Alta Terra di Lavoro

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Dir male di Garibaldi? Cose da chercuti

Posted by on Lug 31, 2019

Dir male di Garibaldi? Cose da chercuti

E’ giusto conoscere cosa pensano di Garibaldi i suoi più accesi sostenitori, leggendo articolo che di seguito riportato il nostro giudizio negativo si rafforza sull'”eroe nizzardo”

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Dir male di Garibaldi è come sparare sulla Croce Rossa: è facile, sta piantato lì come un birillo da “tre palle e un soldo”. Così in questo fausto anniversario di un XX Settembre che non c’è più da un bel pezzo se ne son sentite delle belle rimpallate come in un ping pong fra Padanìa e Borbonia. E noi nel mezzo a veder passare a palle incatenate bordate come terrorista, delinquente, cialtrone, mercenario, personaggio storico discutibile, filibustiere, falso eroe da rinnegare. E poi “massone”, epiteto oggi particolarmente evocativo di oscure trame o folcloristici riti. O minaccioso o patetico. Oggi certo sì, ma allora?

Il pecorismo bigotto, ormai tracimato fin oltre il cosiddetto arco costituzionale, sembra godere nel rendere finalmente pan per focaccia alla valanga di improperi con cui quell’impunito dalla camicia rossa ha sommerso quel cattolicismo retrivo e reazionario che fece di tutto per opporsi all’unità d’Italia pur di mantenere il potere temporale. Il tragicomico però è che i suoi sfoghi anticlericali in gran parte non hanno perso di attualità. Anzi, tutto fa pensare che vadano rilanciati, perché tanto livore nei suoi confronti deriva proprio dalla restaurazione in atto grazie a una controriforma strisciante.

Non c’è bisogno di tanto revisionismo bilioso per togliere l’aureola a Garibaldi, ma come monsignor Fisichella con licenza papale “contestualizza” le bestemmie, basterebbe calarsi nel tempo e rileggere il personaggio col linguaggio di allora per rivivere i perché della lotta contro la chiesa di Roma. Che lo si voglia o no fu una rivoluzione e come sempre non fu un balletto di vergini cucce in tutù, ma uno scontro violento che avrebbe voluto dare dignità a un nugolo di sudditi soffocati da una teocrazia dispotica: «La teocrazia papale è la più orribile delle piaghe da cui il mio povero paese è afflitto; diciotto secoli di menzogna, di persecuzioni, di roghi e di complicità con tutti i tiranni d’Italia resero insanabile tale piaga» [1].

Non è un caso che i cattopagani padani e vaticani si siano ingegnati a distruggere la figura di Garibaldi additandolo a causa di un federalismo mancato purché rimanesse all’ombra di pseudocroci celtiche e di crocefissi cattolici. Fu caso mai Mazzini, usando le parole di Garibaldi, il grande statalista contrario a ogni forma di autonomia legislativa regionale: «L’elemento volontario, avversato dal governo, dal prete e da quella casta di dottrinari che capitanati da Mazzini ed ammantati da un esclusivismo arrogante, gridano ai quattro venti: “Noi soli siamo puri, noi uomini di principii republicani perché vogliamo la republica anche ove vi sia l’impossibilità di ottenerla”» [2]. Un «Mazzini, che senza avere la capacità di comandare, non tollera la direzione altrui, o gli altrui consigli. E senza voler manifestarsi capo assoluto, egli è assolutissimo, e direi quasi un secondo infallibile» [3]. E non si dimentichi che fu poi lo stesso Cattaneo a dover rinunciare al suo disegno federalista per la mancanza di una classe dirigente al sud. Garibaldi anche in questo caso si limitò a un nuovo “ubbidisco” [4].

Ma se tanta mistificazione è, diciamo così, concepibile che venga dai paladini neo-guelfi, rimane difficile digerire i tentennamenti clericali dall’attuale timida torma riformatrice e pseudoprogressista. Come si fa a distinguere la “laicità” di una Moratti che dedica la stazione di Milano a santa Francesca Saverio Cabrini, da un Veltroni che ambiva dedicare a Wojtyla quella di Roma o da un Vendola l’aereoporto di Bari? Un Vendola che rilancia anche con un «Guai se a questo rispondessimo con pulsioni anticlericali, dobbiamo invece rilanciare dialoghi, aprire varchi». Quali varchi visto che proprio lui finanzierà con 120 milioni di euro, senza gara d’appalto, il complesso ospedaliero della “Fondazione San Raffaele del Mediterraneo” nel cui consiglio di amministrazione ci saranno rappresentanti della Regione e delldon Verzé. Proprio lui che non mancò all’ostensione delle spoglie di Padre Pio perché «in un giorno come questo non posso che essere con il mio popolo, non posso che essere a San Giovanni Rotondo per un evento che ha uno straordinario fascino e un richiamo mondiale [… è …] uno dei luoghi più amati nell’universo della cristianità». Ma che cristianità d’Egitto: San Giovanni Rotondo è solo una mèta turistica della superstizione cattolica più retriva.

Una delle cose forse più subdole apparve però questa estate sulle pagine de «la Repubblica» dove Paolo Rumiz racconta dell’incontro con l’ultimo Giuseppe Garibaldi in un ufficio in cui campeggia «una caricatura di G. che esce dalla tomba per raddrizzare l’Italia di oggi e il Tricolore della repubblica romana con la scritta “Dio e popolo”, lo stesso che sventolò per qualche settimana sul Campidoglio. “Garibaldi non era affatto ateo” ci teneva a precisare il pronipote. Battezzava personalmente i bambini, sostituendosi al prete, e diceva: “Ti battezzo in nome di Dio e di Cristo suo legislatore in terra”».

Tanto per cominciare quella bandiera era quella di Mazzini, triumviro sì repubblicano ma cristianamente invasato, quanto al non essere “affatto ateo” siamo in piena mistificazione dell’altrui pensiero. Al limite è più plausibile il giudizio sulla «inconsistenza della sua fede, in tutto adeguata alle “società atee” che gli affidavano la presidenza onoraria e a cui egli rispondeva con immancabili messaggi di speranza» [5]. Infatti la fede di Garibaldi, almeno in termini religiosi, era di una consistenza ben diversa da quanto potesse aspettarsi un laico sì, ma di osservanza cattolica come Spadolini. E ha certamente visto meglio il disciplinato cattolico Massimo Introvigne indicando come i suoi riferimenti siano «l’ateismo, lo spiritismo, il deismo, un vago cristianesimo liberale» [6].

Garibaldi, fra le tante, riuscì anche a far della pessima letteratura – non a caso il Carducci se ne uscì con un ironico «Garibaldi ha fatto tutto per l’Italia, anche versi» – ma scrisse questi suoi romanzacci, come si legge nella prefazione della Clelia ovvero Il governo dei preti, oltre che per rimettere assieme quattro soldi per campare, soprattutto per “spirito di servizio” in modo da parlare ai giovani e tramandare le sue convinzioni. Proprio ne I Mille prova a dare un’idea della sua visione “religiosa” «quell’armonia indefinita, sublime, edificante, con cui gli eletti della specie umana sono beati contemplando l’Infinito nell’infinito» specificando più volte nelle note che «Ricordi il lettore che per Infinito io intendo lo spazio, lo universo, Dio, ecc. – Accenno, ma non insegno», finché si lascia andare e si dilunga per cercare di spiegarsi meglio: «Nelle presenti controversie della Democrazia mondiale, in cui si scrivono numerosi fascicoli per provare Dio gli uni, per negarlo gli altri, e che finiscono per provare e per negare nulla; io credo sarebbe conveniente stabilire una formola edificata sul Vero, che potesse convenire a tutti ed affratellare tutti. (Col dottrinarismo intollerante per il mezzo, certo sarà un affare un po’ serio).

Per parte mia accenno e non insegno. Può il Vero, o l’Infinito, che sono la definizione l’uno dell’altro, servire all’uopo? Io lo credo. V’è il tempo infinito, lo spazio, la materia, come lo prova la scienza, quindi incontestabile. Resta l’intelligenza infinita. È essa parte integrante della materia? Emanazione della materia? La soluzione di tal problema è superiore alla mia capacità, e sinché non si risolva matematicamente, io mi attengo ad un’idea che nobilita il mio povero essere, cioè: all’Intelligenza Infinita, di cui può far parte l’infinitesimale intelligenza mia, siano esse emanazione della materia o no.

Di più, devo confessare, che non capisco come sian la stessa cosa: l’incudine, il ferro che batte il fabbro, e la sua idea di farne una marra. Non capisco come sian la stessa cosa: il pianeta, l’orbita elittica, in cui rota e traslata, la legge che ha circoscritto il suo moto in quell’orbita, e la mente di Kepler che scopriva questa legge … Accenno! Il cadavere conserva ancora la materia. Ma ove? L’intelligenza dorme o si è divisa? …».

Insomma, considerando i tempi e che non era certo un filosofo ma un avventuriero romantico, perché dargli meno credito che ad un Einstein, dichiaratamente agnostico [7], che non poteva che credere in un universo ordinato, altrimenti sarebbe stato inutile fosse uno scienziato, e che affermava «Io credo nel Dio di Spinoza che si rivela nella ordinaria armonia di ciò che esiste, non in un Dio che si preoccupa del fato e delle azioni degli esseri umani» oppure «non credo nell’immortalità dell’individuo, e ritengo che l’etica riguardi solo gli uomini e non presupponga alcuna autorità sovrannaturale» e «se qualcosa in me può essere chiamato religioso è la mia sconfinata ammirazione per la struttura del mondo che la scienza ha fin qui potuto rivelare».

Molta differenza fra lo scienziato e l’avventuriero? Dunque un Garibaldi di matrice illuminista, socialmente impegnato in un egualitarismo di stampo socialista, impregnato di romanticismo panteista, ma anche profondamente ateo perché si sentiva libero da ogni vincolo trascendente. Laico dunque? Sicuramente laicista.

E se qualcuno se ne fosse dimenticato ecco ancora una volta cosa scrisse al barone Swift da Civitavecchia il 12 agosto 1879 «Mio carissimo amico, Per sollevare l’Italia da tanta apatia conviene sostituire il vero alla menzogna, l’Uomo creò dio e non dio l’Uomo. Lanciate a mio nome un circolare a tutte le Società di cui sono socio o presidente onorario» [8]. La società di cui era presidente onorario, era la Società Atea fondata dallo Swift.

Ma per tornare agli spregi verso la sua persona, una menzione speciale va a Letizia Moratti, la pia vestale della macelleria di San Patrignano, che, in preda a prudori tangentisti da Expo, l’anno scorso ha invocato la rivisitazione della figura di Bettino Craxi «prima di tutto dal punto di vista umano, poi politico e storico» all’insegna di uno stravagante «Garibaldi è stato condannato a morte, Bruno bruciato sul rogo eppure a loro sono state dedicate vie e piazze. La storia dà delle riletture diverse delle personalità». Per fortuna!

Probabilmente il nostro non avrebbe proprio gradito l’accostamento vista la sobrietà che l’ha sempre contraddistinto e sicuramente pensando alla Letizia avrebbe fatto dei distinguo prima di lanciarsi nel Cantoni il volontario in un «O donna! Creatura privilegiata, riverita, adorata dall’uomo di cuore – sovente manomessa dal codardo»; a lei avrebbe sicuramente dedicato il passo sempre del Cantoni «le femmine, come dovunque, sono pascolo di birbanti, e in massima più propense al pretismo, sia per la natura men forte delle figlie d’Eva, sia per il culto speciale dei chercuti per il bel sesso e per ogni godimento umano». Già i chercuti – da “chericuto” quello con la chierica (clericam tonsionem), insomma chierici e clericali – «gente esosa comunque sia ed in qualunque tempo» genia immortale per cui «l’Italia dai chercuti, essa aspirerà invano a redimersi» giacché si fa forte di una «Invenzione diabolica, la confessione è il mezzo più potente di corruzione del Chercuto».

Dunque un Garibaldi seppellito e lordato dalle parole; chiacchiere si dirà, vituperi, fango, ma solo parole; be’ allora è il caso di rilanciare anche le sue, mai come oggi tornate attuali, dedicate però non più solo a chi indossa l’abito talare, ma anche a quella pletora di scaccini di partito che si nascondono sotto le tonache e i clergyman, quei «soldati del Papa che servono il più schifoso dei governi» quel «papato che il despotismo cerca di eternare in Italia!» visto che «la storia del Papato è storia di briganti», ma riferendosi anche “al popolo pretino” perché suddito di un governo e di un giogo pretino e oppresso da una bottega, una baracca, una tirannide, una malvagità, una musica, una rabbia, un’educazione pretina. Ebbene questi chercuti sono ancora troppi fra noi e non meritano altro che le nostre sane pulsioni anticlericali.

Note
[1] Corrado Augias, I segreti del Vaticano, da una lettera a un’amica inglese di Giuseppe Garibaldi.
[2] Cantoni il volontario, p. 54.
[3] Idem, p. 59.
[4] Gaetano Salvemini, Scritti sul Risorgimento, Feltrinelli 1961, pp. 387-388.
[5] Giovanni Spadolini, Cattolicesimo e Risorgimento: con la “Storia del Sillabo”. Le Monnier, 1986, 84 pp.
[6] Risorgimento e massoneria: “Camicie rosse & grembiulini” in «Avvenire», 29 ottobre 2010.
[7] My position concerning God is that of an agnostic (http://www.lettersofnote.com/ 2010/04/my-position-concerning-god-is-that-of.html).
[8] L’ateismo a Venezia: “libero pensiero e le doti del cuore”, L’Ateo n. 4/2005 (39): 11-16.
[9] Questa epigrafe al XIV capitolo del Cantoni è da Garibaldi attribuita a un non meglio specificato Autore noto. Praga? Filopanti? Chissà. Se il lettore lo individua farà cosa gradita a segnalarlo.

fonte https://www.uaar.it/uaar/ateo/archivio/2011_1_art2.html/

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La verità su Giuseppe Garibaldi

Posted by on Lug 27, 2019

La verità su Giuseppe Garibaldi

Giuseppe Garibaldi nacque a Nizza il 4 luglio 1807 e morì a Caprera il 2 giugno del 1882. Il personaggio, esaltato come eroe dalla storiografia dell’attuale regime, era in realtà di ben diversa levatura.

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Chi fu veramente l’anticlericale Giuseppe Garibaldi?

Posted by on Lug 25, 2019

Chi fu veramente l’anticlericale Giuseppe Garibaldi?

Un fantoccio di Giuseppe Garibaldi è stato recentemente bruciato nel Veneto. Il gesto è da condannare senz’altro, ma crediamo sia frutto anche di una frustrazione derivante dallo spietato revisionismo che diversi organi di stampa vogliono fare su questo inquietante personaggio storico, descrivendolo come il principe azzurro italiano, l’eroe e l’orgoglio della penisola.

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La strage di Bronte dell’Agosto 1860: per non dimenticare le vergogne di Garibaldi e Nino Bixio

Posted by on Lug 20, 2019

La strage di Bronte dell’Agosto 1860: per non dimenticare le vergogne di Garibaldi e Nino Bixio

Sembra incredibile che, ancora oggi, la Sicilia non si sia ancora liberata dal ricordo di questi due assassini. Ancora oggi le statue (soprattutto di Garibaldi) campeggiano in tante città della nostra Isola. E ancora oggi scuole e vie portano i nomi di questi due gaglioffi. Ricordiamo, in questo articolo, una strage che ancora oggi brucia

Sembra incredibile che, ancora oggi, la Sicilia non si sia ancora liberata dal ricordo di questi due assassini. Ancora oggi le statue (soprattutto di Garibaldi) campeggiano in tante città della nostra Isola. E ancora oggi scuole e vie portano i nomi di questi due gaglioffi. Ricordiamo, in questo articolo, una strage che ancora oggi brucia

Dal 6 al 10 Agosto del 1860 esattamente 156 anni fa, a Bronte, Nino  Bixio, su mandato di Giuseppe Garibaldi, si rendeva protagonista di un atto scellerato ed infame che la storia quella vera e non quella paludata della storiografia ufficiale e scolastica ci ha tramandato e condannato come “l’eccidio di Bronte”.

Ciò val bene per ricordare e non diminticare su come i “liberatori” alla Nino Bixio intendevano trattare i siciliani e soprattutto, i contadini illusi dalla promesse dei decreti garibaldini sulla assegnazione delle terre, convinti che, finalmente, con l’arrivo di Garibaldi e delle camicie rosse potessero legittimamente essere garantiti i principi di libertà e di giustizia sociale.

In quel maledetto e torrido Agosto del 1860 ai siciliani ed ai brontesi, speranzosi che per loro le cose sarebbero cambiate in meglio, mal gliene incolse. A farli ravvedere dalle loto aspettative provvide alla bisogna il paranoico generale garibaldino – il già citato Bixio – che certo dei siciliani non aveva gran considerazione e stima, se è vero che, alla moglie Adelaide, durante l’impresa dei mille, così ebbe tra l’altro testualmente  a scrivere a proposito della Sicilia e dei siciliani:

“Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili”.

E’ con questo stato d’animo e questa predisposizione nei confronti dei siciliani che Bixio si presentò a Bronte prendendo, per tre giorni, alloggio al collegio Capizzi. La mattina del 6 agosto, con due battaglioni di bersaglieri, Bixio decise di ristabilire l’ordine che era stato turbato nei giorni precedenti dai popolani e dai contadini-vassalli della ducea di Nelson che, illusi, si erano ribellati rivendicando il diritto all’assegnazione delle terre ed al riscatto sociale promesso loro dai truffaldini decreti garibaldini.

All’avanzata di Garibaldi in Sicilia e con l’illusoria promessa di una più equa distribuzione delle terre furono molti, infatti, i paesi della Sicilia che, come Bronte, insorsero al grido “Abbassu li cappeddi, vulimi li terri”. Tra questi, Regalbuto, Polizzi Generosa, Tusa, Biancavilla, Racalmuto, Nicosia, Cesarò, Randazzo, Maletto, Petralia, Resuttano, Montemaggiore, Capaci, Castiglione di Sicilia, Centuripe, Collesano, Mirto, Caronia, Alcara Li Fusi, Nissoria, Mistretta, Cefalù, Linguaglossa, Trecastagni e Pedara.

Le aspettative del popolo e dei contadini nei confronti dei “cappeddi” ( i latifondisti ed i ricchi proprietari terrieri) furono represse in quei paesi con il piombo e nel sangue da quei garibaldini che avevano promesso loro terre, libertà e giustizia. Quello stesso piombo che, 34 anni dopo, nel 1894, l’ex garibaldino Francesco Crispi, che era stato prima segretario di Stato e teorico della spedizione dei Mille e successivamente, dopo l’Unità, divenuto presidente del Consiglio, ordinò di scaricare sui contadini siciliani che rivendicavano le terre e reprimendo così nel sangue con centinaia di vittime innocenti l’epopea dei Fasci Siciliani.

A distanza di anni con pedissequa ferocia, di fatto, si riproponeva, ancora una volta, in un bagno di  sangue, la logica della difesa del privilegio e della conservazione perché nell’ottica gattopardiana nulla cambiasse, prima con Garibaldi e poi con Crispi

Ma torniamo ai fatti e al grido di libertà dei contadini e dei cittadini di Bonte. Su pressione del console inglese di Catania, John Goodwin, a sua volta sollecitato dai fratelli Thovez amministratori della ducea per conto  della baronessa Bridport, Garibaldi, costi quel che costi, per reprimere la rivolta di quei brontesi che avevano avuto l’impudenza di ribellarsi agli inglesi suoi protettori e finanziatori dell’impresa dei Mille, invia per risolvere la questione ed assolvere questo sporco lavoro, come era nelle sue attitudini ed abitudini, il suo fedele luogotenente Nino Bixio.

Appena giunto, come primo atto, il “liberatore” (degli interessi degli inglesi e non dei contadini e dei siciliani), Bixio decretò lo stato d’assedio e la consegna delle armi imponendo una tassa di guerra, dichiarando il paese di Bronte colpevole di “lesa umanità” dando inizio a feroci rappresaglie senza concedere alcuna minima garanzia e guarentigia  alla cittadinanza. I nazisti ottant’anni dopo prenderanno lezioni da questi metodi dei “liberatori” garibaldini.

Bisognava dimostrare ai “padroni” inglesi che nessuno poteva toccare impunemente i loro interessi. E il paranoico “servo” con i suoi metodi criminali li accontentò appieno. Si passò ad una farsa di processo e tutto fu liquidato in poco tempo senza riconoscere alcun diritto alla difesa discutendo e dibattendo il tutto in appena quattro ore.

Alla fine, alle 8 di sera del 9 Agosto, calpestando ogni simulacro  di garanzia, era già tutto deciso con la condanna a morte di cinque cittadini che niente avevano avuto a che fare con i tumulti e le rivolte delle precedenti giornate che avevano turbato la tranquillità ed il sonno degli inglesi in quel di Bronte.

I cinque, la mattina del giorno dopo il 10 agosto, nella piazzetta della chiesa di San Vito, finirono vittime innocenti dinanzi al  plotone d’esecuzione. L’avvocato Nicolò Lombardo notabile del paese che, da vecchio liberale, con tanta speranza aveva atteso lo sbarco garibaldino sognando un futuro migliore per la sua terra dovette ricredersi in quell’attimo che la scarica di fucileria spense quel suo sogno e per l’avvenire il sogno di tanti siciliani. Con lui morirono Nunzio Spitaleri Nunno, Nunzio Samperi Spiridione, Nunzio Longhitano Longi, Nunzio Ciraldo Fraiunco. Quest’ultimo era lo scemo del paese che sopravvisse alla scarica di fucileria e invocando vanamente la grazia fu finito cinicamente con un colpo di pistola alla testa dall’ufficiale che aveva comandato il plotone

Dopo la feroce esecuzione, a monito per la popolazione di Bronte, i corpi delle vittime rimasero esposti ed insepolti per parecchio tempo.

Ma non era finita. A questo primo processo sommario ne seguì un altro altrettanto persecutorio e vessatorio nei confronti di coloro che avevano arrecato oltraggio ai grossi proprietari terrieri e agli inglesi della ducea. Il processo che si celebrò presso la Corte di Assise di Catania si concluse nel 1863 con 37 condanne esemplari di cui  25 ergastoli. Giustizia era stata fatta. I poveracci non avrebbero più alzato la testa.

Il 12 Agosto, dopo avere fatto affiggere nei giorni precedenti, a suo nome, un proclama indirizzato ai Comuni della provincia di Catania con il quale invitava i contadini a stare buoni e a tornare al lavoro nei campi pena ritorsioni e feroci rappresaglie, Nino Bixio ribadiva:

“Gli assassini e i ladri di Bronte sono stati puniti e a chi tenta altre vie crede di farsi giustizia da sé, guai agli istigatori e ai sovvertitori dell’ordine pubblico. Se non io, altri in mia vece rinnoverà le fucilazioni di Bronte se la legge lo vuole”.

Proclami e avvisi tendenti ad rassicurare baroni, latifondisti, proprietari terrieri e soprattutto gli inglesi che, con Garibaldi e Bixio, non c’era alcun pericolo di rivolte sociali. La rivoluzione garibaldina aveva mostrato il suo volto. Gli interessi della borghesia, dei latifondisti, degli inglesi che facevano affari in Sicilia e di quei settentrionali che in nome di Vittorio Emanuele in futuro li avrebbero fatti erano salvi e salvaguardati dalle camicie rosse.

E dire che a questi personaggi, come Nino Bixio e Giuseppe Garibaldi, i siciliani con un masochismo degno di miglior causa, hanno dedicato una infinità di via strade, piazze, scuole, monumenti e quant’altro a significativa memoria che da sempre siamo affetti dalla sindrome di Stoccolma, ossia quella di innamoraci dei nostri carnefici.

E’ ora di finirla. Prendendo  coscienza e consapevolezza della nostra vera storia, è giunto il momento di buttare giù lapidi, e disarcionare dai monumenti questi personaggi che, dipinti come falsi eroi, ci hanno depredato della nostra economia, della nostra storia, della nostra cultura e della nostra identità. I tribunali della storia che per fortuna sicuramente non sono quelli dei processi sommari di Bronte alla fine certamente condanneranno per i loro crimini questi personaggi: anticipiamo sin da ora  le sentenze e buttiamoli giù dai loro piedistalli.

Per quanto riguarda infine Gerolamo Bixio detto Nino, pochi sanno che, alla fine la giustizia divina, per le sue malefatte, più di quella degli uomini, gli presentò un conto salato, facendolo morire tra atroci dolori, sofferenze e tormenti in preda alla febbre gialla ed al colera a bordo della sua nave (s’era dato ai commerci con l’Oriente) il 16 dicembre del 1873, a Banda Aceh, nell’isola di Sumatra, a quel tempo colonia olandese.

Il suo corpo infetto chiuso in una cassa metallica fu sepolto nell’isola di Pulo Tuan che nella lingua locale significa isola del Signore. Successivamente tre indigeni, credendo di trovare qualche tesoro, disseppellirono la cassa denudarono il cadavere e poi lo riseppellirono vicino ad un torrente. Due di loro, infettati dal colera morirono nel breve giro di 48 ore. Anche da morto Bixio era riuscito a fare delle vittime. Roba da Guinnes dei primati.

I pochi resti del suo corpo ed alcune ossa, grazie al terzo indigeno sopravvissuto alla maledizione, vennero ritrovati nel giugno del 1876. Il 10 maggio del 1877 quello che rimaneva dei resti del massacratore di Bronte veniva cremato nel consolato italiano di Singapore. Il 29 Settembre di quello stesso anno le ceneri giunsero a Genova e seppellite nel cimitero di Staglieno.

L’avvocato Nicolò Lombardo e le altre vittime di Bronte, per loro buona pace, si può dire che per la morte atroce del loro aguzzino e per ciò che ne conseguì, erano state vendicate, alla fine, dalla Giustizia divina.

fonte http://timesicilia.it/la-strage-bronte-dellagosto-1860-non-dimenticare-le-vergogne-garibaldi-nino-bixio/?fbclid=IwAR35wZ-sNqAgLzywx2Ok9Gusmst5ZdWRhGC8406KZI580Eo_yJxf5CuFMQc

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