Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

La vera storia dell’impresa dei mille 10/ Ma quali eroi! Garibaldi e i garibaldini andavano a braccetto con i baroni e con i picciotti armati di lupara

Posted by on Mag 7, 2019

La vera storia dell’impresa dei mille 10/ Ma quali eroi! Garibaldi e i garibaldini andavano a braccetto con i baroni e con i picciotti armati di lupara

In questa decima puntata del libro di Giuseppe Scianò “… e nel mese di maggio del 1860 la Sicilia diventò Colonia” l’autore, lasciando parlare i testimoni dell’epoca (anche Giuseppe Cesare Abba, il cantore di Garibaldi, che da buon ligure non si rende conto, in certi passi, di smentire se stesso), ci dà la misura del ruolo centrale svolto dalla mafia durante la cosiddetta impresa dei mille 

3.1. Garibaldi a Salemi: di bene in meglio... – A Salemi il primo applauso, ma non certamente spontaneo. Il Barone Sant’Anna ed i suoi amici avevano fatto un buon lavoro. Una delegazione di cittadini di Salemi va infatti incontro festosamente a Garibaldi e gli mostra il tricolore che sventola sul castello, fatto costruire nel XIII secolo da Federico II, imperatore del Sacro Romano Impero e Re di Sicilia. È la prima volta che il tricolore precede l’arrivo dei Garibaldini. Soltanto di qualche ora, presumiamo.
Maggiori i festeggiamenti in città dove la gente grida: «Morte al barbone!» (e non «al Borbone», come sottolinea il Bandi che non perdona ai Siciliani la scarsa conoscenza e la pessima pronunzia della lingua italiana in quelle pochissime occasioni in cui la usano). Mentre Garibaldi con i baroni Mistretta, Torralta e soprattutto Sant’Anna fa alta politica (e di ciò parleremo ampiamente).

Il Bandi intanto ci spiega ciò che fanno gli altri Garibaldini:

«Tutto quel primo giorno di fermata a Salemi fu speso nel fare apparecchi, si tolsero due cannoni dai vecchi ed inutili affusti, per farne loro dei nuovi, ai quali si adattarono ruote da carrozze, si dié mano a fabbricar delle lance; si requisirono i cavalli, e si aprirono gli arruolamenti pei villani, che in buon numero erano accorsi in città».(8)

Dopo avere parlato della grande meraviglia dei villani (ma non erano quelli gli insorti ed i guerriglieri che si battevano per l’Unità d’Italia ancor prima dello sbarco dei Mille, come afferma la storiografia risorgimentale?), il Bandi ci dice che i villani stessi si mostrano veramente convinti che, con quei portentosi argomenti, i Garibaldini avrebbero sconfitto in prima battuta i Barbone, i Napoletani e gli sguizzeri.

Insomma il Bandi non ci sta a fare passare per insorti quei poveri villani, mandati lì magari dai galantuomini, dai quali dipendono. E non sospetta però che quei villani possano, con ammirazione ostentata, fare buon viso a cattiva sorte e farsi beffe di lui.

In qualche modo gli siamo grati tuttavia per il fatto che non parli di folle inneggianti all’Unità d’Italia ed a Vittorio Emanuele. Quello che invece non apprezziamo è il tono di superiorità che mostrerà sempre nei confronti dei Siciliani e l’ironia, talvolta eccessivamente cattiva, e persino razzista, con cui descrive, sempre o quasi, i suoi interlocutori locali.

Ecco, ad esempio, il commento che l’aiutante di campo di Garibaldi fa alla meraviglia di quei villani:

«Nel vedere quella gran curiosità de’ villani, io rammentavo i racconti di que’ viaggiatori, che ci dipinsero i selvaggi (sic!) stupiti e trasecolati dinanzi a’ coltelli e ai fucili e ai gingilli di vetro, che loro si mostravano per allettarli, e ne facevo gran festa».(9)

Poco dopo definirà, ancora una volta, Siciliani beduini i cosiddetti volontari. (10)

Necessaria, al riguardo, una riflessione. Il fatto che i collaborazionisti non vengano quasi mai stimati dal nemico (con il quale, appunto, collaborano) è notorio. Ma il Bandi, con il suo razzismo, ironico e graffiante, ci dimostra ancora una volta che i fratelli d’Italia, che nel maggio del 1860 avevano invaso la Sicilia, non erano affatto fratelli dei Siciliani. E che egli stesso, ufficiale addetto alla persona del generalissimo Garibaldi, era dopotutto prevalentemente un gran maleducato.

Un’ultima esperienza del bravo Bandi a Salemi. Ad un certo punto, nella piazza principale della città di Salemi, il Bandi vede campeggiare sul portone di un palazzo un grosso stemma dei Borbone. E chiede alla piccola folla che lo circonda:

«O Siciliani… che si tarda a buttar giù quella vergognosa insegna. La folla – continua il toscanaccio – mi ascoltò in silenzio; nessuno voleva essere il primo a fare atto di ribellione o a dir bravo! a chi lo proponeva».

Insomma il tenente Bandi non nutre, neppure per un attimo, il dubbio che l’impresa dei Mille possa non essere affatto condivisa da quelle persone che, dopotutto, sono pur sempre capaci di intendere e di volere più di quanto i Garibaldini non pensino. Racconta ancora:

«Ad un certo punto si fece dinanzi un uomo di belle forme e dall’aria risolutissima, che seppi essere uno dei fratelli Sant’Anna. Costui gridò: “Sì, sì, abbasso quell’arme!” e avventò contro l’arme una grossa mazza che aveva in mano». (11)

Il raccontino si conclude con il coraggioso gesto del Bandi che, salito su una scala, che intanto quei villani gli hanno portato, stacca lo stemma (di legno o di gesso probabilmente), lo getta a terra e lo dà in pasto alla folla che inizia a calpestarlo, a farlo a pezzi ed a bruciarlo, su suggerimento del vecchio Giusmaroli, che aveva raccomandato al Bandi «briusel, briu- sel», cioè brucialo.

Abbiamo riportato, pressoché integralmente, un episodio secondario che erò ci dà tante conferme importanti.

Come mai in una Salemi che festeggia, oltre ogni dire, l’ingresso
dell’Eroe, non esiste quel minimo di politicizzazione che faccia applicare la regola rivoluzionaria di abbattere le insegne dell’odiata dinastia dei Borbone? Che razza di insorti sono mai quelli di Salemi e che razza di rivoluzione hanno fatto? Cosa pensano realmente i cittadini di Salemi?

C’è di più, se stiamo bene attenti e riflettiamo su ciò che ha scritto il Bandi.
Nonostante le imprecazioni e le esortazioni del tenente garibaldino, la folla infatti non si era mossa. Si muoverà quando – e soltanto quando – uno dei fratelli del barone Sant’Anna darà l’imbeccata. Anzi darà un ordine ben preciso, come si addice al fratello del Capo, «dall’aria resolutissima». Come dire: «A Salemi non si muove foglia che il Barone Sant’Anna non voglia». Ma non solo in quanto barone, ma piuttosto come grande mas- sone o probabile, sempre più probabile, «pezzo da novanta» o comunque persona di rispetto, schierata dalla parte giusta.

La gente è condotta da gentiluomini…

A Salemi, ovviamente, arriva anche Cesare Abba, che, stanco per avere dovuto fare a piedi la salita scomunicata, ha il conforto – stando a quanto scriverà – di assistere ad un vero e proprio tripudio per Garibaldi.

«Quando giunse il Generale, fu proprio un delirio. La banda si arrabbiava a suonare; non si vedevano che braccia alzate e armi brandite; chi giurava; chi s’inginocchiava; chi benediceva: la piazza, le vie, i vicoli erano stipati; ci volle del bello prima che gli facessero un po’ di largo. Ed egli, paziente e lieto, salutava ed aspettava sorridendo».(12)

Dopo questa descrizione della gioia popolare, che esiste soprattutto nella sua fantasia, lo scrittore garibaldino torna ai fatti più terreni e così ci descrive la città di Salemi.

«L’hanno piantata quassù che una casa si regge sull’altra, e tutte paiono incamminate per discendere giù da oggi a domani. Avessero pur voglia di sbarcare i Saraceni, Salemi era al sicuro. Vasta, popolosa, Sudicia, le sue vie somigliano (a) colatoi. Si pensa a tenersi diritti; si cerca un’osteria e si trova una tana. Ed aggiunge: ‘ Ma i frati, oh! I frati gli avevano belli i conventi’, e questo dov’è la mia compagnia è anche netto. Essi se ne sono andati».(13)
I baroni, però, aggiungiamo questa volta noi, sono rimasti a Salemi per ricevere ed aiutare Garibaldi. Strano. Ma è così…

Va anche detto che i conventi vengono, quando servono, requisiti dai Garibaldini e che i frati, solitamente, ne vengono cacciati. Anche con la forza ove occorra.

L’Abba continua regalandoci qualche piccola ammissione:

«Gli abitanti non sono scortesi, sembrano impacciati se facciamo loro qualche domanda. Non sanno nulla, si stringono nelle spalle, o rispondono a cenni, a smorfie, chi capisce è bravo».(14)

Solita domanda, senza astio: se è vero che questi abitanti non sanno nulla (sarebbe stato più corretto dire: «fanno finta di non sapere nulla») o se rispondono a cenni e se… «Chi ci capisce è bravo», come si fa a dire che erano insorti e che volevano ad ogni costo l’Unità d’Italia e Vittorio Emanuele? E come avrebbe fatto di lì a poco Garibaldi a dire che lo volevano Dittatore?

L’Abba, sia pure con qualche puzza sotto il naso, deve riconoscere tuttavia il grande senso di ospitalità dei Siciliani e ci racconta:

«Entrai stanco in una taverna, profonda quattro o cinque scalini dalla via. V’era una brigata di amici, che mangiavano allegramente i maccheroni in certe ciotole di legno che… (forse: facevano schifo, n.d.A.). Eppure ne mangiai anch’io. E bevemmo e chiacchierammo, e c’eravamo quasi dimenticati d’essere qui a questi passi, quando…».(15)

Insomma proprio quando il buon ligure comincia a gustare il vino ed i maccheroni Siciliani, sarebbe stato avvertito che un «grosso corpo di Napo- letani» era stato avvistato a poche miglia da Salemi. Si torna quindi – nel diario dell’Abba – a parlare e a scrivere ufficialmente. Ed è così che si tirano fuori altri trionfi ed ovazioni di folla per Garibaldi, a piedi o a cavallo che appaia.

Ma un altro sprazzo di sincerità sfugge al nostro scrittore che, dopo avere parlato di squadre di insorti che arrivano da ogni parte, ci rende partecipi dell’impressione che gli hanno fatto questi volontari. Egli scrive:

«Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con certe facce sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistola. Tutta questa gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota».(16)

A parte la descrizione della conformazione fisica dei nuovi arrivati, che non sembrano certamente delle persone affidabili, è importante il fatto che l’Abba ci confermi quello che già abbiamo compreso dalle altre testimonianze. I picciotti, cioè, non hanno né avranno alcuna disciplina militare, perché obbediscono devoti soltanto ai gentiluomini dai quali sono condotti.

Per la mafia, che sta per fare il salto di qualità, si aprono grandi prospettive.(17) Mala tempora in vista, invece, per il Popolo Siciliano, per la Nazione Siciliana.

Garibaldi è ben visto dalla mamma – Secondo Giancarlo Fusco il merito principale delle accoglienze, con i baroni Mistretta, Torralta e soprattutto Sant’Anna fa alta politica (e di ciò parleremo ampiamente).

Il Bandi intanto ci spiega ciò che fanno gli altri Garibaldini:

«Tutto quel primo giorno di fermata a Salemi fu speso nel fare apparecchi, si tolsero due cannoni dai vecchi ed inutili affusti, per farne loro dei nuovi, ai quali si adattarono ruote da carrozze, si dié mano a fabbricar delle lance; si requisirono i cavalli, e si aprirono gli arruolamenti pei villani, che in buon numero erano accorsi in città».(8)

Dopo avere parlato della grande meraviglia dei villani (ma non erano quelli gli insorti ed i guerriglieri che si battevano per l’Unità d’Italia ancor prima dello sbarco dei Mille, come afferma la storiografia risorgimentale?), il Bandi ci dice che i villani stessi si mostrano veramente convinti che, con quei portentosi argomenti, i Garibaldini avrebbero sconfitto in prima battuta i Barbone, i Napoletani e gli sguizzeri.

Insomma il Bandi non ci sta a fare passare per insorti quei poveri villani, mandati lì magari dai galantuomini, dai quali dipendono. E non sospetta però che quei villani possano, con ammirazione ostentata, fare buon viso a cattiva sorte e farsi beffe di lui.

In qualche modo gli siamo grati tuttavia per il fatto che non parli di folle inneggianti all’Unità d’Italia ed a Vittorio Emanuele. Quello che invece non apprezziamo è il tono di superiorità che mostrerà sempre nei confronti dei Siciliani e l’ironia, talvolta eccessivamente cattiva, e persino razzista, con cui descrive, sempre o quasi, i suoi interlocutori locali.

Ecco, ad esempio, il commento che l’aiutante di campo di Garibaldi fa alla meraviglia di quei villani:

«Nel vedere quella gran curiosità de’ villani, io rammentavo i racconti di que’ viaggiatori, che ci dipinsero i selvaggi (sic!) stupiti e trasecolati dinanzi a’ coltelli e ai fucili e ai gingilli di vetro, che loro si mostravano per allettarli, e ne facevo gran festa».(9)

Poco dopo definirà, ancora una volta, Siciliani beduini i cosiddetti volontari. (10)

Necessaria, al riguardo, una riflessione. Il fatto che i collaborazionisti non vengano quasi mai stimati dal nemico (con il quale, appunto, collaborano) è notorio. Ma il Bandi, con il suo razzismo, ironico e graffiante, ci dimostra ancora una volta che i fratelli d’Italia, che nel maggio del 1860 avevano invaso la Sicilia, non erano affatto fratelli dei Siciliani. E che egli stesso, ufficiale addetto alla persona del generalissimo Garibaldi, era dopotutto prevalentemente un gran maleducato.

Un’ultima esperienza del bravo Bandi a Salemi. Ad un certo punto, nella piazza principale della città di Salemi, il Bandi vede campeggiare sul portone di un palazzo un grosso stemma dei Borbone. E chiede alla piccola folla che lo circonda:

«O Siciliani… che si tarda a buttar giù quella vergognosa insegna. La folla – continua il toscanaccio – mi ascoltò in silenzio; nessuno voleva essere il primo a fare atto di ribellione o a dir bravo! a chi lo proponeva».

Insomma il tenente Bandi non nutre, neppure per un attimo, il dubbio che l’impresa dei Mille possa non essere affatto condivisa da quelle persone che, dopotutto, sono pur sempre capaci di intendere e di volere più di quanto i Garibaldini non pensino. Racconta ancora:

«Ad un certo punto si fece dinanzi un uomo di belle forme e dall’aria risolutissima, che seppi essere uno dei fratelli Sant’Anna. Costui gridò: “Sì, sì, abbasso quell’arme!” e avventò contro l’arme una grossa mazza che aveva in mano». (11)

Il raccontino si conclude con il coraggioso gesto del Bandi che, salito su una scala, che intanto quei villani gli hanno portato, stacca lo stemma (di legno o di gesso probabilmente), lo getta a terra e lo dà in pasto alla folla che inizia a calpestarlo, a farlo a pezzi ed a bruciarlo, su suggerimento del vecchio Giusmaroli, che aveva raccomandato al Bandi «briusel, briu- sel», cioè brucialo.

Abbiamo riportato, pressoché integralmente, un episodio secondario che erò ci dà tante conferme importanti.

Come mai in una Salemi che festeggia, oltre ogni dire, l’ingresso
dell’Eroe, non esiste quel minimo di politicizzazione che faccia applicare la regola rivoluzionaria di abbattere le insegne dell’odiata dinastia dei Borbone? Che razza di insorti sono mai quelli di Salemi e che razza di rivoluzione hanno fatto? Cosa pensano realmente i cittadini di Salemi?

C’è di più, se stiamo bene attenti e riflettiamo su ciò che ha scritto il Bandi.
Nonostante le imprecazioni e le esortazioni del tenente garibaldino, la folla infatti non si era mossa. Si muoverà quando – e soltanto quando – uno dei fratelli del barone Sant’Anna darà l’imbeccata. Anzi darà un ordine ben preciso, come si addice al fratello del Capo, «dall’aria resolutissima». Come dire: «A Salemi non si muove foglia che il Barone Sant’Anna non voglia». Ma non solo in quanto barone, ma piuttosto come grande mas- sone o probabile, sempre più probabile, «pezzo da novanta» o comunque persona di rispetto, schierata dalla parte giusta.

La gente è condotta da gentiluomini…

A Salemi, ovviamente, arriva anche Cesare Abba, che, stanco per avere dovuto fare a piedi la salita scomunicata, ha il conforto – stando a quanto scriverà – di assistere ad un vero e proprio tripudio per Garibaldi.

«Quando giunse il Generale, fu proprio un delirio. La banda si arrabbiava a suonare; non si vedevano che braccia alzate e armi brandite; chi giurava; chi s’inginocchiava; chi benediceva: la piazza, le vie, i vicoli erano stipati; ci volle del bello prima che gli facessero un po’ di largo. Ed egli, paziente e lieto, salutava ed aspettava sorridendo».(12)

Dopo questa descrizione della gioia popolare, che esiste soprattutto nella sua fantasia, lo scrittore garibaldino torna ai fatti più terreni e così ci descrive la città di Salemi.

«L’hanno piantata quassù che una casa si regge sull’altra, e tutte paiono incamminate per discendere giù da oggi a domani. Avessero pur voglia di sbarcare i Saraceni, Salemi era al sicuro. Vasta, popolosa, Sudicia, le sue vie somigliano (a) colatoi. Si pensa a tenersi diritti; si cerca un’osteria e si trova una tana. Ed aggiunge: ‘ Ma i frati, oh! I frati gli avevano belli i conventi’, e questo dov’è la mia compagnia è anche netto. Essi se ne sono andati».(13)
I baroni, però, aggiungiamo questa volta noi, sono rimasti a Salemi per ricevere ed aiutare Garibaldi. Strano. Ma è così…

Va anche detto che i conventi vengono, quando servono, requisiti dai Garibaldini e che i frati, solitamente, ne vengono cacciati. Anche con la forza ove occorra.

L’Abba continua regalandoci qualche piccola ammissione:

«Gli abitanti non sono scortesi, sembrano impacciati se facciamo loro qualche domanda. Non sanno nulla, si stringono nelle spalle, o rispondono a cenni, a smorfie, chi capisce è bravo».(14)

Solita domanda, senza astio: se è vero che questi abitanti non sanno nulla (sarebbe stato più corretto dire: «fanno finta di non sapere nulla») o se rispondono a cenni e se… «Chi ci capisce è bravo», come si fa a dire che erano insorti e che volevano ad ogni costo l’Unità d’Italia e Vittorio Emanuele? E come avrebbe fatto di lì a poco Garibaldi a dire che lo volevano Dittatore?

L’Abba, sia pure con qualche puzza sotto il naso, deve riconoscere tuttavia il grande senso di ospitalità dei Siciliani e ci racconta:

«Entrai stanco in una taverna, profonda quattro o cinque scalini dalla via. V’era una brigata di amici, che mangiavano allegramente i maccheroni in certe ciotole di legno che… (forse: facevano schifo, n.d.A.). Eppure ne mangiai anch’io. E bevemmo e chiacchierammo, e c’eravamo quasi dimenticati d’essere qui a questi passi, quando…».(15)

Insomma proprio quando il buon ligure comincia a gustare il vino ed i maccheroni Siciliani, sarebbe stato avvertito che un «grosso corpo di Napo- letani» era stato avvistato a poche miglia da Salemi. Si torna quindi – nel diario dell’Abba – a parlare e a scrivere ufficialmente. Ed è così che si tirano fuori altri trionfi ed ovazioni di folla per Garibaldi, a piedi o a cavallo che appaia.

Ma un altro sprazzo di sincerità sfugge al nostro scrittore che, dopo avere parlato di squadre di insorti che arrivano da ogni parte, ci rende partecipi dell’impressione che gli hanno fatto questi volontari. Egli scrive:

«Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con certe facce sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistola. Tutta questa gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota».(16)

A parte la descrizione della conformazione fisica dei nuovi arrivati, che non sembrano certamente delle persone affidabili, è importante il fatto che l’Abba ci confermi quello che già abbiamo compreso dalle altre testimonianze. I picciotti, cioè, non hanno né avranno alcuna disciplina militare, perché obbediscono devoti soltanto ai gentiluomini dai quali sono condotti.

Per la mafia, che sta per fare il salto di qualità, si aprono grandi prospettive.(17) Mala tempora in vista, invece, per il Popolo Siciliano, per la Nazione Siciliana.

Garibaldi è ben visto dalla mamma – Secondo Giancarlo Fusco il merito principale delle accoglienze, quando – e soltanto quando – uno dei fratelli del barone Sant’Anna darà l’imbeccata. Anzi darà un ordine ben preciso, come si addice al fratello del Capo, «dall’aria resolutissima». Come dire: «A Salemi non si muove foglia che il Barone Sant’Anna non voglia». Ma non solo in quanto barone, ma piuttosto come grande mas- sone o probabile, sempre più probabile, «pezzo da novanta» o comunque persona di rispetto, schierata dalla parte giusta.

La gente è condotta da gentiluomini…

A Salemi, ovviamente, arriva anche Cesare Abba, che, stanco per avere dovuto fare a piedi la salita scomunicata, ha il conforto – stando a quanto scriverà – di assistere ad un vero e proprio tripudio per Garibaldi.

«Quando giunse il Generale, fu proprio un delirio. La banda si arrabbiava a suonare; non si vedevano che braccia alzate e armi brandite; chi giurava; chi s’inginocchiava; chi benediceva: la piazza, le vie, i vicoli erano stipati; ci volle del bello prima che gli facessero un po’ di largo. Ed egli, paziente e lieto, salutava ed aspettava sorridendo».(12)

Dopo questa descrizione della gioia popolare, che esiste soprattutto nella sua fantasia, lo scrittore garibaldino torna ai fatti più terreni e così ci descrive la città di Salemi.

«L’hanno piantata quassù che una casa si regge sull’altra, e tutte paiono incamminate per discendere giù da oggi a domani. Avessero pur voglia di sbarcare i Saraceni, Salemi era al sicuro. Vasta, popolosa, Sudicia, le sue vie somigliano (a) colatoi. Si pensa a tenersi diritti; si cerca un’osteria e si trova una tana. Ed aggiunge: ‘ Ma i frati, oh! I frati gli avevano belli i conventi’, e questo dov’è la mia compagnia è anche netto. Essi se ne sono andati».(13)
I baroni, però, aggiungiamo questa volta noi, sono rimasti a Salemi per ricevere ed aiutare Garibaldi. Strano. Ma è così…

Va anche detto che i conventi vengono, quando servono, requisiti dai Garibaldini e che i frati, solitamente, ne vengono cacciati. Anche con la forza ove occorra.

L’Abba continua regalandoci qualche piccola ammissione:

«Gli abitanti non sono scortesi, sembrano impacciati se facciamo loro qualche domanda. Non sanno nulla, si stringono nelle spalle, o rispondono a cenni, a smorfie, chi capisce è bravo».(14)

Solita domanda, senza astio: se è vero che questi abitanti non sanno nulla (sarebbe stato più corretto dire: «fanno finta di non sapere nulla») o se rispondono a cenni e se… «Chi ci capisce è bravo», come si fa a dire che erano insorti e che volevano ad ogni costo l’Unità d’Italia e Vittorio Emanuele? E come avrebbe fatto di lì a poco Garibaldi a dire che lo volevano Dittatore?

L’Abba, sia pure con qualche puzza sotto il naso, deve riconoscere tuttavia il grande senso di ospitalità dei Siciliani e ci racconta:

«Entrai stanco in una taverna, profonda quattro o cinque scalini dalla via. V’era una brigata di amici, che mangiavano allegramente i maccheroni in certe ciotole di legno che… (forse: facevano schifo, n.d.A.). Eppure ne mangiai anch’io. E bevemmo e chiacchierammo, e c’eravamo quasi dimenticati d’essere qui a questi passi, quando…».(15)

Insomma proprio quando il buon ligure comincia a gustare il vino ed i maccheroni Siciliani, sarebbe stato avvertito che un «grosso corpo di Napo- letani» era stato avvistato a poche miglia da Salemi. Si torna quindi – nel diario dell’Abba – a parlare e a scrivere ufficialmente. Ed è così che si tirano fuori altri trionfi ed ovazioni di folla per Garibaldi, a piedi o a cavallo che appaia.

Ma un altro sprazzo di sincerità sfugge al nostro scrittore che, dopo avere parlato di squadre di insorti che arrivano da ogni parte, ci rende partecipi dell’impressione che gli hanno fatto questi volontari. Egli scrive:

«Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con certe facce sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistola. Tutta questa gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota».(16)

A parte la descrizione della conformazione fisica dei nuovi arrivati, che non sembrano certamente delle persone affidabili, è importante il fatto che l’Abba ci confermi quello che già abbiamo compreso dalle altre testimonianze. I picciotti, cioè, non hanno né avranno alcuna disciplina militare, perché obbediscono devoti soltanto ai gentiluomini dai quali sono condotti.

Per la mafia, che sta per fare il salto di qualità, si aprono grandi prospettive.(17) Mala tempora in vista, invece, per il Popolo Siciliano, per la Nazione Siciliana.

Garibaldi è ben visto dalla mamma – Secondo Giancarlo Fusco il merito principale delle accoglienze, c’eravamo quasi dimenticati d’essere qui a questi passi, quando…».(15)

Insomma proprio quando il buon ligure comincia a gustare il vino ed i maccheroni Siciliani, sarebbe stato avvertito che un «grosso corpo di Napo- letani» era stato avvistato a poche miglia da Salemi. Si torna quindi – nel diario dell’Abba – a parlare e a scrivere ufficialmente. Ed è così che si tirano fuori altri trionfi ed ovazioni di folla per Garibaldi, a piedi o a cavallo che appaia.

Ma un altro sprazzo di sincerità sfugge al nostro scrittore che, dopo avere parlato di squadre di insorti che arrivano da ogni parte, ci rende partecipi dell’impressione che gli hanno fatto questi volontari. Egli scrive:

«Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con certe facce sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistola. Tutta questa gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota».(16)

A parte la descrizione della conformazione fisica dei nuovi arrivati, che non sembrano certamente delle persone affidabili, è importante il fatto che l’Abba ci confermi quello che già abbiamo compreso dalle altre testimonianze. I picciotti, cioè, non hanno né avranno alcuna disciplina militare, perché obbediscono devoti soltanto ai gentiluomini dai quali sono condotti.

Per la mafia, che sta per fare il salto di qualità, si aprono grandi prospettive.(17) Mala tempora in vista, invece, per il Popolo Siciliano, per la Nazione Siciliana.

Garibaldi è ben visto dalla mamma – Secondo Giancarlo Fusco il merito principale delle accoglienze, riservate dalla cittadinanza di Salemi a Garibaldi ed ai

suoi Mille, va attribuito a Giuseppe La Masa. In parte è vero. Ma il La Masa operava in un terreno già predisposto in tal senso dai fratelli Sant’Anna.

Riportiamo, tuttavia un passo della narrazione del Fusco perché, pur non dicendoci niente di nuovo, ci dà bene l’idea del clima e dell’ambiente che si erano creati a Salemi.

«La Masa ha lavorato bene!, mormora Garibaldi, piegato sulla sella, rivolgendosi a Sirtori. Il “fierissimo” Giuseppe La Masa, palermitano, spadaccino formidabile e oratore travolgente, ha preceduto la colonna di quasi 24 ore, per illustrare ai maggiorenti di Salemi le intenzioni di Garibaldi, convincerli a dargli man forte e prepararli all’entrata dei volontari. Il sindaco e i consiglieri comunali, i cosiddetti “decurioni”, per quanto meno restii di quelli di Marsala, lo avevano accolto con palese diffidenza. Ma alla fine, i suoi ragionamenti, favoriti dal dialetto, avevano fatto breccia.

E ora mentre la cavalla bianca del Generale si avvicina alla piazza principale, sospesa come un’ala bruna sugli ultimi uliveti, ecco che quel diavolo di La Masa esce dal palazzo comunale tirandosi dietro tutti i “pezzi grossi” locali: il barone Mistretta in elegante completo di velluto marrone, il sindaco Tommaso Terranova, gli esponenti più autorevoli del “Comitato di Liberazione”, costituitosi, ufficialmente, appena mezz’ora prima; il dottor Ignazio Lampiasi, l’avvocato Luigi Corleo, il notaio Luigi Torres… Tutti hanno in petto vistose coccarde tricolori. Tutti agitano i cappelli verso il cielo di smalto azzurro».(18)

Dopo avere descritto qualche altro episodio della giornata dei Mille a Salemi, compreso l’incontro con fra’ Pantaleo, francescano sui generis, il Fusco ci dà un elenco degli approvvigionamenti che il La Masa procura ai Garibaldini. Si tratta di generi acquistati con i soldi del Municipio e non certamente di offerte spontanee della cittadinanza.

«Garibaldi ha la dimostrazione tangibile di quanto sia stato efficiente La Masa nel preparare il terreno. Infatti, il sindaco Terranova consegna all’intendente Bovi una considerevole quantità di vettovaglie: 2000 razioni di carne, 4000 di pasta e di riso, 4000 di vino, 30 chili di caffè, 80 chili di zucchero, 200 chili d’olio, 40 di sale e un quintale di candelotti. Per mettere insieme 4000 pagnotte il sindaco, non essendo sufficienti i forni del paese, ha mobilitato, durante la notte del 13 anche i panettieri di Santa Ninfa. Paga il Comune. Ma Sirtori, per regolarità amministrativa, rilascia una ricevuta. Volendo, potrebbe anche provvedere a un immediato rimborso, giacché nella cassetta di ferro affidata a Bovi vi sono lire 92 mila e centesimi 75. Ma è meglio tenersi stretto quel danaro, finché è possibile. Visto che i Mille hanno bisogno di tutto: scarpe, vestiario, medicinali, armi, muli, cavalli…».(19)

Il Fusco, prescindendo dal tono ironico e dal fatto che analisi di carattere generale non ne vuole affrontare molte, ci fornisce uno spaccato, breve ma efficace, delle componenti sociali che in concreto forniscono il loro aiuto a Garibaldi.

Le masse contadine, delle quali parla la storiografia ufficiale, non si vedono. Si vede invece il «trasformismo» della classe politica, si vede la mafia, si vedono i baroni e le forze più retrive della società siciliana dell’epoca.

A proposito dell’apporto mafioso, sul quale torneremo continuamente, dobbiamo dire che per la verità questo si era già intravisto, ma molto di sfuggita in alcuni autori. Ci riferiamo all’Abba, al Nievo, allo stesso Bandi. Con Giancarlo Fusco – così come avviene per Denis Mack Smith – il riferimento alla mafia è abbastanza esplicito. Gli ridiamo la parola:

«Il sindaco Terranova, in cuor suo, è di tendenze piuttosto borboniche. Anche cinque o sei dei suoi consiglieri nell’intimo, sono devoti a Franceschiello. Ma, così come stanno le cose, è meglio mettersi sul petto grosse coccarde tricolori. A parte l’aria decisa di Garibaldi e dei suoi seguaci, anche i patrioti locali sono tipi notoriamente risoluti. Nei fuciloni dei “picciotti” vi sono, ben pressati, pallettoni grossi come ceci, impazienti di avventarsi contro i “signuri”. E poi, ieri sera, il barone Alberto Maria Mistretta, al cui passaggio tutti gli uomini si cavano rapidamente la “coppola”, mormorando il sacramentale “voscienza benedica”, ha parlato chiaro: “Garibaldi è ben visto dalla mamma. Quindi, bisogna dargli una manuzza!”. Tutti sanno di che “mamma” si tratta. È una “mamma” che ha migliaia di “figghiuzzi”, sparsi in tutta la Sicilia occidentale, pronti ad obbedirle ciecamente, senza discutere. Giacché anche la più piccola disobbedienza può costare una scarica di “lupara”. “E un sasso in bocca”».(20)

Ringraziamo il Fusco per questa testimonianza. Ma c’è ben poco da scherzare, soprattutto per i Siciliani. Anche perché la mafia era ed è estesa a tutta quanta la Sicilia.

E non solo…

Foto tratta da Radio Spada

Fine decima puntata / Continua

(8) G. Bandi, op. cit., pagg. 82 e 83.

(9) G. Bandi, op. cit., pag. 83.

(10) G. Bandi, op. cit., pag. 86.

(11) G. Bandi, ibidem.

(12) G. C. Abba, op. cit., pag. 60.

(13) G. C. Abba, op. cit., pag. 61.

(14) G. C. Abba, ibidem.

(15) G. C. Abba, op. cit., pagg. 61 e 62.

(16) G. C. Abba, op. cit., pag. 63.

(17) La mafia, come abbiamo avuto modo di chiarire in altra sede, di fatto nel 1860 in Sicilia esiste già. Ma è molto diversa da quella che si sarebbe affermata fra la fine del secolo diciannovesimo e di tutto il secolo ventesimo. È più che una grande organizzazione a sé stante, una specie di sottoproletario della camorra. La parola mafia è un neologismo ed è poco usata. Non è ancora entrata ufficialmente nelle cronache giudiziarie e letterarie. Lo farà dopo appena un biennio, con una commedia di grande successo popolare (I mafiosi della vicaria). Va ricordato che mafia, camorra e ’ndrangheta nelle rispettive realtà (Sicilia, Campania e Calabria) ed altre aggregazioni malavitose esistenti in tutto il Sud Italia avrebbero fatto uno storico salto di qualità proprio collaborando con Piemontesi, Inglesi e Garibaldini nella conquista del Regno delle Due Sicilie e nella successiva opera di sottomissione delle popolazioni ribelli.

(19) G. Fusco, op. cit., pag. 39.

Fonte

Read More

La vera storia dell’impresa dei mille 9/ E da Marsala a Salemi Garibaldi comincia ad arruolare i picciotti di mafia…

Posted by on Mag 6, 2019

La vera storia dell’impresa dei mille 9/ E da Marsala a Salemi Garibaldi comincia ad arruolare i picciotti di mafia…

L’impresa dei mille, nella marcia che va da Marsala a Salemi, comincia a prendere il ‘colore’ della mafia. Ci sono i servizi segreti inglesi, rappresentati dal Barone Sant’Anna. E cominciano ad arrivare i picciotti della mafia che ne combineranno di tutti i colori. E poi si chiedono come mai lo Stato italiano tratta con la mafia, quando la prima ‘Trattativa” con i mafiosi l’ha fatta Garibaldi con gli inglesi…  

di Giuseppe Scianò

GARIBALDINI IN MARCIA DA MARSALA A SALEMI – 12 maggio 1860: sulla strada per Salemi. «Dove sono gli insorti?»

Torniamo alla cronaca dei fatti. Garibaldi ed i suoi Mille, «conquistata» Marsala, si spostano verso Salemi. Questa, sì, dovrebbe essere una città amica perché è sotto l’influenza del Barone Sant’Anna. Uomo di primo piano, anzi pezzo da novanta, secondo Montanelli e secondo non pochi autori. Certamente, il Barone è agganciato ai servizi segreti britannici ed esponente egli stesso della Massoneria filoinglese. L’unica che conti veramente in Europa e nel mondo.

Una sosta – a circa metà strada – è prevista, intanto nel feudo Rampingallo, a dieci chilometri circa da Salemi. Si tratta di una grande proprietà del Barone Mistretta. A Rampingallo prima e a Salemi dopo, sono previsti gli incontri, oltre che con i galantuomini, anche con le squadre di sedicenti insorti in armi. Vedremo di che cosa si tratterà.

Mentre la colonna si mette in cammino, proprio alle porte di Marsala, si svolge un interessante, significativo dialogo fra Garibaldi ed il suo ufficiale di Stato Maggiore, Giuseppe Bandi. Chi è costui?

Giuseppe Bandi, aiutante e fedelissimo di Garibaldi, giovane e brillante ufficiale, toscanaccio quasi quanto Indro Montanelli (pur senza la finezza né la cultura dello stesso Montanelli), è a sua volta, in maniera moderata, agiografo (1) ed apologeta della Spedizione dei Mille. Qualche volta però perde le staffe e riesce ad essere molto sincero. Cosa, questa, che avviene appunto alla partenza da Marsala per raggiungere il feudo di Rampingallo. Il Bandi è infatti deluso, più di quanto non sembri o non voglia ammettere, per l’accoglienza trovata a Marsala.

È deluso altresì perché non vede «…gli innumerevoli insorti di cui era corsa fama che brulicassero le campagne siciliane».(2)

Vale la pena di seguirlo per strappargli qualche informazione preziosa, fra quelle annotate in successive pubblicazioni. Così ci racconterà, dopo diversi anni, la storica conversazione con il suo Generale.

«Non volevo mostrarmi scoraggiato, né uomo di poca fede ma mi premeva chiarire qual fosse l’impressione suscitata nell’animo di Garibaldi dalle prime accoglienze, che ci avevano fatto i Siciliani. E, così, avvicinatomi a lui, con non so qual pretesto, gli dissi:

“O dove sono, Generale, que’ magni insorti che promettevano Roma e Toma? Mi pare che la gente guardi e passi, ed abbia una voglia matta di starsene allegramente a vedere quel che accadrà”.

Il Generale rispose con la sua inalterabile tranquillità: “Pazienza, pazienza; vedrete che tutto andrà bene. Perché la gente si scuota e ci venga dietro, bisogna farle vedere che sappiamo picchiare. Il mondo è amico dei coraggiosi e dei fortunati”.

Capii che diceva una cosa santa, e mi tacqui; ma dopo poco, tornai a farmi vivo per domandargli:

“O dov’è Rosolino Pilo? Dov’è Corrao? Non ci dissero a Genova che erano padroni di mezza l’isola (sic)?”.

“Ce lo dissero…, – soggiunse il Generale – ma che volete? Avranno fatto quel che poterono fare, e adesso saranno per la montagna”».(3)

Garibaldi non si preoccupa. È verosimile, infatti, che lui non sappia dove diavolo siano gli insorti in quel momento, ma sa bene dove sono gli Inglesi. Quelli, sì, che brulicavano in Sicilia. E la marcia verso Salemi (e poi verso Calatafimi e verso Palermo e via di seguito) sarà solo una marcia verso una vittoria prefabbricata. Nel conseguimento di tale vittoria, tuttavia, non mancheranno sorprese ed incidenti di percorso.

Quelli veri intendiamo. Non programmati…

Tappa di Rampingallo – La prima sosta nel loro spostamento da Marsala a Salemi, i Garibaldini la fanno dunque nel feudo Rampingallo. Il centro aziendale è costituito da una vetusta ma comoda struttura edilizia, caratteristica della campagna siciliana: ’u bagghiu (il baglio). Nel cui interno trovano posto le abitazioni del proprietario e dei suoi più diretti collaboratori e talvolta la «cappella», nella quale si celebrano anche importanti funzioni religiose. Al centro, di solito, esiste un grandissimo spazio capace di varie attività di trasformazione e di conservazione dei prodotti agricoli. Rifugio sicuro talvolta per intere greggi, soprattutto di notte.

Così è anche il baglio di Rampingallo. I Garibaldini pertanto, ed i loro capi, vi troveranno comoda ospitalità. Qui, come ci spiega il Bandi, verranno raggiunti da una prima squadra di picciotti, guidata dal fratello del Barone Sant’Anna. Questi diventerà sempre più, deus ex machina ed autorità a Salemi, come ad Alcamo ed in altre località della provincia di Trapani.

G. C. Abba ci descrive questi presunti insorti in maniera tale da farci capire che, sì, lui li chiama insorti, ma sono piuttosto uomini vestiti di «pelli di pecora sopra gli altri panni, tutti paiono gente risoluta» e sono «armati di doppiette da caccia e di picche bizzarre».(4)

Non garantisce insomma, che siano veri ribelli, veri insorti.

Poco prima il Bandi aveva incontrato, appunto, il fratello dello stesso Barone Sant’Anna con sette o otto signori, «tutti a cavallo, con le papaline in testa e con gli schioppi attraverso alla sella come tanti beduini». Questi, poco dopo, avvicinatisi al Bandi avrebbero gridato «Viva Cicilia! Viva la Taglia (Viva Sicilia! Viva l’Italia)».(5)

Scrive testualmente il Bandi per evidenziare, giustamente, che quei signori non conoscevano bene l’italiano, né cosa fosse l’Italia, né che diavolo questa volesse da loro. Sulla pronunzia della parola Sicilia in Cicilia, il Bandi tuttavia si sbaglia, perché nel Siciliano è la «C» che spesso viene pronunziata come una «S» leggera. E non viceversa.

Parlando della tappa di Rampingallo, è necessario ricordare un altro
episodio narrato dal Bandi. Un episodio che per la verità il toscano cita per un suo motivo specifico, ma che noi riprendiamo per un’altra ragione.
Mentre Garibaldi, con l’aiuto del Bandi e di un altro garibaldino, si stava spogliando per andare a letto (non dimentichiamo che l’Eroe è afflitto da dolori reumatici e da vari acciacchi), il Barone Sant’Anna in persona chiede di essere ricevuto ed entra nella stanza, dicendo che ha bisogno di un’autorizzazione, di una lettera cioè scritta (il Bandi parla di spedizione) che lui, a sua volta avrebbe consegnato «a due de’ suoi uomini» e con la quale Garibaldi «dichiarasse che dava loro facoltà di levare gente per conto suo in certi villaggi non lontani, promettendo che i due uomini sarebb ro tornati quanto prima, recandoci qualche buon aiuto».

Garibaldi, racconta sempre il Bandi, gli dice:

«Scrivete subito in mio nome una “spedizione” per i due uomini di Sant’Anna, acciò si sappia che la gente che arruoleranno sarà arruolata per me; e quando l’avrete scritta, firmerò».(6)

Il Bandi cita questo episodio anche per evidenziare la formula che lui avrebbe adottato per indicare l’autorità dalla quale viene emessa l’autorizzazione a svolgere quella specie di incarico (la formula del Bandi per la cronaca così recita: «Giuseppe Garibaldi, Generale del Popolo italiano, disceso in Sicilia per rendere alla nobile isola l’antica gloria e libertà, dà commissione ecc.»).

In quel momento Garibaldi mostra di gradire la proposta del Bandi e l’adotta. Tale formula sarebbe stata, tuttavia, per i casi successivi, «messa all’indice e surrogata con una diversa formula». Ci pare ovvio. Non l’antica gloria, ma una nuova (7) terribile schiavitù Garibaldi sta rendendo alla Sicilia. Meglio quindi non mettere il dito sulla piaga. E poi si dimostra ancora una volta che in Sicilia non esiste alcuna rivoluzione. E che non esistono affatto i volontari dei quali tanto parla la storiografia ufficiale.

I picciotti di mafia – Cos’altro vogliamo far notare di grande importanza? La mentalità padronale e mafiosa che, a Rampingallo, come altrove, caratterizzerà l’arruolamento dei picciotti? In verità non si tratta affatto di insorti, come ci è stato detto e ripetuto, né di gente politicizzata, né infine di gente che ha intenzione di accettare un vero e proprio rapporto gerarchico di tipo militare, sia pure in modo semplice come si addice ai guerriglieri ed agli insorti, da che mondo è mondo. Ma si tratta soltanto di un rapporto personale di obbedienza verso questo o quell’altro pezzo grosso che, a sua volta, ha rapporti con Garibaldi o con i suoi collaboratori.

Peraltro se questa gente fosse stata veramente sul piede di guerra, non sarebbe stato necessario andarla a prelevare. Né tantomeno ci sarebbe stato bisogno della commissione o spedizione scritta (perdippiù firmata da Gari- baldi). Adempimento burocratico, questo, che vuole in qualche modo accreditare il Sant’Anna ed i suoi uomini nel caso specifico. In altra occasione accrediterà altri Sant’Anna ed altre persone di loro fiducia.

Per fare folla, tuttavia, e per fare intendere all’opinione pubblica internazionale che il Popolo Siciliano voglia veramente l’unità d’Italia e l’intervento liberatorio di Garibaldi, questi reclutamenti e la qualità delle persone che vi provvedono di volta in volta e gli stessi picciotti di mafia andranno a meraviglia. Crediamo, per la verità, che il Sant’Anna volesse quel foglio anche per avanzare diritti a futuri rimborsi di spesa. I cosiddetti picciotti, infatti, venivano pagati dai signori ai quali «ubbidivano devoti» già da tempo. Con l’impresa garibaldina molti di loro avranno anche una pensione ereditaria.

Al Baglio di Rampingallo giungono le voci che da Palermo è partito il Generale Landi con tremila uomini per sbarrare il passo all’Armata Gari- baldina. Altre voci parlano di truppe che sarebbero state mandate via mare contro i nostri eroi. Garibaldi se ne preoccupa alquanto.

Decide, senza indugi, di accelerare i tempi per andare a Salemi, «che – come ci spiega il Bandi – siede in vetta ad un poggio assai scosceso, e si tratta di giungervi per sentieri aspri e fuori mano».

Garibaldi (con Bixio e con i carabinieri genovesi) si avvia velocemente verso Salemi, mentre il grosso della compagnia «si raccoglieva e si metteva in ordine» per marciare a sua volta.

Foto tratta da it.bastingrews.com

(1) Vogliamo ricordare ai nostri lettori che in Italia si arrivò a definire Agiografia Risorgi- mentale la storia ufficiale del Risorgimento, appunto. L’etimologia della parola viene dal greco (αγιος, santo, e γραφω, scrivo) e, com’è noto, si riferisce ad alcuni testi sacri della Bibbia. Il riferimento al risorgimento è ovviamente ironico. Si è verificato però che, a distanza di anni, l’Agiografia Risorgimentale venisse accettata come storia vera dalla quale fare derivare anali- si, valutazioni, riferimenti ecc., e si sa, in questa situazione, non c’è ironia che basti.

(2) G. Bandi, op. cit., pag. 72.

(3) G. Bandi, op. cit., pag. 73.

(4) G. C. Abba, op. cit., pag. 59.

(5) G. Bandi, op. cit., pagg. 77 e 78.

(6) G. Bandi, op. cit., pag. 78.

(7) G. Bandi, op. cit., pagg. 78 e 79.

Read More

La vera storia dell’impresa dei mille 8/ Anche Indro Montanelli ammette il ruolo della mafia. La misteriosa morte di Ippolito Nievo

Posted by on Mag 5, 2019

La vera storia dell’impresa dei mille 8/ Anche Indro Montanelli ammette il ruolo della mafia. La misteriosa morte di Ippolito Nievo

In questa ottava parte del volume “… e nel mese di maggio del 1860 la Sicilia diventò Colonia”, Giuseppe Scianò elenca le prese di posizione di alcuni storici e commentatori. Dalle dichiarazioni sincere – ma anche dalle bugie – emerge con chiarezza il ruolo degli Inglesi, che avevano preparato lo ‘sbarco dei mille’ con meticolosità. Ed viene fuori, soprattutto, il ruolo dei ‘picciotti’ di mafia  

di Giuseppe Scianò

Commenti e testimonianze sullo Sbarco dei garibaldini avvenuto a Marsala l’11 maggio 1860 – Sulle vicende di Marsala si è scritto parecchio e si è detto tutto ed il contrario di tutto. La verità che si sia trattato di un colpo di mano inglese, non occasionale, ma inserito in un piano ben preciso, tuttavia, emerge a poco a poco e in modo inoppugnabile dalle tante dichiarazioni sincere e, paradossalmente, anche dalle tante bugie. Si tratta di testimonianze tirate in ballo, le une e le altre, da coloro che, da diversi punti di vista e talvolta con interessi contrapposti, si sono occupati, volontariamente o involontariamente, delle vicende risorgimentali siciliane.

Non potendole citare tutte, abbiamo riportato le testimonianze più significative, citandone di volta in volta le fonti.

Indro Montanelli – Un unitario e risorgimentalista impenitente, Indro Montanelli, il quale già in altre occasioni aveva fatto qualche battuta a proposito dell’accoglienza che i Siciliani avevano riservato a Garibaldi ed ai suoi Mille a proposito dello sbarco così ebbe modo di esprimersi:

«Gli inizi non furono promettenti. L’unico che diede un caldo benvenuto ai volontari fu il Console inglese. La popolazione si chiude in casa. E lo stesso vuoto incontrò la colonna l’indomani, quando si mise in marcia. Solo a Salemi, Garibaldi fu accolto con entusiasmo, perché a lui si unì una banda di “picciuotti” comandata dal Barone Sant’Anna. Se un “pezzo di novanta” come lui si schierava con Garibaldi, voleva dire che su costui c’era da fare affidamento». (13)

Ci sentiamo in dovere di precisare che le virgolette sono nostre. Non ne potevamo fare a meno, soprattutto nel momento in cui appaiono i picciotti di mafia ed il loro pezzo da novanta, Barone Sant’Anna.

Non ci pare nemmeno corretto che il Console di S.M. Britannica sia lì, in piazza, a farsi in quattro per festeggiare l’inizio dell’invasione di quel Regno delle Due Sicilie, presso il quale egli stesso ha svolto e continua a svolgere compiti di rappresentanza diplomatica (si fa per dire, perché è fin troppo evidente il suo ruolo di agente del Governo di Londra incaricato di agevolare azioni destabilizzanti di ogni tipo). Analoga considerazione vale per il Console Sabaudo. Ma Montanelli non si preoccupa di evidenziare questo particolare.

Va tutto bene lo stesso? No, certamente. Ma è sufficiente constatare che il famoso Indro abbia ammesso che a Marsala la gente si chiuse in casa e vi restò chiusa anche durante la partenza di Garibaldi alla volta di Salemi. Ed il Montanelli parla chiaramente anche dell’apporto della mafia. E non è poco… per un unitario di ferro.

Giuseppe Cesare Abba – Persino l’Abba è costretto a parlare delle bandiere Inglesi. Si vede che erano veramente molte. Anzi: troppe! A sbarco già avvenuto, scrive nelle sue noterelle, proprio con la data dell’11 maggio 1860:

«Siedo sopra un sasso, dinanzi al fascio di armi della mia compagnia, in questa piazzetta squallida, solitaria, paurosa».

Dopo qualche osservazione sul Capitano Alessandro Ciaccio, che piange di gioia e dopo aver fatto qualche altro piccolo riferimento di cronaca, il nostro Autore aggiunge:

«Su molte case sventolano bandiere di altre nazioni. Le più sono Inglesi. Che vuol dire questo?». (14)

Si è detto che l’Abba pone un quesito al quale crediamo di avere risposto abbondantemente. Ma riteniamo che gli avessero già risposto esaurientemente quasi subito altri autori. E riteniamo altresì che l’Abba si sia risposto da sé, nel momento in cui è costretto ad ammettere che sventola una grande quantità di bandiere Inglesi.

Un fatto strano, comunque. Per un cantore, per un apologeta dell’impresa garibaldina, per un operatore di disinformazione storica e politica del Risorgimento, è senza dubbio un sacrificio dare spazio a questo scorcio di verità. Ma non può farne a meno: il fenomeno è dilagante e si ripeterà a Palermo, a Catania, a Messina. Ovunque in Sicilia.

Va da sé un’altra considerazione. L’Abba non afferma di aver visto bandiere italiane. Ci fa quindi dedurre che non ve ne siano. Neppure una. Non si tratta di un fatto secondario. Se infatti un agiografo come l’Abba avesse visto a Marsala un solo fazzoletto tricolore, lo avrebbe moltiplicato per cento… Saranno poi i pittori, i pennaioli ed i poeti (incaricati dal Governo di Vittorio Emanuele o mossi dalla voglia di far carriera o dalla necessità di sopravvivere) che faranno miracoli, descrivendo folle osannanti, talvolta in ginocchio, che accolgono il Duce dei Mille fin dal molo del porto, in un tripudio di gigantesche bandiere tricolori.

Dobbiamo tuttavia ricordare che uno dei più famosi commentatori del libro di Abba, in una nota, cerca di mettere una pezza alla testimonianza in questione. Ed infatti scrive:

«(La bandiera inglese significa) che molti Inglesi vi si trovavano per l’industria vinicola. La bandiera metteva al riparo dal bombardamento». (15)

È appena il caso di fare rilevare che il bombardamento vero e proprio, per la verità, non vi era mai stato. E che si trattava di pochissime cannonate a vuoto e puramente simboliche che peraltro erano già terminate. Mentre – come abbiamo già puntualizzato – le bandiere Inglesi e le tabelle con la scritta domicilio inglese si sarebbero viste (e mantenute a lungo) anche in altre città della Sicilia, dove non vi erano industrie vinicole degli Inglesi… e neppure gli Inglesi stessi.

Bandiere e tabelle sarebbero servite in verità a moltissime famiglie siciliane per mettersi al sicuro (o meglio, per tentare di mettersi al sicuro) dai saccheggi, dalle violenze e dagli stupri, che non sarebbero certamente mancati. E che, anzi, in non poche occasioni, avrebbero caratterizzato il comportamento dei liberatori, nonché dei banditi e dei malfattori locali loro alleati.

Abbiamo già ricordato che l’11 maggio 1860, a Piazza della Loggia, a Marsala, durante la parata garibaldina si era rimediata a stento la sola bandiera italiana che Giorgio Manin aveva tirato fuori da un apposito astuccio. Questo fatto la dice lunga, troppo lunga… E conferma che le bandiere italiane non esistevano nel maggio 1860. Né a Marsala, né in tante città della Sicilia. Fatte salve ovviamente quelle poche eccezioni che confermano la regola.

Faremmo un torto a G. C. Abba se non dicessimo che egli stesso si incarica di fare qualche affermazione atta a compensare, probabilmente, gli
effetti negativi di alcune considerazioni, in apparenza ingenue, o di qualche
lapsus freudiano. Come quando, ad esempio, ha fatto cenno alla «piazzetta,
squallida, solitaria, paurosa». La compensazione avviene allorché, per
restare in tema, fa appunto una poco credibile descrizione dei festeggiamenti (probabilmente inventati ed idealizzati nel lungo periodo di tempo trascorso fra la sua partecipazione all’impresa ed il momento in cui avrebbe curato l’ultima stesura della sua opera) dei quali nemmeno Garibaldi in persona ed il suo fedele ufficiale Bandi fanno cenno, come vedremo.

Così scrive Cesare Abba:

«Ora la città è nostra. Dal porto alle mura corremmo bersagliati di fianco. Nessun male. Il popolo applaudiva per le vie; frati di ogni colore (sic!) si squarciavano la gola gridando; donne e fanciulli dai balconi ammiravano. “Beddi! Beddi!” si sentiva da tutte le parti».

Eppure poco prima aveva scritto:

«La città non aveva ancora capito nulla; ma la ragazzaglia era già lì, venuta giù a turba».(16)

Ci insospettisce, altresì, ma non più di tanto, il fatto che l’Abba non abbia detto «alcuni ragazzi» bensì abbia usato il termine, piuttosto dispregiativo, di «ragazzaglia». Ci dovrebbe far riflettere anche la precedente frase:

«La città non aveva ancora capito nulla…». (17)

Come mai la città avrebbe festeggiato se non aveva «capito nulla»? E come mai pur non avendo capito nulla aveva atteso l’evento liberatore? E come mai, senza avere ancora capito nulla, secondo quanto attestano le fonti ufficiali, sarebbero stati proprio i cittadini di Marsala quelli che volevano ad ogni costo Garibaldi alla testa della loro rivoluzione?

L’agiografia risorgimentale dell’Abba diventa, insomma, un boomerang per l’eccessivo entusiasmo patriottico dell’Autore del testo «sacro» Da Quarto al Volturno.

Non sottilizziamo ed andiamo ad uno di quegli episodi secondari che però, a tempo e luogo opportuni, possono assumere ruolo e funzione di testimonianza. L’Abba ci aveva, sempre nella noterella del giorno undici, parlato di un incontro interessante:

«Alcuni frati bianchi ci salutavano coi loro grandi cappelli: ci spalancavano le loro enormi tabacchiere: e stringendoci le mani, ci domandavano:

“Siete reduci, emigrati, svizzeri?”».

Francamente ci sembra strano che i frati, i quali dovevano necessariamente possedere un bagaglio di cultura e di informazioni politiche (…oltre che di tabacco) superiore alla media, facessero una domanda del genere e dimostrassero quindi di non essere coinvolti nell’entusiasmo popolare, del quale lo stesso Abba parlerà di lì a poco (di cui abbiamo fatto riferimento).

Una cosa, seppur inquietante, i frati l’avevano comunque confessata. Per loro i Garibaldini potevano anche essere stranieri. Meglio se svizzeri…
Non li avrebbero comunque conosciuti, né riconosciuti.

Bolton King. Inglesi a Marsala? Bolton non lo sa… – Nel 1903, Benedetto Croce, mostro sacro della filosofia e della storiografia italiana, unitario di ferro (ancorquando meridionale), nel corso della presentazione di una nuova opera di Bolton King, volle fare cenno a quella che era l’opera più conosciuta in Italia e sulla quale avrebbero studiato diverse generazioni di docenti, di allievi e di studiosi: La storia dell’unità d’Italia, in quattro volumi. La prima edizione della quale era stata pubblicata in lingua inglese nel 1899.

Ebbene, il Croce in proposito affermò:

«La “Storia dell’Unità d’Italia” benché elaborata con conoscenza completa del vasto materiale erudito di quel periodo, pur non tanto mi era parsa notevole per l’erudizione quanto per la finezza ed equilibrio del giudizio, che mette sotto giusta luce uomini ed avvenimenti controversi, e desta quasi di continuo quella persuasione, quell’intimo assenso, che si esprime con un “così è”». (18)

Ipse dixit, insomma… L’opera dell’illustre inglese è senza dubbio ponderosa ed interessante. Parte, però, da alcuni dati che ritiene scontati e certi, ma che invece a nostro giudizio sono discutibili. Talvolta mai avvenuti.

Il buon Bolton King, del resto, se in buona fede, non avrebbe mai potuto immaginare che il materiale erudito da cui avrebbe attinto la conoscenza della storia d’Italia, in realtà gli avesse fornito una serie di notizie rielaborate e/o falsificate ab origine. Non sappiamo se, venendo in Italia, visitando i luoghi del delitto, interrogando i testimoni oculari, lo scrittore inglese avrebbe smentito se stesso.

Fatto sta che il King non aveva mai messo piede in Sicilia fino al mese di maggio del 1860 (né lo avrebbe fatto dopo), né in Sicilia, né tantomeno in Italia. A questo punto abbiamo il sospetto che Bolton King non fosse stato in buona fede e che anche lui facesse parte della grande congiura della disinformazione per giustificare e legittimare la grande operazione di conquista del Regno delle Due Sicilie.

Ecco, ad esempio, come ci descrive lo Sbarco dei Mille:

«Intanto con i suoi piroscafi Garibaldi giunse a Marsala l’11 maggio. Era riuscito a sfuggire ai vascelli Napoletani in alto mare, ma mentre si stava avvicinando a terra fu avvistato da due incrociatori, che lo inseguirono accanitamente fino nel porto. Una delle sue navi si incagliò e, se il fuoco aperto dai Napoletani non fosse stato troppo largo e sparso, una metà dei suoi uomini non sarebbe certo riuscita a giungere sana e salva sulla terraferma. A Marsala non esisteva la guarnigione, ma la spedizione corse egualmente il rischio di rimanere inchiodata in quel lembo dell’isola, per cui Garibaldi decise di marciare immediatamente su Palermo: salutato con indicibile entusiasmo dalla popolazione, si proclamò Dittatore dell’isola in nome di Vittorio Emanuele e si affrettò quindi ad avanzare su Palermo, mentre La Masa incitava gli abitanti dei villaggi a prendere le armi e mentre le squadre sopravvissute all’impresa della Gancia si univano alle sue forze».(19)

Così fu? Non ci pare. Manca peraltro ogni riferimento proprio all’intervento inglese. Ed invece spunta un entusiasmo che, soprattutto a Marsala, nella realtà, non era mai esistito. E questa descrizione dei fatti non ci pare ammissibile per un Autore così importante. Eppure egli aveva scritto:

«La politica del Governo Palmerston verso l’Italia si proponeva tre obiettivi fondamentali: soddisfare le aspirazioni italiane cacciando dal Paese gli austriaci; far cessare l’influenza francese in Italia; indebolire o distruggere il potere temporale (del Papa)». (20)

Ammetteva quindi che l’Inghilterra aveva scelto fra i due sovrani (peraltro imparentati fra loro, Vittorio Emanuele II e Francesco II, legati da vincoli di sangue e di parentela agli Asburgo), quale dei due buttare giù dalla torre e quale invece salvare adottandolo ed aiutandolo a crescere. Se non addirittura costruendolo a suo uso e consumo.

Come poteva l’Inghilterra rischiare, ormai, che a Marsala il proprio progetto colasse a picco? Qualcosa doveva fare e doveva già aver pur fatto!… O no? Ma Bolton King finge di non vedere, di non sapere. Anzi si inventa una sua verità a totale supporto della propaganda filo-unitaria.

Garibaldi: una frase che rafforza i sospetti – Scrive il Rosada:

«Dodici anni dopo, il Duce dei Mille riconosce lealmente il suo debito scrivendo nelle sue memorie:

“La presenza dei due legni da guerra Inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti de’ legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera di Albione contribuì, anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; ed, io, beniamino di cotesti signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro Protetto”».

Questa frase di Garibaldi, anziché dissipare insinuazioni e sospetti, li avrebbe rafforzati. Ne condividiamo il contenuto, perché l’influenza e gli interventi dell’Inghilterra furono veramente decisivi nei fatti del 1860 e degli anni immediatamente successivi. Ma la macchina dell’agiografia risorgimentale non sarebbe stata neppure sfiorata da questo momento di sincerità dell’Eroe dei Mille.

Se quest’ultimo avesse capito, fin dall’inizio, dove sarebbe arrivato il suo mito, probabilmente non si sarebbe lasciato andare ad una confessione così significativa e compromettente.

(20) Bolton King, op. cit., vol. III, pag. 140.

Denis Mack Smith e Ippolito Nievo – Sulla scia di Bolton King, uno storico inglese nostro contemporaneo, Denis Mack Smith, ha avuto un enorme successo in Sicilia con libri di storia che riguardano appunto la Sicilia. Uno dei più celebri, che è stato anche un vero best-seller, è La storia della Sicilia medievale e moderna, edita da Laterza (Bari, 1970). Lo stile ovviamente è più scorrevole di quello del King, la benevolentia per i Padri della Patria – da Vittorio Emanuele a Cavour, a Garibaldi, ecc., – rimane però immutata.

Ci confronteremo con le opinioni dello Smith nel corso del nostro lavoro. Non è il caso di farlo adesso. Gli diamo però atto, per il momento, di aver citato, pur senza condividerne troppo il contenuto, un’acutissima osservazione di Ippolito Nievo:

«La rivoluzione era sedata dappertutto o, per dir meglio, non avea (sic!) esistito: solo qualche banda di semi-briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del Governo e qualche paura dei proprietari». (21)

Un giudizio, questo, sferzante, quanto mai veritiero ed in controtendenza rispetto al guazzabuglio di versioni ufficiali e non. Lo stesso Smith ci mette, però, in guardia dicendo – lui inglese – che il Nievo «vedeva le cose da settentrionale». Non ci pare un’espressione felice in generale. Ed in particolare per il Nievo. Costui era, sì, un settentrionale, ma (a prescindere dalla considerazione che la diversità etnica non ha niente a che vedere con i fatti) ciò non significa che il grande scrittore non avesse capito meglio di tanti Meridionali e di tanti Siciliani e – ci sia consentito – di tanti altri Settentrionali e di tanti Inglesi, di che pasta fosse fatta la maggioranza degli eroi Garibaldini e dei picciotti di mafia che a questi si aggregavano.
Insomma Nievo parla. (22)

Cosa, questa, che non potevano fare quanti erano stati complici dei delitti connessi alla conquista del Sud e della Sicilia, né lo possono fare oggi quanti compiono il lavoro di omologazione culturale o quanti hanno la necessità di tenere in piedi il mito garibaldino, scisso dalla verità. Magari in buona fede oppure nel rispetto della… ragion di Stato.

Ma per meglio comprendere il valore della testimonianza alla quale abbiamo dato spazio, dobbiamo ricordare chi era Ippolito Nievo. Di lui così scrive Lorenzo Bianchi:

«Ippolito Nievo, padovano (1831-1861), poeta e geniale autore delle ‘Confessioni d’un ottuagenario’, ammirato dall’Abba (vedi qui, pagg. 88, 149, 279, Storia dei Mille, pagg.115-116). Era stato delle ‘Guide del 59′, partecipò alla ‘spedizione dei Mille’ (di cui lasciò lettere vivaci e uno scheletrico diario) come a un sicuro olocausto. Per la sua scrupolosità fu assegnato all’Intendenza Militare con Giovanni Acerbi (diceva di non possedere che un solo requisito per fare il cassiere, quello ‘di non saper rubare’). Per l’alto ingegno e il senno politico appariva destinato a un grande avvenire. Ma ‘spariva dal mondo nel marzo 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un vapore [l’Ercole] che fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque. Perì in lui il poeta che avrebbe cantato davvero l’epopea garibaldina; e un cadavere che fu creduto lui, venne poi trovato sulla riva d’Ischia, l’isola dei poeti».

Il Nievo è quindi un testimone di grande prestigio e soprattutto molto sincero, attendibile. Ancorquando unitario ad ogni costo. Ed è un uomo che ha amato molto la verità.

Ancora oggi in Sicilia si sospetta che la sua morte non sia stata accidentale; si ritiene che «qualcuno», potente e compromesso, avesse avuto interesse a far fuori il Nievo per impedirgli di denunziare brogli ed ammanchi che, nella sua qualità di intendente e di ispettore, avrebbe scoperto nell’Amministrazione «unitaria ed italiana», non più Duosiciliana, quindi, in Sicilia.

Infatti, dopo aver eseguito diligentemente l’ordine di raccogliere i documenti contabili (riteniamo scottanti) sui quali aveva indagato, per portarli a Torino (in quel periodo capitale del Regno d’Italia), il grande scrittore lasciò la Sicilia diretto a Napoli sul vecchio Ercole il 4 marzo 1861.

Si può affermare soltanto che il piroscafo non arrivò mai a destinazione e che, del Nievo, non si ebbe più notizia. Né si conobbero mai con esattezza le vere cause del naufragio del vapore di Napoli (come veniva chiamato). Non sopravvisse nessuno. Ippolito Nievo, al momento della morte, aveva appena trent’anni.

Sulla tragedia si hanno solo due certezze: la prima è che il Nievo aveva con sé un’enorme quantità di documenti che provavano gli imbrogli che egli stesso aveva scoperto, ad iniziare dai prelievi che i Garibaldini avevano effettuato a man bassa alla Tesoreria dello Stato delle Due Sicilie a Palermo; l’altra è costituita dal fatto che del piroscafo Ercole fino ad oggi non sono stati mai rinvenuti relitti, neppure parziali. In pratica non si è mai avuta la certezza che la causa della scomparsa della nave fosse da attribui- re ad un naufragio, ad un incendio accidentale oppure ad un attentato…

(13) Indro Montanelli, L’Italia unita. Da Napoleone alla svolta del Novecento, Rizzoli, II vol., 2015, pag. 613. Facciamo rilevare che il Montanelli, scrivendo «picciuotti» adotta la pronunzia di alcuni antichi rioni di Palermo. In realtà la pronunzia più diffusa in Siciliano è «picciotti». Letteralmente «picciotto» significa «giovane». In senso lato significa anche «aiutante», apprendista, esecutore di ordini, lavoratore manuale, ecc…

Fine ottava puntata/ continua

Foto tratta da questionegiustizia.it

(14) G. C. Abba, op. cit., pag. 50.

(15) G. C. Abba, op. cit., pag. 50, nota 1.

(16) G. C. Abba, op. cit., pag. 51.

(17) G. C. Abba, op. cit., pag. 50.

(18) Bolton King, Storia dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, 1960, vol. I, pag. 11, introduzione a cura di Ernesto Ragionieri.

Denis Mack Smith e Ippolito Nievo – Sulla scia di Bolton King, uno storico inglese nostro contemporaneo, Denis Mack Smith, ha avuto un enorme successo in Sicilia con libri di storia che riguardano appunto la Sicilia. Uno dei più celebri, che è stato anche un vero best-seller, è La storia della Sicilia medievale e moderna, edita da Laterza (Bari, 1970). Lo stile ovviamente è più scorrevole di quello del King, la benevolentia per i Padri della Patria – da Vittorio Emanuele a Cavour, a Garibaldi, ecc., – rimane però immutata.

Ci confronteremo con le opinioni dello Smith nel corso del nostro lavoro. Non è il caso di farlo adesso. Gli diamo però atto, per il momento, di aver citato, pur senza condividerne troppo il contenuto, un’acutissima osservazione di Ippolito Nievo:

«La rivoluzione era sedata dappertutto o, per dir meglio, non avea (sic!) esistito: solo qualche banda di semi-briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del Governo e qualche paura dei proprietari». (21)

Un giudizio, questo, sferzante, quanto mai veritiero ed in controtendenza rispetto al guazzabuglio di versioni ufficiali e non. Lo stesso Smith ci mette, però, in guardia dicendo – lui inglese – che il Nievo «vedeva le cose da settentrionale». Non ci pare un’espressione felice in generale. Ed in particolare per il Nievo. Costui era, sì, un settentrionale, ma (a prescindere dalla considerazione che la diversità etnica non ha niente a che vedere con i fatti) ciò non significa che il grande scrittore non avesse capito

meglio di tanti Meridionali e di tanti Siciliani e – ci sia consentito – di tanti altri Settentrionali e di tanti Inglesi, di che pasta fosse fatta la maggioranza degli eroi Garibaldini e dei picciotti di mafia che a questi si aggregavano.
Insomma Nievo parla. (22)

Cosa, questa, che non potevano fare quanti erano stati complici dei delitti connessi alla conquista del Sud e della Sicilia, né lo possono fare oggi quanti compiono il lavoro di omologazione culturale o quanti hanno la necessità di tenere in piedi il mito garibaldino, scisso dalla verità. Magari in buona fede oppure nel rispetto della… ragion di Stato.

Ma per meglio comprendere il valore della testimonianza alla quale abbiamo dato spazio, dobbiamo ricordare chi era Ippolito Nievo. Di lui così scrive Lorenzo Bianchi:

«Ippolito Nievo, padovano (1831-1861), poeta e geniale autore delle ‘Confessioni d’un ottuagenario’, ammirato dall’Abba (vedi qui, pagg. 88, 149, 279, Storia dei Mille, pagg.115-116). Era stato delle ‘Guide del 59′, partecipò alla ‘spedizione dei Mille’ (di cui lasciò lettere vivaci e uno scheletrico diario) come a un sicuro olocausto. Per la sua scrupolosità fu assegnato all’Intendenza Militare con Giovanni Acerbi (diceva di non possedere che un solo requisito per fare il cassiere, quello ‘di non saper rubare’). Per l’alto ingegno e il senno politico appariva destinato a un grande avvenire. Ma ‘spariva dal mondo nel marzo 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un vapore [l’Ercole] che fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque.

Perì in lui il poeta che avrebbe cantato davvero l’epopea garibaldina; e un cadavere che fu creduto lui, venne poi trovato sulla riva d’Ischia, l’isola dei poeti».

Il Nievo è quindi un testimone di grande prestigio e soprattutto molto sincero, attendibile. Ancorquando unitario ad ogni costo. Ed è un uomo che ha amato molto la verità.

Ancora oggi in Sicilia si sospetta che la sua morte non sia stata accidentale; si ritiene che «qualcuno», potente e compromesso, avesse avuto interesse a far fuori il Nievo per impedirgli di denunziare brogli ed ammanchi che, nella sua qualità di intendente e di ispettore, avrebbe scoperto nell’Amministrazione «unitaria ed italiana», non più Duosiciliana, quindi, in Sicilia.

Infatti, dopo aver eseguito diligentemente l’ordine di raccogliere i documenti contabili (riteniamo scottanti) sui quali aveva indagato, per portarli a Torino (in quel periodo capitale del Regno d’Italia), il grande scrittore lasciò la Sicilia diretto a Napoli sul vecchio Ercole il 4 marzo 1861.

Si può affermare soltanto che il piroscafo non arrivò mai a destinazione e che, del Nievo, non si ebbe più notizia. Né si conobbero mai con esattezza le vere cause del naufragio del vapore di Napoli (come veniva chiamato). Non sopravvisse nessuno. Ippolito Nievo, al momento della morte, aveva appena trent’anni.

Sulla tragedia si hanno solo due certezze: la prima è che il Nievo aveva con sé un’enorme quantità di documenti che provavano gli imbrogli che egli stesso aveva scoperto, ad iniziare dai prelievi che i Garibaldini avevano effettuato a man bassa alla Tesoreria dello Stato delle Due Sicilie a Palermo; l’altra è costituita dal fatto che del piroscafo Ercole fino ad oggi non sono stati mai rinvenuti relitti, neppure parziali. In pratica non si è mai avuta la certezza che la causa della scomparsa della nave fosse da attribui- re ad un naufragio, ad un incendio accidentale oppure ad un attentato…

(13) Indro Montanelli, L’Italia unita. Da Napoleone alla svolta del Novecento, Rizzoli, II vol., 2015, pag. 613. Facciamo rilevare che il Montanelli, scrivendo «picciuotti» adotta la pronunzia di alcuni antichi rioni di Palermo. In realtà la pronunzia più diffusa in Siciliano è «picciotti». Letteralmente «picciotto» significa «giovane». In senso lato significa anche «aiutante», apprendista, esecutore di ordini, lavoratore manuale, ecc…

Fine ottava puntata/ continua

(14) G. C. Abba, op. cit., pag. 50.

(15) G. C. Abba, op. cit., pag. 50, nota 1.

(16) G. C. Abba, op. cit., pag. 51.

(17) G. C. Abba, op. cit., pag. 50.

(18) Bolton King, Storia dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, 1960, vol. I, pag. 11, introduzione a cura di Ernesto Ragionieri.

(19) Bolton King, op. cit., vol. III, pag. 179.

Fonte

Read More

La vera storia dell’impresa dei mille 7/ La disinformazione: gli inglesi inventano le ‘rivolte’ contro i Borbone

Posted by on Mag 3, 2019

La vera storia dell’impresa dei mille 7/ La disinformazione: gli inglesi inventano le ‘rivolte’ contro i Borbone

Oggi cominciamo a entrare nel cuore di quel grande imbroglio passato alla storia come ‘impresa dei Mille’. Quando i Mille sbarcano a Marsala non c’era alcuna rivolta contro il regno del Borbone. Ma i giornali internazionali – guidati dai disinformatori inglesi (quelli del ‘giornalismo anglosassone’…) – raccontavano un sacco di frottole. Un po’ come oggi certi giornali scrivono le panzane per denigrare il Movimento 5 Stelle. O come la disinformazione sulle stragi di Stato

di Giuseppe Scianò

Va avanti la realizzazione del progetto Inglese di unificare l’Italia dalle Alpi al Mediterraneo – Il Rosada pone un quesito a proposito dello sbarco dei Mille a Marsala dell’11 maggio 1860:

“Il dilemma in cui lo sbarco di Marsala aveva posto il Gabinetto britannico non era invero di facile soluzione. Era più conveniente agli interessi europei e mediterranei dell’Inghilterra favorire con l’unificazione dell’intera penisola, la formazione di un forte Stato nazionale, in grado di emanciparsi gradualmente dall’influenza francese, o difendere l’autonomia del Mezzogiorno con le consuete armi di un’aggressiva ‘Gunboat diplomacy’, sperimentata ancora una volta all’inizio dell’anno nella guerra Ispano-Marocchina, per ottenere a suo tempo da un indebolito e più docile Governo di Napoli l’assenso al distacco più o meno larvato della Sicilia dal Regno e al suo passaggio nella sfera d’influenza inglese?”.

Il Rosada stesso risponde:

“L’Inghilterra, com’è noto, scelse la prima strada, timorosa che sul trono di Napoli potesse salire il candidato ‘in pectore’ di Napoleone III, Luciano Murat; ciò che avrebbe riportato i rapporti di forza in Mediterraneo al punto in cui si trovavano nel 1808, all’apogeo dell’Impero napoleonico” (7).

Insomma il Rosada conferma in toto – e ne dimostra la fondatezza e l’attualità – l’esistenza di un pericolo francese che tende a minacciare la supremazia britannica nel Mediterraneo. Conferma così anche le previsioni del Ministro di Francesco II, Carlo Filangieri di Satriano, che però nutriva soprattutto la preoccupazione che l’Inghilterra brigasse molto per restituire alla Sicilia la propria indipendenza, attraverso il distacco dal Regno delle Due Sicilie.

Il Filangieri, infatti, aveva scritto a Francesco II, qualche tempo prima, riferendogli del suo colloquio con il Cien Roguet, inviato personale dell’Imperatore dei francesi Napoleone III, la lettera datata 1 ottobre 1859, della quale il Rosada ha riportato il passo essenziale.

“…Mi chiese poi notizie della Sicilia, ed io senza misteri gli accennai gli scandalosi intrighi degli Inglesi, che fomentavano in tutta l’isola i disordini ed il malcontento contro il provvido Governo di V.M. per promuovervi una esplosione, come quella del 1848, tendente alla separazione dell’isola dal Reame di Napoli nel che riuscendo manovrerebbero in modo da farla cadere sotto il protettorato o almeno sotto l’esclusiva loro influenza, ed allora scoppiando una guerra fra i due colossi occidentali il Mediterraneo, invece di essere un lago francese, come lo vollero Luigi XIV ed i suoi successori, diventerebbe un lago inglese, protetto da Gibilterra, Malta, Corfù, Messina, Augusta, Siracusa, che sono i più belli porti d’Europa…» (8).

Il Rosada, dopo aver riportato la lettera e fatto una panoramica dei tentativi di «Napoleone il piccolo» (la definizione non è nostra, ma di Victor Hugo) di inserirsi nella Penisola italiana, in contemporanea con la sottrazione di quest’area all’influenza austriaca, aggiunge:

“Nel marzo del ’60, la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia, necessario compenso per l’acquiescenza di Napoleone III alle annessioni nell’Italia centrale, ridestava in Palmerston la vecchia diffidenza per i nebulosi sogni di Renovatio Imperi del nipote del grande Napoleone, appena sopita dalla stipula del trattato di commercio franco-inglese del 23 gennaio precedente”.

E dopo qualche altra osservazione, altrettanto acuta, il Rosada afferma:

“Di qui la seconda missione siciliana del Mundy, il cui tipico carattere politico-militare l’Ammiraglio cerca invano di velare con lo stesso ripetuto pretesto della protezione a proprietà britanniche, che nessuno minacciava. […] Nelle acque siciliane tra il Mundy e il suo collega francese, Barbier De Tinan, come dodici anni prima tra i loro predecessori, Parker e Baudin, si riaccendeva il vecchio contrasto franco-inglese per la supremazia nel Mediterraneo, di cui l’isola costituiva una posizione chiave” (9).

In verità – ci permettiamo di dire – la flotta francese fece poco e niente: creò false illusioni e lasciò tutta l’iniziativa agli Inglesi. Cosa, questa, che vedremo assieme fra non molto.

Il Governo di Londra non improvvisa: ha già deciso e calcolato tutto.
Un momento di approfondimento…

Apprezziamo le osservazioni del Rosada, ma crediamo che egli abbia collocato nel maggio 1860 la decisione inglese di sciogliere ogni riserva e di passare decisamente alla costituzione di un grande Stato Italiano esteso dalle Alpi al Mediterraneo, nel quale fossero fagocitati ed inglobati, al più presto (anche a costo di intervenire con la forza), tutto il territorio del Regno delle Due Sicilie e le popolazioni che lo costituivano. Insomma, ci è sembrato che il Rosada sostenga che la spedizione dei Mille e lo sbarco di Marsala abbia fatto precipitare in senso unitario ed italo-sabaudo le scelte politiche della Gran Bretagna.

Il dubbio ci obbliga a esporre, con chiarezza, quella che invece è la nostra opinione. Per sostenere la quale non mancheremo di avvalerci anche della rappresentazione contestuale, puntuale e fornisce lo stesso Rosada.

Riteniamo, infatti, che il Gabinetto Inglese avesse già preso, da tempo, ogni decisione in proposito. Ancora prima cioè che l’idea della Spedizione avesse preso corpo. Un’idea alla quale l’Inghilterra dava sin dall’inizio il proprio contributo. Si pensi alla «patente per Malta» della quale ci ha parlato il Cantù (10).

I sintomi sono moltissimi. Ne citiamo alcuni relativi proprio alla Spedizione dei Mille. Intanto la Spedizione fu etichettata, fin dall’inizio, con il motto Italia e Vittorio Emanuele. E non certo per lasciare contento il Re Sabaudo, beneficiario del tutto, ma per dichiarare esplicitamente l’obbedienza al disegno inglese, senza lasciare spazio ad equivoci o ad imprevisti. Va considerato, infatti, che Garibaldi, nello stesso momento in cui partiva la Spedizione, aveva già inviato il seguente messaggio, probabilmente costruito dalla diplomazia anglo-piemontese, al Re di Sardegna (Piemonte), futuro Re d’Italia, Vittorio Emanuele II.

“Sire! Il grido di aiuto che parte dalla Sicilia ha toccato il mio cuore e quello di parecchie centinaia di miei antichi soldati. Io non ho consigliata l’insurrezione dei miei fratelli di Sicilia, ma dacché essi si son levati in nome dell’unità d’Italia rappresentata in nome di V. M., contro la più vergognosa tirannia dei nostri tempi, io non ho esitato a farmi capo della spedizione. So che l’impresa in cui mi metto è pericolosa; ma io confido in Dio e nel coraggio e nella devozione dei compagni. Il nostro grido di guerra sarà sempre: ‘Viva l’Italia, Viva Vittorio Emanuele suo primo e più prode soldato!’ Ove noi avessimo a soccombere, io spero che l’Italia e l’Europa libera non dimenticheranno che quest’impresa è stata ispirata dal più generoso sentimento di patriottismo. Se vinceremo io avrò il vanto di adornare la Corona di V. M. d’un nuovo e forse più splendido gioiello, a sola condizione però che Ella non permetterà che i suoi consiglieri lo trasmettano agli stranieri, come hanno fatto della mia città natale. Non ho comunicato il mio progetto a V. M. perché temevo che la grande devozione che io sento per Lei, mi avesse persuaso ad abbandonarlo. G. Garibaldi”.

Certamente fu messa in moto la consueta manfrina con la quale, offendendo l’intelligenza dei contemporanei e dei posteri, si volle far credere che Vittorio Emanuele II ed il Governo Cavour fossero, poveretti, all’oscuro di tutto. Se fosse stato vero, sarebbero stati gli unici di quel regno.

E anche questa fu una finezza britannica, recitata male in italiano. Ma di fatto millantata ed opportunamente strumentalizzata.

Rimane comunque evidente la caratterizzazione in senso unitario e monarchico della spedizione, così come pretendeva il Gabinetto Palmerston.
Anche la notizia (che venne ripetuta ad ogni piè sospinto e che avrebbe fatto indignare, per la sua falsità, financo due Garibaldini come il Bandi ed il Nievo) secondo la quale i Siciliani sarebbero stati in piena rivolta (perché impazienti di ottenere l’Unità d’Italia con il suo Re Vittorio Emanuele), rientrava nella particolare attenzione che l’Inghilterra, come sempre, dedicava agli umori dell’opinione pubblica, non solo di casa propria.

Non mancò, infine – e questa, sì, tipicamente italiana – quella dichiarazione, apparentemente ruffianesca, già sopra riportata, con la quale l’Eroe Nizzardo dichiarava di volere adornare di un nuovo e splendido
gioiello la corona del Re Galantuomo…

Di fatto Garibaldi riproponeva la centralità del suo ruolo personale
nell’operazione Conquista del Sud. Non si contentava infatti della parte di mosca cocchiera tra mosche cocchiere. Era infatti lui, Peppino Garibaldi, che avrebbe donato al Re Sabaudo l’ex Regno delle Due Sicilie e che voleva essere il protagonista principale dell’impresa in corso.

Il Governo Britannico e l’opinione pubblica internazionale – Ribadiamo che gli Inglesi avevano preparato lungamente il terreno. Senza questa preparazione la Spedizione non avrebbe avuto la benché minima speranza di successo.

Si pensi alla corruzione degli alti gradi dell’Esercito e della Marina del Regno delle Due Sicilie. Si pensi ai contatti con la mafia, la ’ndrangheta, la camorra. Si pensi al lavorìo, più raffinato, della Massoneria. Si pensi alle truppe mercenarie che alla data del 5 maggio 1860 (ed anche da prima) erano state nella stragrande maggioranza finanziate, addestrate e mobilitate in varie località dell’Europa e probabilmente dell’Africa.

Tutte cose che non si possono preparare dall’oggi al domani. E non parliamo della messa in riga dei repubblicani, i quali non sono certamente quella decina di sprovveduti della bassa forza, che avrebbero protestato nel momento iniziale della spedizione. Ci riferiamo ai repubblicani illustri, che erano stati già ospitati – e forse foraggiati – per anni ed anni, in Inghilterra.
E che ora non potevano dire di no.

Non parliamo neppure dei giornali, dei finanziamenti, delle congiure, delle sommosse e delle rivolte, incoraggiate tramite servizi segreti e persone di fiducia. Rivolte spesso inconsistenti, ma sempre utili per la propaganda.
Non solo: proprio in questo momento delicato davano preziosi frutti le campagne di stampa e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica contro quelle belve dei Borbone, spergiuri, tiranni, vampiri ed assassini.

Campagne propagandistiche preparate nel tempo dagli Inglesi. Il Governo di Londra peraltro continuava a fare pubblicare giornali e libri che esaltavano i regnanti di Casa Savoia come angioletti benefattori. Gli Inglesi mentivano nell’uno e nell’altro caso. Dobbiamo peraltro dire che, se qualche grossa accusa di spergiuro (nei confronti della Sicilia, soprattutto, e della sua Costituzione) si poteva rivolgere ai Borbone, senza dubbio maggiori erano le accuse che si sarebbero dovute rivolgere ai Savoia, già dal primo momento dell’operazione Conquista della Sicilia.

Ma queste cose l’opinione pubblica internazionale non aveva modo di conoscerle, se non approssimativamente. Vinceva la disinformazione accuratamente pilotata dal Governo di Londra per coinvolgere l’opinione pubblica internazionale a favore di una conquista militare che mirava ad occupare, a conquistare, a distruggere, a colonizzare, a depredare e a denazionalizzare il Regno delle Due Sicilie ed i Popoli del Sud. Quello Siciliano soprattutto anche per la centralità geografica nel Mediterraneo della stessa Sicilia.

Il ‘padre della Patria siciliana’, Ruggero Settimo, dov’era? – Ben pochi pensano o sanno – a proposito di disinformazione – che Ruggero Settimo, il leader carismatico dell’Indipendentismo Siciliano, era formalmente un rifugiato politico nell’isola di Malta, sotto tutela della Gran Bretagna. In verità era stato letteralmente congelato per non disturbare i lavori in corso.

Eppure, il 26 settembre 1849, poco dopo la conclusione della tragica, sfortunata, ma gloriosa rivoluzione indipendentistica e della breve ma significativa vita dello Stato Siciliano (11 gennaio 1848 – 15 maggio 1849), Ruggero Settimo era stato accolto, a La Valletta, con gli onori dovuti ad un Capo di Stato. E come tale fu trattato. Fatto, questo, che è ben conosciuto da coloro che hanno studiato le vicende siciliane del biennio 1848-1849.

Ma nel 1860 Ruggero Settimo era diventato a poco a poco un prigioniero – seppure in gabbia dorata – del Governo Inglese. Il quale ormai non voleva sentire più parlare di indipendenza siciliana ed era amico soltanto di coloro che erano disposti a lavorare per l’annessione della Sicilia al futuro Regno d’Italia.

Kermesse britannica? Sì, ma per scoraggiare gli altri Stati – Certamente, dopo lo Sbarco dei Mille – uno sbarco impasticciato dal piroscafo garibaldino ‘Lombardo’, che si sarebbe addirittura incagliato da solo nel basso fondale – gli Inglesi capirono che dovevano stare con gli occhi bene aperti. Dovevano infatti condurre manu manuzza, come si dice in Sicilia, tutta l’operazione conquista del Sud. Non bastava avere preparato le condizioni necessarie, bisognava intervenire più direttamente. Non solo nello Sbarco e nel dopo Sbarco, ma in tutta l’operazione Unità d’Italia.

Sarebbe stato, quindi, dominante il sistema delle interferenze britanniche, che erano una garanzia di costante ed autorevole protezione. Ad ogni costo e a tempo pieno. Il tutto mentre le ‘mosche cocchiere’ si accingevano a diventare Padri della Patria italiana.

Ciò, senza nulla togliere ai veri idealisti unitari, che pure vi furono (ma non nella misura e nella qualità dei colleghi dell’Italia centro-settentrionale). Pensiamo ad esempio ai fratelli Cairoli, dei quali, nelle vicende risorgimentali, ne morirono quattro su cinque. Tutti eroi (11). E senza pericolo di confonderli con le ‘mosche cocchiere’ che, spesso, non ebbero neppure l’onestà di svolgere con la dovuta professionalità e con correttezza il loro ruolo. Queste, peraltro, avrebbero ricevuto molto di più, di quello che avrebbero meritato, in termini morali e materiali.

Come distruggere le aspettative indipendentiste dei Siciliani – I fatti successivi dimostreranno ulteriormente la esattezza della tesi, secondo la quale, dall’inizio alla fine, l’operazione Unità d’Italia del 1860 era il risultato di un lavoro avviato da diversi decenni dagli Inglesi. E l’operazione, proprio per la esigenza di creare un unico grande Stato Italiano, escludeva a priori qualsiasi altro progetto che rispettasse le esigenze della Nazione Siciliana, del Popolo Siciliano. Nessuna speranza di sopravvivenza o di rinascita del Regno di Sicilia (o del Regno di Napoli e, neppure, del Regno delle Due Sicilie). Insomma: Regnum utriusque Siciliae delendum est.

L’Inghilterra impone le proprie scelte in campo internazionale –
Poniamo un altro interrogativo:

“A parte il Papa Pio IX, chi realmente si opponeva al disegno Inglese?”.

Di fatto nessuno, soprattutto dal punto di vista militare. Neppure i Paesi che avevano interessi contrastanti con quelli dell’Impero della Regina Vittoria. Questi Stati non avevano in quel momento le forze, i mezzi ed il coraggio sufficienti a neutralizzare le azioni del Leone Britannico.

L’opposizione del Papa, inoltre, sul piano militare era inconsistente. Pio IX, infatti, senza l’appoggio di guarnigioni straniere, non poteva neppure salvaguardare i confini del proprio Stato, che infatti erano stati già nel 1860, ed anche prima, pesantemente violati ed anche spostati, ad ogni piè sospinto, soprattutto per opera del Governo Sabaudo di Torino.

Sostanzialmente contrari all’egemonia ed all’espansionismo britannico erano soprattutto, oltre alla Francia (della quale il Rosada ha parlato ampiamente), Prussia, Austria e Russia. Paesi verso i quali il Regno delle Due Sicilie, a prescindere dalle simpatie politiche e dalle affinità ideologico-culturali dei rispettivi governanti, aveva in corso una serie di trattati commerciali e di scambi destinati a svilupparsi ulteriormente. Ovviamente se lasciati indisturbati. Fossero rimasti o no i Borbone sul trono di Napoli.

All’Inghilterra tutto ciò dava fastidio, perché vedeva minacciati i propri monopoli e sapeva bene che, dietro i commerci, sarebbe potuta crescere l’influenza politica. Si pensi al fatto che in Sicilia erano presenti alcuni Consolati Russi, tanti erano i rapporti commerciali e gli scambi di ogni tipo.

Purtroppo i Paesi – contro i quali pure si muoveva pesantemente la strategia dell’Inghilterra – avevano preferito la linea morbida, pensando a torto di imbuonire la Potenza Britannica non contrariandola troppo apertamente. Ed avevano anche agito ciascuno per conto proprio, senza neppure tentare una strategia comune. Il terrore di subire ritorsioni da parte del Leone Britannico aveva bloccato e continuava a ‘bloccare’ tutti.

Ammettiamo, quindi, senza timore di smentita, che nell’Europa e nel mondo, nel 1860, solo l’Inghilterra era nelle condizioni di dettare legge e di ridisegnare confini ed equilibri internazionali. E per il Regno d’Italia aveva già disegnato, appunto, uno Stato monolitico ed accentratore ed un territorio che andasse dalle Alpi al cuore del Mediterraneo, isole comprese. Povera Sicilia!

Torino. Numerosi «esuli Siciliani» vengono strumentalizzati e coinvolti nella strategia dell’occupazione della Sicilia, abbandonando spesso gli ideali che avevano animato la lotta per l’indipendenza della Sicilia nel biennio 1848-1849.

Una volta che tutto il Regno delle Due Sicilie fosse stato sacrificato a favore del costituendo Regno d’Italia ed una volta che quest’ultimo fosse rimasto legato all’Inghilterra da vincoli di gratitudine, di amicizia e, soprattutto, di interessi (e ne fosse diventato quasi uno stato vassallo), che motivazioni sarebbero più esistite per il Governo Britannico per agevolare
– o solamente per non ostacolare – l’indipendenza della Sicilia?

Risposta: ‘Nessuna!’.

Piuttosto esisteva tutto l’interesse per fare l’esatto contrario. E cioè: impedirne l’indipendenza. Ed accorpare la Sicilia allo Stivale. Da questa situazione sarebbe partita anche l’operazione di travasare nelle manovre per realizzare l’Unità d’Italia gli esuli Siciliani, che, a seguito della restaurazione borbonica del 1849, si erano trasferiti nel Regno Sabaudo. Qui, tutti o quasi, quegli esuli avevano ricevuto onori, incarichi prestigiosi e prebende di vario tipo. Era avvenuto così, che buona parte degli esuli Siciliani fosse diventata unitaria e filo-sabauda. Una pagina nera per l’Indipendentismo Siciliano, che però non coinvolse proprio tutti gli esuli. Alcuni di questi rifiutarono, infatti, incarichi e prebende e, seppure con prudenza, continuarono a difendere le ragioni e i diritti della Nazione Siciliana. Senza fortuna.

L’Imperatore Napoleone III, da parte sua, capì troppo tardi quanto stava accadendo in Italia e che il progetto inglese mirava, sì, a distruggere la dinastia borbonica e le sue ramificazioni, ma mirava, nel tempo, a distruggere anche la dinastia dei Bonaparte ed il rinato nazionalismo francese.

Dice Giorgio Dell’Arti: “I francesi temevano nuovi ingrandimenti territoriali del Piemonte e la formazione di un Regno d’Italia talmente forte che sarebbe stato impossibile influenzarlo. Tentarono di convincere gli Inglesi a fare causa comune per evitare annessioni. Ma Palmerston voleva un Regno d’Italia forte a quel modo» (12) che danneggiasse con la sua esistenza anche la Francia… (n.d.A.).

Napoleone III, come abbiamo visto, era un grande ammiratore dell’operato del Governo di Londra, ma non aveva ancora ben capito che l’Inghilterra lo detestava. Né aveva mai nutrito il sospetto che quando e se (dopo meno di dieci anni da quei fatti) il suo Impero fosse stato mandato a gambe all’aria dalla Prussia, gli Inglesi avrebbero provveduto a fare altrettanto, se non peggio, proprio con il discendente di Bonaparte. Ed in modo molto più scientifico.

L’ingenuità di Napoleone III fu tale e tanta che la collaborazione con la Gran Bretagna, seppure con qualche riserva mentale, sarebbe continuata a lungo e si sarebbe estesa anche al Medio e lontano Oriente. A tutto vantaggio della furba Albione, ovviamente.

E le navi straniere nel porto di Palermo… stanno a guardare! – 
Subito dopo lo sbarco di Marsala, Turchia, Francia, Austria, Piemonte, Portogallo, Spagna, Stati Uniti d’America, ed altri Stati avrebbero mandato navi militari in Sicilia, soprattutto nei porti di Palermo e di Messina. Il pretesto ufficiale era che queste dovevano vigilare sulla sicurezza personale e sui beni dei rispettivi cittadini, che nessuno minacciava. Lasciavano, cioè, libera l’Inghilterra di fare ciò che voleva.

E a Palermo si sarebbe recato anche il Contrammiraglio britannico
George Rodney Mundy a bordo dell’Ammiraglia Hannibal, scortato da
altre navi da guerra. Il Mundy era in assoluto l’Ammiraglio più importante e più rispettato fra i tanti comandanti di navi presenti. E, fra l’altro, continuava a giocare in casa, considerato che la Mediterranean Fleet di S.M. Britannica – fra le flotte che stazionavano in quel momento nel Mediterraneo – era la più potente. E la più presente nelle acque siciliane.

Fine della settima puntata/continua

(7) In G. R. Mundy, op. cit., introd. a cura di A. Rosada, pagg. 14 e 15.

(8) In G. R. Mundy, op. cit., pag. 13.

(9) In G. R. Mundy, op. cit., pagg. 14-15.

(10) C. Cantù, in Vittorio Casentino di Rondè, op. cit., pag. 183.

(11) I fratelli Cairoli erano cinque: Benedetto, Ernesto, Luigi, Enrico e Giovanni. Tutti parte- ciparono alle lotte per l’unità d’Italia. Il più grande, Benedetto (nato a Pavia nel 1825), sarebbe diventato Presidente del Consiglio dei Ministri nel 1878. Fu un ottimo combattente. Partecipò all’impresa dei Mille e fu ferito a Palermo. Come politico fu mediocre. Sopravvisse ai quattro fratelli morti, molto giovani, o in combattimento o a seguito di ferite o di malattie provocate dalla guerra. Benedetto, nel 1889, morì di morte naturale, a Capodimonte. Ernesto (nato nel 1832) si arruolò nei Cacciatori delle Alpi. Morì in combattimento nel corso della seconda guerra d’indipendenza a Biumo Inferiore nel 1859, a soli ventisette anni. Luigi, nato nel 1838, era topografo, matematico ed ufficiale dell’esercito piemontese. Partecipò all’impresa garibaldina con il Generale Coseni (seconda spedizione). Morì di tifo a Cosenza, stremato dalle fatiche del- la guerra di occupazione del Sud, nel 1860. Aveva ventotto anni. Enrico, nato nel 1840, studen- te in medicina, seguì i fratelli fra i Cacciatori delle Alpi e fra i Mille. Anch’egli fu ferito a Pa- lermo nel 1860. Partecipò a tutte le campagne di Garibaldi. Morì nel fallito tentativo di conqui- stare Roma, nel 1867, nello scontro di Villa Glori. Aveva appena ventisette anni. Giovanni fu il più giovane dei fratelli Cairoli, essendo nato

Fonte

https://www.inuovivespri.it/2019/01/19/la-vera-storia-dellimpresa-dei-mille-7-la-disinformazione-gli-inglesi-inventano-le-rivolte-contro-i-borbone/

Read More

La vera storia dell’impresa dei Mille 6/ A Marsala Garibaldi sbarca in una città deserta. Bixio: “Dove sono i rivoluzionari?”

Posted by on Mag 3, 2019

La vera storia dell’impresa dei Mille 6/ A Marsala Garibaldi sbarca in una città deserta. Bixio: “Dove sono i rivoluzionari?”

I “rivoluzionari” non ci sono perché i Siciliani sapevano già che lo sbarco dei Mille a Marsala era una sceneggiata orchestrata dagli Inglesi. Anzi, per evitare rapine, violenze e stupri da parte dei garibaldini in cerca di ‘refurtiva’ ‘femmine’, in tantissime abitazioni di Marsala campeggia la scritta a caratteri cubitali: “ABITAZIONE INGLESE”. I garibaldini sapevano che non dovevano toccare le proprietà inglesi. E lo sapevano anche i marsalesi…  

di Giuseppe Scianò

La prima giornata di Garibaldi a Marsala – Le porte sono sbarrate e le finestre sono chiuse. Parliamo un po’ più dettagliatamente della prima storica giornata di Garibaldi e dei suoi eroi a Marsala (11 maggio 1860), tenendo conto di ciò che realmente avvenne allora. E non di ciò che sarebbe stato inventato successivamente o che si continua ad immaginare ancora ai nostri giorni.

Dopo il fortunato sbarco, l’ungherese Türr, in avanscoperta con 50 volontari, esplora le adiacenze del porto. Così scrive il Fusco:

«La città sembra abbandonata. Non s’incontra un’anima. Finestre chiuse, porte sbarrate. Dove sono gli insorti di cui Crispi raccontava le prodezze? Marsala è un blocco di silenzio e di timore. Sulla banchina, schierati lungo il muraglione bigio della Ditta Ingham, gli uomini in camicia rossa sembrano zenzeri. Garibaldi li passa in rivista. Li elogia. Li accarezza con lo sguardo azzurro».(4)

Soltanto una bandiera italiana: quella di Giorgio Manin – A questo punto, Giorgio Manin, figlio dell’ultimo discusso doge di Venezia, Daniele (5) tira fuori dalla custodia di velluto nero il tricolore italiano e lo fa sventolare con un gesto teatrale. I volontari gridano in coro:

«Viva l’Italia».

Sono soltanto loro che si sgolano. L’importante è, però, che gli equipaggi Inglesi dell’Intrepid e dell’Argus li possano sentire. Cosa, questa, che avviene regolarmente.

Scopo raggiunto, quindi. Ne parleranno quasi tutti i giornali d’Europa. Intanto le navi Duosiciliane possono sparare qualche altro colpo di cannone. È una brutta sorpresa. Molta paura per i Garibaldini che temono che il gioco delle parti sia terminato. Ma tutto torna a funzionare. Gli Inglesi faranno smettere dopo poco.

Qualche attimo di sgomento, quindi, nient’altro. Garibaldi, fra Bixio e Sirtori, può così avanzare verso il centro della cittadina lilibetana.

«Non un’ombra, non un rumore», sottolineano ancora il Fusco e tanti altri autori che si sono occupati di questa vicenda.

Le porte di casa vengono chiuse e le finestre altrettanto. Sulle une e le altre sono ben visibili cartelli sui quali è scritta a caratteri ben visibili:

«DOMICILIO INGLESE».

Nino Bixio indignato… – Bixio è indignato. Si lamenta del fatto che non s’incontri neppure un Siciliano. Il Generale Garibaldi, in vena di ironia, gli indica due bambini, fratello e sorella, che guardano con gli occhi spalancati la scena di quegli stranieri che si avvicinano.

«Ecco due rappresentanti del Popolo Siciliano che ci danno il benvenuto», dice. I bambini sono apparsi neri neri agli occhi di quanti descriveranno quella scena. Ma Bixio non li ha in simpatia, li guarda di traverso e borbotta qualcosa nei loro confronti in dialetto genovese.

«Non deve essere stato un complimento», commenta il Fusco.

La frase «DOMICILIO INGLESE», scritta sui cartelli nelle abitazioni private delle città della Sicilia e collocati alle porte e alle finestre serviva ad evitare violenze, soprusi, stupri, rapine ed altro da parte delle truppe garibaldine. E anche di quei combattenti che di volta in volta si aggregavano.

Da questi cartelli si evince che i Siciliani conoscevano bene come stessero le cose e che avevano compreso perfettamente che i Garibaldini e gli Inglesi sostenevano in perfetta combutta l’occupazione e l’intera operazione Unità d’Italia.

I primi a capirlo ovviamente furono i Marsalesi.

Fra le cinque e le sei del pomeriggio, i Garibaldini entrano in municipio. Svuotano le casse comunali. Si impadroniscono del Palazzo del Municipio. Garibaldi scrive un proclama al «generoso popolo Siciliano».

Il Sindaco e gli assessori fanno buon viso a cattiva sorte.

«Alcuni cittadini (solo uomini) cominciano a riunirsi, cautamente, davanti al palazzo comunale», scrive ancora il Fusco. Nessun bagno di folla, dunque.
Eppure lo sbarco è già avvenuto da un pezzo.

A questo punto è necessario parlare di un episodio secondario e del tutto marginale, ma che tuttavia, nel suo piccolo, è utile per comprendere meglio l’aria che tira in quel di Marsala.

I carcerati liberati e assoldati dai garibaldini – Nel modesto carcere mandamentale, rimasto pressoché in balìa di se stesso, ma con qualche pacifico custode di turno, i detenuti in attesa di giudizio sono in tutto quattordici persone, accusate di piccoli reati. I poveracci vengono subito liberati dai Garibaldini e spacciati per detenuti politici e per rivoluzionari. È un’occasione da non perdere per i liberatori.

I quattordici non fanno in tempo a riprendersi dalla meraviglia che vengono pure vestiti in camicia rossa ed armati di schioppo. Ed ovviamente vengono pure arruolati, come volontari, nell’Armata Garibaldina. Anzi, nel glorioso Corpo dei «Cacciatori delle Alpi». Vedremo fra non molto come andrà a finire.

Intanto, però, la piccola messa in scena diventa la migliore risposta che Garibaldi pensa di dare a quanti si sono accorti che i cittadini di Marsala, dimostrando una grande dose di coraggio, gli hanno praticamente chiuso la porta in faccia (6). E che, addirittura, lo hanno sbeffeggiato quando hanno posto sulle porte di casa le tabelle domicilio inglese o le bandiere britanniche, facendogli capire che sanno bene chi realmente comandi. Non sono affatto fessi i Marsalesi ed i Siciliani in genere, né selvaggi, né beduini, come pensano Bixio e tanti altri ancora.

Il Console Inglese si fa in quattro… – Ed è soprattutto, quella dell’11 maggio, una giornata caratterizzata da un continuo via vai di ufficiali, di agenti e di emissari Inglesi. Il loro Console si fa letteralmente in quattro. Alla potente e prestigiosa Comunità Britannica di Marsala rimane sempre il merito di essere l’unica a festeggiare Garibaldi e, talvolta, ad applaudirlo.

A margine degli avvenimenti storici, qualche piccolo problema di tentate molestie da parte di alcuni Garibaldini nei confronti di ragazze marsalesi comincia a sorgere, ma viene risolto sul nascere. Bixio, infatti, agisce energicamente. E ripete il sermone che ha già fatto prima dello sbarco. Ed è più che chiaro quando urla parolacce feroci e razziste contro i Siciliani. Fa comprendere ai Garibaldini più intraprendenti che «Qui non siamo in Continente». Si comportino bene, dunque, se non vogliono rimetterci la testa. E non solo quella…

Avviene così che i Garibaldini si comporteranno bene, almeno sotto questo aspetto, per i primi giorni della loro impresa.

Il Governo di Torino continua a recitare e a far finta di niente. Mentre tutto ciò avviene a Marsala, le autorità del Regno Sabaudo, da Torino a Firenze, diramano finti ordini di bloccare Garibaldi e di impedire eventuali spedizioni di sostegno. Fingono, cioè, di non essere a conoscenza di ciò che esse stesse hanno organizzato e continueranno ad organizzare. Sono, infatti, già in fase di mobilitazione altre spedizioni, via mare, di truppe volontarie.
E non soltanto dalla Liguria e dalla Toscana, ma anche da Malta. Sono stati, altresì, ingaggiati alcuni battaglioni di mercenari stranieri ben addestrati e di provata ferocia.

È notte, intanto. Soprattutto a Marsala. Il Duce dei Mille può, a sua volta, fare sogni tranquilli nel Palazzo Fici-Sarzana. Chi ben comincia…

Fine della sesta puntata/Continua

(4) G. Fusco, op. cit., pag. 29.

(5) Daniele Manin, dopo i fatti del 1848, aveva deciso di rinunziare all’ipotesi di rinascita della gloriosa Repubblica di Venezia, alla quale per la verità aveva sempre creduto ben poco e che aveva usato strumentalmente in funzione antiasburgica, per poi «servire» Vittorio Emanue- le di Savoia ed i suoi discendenti. Anche il Manin è un «politico» che agisce sostanzialmente nell’ambito del grosso progetto unitario inglese.

(6) Della presenza a Marsala di Garibaldi e del contesto siciliano, nel quale la Spedizione dei Mille si muove, ci parla ancora in termini abbastanza chiari Cesare Cantù che così descrive i fatti:
«…da Marsala Garibaldi proclamò: “chi non brandisce un’arma è un codardo ed un traditore della patria;

qualunque arma è buona purché impugnata da un valoroso; all’armi tutti; la Sicilia insegnerà come si libera un paese dagli oppressori per la volontà di un popolo unito!” ma vi trovò scarsa accoglienza; dovè pagare tutto a soldo e quattrini e fin dieci soldi l’uno le uova. Benché decretasse la formazione di un esercito siculo, non d’un sol uomo s’accrebbe il suo immortale drappello; sicché appariva un’invasione, una conquista estranea al paese! Bisogna dare, dunque, importanza a quelle poche squadre che duravano in armi nell’interno dell’isola, e vi mandò ordine che li raggiungessero mentr’egli s’avviava verso Milazzo. Fino a Calatafimi non ebbe né cibo né aiuti, né cure e le poche squadre trovatesi a fronte della truppa regolare, ricusarono combattere».
Il grande storico italiano Cantù, come si vede, evidenzia che la Spedizione dei Mille appariva ai Siciliani come una «conquista esterna» alla Sicilia e al Regno delle Due Sicilie (vedi in proposito Vittorino Cosentino di Rondè, Il fondamento storico dell’attuale agitazione siciliana, Ed. La Capitale, Roma, 1946, pag. 185).

Fonte

Read More

Unità d’Italia: processo ai piemontesi

Posted by on Mag 1, 2019

Unità d’Italia: processo ai piemontesi

Il Risorgimento visto da un nobile irlandese: le ombre del governo sabaudo

Patrick Keyes O’Clery, irlandese, aveva 18 anni quando nel 1867 si arruolò tra gli Zuavi per difendere il Papa: partecipò alla battaglia di Mentana dall’altra parte, ossia contro i garibaldini. A 21 anni, nel 1870, è nel selvaggio West americano a caccia di bisonti. Ma, appreso che l’esercito italiano si prepara a invadere lo Stato Pontificio, torna a precipizio: il 17 settembre ‘70 è a Roma di nuovo. E’ filtrato tra le linee italiane con due compagni, un nobile inglese e un certo Tracy, futuro deputato del Congresso Usa. In tempo per partecipare, contro i Bersaglieri, ai fatti di Porta Pia.

Tornato in Inghilterra ed eletto parlamentare, si batterà per l’autonomia dell’lrlanda. Nel 1880 abbandona la politica per dedicarsi all’avvocatura. Morirà nel 1913, avendo lasciato due volumi sulla storia dell’unificazione italiana. L’opera, che le edizioni Ares di Milano manderanno in libreria alla fine di agosto (Patrick K. O’Clery, La Rivoluzione Italiana.

Come fu fatta l’unità della nazione, 780 pagine, 48 mila lire), sarà presentata al prossimo Meeting di Rimini giovedì 24 agosto. Opera stupefacente degna del suo avventuroso autore, dovrebbe essere letta nelle scuole italiane: e non solo come esempio di revisionismo storico precoce e antidoto alla mitologia del Risorgimento. Vedere l’Italia con l’occhio di uno straniero di cultura anglosassone – allora il centro culturale e politico del mondo – risulterà salutare.

Esempio. A proposito del brigantaggio del Sud, stroncato In anni spietati dal Regno d’Italia, O’Clery riporta voci di dibattiti parlamentari a Torino. Il deputato Ferrari, liberale, che nel novembre 1862 grida in aula: “Potete chiamarli briganti, ma combattono sotto la loro bandiera nazionale; potete chiamarli briganti, ma i padri di quei briganti hanno riportato due volte i Borboni sul trono di Napoli.

E’ possibile, come il governo vuol far credere, che 1500 uomini comandati da due o tre vagabondi tengano testa a un esercito regolare di 120 mila uomini? Ho visto una città di 5 mila abitanti completamente distrutta e non dai briganti” (Ferrari allude a Pontelandolfo, paese raso al suolo dal regio esercito il 13 agosto 1861).

O’Clery riferisce i dubbi di Massimo D’Azeglio (non certo un reazionario) che nel 1861 si domanda come mai “al sud del Tronto” sono necessari “sessanta battaglioni e sembra non bastino”:
“Deve esserci stato qualche errore; e bisogna cangiare atti e principii e sapere dai Napoletani, una volta per tutte, se ci vogliono o no… agli Italiani che, rimanendo italiani, non volessero unirsi a noi, credo non abbiamo diritto di dare delle archibugiate”.

Persino Nino Bixio, autore dell’eccidio di Bronte, nel ‘63 proclamò in Parlamento:
“Un sistema di sangue è stato stabilito nel Mezzogiorno. C’è l’Italia là, signori, e se volete che l’Italia si compia, bisogna farla con la giustizia, e non con l’effusione di sangue”.

O’Clery non manca di registrare giudizi internazionali sulla repressione. Disraeli, alla Camera dei Comuni, nel 1863: “Desidero sapere in base a quale principio discutiamo sulle condizioni della Polonia e non ci è permesso discutere su quelle dei Meridione italiano. E’ vero che in un Paese gl’insorti sono chiamati briganti e nell’altro patrioti, ma non ho appreso in questo dibattito alcun’altra differenza tra i due movimenti”.

O’Clery fornisce alcune cifre. Tra il maggio 1861 e il febbraio 1863, l’esercito italiano ha catturato “con le armi” e perciò fucilato 1038 rivoltosi; ne ha uccisi in combattimento 2.413; presi prigionieri 2.768.

Inoltre; “Secondo Bonham, console inglese a Napoli, sistematicamente favorevole ai piemontesi, c’erano almeno 20 mila prigionieri politici nelle carceri napoletane”, ma secondo altre stime 80 mila. I più – indovinate – in attesa di giudizio, o addirittura del primo interrogatorio, “senza sapere di cosa fossero accusati”, in celle sovraffollate: testimonianza di Lord Henry Lennox, un turista di rango che nel 1863 visitò appunto le prigioni di Napoli.

Altro esempio: la politica finanziaria del neonato Regno d’Italia. Non vi stupirà sapere che l’Italia anche allora covava un deficit mostruoso. O’Clery fornisce dati precisi di bilancio. Ma basterà un suo dato: il deficit del Regno nel 1866 fu di 800 milioni di lire,

“Cifra pari alla metà delle entrate della Gran Bretagna e lrlanda”, ossia del Paese allora più ricco d’Europa. Deficit coperto da “prestiti e ipoteche sui beni nazionali, vendita di beni demaniali e istituzione di monopoli”, ovviamente coperti da stranieri, prodromo e causa della durevole dipendenza italiana da interessi finanziari estranei. “Altra grande risorsa fu la rapina ai danni della Chiesa”, la confisca dei beni e degli ordini religiosi, “che nel solo 1867 fruttò 600 milioni”.

La condizione della Chiesa nel Regno viene così riassunta dal nostro irlandese: “Esilio e arresto di vescovi; proibizione di pubblicare le encicliche papali; detenzione di preti e sorveglianza della loro predicazione; soppressione di capitoli e benefici e incameramento dei beni; chiusura di seminari; leva obbligatoria per i seminaristi; rimozione delle immagini religiose sulle vie e divieto di processioni”.

Se il lettore d’oggi troverà in questo riassunto qualche tratto anacronisticamente sovietico, non è tutto. Leggendo O’Clery, finirà per chiedersi se i cronici mali italiani che siamo abituati a considerare “retaggi borbonici” (ottusità amministrativa, inefficienza e improvvisazione, centralismo autoritario) o persino “fascisti” (tracotanza guerrafondaia) non sarebbero invece da ribattezzare savoiardi o piemontesi.

L’enorme deficit del regno, scrive O’Clery, è dovuto alle spese per mantenere “il più grande esercito d’Europa” e formare “una marina imponente per numero e qualità”, nel tentativo di “recitare il ruolo di grande potenza”. Quel costoso esercito fu come noto sconfitto dagli austriaci a Custoza, per l’insipienza dell’”eroe” Lamarmora (ma anche Garibaldi, che proclamò di prendere Monaco “in quindici giorni”, fu bloccato in Trentino da pochi jaeger). L’enorme flotta corazzata subì a Lissa la nota umiliante sconfitta, contro navi di legno.

Poteva mancare il ricorso all’iniqua pressione fiscale? Non mancò. “Nel Regno delle Due Sicilie la tassazione era, nel 1859, di 14 franchi a testa. Nel 1866, sotto il nuovo regime, le tasse erano salite fino a 28 franchi a testa, il doppio di quanto pagava l”’oppresso” popolo napoletano prima che Garibaldi venisse a liberarlo”.

La tassa sul macinato, bersaglio polemico dei patrioti mazziniani quando l’applicava il governo pontificio, “fu più che raddoppiata ed estesa a tutte le granaglie, perfino alle castagne”. Causa la fiscalità, vi stupirà sapere che fu necessario organizzare “la lotta all’evasione”?

Fu organizzata, e manu militari. I contribuenti in arretrato subivano “perquisizioni domiciliari” e durante queste “visite”, che evidentemente duravano giorni e notti, avevano l’obbligo di cedere ai soldati “i letti migliori” nelle loro case. Ciò non impedì che il Regno restasse sempre in pericolo d’insolvenza.

Tanto che i titoli del debito pubblico italiano “si vendono a 33 punti sotto il loro valore nominale”, al contrario del debito napoletano; che “fino al 1866 era così solido, che i suoi titoli si ponevano al disopra del nominale”. Si dirà il prezzo fu alto, ma almeno il Sud fu raggiunto dalla modernità, i piemontesi portarono un’amministrazione più razionale; saranno stati ottusi, ma erano incorruttibili No. “La contabilità pubblica si trovava in condizione spaventosa, ordini di pagamento non autorizzati apparivano continuamente nei registri della Corte dei Conti”, e il caos favoriva “malversazioni di ogni genere”.

O’Clery cita: “Nel 1865 il ricevitore generale delle imposte a Palermo fuggi con 70 mila franchi; a Torino fu scoperta una stamperia di tagliandi del debito pubblico e un impiegato delle Finanze, processato per ciò fu assolto

…L’anno 1866 portò alla luce le frodi degli impiegati incaricati della vendita dei beni ecclesiastici; a Napoli un alto ufficiale di polizia fu arrestato per essersi appropriato di fondi destinati ai pubblici servizi.

Casi simili se ne possono citare all’infinito”, conclude O’Clery: e chissà perché, noi spettatori di Tangentopoli 1992, siamo inclini a credergli sulla parola. Ma almeno, uno stato militaresco, mise ordine nel disordine pubblico del Meridione? Stroncò la mafia? Serafico,

O’Clery dà la parola alla Guida della Sicilia una guida turistica per inglesi, scritta da un certo Murray, che metteva in guardia: “Le strade siciliane non sono più sicure come al tempo del governo borbonico, il quale, pur con tutti i suoi errori ebbe il merito di rendere le sue strade sicure come quelle del Nord Europa”.

Piacerebbe non crederci. Attribuire questi racconti all’animo papalino e “reazionario dello storico. Purtroppo, qualcosa lo impedisce. L’Italia vista dagli occhi di O’­Clery ci appare sinistramente familiare. Per noi lettori del Duemila, l’effetto è un déjà vu.

Avvenire – 6 agosto 2000

Maurizio Blondet 

Read More