una delle sue virtù.

Ma, per fortuna, un numero impressionante di Millennials[5] sta cadendo sotto l’influenza di Kirk il radicale, Kirk il dissidente. Il mio amico Jeff Cimmino ha pubblicato un rapporto su National Review nel 2017, che descrive i “giovani conservatori anti-libertari” che sono “sempre più importanti in alcuni campus universitari”. Questi tradizionalisti della prossima generazione si stanno alimentando del pensiero di Kirk, Edmund Burke, Tommaso d’Aquino, G.K. Chesterton e C.S. Lewis. «Sono l’avanguardia di una nuova generazione che sta di traverso alla storia -dichiara Cimmino- cercando di riorientare gli americani verso idee e ideali che nutrono l’intera persona: comunità, verità, bontà e bellezza».

Quello che mi ha colpito di più del pezzo, tuttavia, è stata l’osservazione di Cimmino del fatto che la Catholic University of America invia ogni anno un gruppo di persone a St. Mary Mother of God, a Washington, DC, per la festa del Beato Carlo d’Austria, l’ultimo imperatore asburgico. La festa del Beato Carlo nella Old St. Mary è stata la prima messa in latino a cui abbia mai partecipato. Era il 2013, quando ci sono andato in qualità di presidente dei Monarchici del George Washington University College. Si potrebbe dire che eravamo stati fra la prima ondata dei nuovi tradizionalisti.

Poi, quando ho continuato i miei studi all’Università di Sydney, ho subito trovato un’altra cellula di giovani che si professavano Burkeani, che sono diventati miei amici duraturi. Uno del nostro gruppo sta raccogliendo saggi per un libro sul conservatorismo tradizionalista, che sarà pubblicato dalla Connor Court Publishing, la più grande casa editrice di centro-destra. Fra i contributori troviamo l’ex primo ministro Tony Abbott e l’editorialista di Mail on Sunday Peter Hitchens, anche se la maggior parte dei contributori sono Millennials.

Non ho trascorso abbastanza tempo in Gran Bretagna per sapere se questa tendenza sia rilevabile anche nel Regno Unito, ma ho il forte sospetto che sia così. Chiunque abbia dimestichezza con i social media sa che High Tories come Hitchens, Jacob Rees-Mogg e Sir Roger Scruton hanno un seguito enorme tra i giovani attivisti conservatori.

Quindi, da dove viene questo rinascimento tradizionalista?

La mia generazione ha visto l’Occidente annichilito dal consumismo, dalle leggi lassiste sul divorzio, dalla Rivoluzione sessuale, dall’esternalizzazione, dall’urbanizzazione e dalla centralizzazione. Tutti questi motivi sono accettati (anche se a malincuore) dai moderni conservatori come “il prezzo che dobbiamo pagare” per vivere in un paese libero e prospero. Hanno torto. La libertà senza moralità è semplice licenza; la prosperità senza amore è semplice decadenza. Il tradizionalista rifiuta entrambe le perversioni mentre sostiene il Bene essenziale che essi distorcono.

Per citare Burke: «Il governo è un espediente della saggezza umana per provvedere ai desideri umani». E che cosa vogliono i tradizionalisti della generazione dei Millennials? Amicizia, famiglia, comunità, un’onesta giornata di lavoro, musica vera, buoni libri e soprattutto Dio. Kirk lo riassunse molto bene quando disse che “i conservatori affermano che la società è una comunità di anime, che unisce i trapassati, i vivi e i non ancora nati. Essa è coerente con ciò che Aristotele diceva ‘amicizia’ e i cristiani chiamano ‘amore del prossimo’”.

Questa è la visione radicale che Kirk ha contrapposto ai “sogni dell’avarizia” condivisi da socialisti, progressisti e libertari. Questa è ciò per cui un tempo i conservatori hanno combattuto. Abbiamo abdicato a questo dovere nei decenni successivi alla morte di Kirk, ma una nuova generazione di conservatori sta ora riprendendo la lotta.

 

Dr. Russell Amos Kirk, è ancora una volta il tuo tempo.

 

Requiescat in Pace

Michael Warren Davis

Traduzione e note di

Fernando Di Mieri


[1] Esponente del Partito Repubblicano, è stato sconfitto da Johnson alle presidenziali del 1964.

[2] Soprannome di R. Reagan, derivato dalla sua interpretazione cinematografica del giocatore di base-ball George Gipp. Reagan fece diventare uno slogan l’espressione “Win one for the Gipper”.

[3] Romani, 6, 16-18.

[4] Sostenitore dell’ America First Party (1944), di indirizzo politicamente isolazionista.

[5] Millennials è un termine per indicare la generazione nata fra la metà degli anni Ottanta e gli inizi del Terzo Millennio. In un’accezione più ampia indica le nuove generazioni.

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