Posted by altaterradilavoro on Gen 15, 2019
16 gennaio 1860 Francesco II compì ventiquattro
anni, e fu grande festa in tutta Napoli; i sovrani accolsero la nobiltà
borbonica a palazzo reale, e fu uno spettacolo di
divise, grandi uniformi, fregi, ricchi abbigliamenti; ministri, alto clero,
diplomatici stranieri; le carrozze della nobiltà fecero la spola tra i fastosi
palazzi aviti e la piazza di palazzo reale.
Purtroppo i sovrani di Napoli erano circondati,
anche in questa occasione, da una massa di cortigiani, funzionari, militari,
uomini di governo ignoranti e incapaci, tutti pronti al tradimento.
Da questi emergeva un solo statista degno di
rispetto, quel Carlo Filangeri che, deluso dalle circostanze, aveva abbandonato
la barca del governo nel momento in cui si addensavano, paurosamente, le nuvole
della tempesta. Maria Sofia, sul trono accanto a Francesco, era splendida,
affascinante, la corona reale le riluceva sull’acconciatura dei capelli, opera
del più rinomato parrucchiere napoletano, quel Totò Carafa, del quale si
serviva la migliore aristocrazia del Regno.
Accanto alla regina sedeva l’ambasciatore di
Spagna, don Salvador Bermudez de Castro, un hidalgo dai modesti natali che si
era conquistato sui campi di battaglia il favore dei sovrani di Spagna, che lo
avevano nominato marchese di Lema e ambasciatore presso il governo delle Due
Sicilie. Bermudez de Castro era un uomo affascinante: appena quarantenne, aveva
guadagnato l’amicizia incondizionata di Francesco e la simpatia piuttosto
interessata della regina.
Le malelingue del tempo, compresa Maria Teresa,
lo attribuirono come amante della regina, ma in realtà fra lo spagnolo e Maria
Sofia ci fu solo una forte, leale e sincera amicizia, anche perché la regina di
Napoli vedeva nel de Castro tutte quelle doti e virtù che avrebbe voluto
trovare nel marito.
Il genetliaco del re fu anche l’occasione del
varo a Castellammare di Stabia di una potente nave da guerra, la nuova fregata
Borbone, che era armata con sessanta moderni cannoni. Una delle migliori navi a
vapore del tempo, che andava a rinforzare la già potentissima squadra navale
napoletana: la migliore nel bacino del Mediterraneo.
Nel porto di Napoli, una grande città di
cinquecentomila abitanti, la quarta metropoli d’Europa, stavano ancorate le
navi militari di molti Paesi: la Bretagne, ammiraglia della flotta francese;
l’Algeciras, l’Imperial; le inglesi Hannibal, Agamemnon, London; pericolosa
intrusa, anche l’ammiraglia della flotta del Regno di Piemonte e Sardegna: la
Maria Adelaide, comandata dall’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, che
ritroveremo nel mare all’assedio di Gaeta, e poi quale responsabile del
disastro navale di Lissa nella guerra del 1866 contro l’Austria.
Fra le navi straniere la Borbone, con il suo
gran pavese e i suoi lucidi cannoni schierati, faceva un bell’effetto. Ironia
della sorte, la fregata, consegnata ai Piemontesi dal suo comandante traditore
e ribattezzata Garibaldi, la ritroveremo con i suoi sessanta cannoni a sparare
sulla piazzaforte di Gaeta contro quegli stessi carpentieri e marinai
napoletani che l’avevano costruita e varata.
Frattanto gli eventi precipitavano: il
Piemonte, dopo l’occupazione della Lombardia con l’appoggio militare francese,
aveva conquistato tutta l’Italia centrale: Toscana, Emilia, Romagna (queste
ultime terre sottratte allo Stato Pontificio) con il sistema dei plebisciti
truccati.
Pio IX aveva comminato la scomunica agli
usurpatori: questo atto della Chiesa aveva turbato profondamente il cattolico
Francesco, che aveva rafforzato in sé la convinzione che i Piemontesi fossero i
primi nemici della fede cristiana in Europa.
Nel marzo successivo giunsero dalla Sicilia i
primi segni della crisi che avrebbe sconvolto e distrutto il Regno: le campane
del convento della Gancia suonarono a martello annunziando lutti e sciagure. I
servizi segreti napoletani avvisarono il re dei preparativi che Garibaldi
andava effettuando in Liguria con il tacito consenso del governo sardo. Fu
individuato anche il luogo dello sbarco: la Sicilia.
Maria Sofia, consapevole del pericolo più del
marito, spinse il sovrano ad emanare disposizioni urgenti per fronteggiare
l’imminente aggressione; il re allertò la flotta, concertò personalmente le
misure di difesa per bloccare sul nascere l’impresa di Garibaldi.
La squadra navale napoletana era allora la più
potente del bacino del Mediterraneo: comprendeva fra navi grosse e piccole 36
vascelli, fra cui 11 fregate (l’equivalente oggi dei moderni incrociatori); a
capo della squadra navale era Luigi conte d’Aquila, zio del re.
L’esercito napoletano era il più potente di
tutti gli Stati italiani: comprendeva 83.000 uomini bene armati e bene
addestrati, senza contare i mercenari svizzeri e bavaresi, che costituivano il
nocciolo duro di tutte le forze armate.
Impensabile, dunque, che 1072 borghesi guidati
da Garibaldi potessero battere un siffatto esercito. Infatti, il gruppo
capeggiato dall’eroe dei Due Mondi era costituito da professionisti: medici,
avvocati, ingegneri, commercianti, capitani di marina mercantile, chimici;
c’erano pure alcuni preti che avevano abbandonato da tempo l’abito talare.
I Siciliani erano 34:24 palermitani, 3
messinesi, 3 trapanesi, 1 catanese, e rispettivamente uno di Trabia, uno di
Gratteri e Francesco Crispi, con la moglie Rosalia, di Castelvetrano.
A comandare l’esercito napoletano erano in
tanti: Landi, Lanza, Nunziante, Clary; tutti incapaci, corrotti ed invidiosi
l’uno dell’altro. Landi e Lanza erano addirittura ultrasettantenni e non erano
più in grado di montare a cavallo: seguirono le operazioni militari in Sicilia
seduti in carrozza! Pur tuttavia, se i due generali non fossero stati corrotti
e inclini al tradimento, i garibaldini non sarebbero certo riusciti neanche a
sbarcare.
Ma Landi, a Calatafimi, pur disponendo di una
posizione strategica favorevole, le colline, e di una forza di 3000 uomini di
truppa scelta, di un reggimento di cacciatori, di 20 pezzi di artiglieria, di
una cavalleria forte di 1500 unità, si ritirò senza combattere, così come Lanza
a Palermo consegnando la città a Garibaldi.
Quando giunse a Napoli la notizia che in
Sicilia la situazione stava drammaticamente precipitando, la regina chiese a
Francesco di intervenire personalmente e lo incitò a mettersi a capo delle
truppe per combattere la sfiducia che serpeggiava fra i soldati, già
consapevoli del tradimento dei loro generali. Maria Sofia consigliò con energia
di fare arrestare Landi e Lanza e farli processare per alto tradimento.
Poi chiese che fosse richiamato a capo del
governo il principe di Satriano, l’unico uomo politico in quel momento capace
di padroneggiare la situazione che si andava profilando disastrosa.
Il principe di Satriano, convocato dal re, in
un primo tempo declinò l’invito poiché l’età e le malattie legate alla
vecchiaia non gli consentivano di adempiere con la solita premura ed attenzione
all’incarico di primo ministro; cedette poi alle insistenti richieste di Maria
Sofia, che si recò di persona nella villa di campagna dove il principe si era
ritirato da tempo.
Filangeri dettò subito le sue condizioni,
previa accettazione del suo incarico di primo ministro: proclamazione immediata
della Costituzione, invio di un contingente di 40.000 uomini a Messina, che
dovevano essere guidati dallo stesso re. A queste condizioni, il vecchio
generale era disposto ad assumere la carica di Capo di Stato Maggiore.
La regina rinnovò con entusiasmo la sua
disponibilità a cavalcare accanto al re, alla testa dei soldati, ma Francesco,
sempre dubbioso ed esitante, non si mostrò favorevole alle proposte del
principe di Satriano, anche perché la Corte, controllata da Maria Teresa, non
vedeva di buon grado la concessione della Costituzione.
Filangeri, deluso ed amareggiato
dall’atteggiamento del re, declinò il suo incarico e, sollevato, se ne tornò
nella sua residenza di campagna. Furono contattati i generali Ischitella e
Nunziante perché assumessero il comando supremo in Sicilia, ma essi
rifiutarono.
L’alto
incarico fu affidato, pertanto, al generale Ferdinando Lanza.
Francesco II, su consiglio di Maria Sofia, inviò ai comandi di Sicilia delle
direttive precise ed avvedute, purtroppo disattese da comandanti incapaci di
applicarle, o per inefficienza, insipienza, o per serpeggiante tradimento.
La regina continuò ad insistere affinché il
marito concedesse la Costituzione, malgrado l’ostilità aperta della regina
madre e di tutta la corte filoaustriaca. Segretamente trattò col Papa, e lo
convinse ad inviare una lettera al re di Napoli. Il dispaccio di Pio IX giunse
nella reggia di Caserta il 24 maggio 1860.
La parola del Papa fu per il re di Napoli verbo
divino, anche perché il Pontefice lo esortava a non fidarsi troppo dei Savoia e
di un Piemonte abilmente padroneggiato da Cavour.
Il re convocò i ministri e il Consiglio di
Famiglia, ed espose fermamente la sua intenzione, scatenando la fiera
opposizione di Maria Teresa, che lo accusò di mancanza di coraggio, di
insensibilità e di aver ceduto alle intimazioni dei cugini sabaudi.
La sfuriata della regina madre mortificò il
timido Francesco, che piegò il capo in silenzio senza reagire; reagì,
pesantemente, invece Maria Sofia, che rintuzzò con orgoglio e fierezza le
parole dell’ex regina ingiungendole con dura voce, appena frenata dalla rabbia,
di rispettare il re e di piegare il capo dinanzi alla volontà sovrana. In quel
frangente, Maria Sofia si comportò da vera regina dimostrando, ancora una
volta, il suo carattere deciso e fermo e la piena lealtà che la legava al
marito.
Quel giorno stesso Francesco II promulgò l’atto
sovrano di concessione della Costituzione. Ma questa decisione ormai tardiva
non suscitò gli effetti sperati; i liberali rimasero indifferenti anche perché
i Borbone avevano già concesso altre tre Costituzioni: nel 1812, nel 1820 e nel
1848, tutte disattese nella loro promessa di libertà e riforme.
Quando giunse a Napoli la notizia della
conquista di Palermo da parte di Garibaldi, la situazione precipitò
drammaticamente: in città scoppiarono tumulti e violenze, ci furono scontri a
fuoco fra i filoaustriaci e i liberali, e come al solito furono saccheggiati
negozi, abitazioni civili; alcuni commissariati di polizia furono abbandonati e
dati alle fiamme. In questo frangente drammatico il re proclamò lo stato di
assedio e nominò ministro di Polizia quel Liborio Romano che poi sarebbe
passato anche lui, come gli altri traditori, dalla parte di Garibaldi.
Quel
momento drammatico segnò anche la divisione della Corte: Maria Teresa, i suoi
figli e molti dignitari e funzionari abbandonarono la capitale per rifugiarsi
nella fortezza di Gaeta.
Accanto al re rimasero pochi ministri fedeli e l’indomita Maria Sofia, che
assunse subito la guida del governo, rivelando, ancora una volta, le sue doti
di coraggio, equilibrio e saggezza.
Passato lo Stretto con la complicità delle navi
inglesi e americane e con il favore dei comandanti di marina traditori,
Garibaldi si affacciò sul continente e avanzò verso Salerno non trovando alcuna
seria resistenza ad eccezione delle truppe comandate da Von Mechel e dal
colonnello siciliano Beneventano del Bosco.
A Napoli il generale Nunziante, che aveva fatto
carriera e accumulato ricchezze sotto i Borbone, prezzolato da Cavour stilò una
vergognosa “Proclamazione” per esortare i soldati fedeli al re alla
diserzione: Compagni d’arme!
Già è pochi dì, lasciandovi l’addio, vi
esortavo ad essere forti contro i nemici d’Italia dar prove di militari virtù
nella via aperta dalla Provvidenza a tutti i figli della patria comune… forte
mi sono convinto non esservi altra via di salute per voi e per cotesta bella
parte d’Italia che l’unirci sotto il glorioso scettro di V. Emanuele: di questo
ammirevole monarca dall’eroico Garibaldi annunziato alla Sicilia, e scelto da
Dio per costituire a grande nazione la nostra patria…
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Posted by altaterradilavoro on Gen 14, 2019
Maria
Sofia, forte del suo temperamento tedesco, malgrado la giovanissima età, capì
subito che la politica del Regno era nelle mani di Maria Teresa, che godeva dell’appoggio della Corte e del partito
filoaustriaco. La regina madre, infatti, aveva esercitato tutta la sua
influenza sul marito, pur essendo Ferdinando autoritario e deciso, e pensò di
continuare l’opera di soggezione con il nuovo re, di cui conosceva il carattere
timido e remissivo.
Le sue
mire furono subito contrastate dal fiero orgoglio della Wittelsbach, che si
mise subito in urto con la suocera e rivendicò con fermezza il suo ruolo di
regina, avendo capito che Francesco non aveva alcuna competenza in fatto di
politica e di affari di Stato.
Fu Maria
Sofia, infatti, a convincere il marito, subito dopo l’incoronazione, a
concedere l’amnistia ai detenuti politici per gli avvenimenti del ’48 e a
ordinare l’abolizione della schedatura di tutti quei cittadini in fama di
essere liberali. In pratica, gli affari di Stato passarono nelle mani della regina
malgrado l’ostilità della Corte tutta schierata a favore della vedova di
Ferdinando.
Maria
Sofia rivelò subito un carattere forte e deciso, idee molto chiare ed un
coraggio impensabile in una fanciulla appena diciottenne. La prima occasione in
cui la regina dimostrò appieno il suo temperamento avvenne circa un mese dopo
la sua incoronazione, quando a Napoli scoppiò la rivolta dei mercenari
svizzeri.
Ferdinando
II, molto consapevole ed esperto di arti militari, aveva infatti creato nel suo
esercito quattro reggimenti di mercenari svizzeri coraggiosi, forti e bene
addestrati al combattimento, costituivano l’orgoglio del re e rappresentavano
la punta di diamante dell’esercito borbonico. Quando la Svizzera decise di
abolire il mercenariato, che costituiva un residuo anacronistico degli eserciti
dell’età moderna, il governo elvetico ordinò a tutti i mercenari svizzeri di
togliere dalle loro uniformi i simboli cantonali, minacciandoli di privarli
della cittadinanza.
Questi
soldati avevano sempre goduto della protezione e della benevolenza di re
Ferdinando, che li considerava fedelissimi ed esperti nell’arte della guerra.
Pertanto accusarono il nuovo re di avere ignorato i loro diritti e di non
averli saputi difendere adeguatamente dai provvedimenti del governo svizzero.
La
rivolta dei mercenari scoppiò la sera del 7 luglio e si estese rapidamente con
violenza in tutta Napoli: furono incendiati negozi, infrante a fucilate le
finestre delle abitazioni, distrutte alcune carrozze nobiliari; intorno alla
mezzanotte i rivoltosi si piazzarono dinanzi alla reggia di Capodimonte, dove
soggiornava la famiglia reale.
La paura
fu grandissima: la regina madre, presa dal panico, raccolse i figli e si
preparò alla fuga; Francesco si chiuse in preghiera nella stanza della madre.
Solo Maria Sofia dimostrò il suo coraggio ed il suo forte temperamento: si
affacciò dalla terrazza e cominciò ad inveire in tedesco contro i rivoltosi,
ordinando subito dopo ad un ufficiale della scorta reale di trattare con i
mercenari in rivolta.
La piena
fermezza della giovane regina e il suo fiero comportamento ebbero l’effetto di
placare gli animi e sedare la rivolta. Purtroppo, però, mentre i rivoltosi
stavano per allontanarsi, giunse sul posto un reggimento di mercenari rimasti
fedeli alla Corona e fu scontro a fuoco violentissimo, con morti e feriti da
ambo le parti.
Qualche
giorno dopo questi avvenimenti giunse dalla Curia Pontificia la notizia che il
Papa aveva proclamato “venerabile” la regina Maria Cristina.
Francesco considerò questo fatto quale un celeste intervento della madre in
occasione dei drammatici avvenimenti di quei giorni.
Dopo la
vittoria della coalizione franco-piemontese a Magenta, erano scoppiati a Napoli
alcuni focolai insurrezionali rapidamente soffocati. Maria Sofia aveva percepito
il campanello di allarme e, sebbene fosse ancora estranea alla politica del
Regno ed agli affari di Stato, capì che al timone del governo napoletano
occorreva un uomo forte, fedele e deciso.
Nel
Paese si erano andati delineando, da tempo, due partiti, non sempre chiaramente
identificabili sul terreno dell’ideologia: uno era quello austriaco, legato
alla burocrazia militare, alla nobiltà, all’alto clero; l’altro raccoglieva
quella parte della borghesia più illuminata, vagamente liberale, riformista con
presupposti costituzionali.
La
regina Maria Sofia si era schierata a capo del secondo movimento, avendo
intuito che la salvezza del Regno andava riposta in un processo di
svecchiamento e di rinnovamento delle vecchie strutture burocratiche, atto a
favorire il ricambio di una classe dirigente non più all’altezza del nuovo
tempo che si andava profilando in Italia e in tutta Europa.
Con
un’azione sottile di convincimento, Maria Sofia convinse il marito a sottrarsi
all’egemonia della regina madre, favorevole al partito austriaco, e lo indusse
a nominare a capo del governo il principe Carlo Filangeri di Satriano.
La giovane regina aveva mostrato
subito una grande simpatia per il Filangeri e lo considerava un politico
accorto, deciso e soprattutto fedelissimo alla causa dei Borbone.
La scelta del principe di Satriano quale primo ministro fu fortemente
osteggiata dalla regina madre Maria Teresa, ma il re, confortato dall’appoggio
della moglie, fu deciso nel suo orientamento politico anche perché sapeva che
Filangeri era a favore di una Costituzione ed aveva in mente l’idea di favorire
una distensione dei rapporti con Francia e Inghilterra, tradizionalmente ostili
alle Due Sicilie.
Maria
Sofia, inoltre, diffidava fortemente dei Savoia e con uno straordinario intuito
aveva messo in guardia il marito affinché non si fidasse dei cugini sabaudi.
Intuito che in seguito si rivelerà confermato dai drammatici avvenimenti che
porteranno al crollo del Regno. Purtroppo, il mite Francesco era convinto che
la sorte del Regno fosse nelle mani di Dio e della sua “Santa madre”.
Questo
convincimento gli fece perdere l’unica grande occasione di salvezza del suo
trono: infatti Cavour, che aveva abilmente tessuto l’alleanza antiaustriaca con
Napoleone III, dopo avere soddisfatto le sue mire espansionistiche nella
pianura padana ed in Toscana, mirava ad un progetto politico di ampio respiro:
la formazione in Italia di tre grandi Stati: il Piemonte sabaudo al nord, lo
Stato Pontificio al centro, le Due Sicilie al sud. Nel progetto erano previste
garanzie costituzionali, riforme liberali e amnistia per gli esuli politici.
Il piano
dello statista piemontese prevedeva, però, una parziale soppressione del
territorio della Chiesa, con il territorio di Perugia ed Ancona che sarebbe
stato annesso al Regno di Napoli. Le trattative furono condotte dal conte di
Salmour, un francese abilissimo nelle trattative diplomatiche.
Il
principe Filangeri aderì al progetto pur con qualche perplessità. Maria Sofia
ci pensò a lungo e ne discusse favorevolmente con il primo ministro, ma fu
Francesco a respingere con sdegno il progetto: non avrebbe mai accettato di
sottrarre del territorio alla Santa Chiesa. I suoi scrupoli religiosi non gli
permettevano di mettersi in urto con Pio IX, che lo aveva sempre protetto (e
che lo proteggerà, in seguito, nella disgrazia). Il fallimento delle trattative
determinò le dimissioni del principe di Satriano, ma la regina lo convinse a
riprendere le redini del governo in un momento che si presentava
particolarmente difficile per la Corona.
Filangeri
ritirò le dimissioni e, su consiglio della regina, preparò una bozza di
Costituzione; il primo ministro, confortato da eminenti giuristi napoletani
(Napoli aveva allora le più prestigiose scuole giuridiche d’Italia), portò a
termine il suo lavoro in tutta segretezza per evitare reazioni da parte del
partito austriaco, egemonizzato dall’ex regina.
Malgrado
ciò l’austriaca ebbe sentore della stesura della nuova Costituzione e, con
l’appoggio dell’alta burocrazia militare, dell’aristocrazia e dell’alto clero,
organizzò un complotto per destituire Francesco e porre sul trono il suo
primogenito: Luigi conte di Trani. Un vero e proprio colpo di Stato!
Ma
l’abilissima Maria Sofia venne a conoscenza della congiura contro il legittimo
re e, con l’aiuto del Filangeri, portò a Francesco le prove del complotto,
chiedendo, infuriata, l’esilio della intrigante suocera e la messa al bando dei
fratellastri.
Francesco,
terrorizzato dal prendere un simile provvedimento, non ebbe la forza di
ascoltare il consiglio della moglie, anche perché la matrigna gli giurò,
falsamente, che le accuse contro di lei erano volgari menzogne e che mai ella
avrebbe avuto in animo di tramare contro il legittimo re delle Due Sicilie.
Francesco, nella sua infinità bontà le credette e sopportò con rassegnazione
l’ira della moglie, che giustamente lo accusava di essere un inetto e incapace
a reggere il trono.
Il
principe di Satriano, questa volta, presentò le sue dimissioni irrevocabili e
si ritirò definitivamente dalla politica. Al suo posto il re chiamò il principe
di Cassano, un reazionario e persecutore dei liberali. Il partito austriaco
aveva trionfato! Il successivo crollo del Regno pone le sue premesse proprio in
questo iniziale tradimento nei confronti di un re onesto e leale come Francesco
II.
Nel frattempo Cavour ordiva la sua
rete di corruzione che avrebbe minato alle fondamenta la già traballante
mo-narchia borbonica.
Consapevole della debolezza del re di Napoli e dell’infedeltà della sua Corte,
lo statista piemontese reperì una forte somma di denaro (gli storici parlano di
4.800.000 ducati) da appoggiare con fedi di credito al Banco di Napoli.
Con
questo denaro vennero corrotti generali, ammiragli, funzionari dello Stato; fu
corrotto lo stesso ministro di Polizia, Liborio Romano, e lo zio di Francesco,
fratello del padre, Leopoldo conte di Siracusa. Il Piemonte, con la tacita
complicità dell’Inghilterra, organizzò l’aggressione al libero e sovrano Regno
delle Due Sicilie, affidandone l’esecuzione a Garibaldi.
L’invasione
del Regno di Napoli, infatti, doveva apparire agli occhi della comunità
internazionale come l’iniziativa autonoma di un’avventuriero, poiché il
Piemonte temeva la reazione della Santa Alleanza, Austria in testa.
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Posted by altaterradilavoro on Gen 13, 2019
“Femme hèroique qui,
reine soldat, avait fait elle meme son coup de feu sur les remparts de Gaete”.
Così Marcel Proust ne “La prisonnière”, canta della regina soldato, la diciannovenne Maria Sofia di
Borbone, che sugli spalti di Gaeta non esitò a sostituire un artigliere ferito
a morte, continuando il fuoco contro gli assedianti piemontesi.
Il mito dell’eroina di Gaeta non è stato mai
offuscato dal passare del tempo, anche se i testi di storia hanno ignorato o
addirittura vituperato la figura, la personalità e il comportamento eroico
dell’ultima regina delle Due Sicilie. Gabriele D’Annunzio definì Maria Sofia
“l’aquiletta bavara che rampogna”, intendendo con queste parole
disprezzare la regina che si oppose con tutto il suo coraggio all’usurpazione
sabauda del Regno delle Due Sicilie.
Maria Sofia, infatti, tentò di riconquistare
sino all’ultimo della sua vita quella patria meridionale che lei, tedesca di
nascita, aveva fatto sua e profondamente amata.
Maria Sofia era figlia di Massimiliano e
Ludovica di Wittelsbach; Massimiliano duca in Baviera, mentre Ludovica, sua
moglie, era una delle nove figlie del re.
“….Quando giunse anche per Maria Sofia
il tempo del matrimonio, la ragazza aveva diciassette anni; la duchessa
Ludovica, forte del buon esito del matrimonio dell’altra figlia, si adoperò per
trovare anche per Maria Sofia una testa coronata. In Germania i partiti
disponibili erano scarsi e poco ragguardevoli; per un momento la duchessa madre
pensò al principe ereditario di Baviera, il futuro Ludwig II, omosessuale e
pazzo, che per le sue stravaganti follie avrebbe portato in seguito il Regno al
collasso politico ed economico.
Per fortuna di Maria Sofia l’evento non si
concretizzò mai, per cui Ludovica, con l’aiuto della Corte di Monaco, iniziò a
scandagliare, con opportune iniziative diplomatiche, i migliori partiti delle
case regnanti d’Europa. La risposta non tardò a venire: le comunicarono che il giovane
principe ereditario delle Due Sicilie, un regno immerso nel sole del bacino del
Mediterraneo, era pronto a convolare a nozze.
Maria Sofia, pur non conoscendo il futuro
sposo, fu infantilmente entusiasta della prospettiva di poggiare sul suo capo una
corona di regina, e immaginò il suo futuro sposo bello e aitante come il marito
della amata sorella.
La giovane Wittelsbach sognò quindi di vivere
la stessa favola di Elisabetta e del suo principe azzurro.
Il duca Max, che trascorreva le sue vacanze, come
al solito, all’estero, le inviò un telegramma con cui sconsigliava questa
unione: evidentemente dal suo frequente vagabondare in Europa non aveva tratto
buone informazioni sul principe ereditario delle Due Sicilie.
Le trattative matrimoniali furono condotte dal
conte Carlo Ludolf, ambasciatore di re Ferdinando II, e dallo stesso zio di
Maria Sofia, il re di Baviera. Re Massimiliano aveva già preso tutte le
informazioni possibili sulla vita, le abitudini, il comportamento del giovane
Francesco, duca di Calabria.
D’altra parte si sapeva in tutta Europa che
l’erede al trono di Napoli aveva ricevuto un’educazione confessionale, che
preferiva gli studi di teologia piuttosto che le iniziative politiche, che non
amava le donne, la caccia, le feste e gli altri svaghi di corte; preferiva la
preghiera, la meditazione, tutto l’opposto del suo sanguigno genitore.
Francesco nutriva una particolare devozione per
la madre, Maria Cristina di Savoia, detta “la Santa” dai Napoletani
per la sua vita ascetica e di preghiera, ben lontana dalle attività della
rumorosa e festaiola Corte Borbonica.
La regina era morta a ventiquattro anni subito
dopo il parto, lasciando il figlio privo per sempre dell’amore di madre. Questo
avvenimento aveva fortemente inciso sul carattere chiuso, mite e remissivo di
Francesco, e lo aveva spinto più ad una vita di meditazione e di pensiero che
ad un’attività politica consapevole degna di un principe ereditario.
Anche
il padre Ferdinando II, conoscendo il debole carattere dell’erede al trono, non
si era occupato della sua educazione come del resto aveva fatto nei confronti
degli altri figli avuti dal secondo matrimonio con l’arciduchessa Maria Teresa
d’Asburgo.
Ferdinando amava moltissimo i suoi figli, ma alla stregua di un buon padre di
famiglia borghese e non con la responsabilità di un sovrano di una delle più
antiche dinastie d’Europa.
Di conseguenza Francesco, pur essendo l’erede
al trono, era rimasto lontano dalla politica: il padre gli aveva inculcato
l’idea che il Regno era sicuro e tranquillo, in quanto i suoi confini stavano
fra l’“acqua santa” (lo Stato Pontificio) a nord e l’“acqua salata” a
sud (le coste e la Sicilia).
I
rapporti fra le Due Sicilie ed il papato erano ottimi. Pio IX aveva una
particolare predilezione per il re di Napoli, memore della generosa ospitalità
del sovrano negli anni del suo esilio da Roma.
Le nozze tra Francesco di Borbone e Maria Sofia furono celebrate per procura, a
Monaco, l’8 gennaio 1859; la sposa giunse a Bari a bordo della fregata
borbonica Fulminante la mattina del 3 febbraio. Quando la fregata entrò nel
porto, tutte le navi alla fonda la salutarono con salve di cannone, mentre
sulle banchine una folla impressionante salutava e batteva le mani.
Le strade di Bari erano coperte da bandiere e
le campane di tutte le chiese suonarono a stormo. Sulla banchina principale del
porto dieci carrozze ospitavano tutta la famiglia reale venuta a rendere
omaggio alla futura regina di Napoli.
Maria Sofia, dall’alto del ponte, osservava con
trepidazione la città festante cercando di scorgere, fra quella marea di gente,
il suo giovane marito. Francesco era già salito a bordo della lancia reale, con
la regina madre e tutto il seguito. Mancava solo re Ferdinando, che era rimasto
in carrozza perché già colpito dal male che di lì a poco lo avrebbe condotto
alla tomba. Francesco indossava l’uniforme di colonnello degli ussari, mentre
Maria Sofia sfoggiava uno splendido abito di velluto cremisi appena coperto
dalla pelliccia di zibellino.
La fanciulla apparve a Francesco in tutto lo
splendore della sua bellezza: occhi turchini, brillanti, i lunghi capelli neri
sciolti sulle spalle, il portamento fiero ed elegante. L’avvenenza della sposa
fece aumentare la timidezza congenita del giovane principe, che si limitò ad un
«Bonjour, Marie» e ad un compassato baciamano.
Nel tardo pomeriggio avvenne la cerimonia
religiosa nel palazzo reale della città. Maria Sofia si adornò con i gioielli
più fastosi della Corona di Napoli, portati appositamente dalla capitale per
ordine di Ferdinando II. La benedizione nuziale fu impartita dall’arcivescovo
di Bari, che lesse anche la speciale benedizione di Pio IX. Le navi nel porto
spararono a salve e le bande suonarono l’inno di Paisiello.
Il 7 marzo la famiglia reale fece ritorno a
Napoli a bordo della fregata Fulminante e raggiunse in carrozza la splendida
reggia di Caserta. Frattanto, nel Regno di Piemonte e Sardegna, Cavour, forte
dell’alleanza con Napoleone III, si preparava ad una nuova guerra con
l’Austria; il 29 aprile 1859 le truppe franco-piemontesi penetravano nel
Lombardo-Veneto.
Aveva inizio la seconda guerra dei Savoia
contro l’impero asburgico (definita dagli storici “Seconda Guerra
d’Indipendenza”), guerra di espansione militare e territoriale nella vasta
pianura padana, indispensabile per l’economia e lo sviluppo del piccolo
Piemonte chiuso nella morsa fra le Alpi e il mare.
Ferdinando II, malgrado la malattia che si era
fortemente aggravata, seguì con apprensione le fasi della guerra, dimostrando
un’aperta ostilità verso i parenti piemontesi e raccomandando al figlio di
tenersi cara l’alleanza con lo Stato Pontificio e di non fidarsi mai dei cugini
Savoia, che egli definiva «Piemontesi falsi e cortesi».
Mai raccomandazione fu più profetica! Il re
morì il 22 maggio 1859 a quarantanove anni.
Un anno prima dello sbarco di Garibaldi, Francesco II salì sul trono di Napoli a ventitré anni e Maria Sofia si ritrovò regina a diciotto anni.
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Posted by altaterradilavoro on Dic 14, 2018
di Francesco Pipitone
Il 17
marzo 1861 avvenne ufficialmente l’unificazione dell’Italia e,
puntualmente, ogni 17 marzo ricorrono varie questioni. Tra l’origine della
questione meridionale, l’epopea garibaldina
e il revisionismo del Risorgimento torna sempre un argomento che per molti è
pacifico, senza tuttavia esserlo affatto: i Borbone sarebbero stati occupatori
stranieri.
Tra i meriti di
Garibaldi, Vittorio Emanuele II e il conte di Cavour ci sarebbe quello di aver cacciato
l’oppressore straniero, spagnolo, dai territori dell’ex Regno delle Due
Sicilie. Eppure bisogna sottolineare come i sovrani borbonici fossero tutti
nati a Napoli o Palermo e parlassero napoletano, ad eccezione
di Carlo, il
capostipite del ramo Borbone Due Sicilie, che però prese
lezioni di napoletano per meglio comprendere il suo popolo. Le lingue ufficiali
del Regno delle Due Sicilie erano l’italiano e il latino.
Il Regno di
Sardegna aveva come lingue ufficiali il francese e l’italiano, con la prima che prevaleva nettamente
sulla seconda. I Savoia parlavano piemontese e
francese e dalla relazione di Jessy Mario White sulla prima
riunione del Parlamento italiano emergono le enormi difficoltà dello stesso
Cavour a esprimersi in italiano. Cavour viene infatti descritto
come balbettante, una balbuzie che in realtà deve essere spiegata con il
disagio nell’esprimersi in una lingua scarsamente conosciuta come l’italiano.
Significativa
fu
la scelta di Vittorio Emanuele II che tenne il proprio numerale invece di
diventare Vittorio Emanuele I d’Italia. Si potrebbe leggere in
tale decisione la volontà di sottolineare la continuità con il passato, perciò
l’annessione degli altri stati della penisola sarebbe una mera conquista di Casa Savoia,
un’estensione del proprio dominio.
Giuseppe
Garibaldi
nacque a Nizza nel 1807, in un periodo in cui la città era francese.
All’anagrafe fu registrato come Joseph
Marie Garibaldi e si pentì presto di
aver dato il Mezzogiorno ai Savoia. La sua famiglia era di
origine genovese ed egli stesso si mostrò, da giovane, ostile ai francesi. Garibaldi,
quindi, durante la propria vita ha scelto di essere italiano,
forse perché realmente credeva negli ideali patriottici. Si dimostrò subito
ostile al governo di Cavour, già nella prima riunione del Parlamento, quella
cui abbiamo accennato sopra.
“Gli
oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la
coscienza di non aver fatto del male. Nonostante ciò non
rifarei la via dell’Italia Meridionale, temendo di essere preso a sassate,
essendosi là cagionato solo squallore e
suscitato solo odio”.
Così
Garibaldi in una lettera all’amica Adelaide Cairoli.
Giuseppe
Garibaldi morì povero a Caprera, in esilio. Nel tentativo di prendere Roma fu
inseguito, arrestato e ferito da armi italiane. Fu autore di
poesie in italiano e francese.
È interessante
infine leggere con attenzione quello che scriveva Francesco II in partenza per
l’esilio: “Io sono napolitano;
nato tra voi, non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi, non
conosco altro che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno:
i vostri costumi sono i miei costumi: la vostra lingua è la mia lingua; le
vostre ambizioni mie ambizioni”.
Per napolitano
si intende non abitante nella città di Napoli, bensì l’essere cittadino nella Nazione
Napolitana che si estendeva dalla Sicilia a Civitella del Tronto,
l’ultima città del Regno delle Due Sicilie ad arrendersi il 20 marzo 1861, tre
giorni dopo la proclamazione del Regno d’Italia. Il termine duosiciliano appare
invece un’invenzione dei nostri giorni.
Francesco II,insomma, non riteneva se stesso straniero e di fatto non lo era, essendo l’ultimo rappresentante diuna dinastia che ha regnato per poco meno di 130 anni quasi ininterrottamente,che parlava la lingua del proprio popolo e con esso si identificava, del qualeaveva le stesse tradizioni. La campagna meridionale sabaudaallora tutto fece, tranne che cacciare un occupatore straniero.
fonte
https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/storia/242780-borbone-erano-stranieri-parlavano-napoletano-savoia-cavour-francese/?fbclid=IwAR1uDeT2Q6KacG_N0pLb0DikeFq5IAlUuVIGtAYKJVeuYV0_MMhEQE8Qxtc
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Posted by altaterradilavoro on Ott 22, 2018
Si riporta di seguito il testo integrale dell’Atto di protesta di Sua Maestà il Re Francesco Secondo, dato a Napoli il 6 settembre 1860, così come pubblicato dalla Collezione delle leggi e decreti sotto il numero 150, ultimo atto registrato del Regno delle Due Sicilie:
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Posted by altaterradilavoro on Set 3, 2018
2. Già più volte accadde che i Mazziniani prevalenti a Napoli rendessero servigio al Governo usurpatore col fare pubbliche violenze agli stampatori ed editori de’ giornali cattolici, cui bastasse l’animo di svelare alcuna delle schifosissime piaghe, ond’è straziato quel regno un di si fiorente e felice.
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