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La vera storia dell’impresa dei Mille 5/ Lo sbarco dei Garibaldini a Marsala vergognosamente protetti dagli Inglesi

Posted by on Apr 30, 2019

La vera storia dell’impresa dei Mille 5/ Lo sbarco dei Garibaldini a Marsala vergognosamente protetti dagli Inglesi

Quinta puntata del volume di Giuseppe Scianò sulla sceneggiata passata alla storia come “Impresa dei Mille”. Si parla dello sbarco a Marsala di Garibaldi e dei Mille che non ebbe nulla di eroico. Sbarcarono di giorno, protetti dalle navi Inglesi, che impedirono alle navi del regno delle Due Sicilia di bloccare e bombardare i due piroscafi garibaldini ‘Piemonte’ e ‘Lombardo’. La tragicomica commedia ‘scritta’ dagli Inglesi comincia la sua ‘avventura’ siciliana. I primi traditori Duosiciliani

di Giuseppe Scianò

Da Talamone alla Sicilia la navigazione dei Garibaldini non ha problemi. Vento in poppa in tutti i sensi. Anche se i Garibaldini fossero intercettati dai Duosiciliani, che peraltro dispongono di una buona Marina Militare, non succederebbe niente di grave. Le due navi, pur se rubate, hanno, infatti, le… carte in regola.

Come ci ricorda, infatti, lo storico Cesare Cantù (13), Garibaldi navigava
«regolarmente munito di patente per Malta» (14). Non è un salvacondotto di poco conto quel documento, perché Malta era un territorio inglese. E gli Inglesi, si sa, sono permalosi e pretestuosi nei confronti del Regno delle Due Sicilie, quanto (se non di più) il lupo di esopiana memoria nei confronti dell’agnello. Poca importanza ha il fatto che il Lombardo ed il Piemonte abbiano dichiarato una destinazione diversa o che portino a bordo gente armata ed in procinto di sbarcare in Sicilia.

Guai a fermare quei due vapori. Si sarebbe anticipato quello che sarebbe realmente accaduto, di lì a poco, alla spedizione Corte della quale parleremo più avanti. Gli Inglesi avrebbero gridato alla violazione del diritto internazionale da parte del perfido Re delle Due Sicilie!

È appena il caso di ricordare quindi che il compito di scorta dell’Ammiraglio Persano è assolutamente privo di rischi. La flotta militare sabauda, ovviamente, si discosterà soltanto quando il Lombardo e il Piemonte saranno entrati nelle acque territoriali Duosiciliane. Per recarsi, però, anch’essa nelle acque del porto di Palermo per dare manforte alle manovre di conquista della Sicilia.

Dubbio di Garibaldi: sbarcare col buio o no? – Dopo una navigazione più che tranquilla, i due piroscafi arrivano a poche miglia dalla Sicilia, di fronte alla costa marsalese. Per la verità lo sbarco a Marsala potrebbe avvenire anche nello stesso giorno: 10 maggio 1860… Ma ormai si avvicina la sera e Garibaldi ritiene che non sia prudente sbarcare al buio che, a suo giudizio, potrebbe, sì, anche giovare perché gli consentirebbe di non essere avvistato dai nemici, se non troppo tardi. Però il Nizzardo sa bene che il buio ha un inconveniente. Quello, cioè, di non far vedere bene, di non far riconoscere le persone e le bandiere, di non far vedere dove si mettono i piedi o… le navi.

Prudenza doverosa da parte di un buon vecchio marinaio, soprattutto se si considera che il Lombardo, in pieno giorno, l’indomani, sarebbe rimasto incagliato in un basso fondale. Cosa sarebbe successo se quell’incidente fosse capitato di notte?

Istruzioni… per lo sbarco – Il Fusco – con il suo linguaggio semplice e scorrevole – ci racconta che in vista di Marsala e nell’imminenza dello sbarco, Garibaldi dà incarico a Nino Bixio, per il Lombardo, e al Colonnello Sirtori per il Piemonte, di dare attuazione a quanto disposto con il «Foglio d’ordini operativo», compilato già da qualche giorno a Talamone, e più specificatamente al paragrafo che diceva che nell’imminenza dello sbarco, ai volontari bisognava parlare chiaramente dell’estrema diffidenza e della focosa suscettibilità… «che caratterizzano il temperamento de’ siculi, sovra tutto per ciò che riguarda le loro donne: spose, promesse tali, sorelle, cognate, cugine, e perfino di più lontana e indiretta parentela. A scanso di complicanze gravissime, cruente e perfino ferali, i volontari una volta a terra, dovranno astenersi da intraprendenze inopportune, corteggiamenti e galanterie disdicevoli all’uso locale. Provvederanno alla Suddetta bisogna, salvo imprevisti, il signor Colonnello Sirtori, sul Piemonte, e il signor Luogotenente Bixio, sul Lombardo» (15).

Dopo aver divagato su altri particolari dell’episodio, così continua:

«Invece, sul Lombardo, Bixio, ch’è tutto l’opposto di Sirtori, c’inzuppa il pane. La tira in lungo. Dritto, a gambe larghe, al centro della ‘ radunanza’, la visiera del cheppì calata di traverso, fino a nascondere mezza faccia, ha l’aria di sfottere. E si diverte a inventare le spaventose torture, le indicibili crudeltà e le raccapriccianti efferatezze con le quali, a suo dire, i gelosissimi mariti Siciliani (e specialmente, purtroppo, quelli della zona dov’è previsto lo sbarco) sono soliti vendicare le corna. Non solo quelle già messe, ma anche quelle intenzionali. Amanti squartati, scorticati, bruciati e sepolti vivi. Corteggiatori affogati nel pozzo nero, inchiappettati da tutti i maschi del parentado e poi tritati come carne da polpette. Rivali mangiati allegramente, in famiglia, sotto forma di spezzatino, oppure bolliti, a fuoco lento, in enormi pignatte che i calderai dell’isola fabbricano appositamente… I volontari di primo pelo, o addirittura imberbi, ascoltano quelle atrocità sgranando gli occhi e non riescono a nascondere la fifa. Mentre i più maturi e scafati sogghignano (ma è più che altro una smorfia) ed l’aria di sfottere. E si diverte a inventare le spaventose torture, le indicibili crudeltà e le raccapriccianti efferatezze con le quali, a suo dire, i gelosissimi mariti Siciliani (e specialmente, purtroppo, quelli della zona dov’è previsto lo sbarco) sono soliti vendicare le corna. Non solo quelle già messe, ma anche quelle intenzionali. Amanti squartati, scorticati, bruciati e sepolti vivi. Corteggiatori affogati nel pozzo nero, inchiappettati da tutti i maschi del parentado e poi tritati come carne da polpette. Rivali mangiati allegramente, in famiglia, sotto forma di spezzatino, oppure bolliti, a fuoco lento, in enormi pignatte che i calderai dell’isola fabbricano appositamente… I volontari di primo pelo, o addirittura imberbi, ascoltano quelle atrocità sgranando gli occhi e non riescono a nascondere la fifa. Mentre i più maturi e scafati sogghignano (ma è più che altro una smorfia) ed ammiccano. Insomma, giovanotti, i Siciliani hanno molto dei beduini!, sentenzia Bixio, che sospira, sì, un’Italia libera e unita, dalle Alpi al Lilibeo, ma che non riesce a digerire gli Italiani da Roma in giù. Tant’è vero che, proprio come fra i bedù, il taglio delle balle è la vendetta preferita dei becchi siculi!» (16).

Perché abbiamo parlato di questo aneddoto, per la verità molto marginale rispetto ai grandi fatti che avvenivano in quel giorno? Per fare conoscere meglio chi realmente fossero i futuri liberatori della Sicilia. Evidenziando come fossero, già nel 1860, forti i pregiudizi e i malintesi fra le popolazioni del Centro-Nord Italia ed il Popolo Siciliano, Bixio fra lo scherzoso ed il serioso dà voce ed alimenta i motivi di divaricazione psicologica e di incompatibilità.

E così, scherzando scherzando, allunga ai Siciliani pure le accuse di cannibalismo e di pratiche sodomitiche. Non ci sembra molto bello per un padre della Patria, che avrebbe potuto approfittare dell’esperienza siciliana per imparare qualcosa di buono. Per quanto riguarda l’epiteto beduino dobbiamo arguire che questo doveva essere molto diffuso per offendere i Siciliani. Lo incontreremo infatti pure nel linguaggio del Bandi, il giovane ufficiale addetto al servizio personale di Garibaldi, che pure è più colto di Bixio. Per la verità il Bandi usa anche, come epiteto, la parola arabo, mancando così contemporaneamente di rispetto alla nazionalità Siciliana ed alla nazionalità Araba. Quest’ultima è infatti tirata in ballo come termine di paragone assolutamente negativo.

C’è tuttavia una considerazione da fare. Come si vede, pur trovandoci nell’imminenza dello sbarco, di tutto si parla, tranne che delle tattiche da adottare per quella che, in teoria, è una vera e propria operazione bellica.
A bordo delle due navi garibaldine si dà infatti per scontato che lo sbarco avverrà nelle migliori condizioni di tranquillità e di sicurezza. Si dà per scontato, insomma, che non si dovrà combattere per conquistare metro per metro la costa siciliana. Così come sarebbe stato logico, se non si fosse trattato essenzialmente di seguire un copione.

11 maggio 1860. Sbarco dei Mille a Marsala
scortati da due gigantesche navi da guerra

Vietato sparare sui Garibaldini! – Come abbiamo già anticipato, Garibaldi segue le istruzioni che gli prescrivono di sbarcare a Marsala. E così l’11 maggio il Lombardo ed il Piemonte, ansimando rumorosamente, entrano nella rada di Marsala, inseguiti ad una certa distanza dalle tre navi della Marina militare Duo-siciliana Partenope, Capri e Stromboli. Quest’ultima si colloca in posizione molto più avanzata, ed è peraltro comandata da uno degli ufficiali più brillanti della Marina Duosiciliana, che è notoriamente abilissimo nell’usare l’artiglieria. Non avrà rivali degni di lui probabilmente in tutto lo scorcio di secolo. Parliamo di Guglielmo Acton, che farà parlare di sé, in bene ed in male, per tutta la durata della Spedizione per la conquista della Sicilia. Ed anche dopo.

Garibaldi non si scompone. Anzi, dà l’ordine di andare diritto dentro il porto di Marsala. Sa quello che fa. Questo è il porto della sua salvezza. È sicuro di poter comunque sbarcare, senza che le navi nemiche lo cannoneggino.

Intanto, alla fonda, nel porto di Marsala, si trovano due navi da
guerra della Mediterranean Fleet di Sua Maestà Britannica: l’Argus e
l’Intrepid, comandate rispettivamente da Winnington Ingram e da Marryat. Sono due le navi poderose. Due vere fortezze del mare. Gli equipaggi sono quasi al completo sulla tolda come se dovessero assistere ad uno spettacolo; ma abbastanza all’erta per entrare in azione immediatamente pure loro, se fosse arrivato un ordine in tal senso.

L’Armata Garibaldina sbarca, sotto protezione… – Il primo a dare spettacolo, per la verità non bello, è il piroscafo garibaldino Lombardo che si incaglia in un basso fondale. Tuttavia l’Acton non ne approfitta: così come tutti i suoi colleghi, ha un ordine ben preciso: non creare incidenti con navi straniere, né tantomeno con la flotta militare britannica, che è peraltro la più potente del mondo. Sulle banchine del porto si nota intanto uno strano movimento: un ammuìno di operai, in una tuta rossa che sembra una divisa inglese, attorno alle produzioni dello stabilimento Wodehouse. Tutto programmato, tutto predisposto. Quegli operai creano, infatti, altra confusione.

Diversi, troppi mercantili Inglesi sono pure ancorati nel porto. Come si fa a sparare con i cannoni senza metterli in pericolo? Bandiere Inglesi sventolano sulle navi ed anche sulle case, sugli uffici, sugli stabilimenti del Wodehouse, degli Ingham e dei tanti imprenditori e cittadini britannici che vivono ed operano a Marsala. Ma le bandiere Inglesi sventolano allegramente anche sugli edifici di coloro che Inglesi non sono, come vedremo meglio più in là. Dice Antonio Rosada:

«Sembrava una kermesse britannica. […] In quel giorno di maggio, quando il Comandante della pirocorvetta di Sua Maestà siciliana “Stromboli” ebbe in pugno il destino del “Lombardo”, incagliato su bassi fondali, e con esse di metà della spedizione garibaldina, il timore reverenziale che gli incuteva la vista della bandiera britannica fu l’usbergo invisibile che si frappose per quasi un’ora fra i cannoni della nave napoletana ed il trasporto genovese che le imbarcazioni costiere vuotavano febbrilmente del suo carico umano».

L’Acton, ufficiale napoletano di origini Inglesi, aduso ad obbedire, da buon militare obbedisce agli ordini ricevuti, da un lato. Ma, dall’altro, sa di avere a portata di mano un bersaglio facilissimo: il Lombardo incagliato ed un altro bersaglio, un poco più difficile, il Piemonte. Né l’uno né l’altro sarebbero per lui un problema tecnico. L’uno e l’altro sono, però, un enorme, insormontabile, problema politico e diplomatico.

Fa armare i pezzi, ma non si decide ad ordinare il fuoco. Teme le conseguenze… Si accosta allora all’Intrepid e fa chiedere se gli uomini che si vedono sul molo siano per caso soldati o cittadini britannici. La risposta è
«no». Ma è seguita da un secco avvertimento: i comandanti dell’Intrepid e dell’Argus sono a terra. Non si può rischiare di colpirli.

Acton capisce bene cosa significhi quell’avvertimento. Guai, infatti, se fosse stato messo in pericolo uno solo dei tanti capelli dei due ufficiali Inglesi… L’Acton decide, quindi, di aspettare che i due comandanti ritornino a bordo. Il tempo, intanto, trascorre velocemente, a tutto vantaggio di Garibaldi e dei suoi Mille.

Finalmente arrivano i commanders Marryat e Winnington Ingram, che salgono a bordo dello Stromboli. Il tempo continua a trascorrere senza che il bravo tiratore, Acton, riesca a fare qualcosa. La visita degli Inglesi gli fa capire che le cose possono andare soltanto di male in peggio. I due commanders, infatti, gli fanno un’altra e più severa ammonizione: attenzione a non danneggiare gli opifici britannici e i loro dipendenti! Tanto peggio, inoltre, gli dicono, sarebbe colpire i mercantili Inglesi ormeggiati nel porto e che non hanno intenzione di muoversi fino a che non verranno venti più propizi.

Trevelyan ci dà una notizia precisa al riguardo:

«Il “Piemonte” gettò l’ancora al sicuro dentro il molo nel bel mezzo dei bastimenti mercantili Inglesi…». A bordo, come sappiamo, c’era Garibaldi.

Ai due commanders non piacciono neppure i timidissimi tiri radenti che l’Acton ha cominciato ad ordinare. Tiri a pelo d’acqua che finiscono a mare prima di raggiungere il molo, sollevando – questi sì – acqua e fango. Insomma, l’Acton si dimostra meno efficace (anzi più innocuo) di quanto non lo sia stato fino a quel momento.

Più pericoloso è, invece, il Comandante della Partenope, Cossovich, intanto sopraggiunto, che può sparare in direzione dei Garibaldini, ormai messisi al sicuro dietro l’antemurale del molo. La sua mitraglia, tuttavia, fa qualche piccolo danno ad alcuni tetti di Marsala ed una palla di cannone osa danneggiare due botti di vino nel baglio del Wodehouse. Gli Inglesi sono indignati per la grave provocazione e diffidano pure il Cossovich, che aveva potuto fare, fino a quel momento, un po’ meglio il proprio dovere, perché, almeno, non aveva ufficiali Inglesi a bordo.

Il ridicolo sbarco dei Garibaldini a Marsala – È appena il caso di dire che lo sbarco dei Mille, sotto tutela degli Inglesi, avviene senza che alcun Siciliano dia loro il benvenuto o batta loro le mani. È uno sbarco che non manca di aspetti ridicoli. Sembra, infatti, che non pochi Garibaldini del Lombardo siano stati presi in braccio dai poveri dipendenti Wodehouse e portati in barca e a terra, fra una bestemmia e l’altra. Ai Duosiciliani, purché non facciano danno, viene consentito di sparare fino a sera, evitando però le proprietà e le navi Inglesi, secondo diffida. Vale a dire: si può sparare soltanto in aria e a mare. Poi, le autorità Inglesi daranno l’alt…

Si è fatto tardi. Non si può esagerare! – Mentre il buon Garibaldi ringrazia Dio e gli Inglesi per la grazia ricevuta, è opportuno fare qualche riflessione sulla vicenda dello strano sbarco.

Abbiamo già parlato dell’Acton e della sua Stromboli, efficientissima fregata forzatamente inoperosa. Abbiamo parlato del Cossovich, bravo o no che fosse, il quale riuscì almeno a sparare qualche colpo di mitraglia verso il porto, facendo indignare gli Inglesi. Insomma, la Partenope qualche fastidio riuscì a darlo, se non altro alla quiete pubblica. Fu l’unica, probabilmente.

Di Mariano Caracciolo, Comandante del Capri e della sua nave, non abbiamo ancora detto nulla. Precisiamo soltanto che i fatti successivi confermeranno la fondatezza di ciò che il Buttà insinua. E cioè che il Caracciolo non avrebbe sparato, dalla sua «Capri», neppure un colpo, perché in tal senso si era «appattato» con Garibaldi o con chi per lui.

L’affaire Marsala non finisce di stupire. – Se si andasse veramente a fondo si finirebbe con il mandare a picco i Padri della Patria e la mitologia risorgimentale. Lo dimostrano tutti quelli che, con un minimo di sincerità, parlano di quell’avvenimento. Così Padre Buttà descriverà la scena dello sbarco:

«Due legni Inglesi fecero la spia contro i Regi, e protessero lo sbarco di Garibaldi. Tre piroscafi di guerra Napoletani, che si trovavano in crociera nelle acque di Marsala, presero il largo fino a che non fosse stato effettuato quello sbarco. Uno dei piroscafi, il Capri, era comandato da Marino Caracciolo; il quale, come rilevasi dalla “Difesa Nazionale” di Tommaso Cava, a pag. 101, volle poi tenuto al fronte battesimale un figlio da Garibaldi, e costui, memore dei servizi ricevuti da quello in Marsala, accettò, con piacere, di farsi compare col primo che tradì Francesco II. Marino Caracciolo è quello stesso che poi entrò nel forte di Baia e prese possesso a nome del compare. Un altro legno era comandato da Guglielmo Acton, poi Ministro del Regno d’Italia».

E conclude, il Buttà, molto amareggiato:

«Nello sbarco di Marsala tanto celebrato da’ rivoluzionari, nulla trovo di straordinario, e neppure potrebbe dirsi audace». (1)

Lo sbarco a Marsala è una pagina di storia di cui vergognarsi? – Non diverse sono le stranezze che si riscontrano in ciò che è avvenuto intanto nella città di Marsala. Insomma: la commedia continua! Abbiamo già parlato della fiera ostentata indifferenza della cittadinanza tutta di Marsala, senza una sola eccezione. Ma c’è un aspetto particolare dei fatti che cercheremo di evidenziare, approfittando ancora dell’aiuto di padre Buttà.

Come mai nel regime poliziesco ed oppressivo dei Borbone in una città importante come Marsala (porto, produzione industriale, commercio, presenza di una comunità inglese numerosa, operosa, ricca, importante, ecc.) in un contesto così delicato, non si trova in quel momento un solo soldato Duosiciliano? Uno qualunque di quegli innumerevoli soldati Duosiciliani che alcuni operatori dell’agiografia risorgimentale ci fanno quasi sempre trovare, crudeli, cattivi e ben armati, nonché miseramente sconfitti dai valorosi Garibaldini («buoni, questi, ed inferiori numericamente e pressoché disarmati o male armati…»).

La spiegazione è semplicissima. La lasciamo dare allo stesso Buttà.
«Egli (Garibaldi) sbarcò a Marsala, quando già sapeva che la guarnigione era stata mandata a Girgenti (cioè ad Agrigento) per ordine del Comando Generale di Palermo:

quella guarnigione di un battaglione di “Carabinieri a piedi”, comandati dal Colonnello Francesco Donati, sembrò pericolosa allo sbarco garibaldesco e due giorni prima fu mandata altrove» (2).

Ed è vero. Gli alti ufficiali della Luogotenenza di Palermo, ben manovrati dai servizi segreti britannici, in previsione dell’arrivo dei Mille e ben sapendo quanto fosse importante che lo sbarco avvenisse nel migliore dei modi, avevano ordinato al Colonnello Donati di trasferirsi con la guarnigione tutta ad Agrigento. Cosa, questa, confermata da Padre Buttà, come ben sappiamo.
La responsabilità maggiore di tale disposizione sembrerebbe attribuibile al Generale Giuseppe Letizia (3).

(3) Chi era Letizia? Un Generale che incontreremo ancora molte volte e del quale, pertanto, anticipiamo qualche notizia biografica. Era nato a Napoli nel 1794. Ufficiale dell’Esercito Napoletano, ai tempi di Gioacchino Murat, aveva partecipato alle battaglie napoleoniche di Lutzen e Bautzen. Nell’ultima battaglia era stato pure ferito. Con la restaurazione borbonica fu radiato dall’esercito dal 1816 al 1820. In quest’ultimo anno venne riammesso in servizio in tempo per partecipare alle azioni dell’Armata Borbonica contro la rivoluzione siciliana e gli indipendentisti Siciliani, fu addirittura Aiutante di campo di Florestano Pepe. La cosa non deve meravigliare perché allora – così come avverrà in seguito – fra reazionari Borbonici e carbo- nari-liberali-unitari esisteva identità di vedute contro l’indipendenza della Sicilia. Il Letizia fu coinvolto in varie congiure carbonare e fu, quindi, nuovamente sospeso dal servizio e dal grado. Le raccomandazioni (e la tolleranza dei Borbone), però, fecero sì che lo stesso fosse, nel 1848, riammesso un’altra volta nell’esercito delle Due Sicilie. Non si tratta, quindi, di un Generale pavido e inetto, come talvolta la storiografia ufficiale lo vuole fare apparire, ma di un Generale ideologicamente ostile alla causa del Regno delle Due Sicilie ed agli stessi Borbone. Inaffidabile, certamente. E disponibile nei confronti del nemico. Anticipiamo qualche notizia sulla sua carriera successiva. Nel 1861 il Generale, ex borbonico, Letizia diventerà Generale effettivo dell’Esercito Italiano. Non fu l’unico, per la verità. Ma il suo fu un trattamento di eccezionale favore, se si considera che il Letizia, al momento dello sbarco di Garibaldi a Marsala, aveva già compiuto 66 anni. Età rispettabile anche oggi, ma che allora era considerata molto avanzata. Qualche benemerenza, nei confronti dei vincitori, il Letizia doveva pure averla. Almeno abbiamo il diritto di sospettarlo. E i sospetti aumenteranno quando, fra poco, lo vedremo a Palermo trattare con Garibaldi. E mai, come in questo caso specifico, il sospetto ci è sembrato l’anticamera della verità. Dobbiamo, con l’occasione, rivolgere un grato pensiero al grande studioso meridionale Roberto Maria Selvaggi, morto recentemente, per le notizie che ci ha fornito sul Generale Letizia e su moltissimi altri ufficiali dell’Esercito Duosiciliano, nel libro Nomi e volti di un esercito dimenticato. Gli ufficiali dell’Esercito napoletano del 1860- 61, Grimaldi, Napoli, 1990.

(13) Cesare Cantù nacque a Brivio (in provincia di Como) l’8 dicembre 1804. Cattolico ed antiaustriaco, fu, per la sua attività sovversiva, arrestato per un breve periodo dalla polizia del Lombardo-Veneto. Amico del Manzoni, scrisse alcuni commenti storico letterari ai Promessi Sposi. Le sue opere maggiori sono, tuttavia: La storia universale (1838-1846), in 35 volumi, Storia degli Italiani, Gli eretici d’Italiani, Il Conciliatore e i Carbonari, Ragionamento sulla storia lombarda del secolo XVII, ed altri testi a carattere storiografico. Critico verso il liberi- smo laico, fu deputato al Parlamento italiano, prima a Torino e poi, dopo il trasferimento della Capitale d’Italia, a Firenze, per 6 anni, nel periodo che va dal 1861 al 1867.

(14) Malta, com’è noto, era dal 1800 un possedimento inglese.

(15) G. Fusco, op. cit., pagg. 25 e 26.

(16) G. Fusco, op. cit., pagg. 26 e 27.

(1) G. Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, Memorie della rivoluzione dal 1860 al 1861, Bompiani, Milano, marzo 1985, pag. 330.

(2) G. Buttà, op. cit., ibidem.

(3) Chi era Letizia? Un Generale che incontreremo ancora molte volte e del quale, pertanto, anticipiamo qualche notizia biografica. Era nato a Napoli nel 1794. Ufficiale dell’Esercito Napoletano, ai tempi di Gioacchino Murat aveva partecipato alle battaglie napoleoniche di Lutzen e Bautzen. Nell’ultima battaglia era stato pure ferito. Con la restaurazione borbonica fu radiato dall’esercito dal 1816 al 1820. In quest’ultimo anno venne riammesso in servizio in tempo per partecipare alle azioni dell’Armata Borbonica contro la rivoluzione siciliana e gli indipendentisti Siciliani, fu addirittura Aiutante di campo di Florestano Pepe. La cosa non deve meravigliare perché allora – così come avverrà in seguito – fra reazionari Borbonici e carbonari-liberali-unitari esisteva identità di vedute contro l’indipendenza della Sicilia. Il Letizia fu coinvolto in varie congiure carbonare e fu, quindi, nuovamente sospeso dal servizio e dal grado. Le raccomandazioni (e la tolleranza dei Borbone), però, fecero sì che lo stesso fosse, nel 1848, riammesso un’altra volta nell’esercito delle Due Sicilie. Non si tratta, quindi, di un Generale pavido e inetto, come talvolta la storiografia ufficiale lo vuole fare apparire, ma di un Generale ideologicamente ostile alla causa del Regno delle Due Sicilie ed agli stessi Borbone. Inaffidabile, certamente. E disponibile nei confronti del nemico. Anticipiamo qualche notizia sulla sua carriera successiva. Nel 1861 il Generale, ex borbonico, Letizia diventerà Generale effettivo dell’Esercito Italiano. Non fu l’unico, per la verità. Ma il suo fu un trattamento di eccezionale favore, se si considera che il Letizia, al momento dello sbarco di Garibaldi a Marsala, aveva già compiuto 66 anni. Età rispettabile anche oggi, ma che allora era considerata molto avanzata. Qualche benemerenza, nei confronti dei vincitori, il Letizia doveva pure averla. Almeno abbiamo il diritto di sospettarlo. E i sospetti aumenteranno quando, fra poco, lo vedremo a Palermo trattare con Garibaldi. E mai, come in questo caso specifico, il sospetto ci è sembrato l’anticamera della verità. Dobbiamo, con l’occasione, rivolgere un grato pensiero al grande studioso meridionale Roberto Maria Selvaggi, morto recentemente, per le notizie che ci ha fornito sul Generale Letizia e su moltissimi altri ufficiali dell’Esercito Duosiciliano, nel libro Nomi e volti di un esercito dimenticato. Gli ufficiali dell’Esercito napoletano del 1860- 61, Grimaldi, Napoli, 1990.

Fine quinta puntata/ Continua

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La casta degli storici che non insegna nulla

Posted by on Apr 29, 2019

La casta degli storici che non insegna nulla


Gli accademici snobbano tutti i libri contro la versione “ufficiale” da loro accreditata.
E così i revisionisti impazzano: il caso dell’anti-risorgimento
di Marcello Veneziani

Egregi storici di professione che liquidate con disprezzo i testi e le persone che a nord e a sud criticano il Risorgimento e ne descrivono massacri e malefatte, dovreste tentare un’autocritica onesta e serena. So che è difficile chiedere a molti di voi l’umiltà di rimettere in discussione le vostre pompose certezze e il vostro sussiego da baroni universitari, ma tentate uno sforzo. Se oggi escono libri e libercoli a volte assai spericolati, poco documentati e rozzi nelle accuse, nostalgici del passato preunitario, lo dobbiamo anche a voi. Se nei libri di testo e di ricerca, se nei corsi di scuola e d’università, se nei convegni e negli interventi su riviste e giornali, voi aveste scritto, studiato e documentato i punti oscuri del Risorgimento, oggi non ci troveremmo a questo punto. E invece quasi nessuno storico di professione e d’accademia, nessun istituto storico di vaglia ha mai sentito il dovere e la curiosità di indagare su quelle «dicerie» che ora sbrigate con sufficienza.
Ho letto e ascoltato con quanto fastidio – e cito gli esempi migliori – Giuseppe Galasso, Galli della Loggia, Lucio Villari parlano della fiorente pubblicistica sul brigantaggio, i borboni, i massacri piemontesi e i lager dei Savoia. Ne parlano con sufficienza e scherno, quasi fossero accessi di follia o di rozza propaganda. Poi non si spiegano perché tanta gente affolla e plaude i convegni sull’antirisorgimento, a nord o a sud, e disprezza il Risorgimento, se un libro come Terroni di Pino Aprile sale in cima alle classifiche, se nessuno sa dare una spiegazione e una risposta adeguate alle accuse rivolte ai padri della patria. Curioso è il caso di Galasso che prima accusa i suddetti antirisorgimentali di scrivere sciocchezze e poi dice che erano cose risapute; ma allora sono vere o no, perché non affrontarle per ricostruirle correttamente o per confutarle? Ed è un po’ ridicolo criticare le imprecisioni altrui, ridurle ad amenità, e poi non batter ciglio se il suo articolo, professor Galasso, viene titolato sul Corriere della Sera «Nel sud preunitario», mentre il brigantaggio di cui qui si tratta si riferisce all’Italia postunitaria. Par condicio delle amenità.
Ma il problema riguarda tutto un ceto di storici boriosi, che detengono il monopolio accademico e scolastico della memoria. Perché avete rimosso, non vi siete mai cimentati col tema, non volete sottoporvi alla fatica di rimettere in discussione quel che avete acquisito e sostenuto una volta per sempre? Detestate i confronti e perfino la ricerca che dovrebbe essere il vostro pane e il vostro sale. Il risultato è che per molta gente questi temi sono scoperte inedite.
Per la stessa ragione, non è possibile trovare sui libri di storia, nei testi scolastici e universitari o nei vostri interventi sui giornali, le pagine infami che seguono alla rivoluzione napoletana del 1799 con intere città messe a ferro e fuoco, migliaia di morti ad opera dei giacobini rivoluzionari. Celebrate i collaborazionisti delle truppe francesi ma omettete i loro massacri, le città rase al suolo. Non è ideologica anche la vostra omertà? O ancor peggio, poi non vi spiegate, voi storici titolati del Novecento, perché libri come quelli di Giampaolo Pansa esplodano in libreria con centinaia di migliaia di lettori: ma perché voi, temendo l’interdizione dalla casta, non avete avuto il coraggio di riaprire le pagine sanguinose della guerra partigiana, il triangolo rosso e gli eccidi comunisti. Così fu pure per le foibe. Poi con disprezzo accademico sbrigate questi libri come pamphlet giornalistici, roba volgare e imprecisa. Ma quei morti ci sono stati sì o no, e chi li uccise, e perché? Quelle ferite pesano ancora nella memoria della gente sì o no? Che coesione nazionale avremo, caro Galli della Loggia, nascondendo vagoni di scheletri negli armadi?
Sul Risorgimento non avete il coraggio di rispondere a quelle domande e così contribuite in modo determinante a rendere le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia come uno stanco rituale, estraneo agli italiani, dominato dai tromboni e dalle stucchevoli oleografie. Salvo poi scrivere stupefatti e indignati che il Paese non partecipa, è assente, è refrattario. Ma non vi accorgete che lo diventa se continuate con il vostro manierismo e le vostre omissioni?
Come forse sapete, sono tutt’altro che un detrattore del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, anzi sono un fautore di lunga data dell’identità italiana, quando eravamo davvero in pochi a difenderla. Sono convinto che il processo unitario fosse necessario, che molti patrioti fossero ardenti e meritevoli d’onore, e che l’idea stessa di unire l’Italia fosse il sacrosanto coronamento di un’identità, di una storia, vorrei dire di una geografia, di una cultura e di una lingua antiche. Ma per rendere autentica quell’unità non possiamo negare le sue pagine oscure e pure infami, non possiamo negare le sofferenze che ne seguirono e lo sprofondare del sud nei baratri della miseria, della malavita e dell’emigrazione. Quella malavita organizzata che dette una mano ai garibaldini come poi agli sbarchi americani. Sono convinto che l’Unità d’Italia non portò solo guai ma modernizzò il Paese, lo alfabetizzò e lo fece sviluppare; e considero meritevoli di rispetto i cent’anni e passa che seguirono all’Unità d’Italia, la nascita dello Stato italiano e di una dignitosa borghesia di Stato, la graduale integrazione dei meridionali nello Stato, il loro grande contributo alla scuola e all’università, alle prefetture e alle forze dell’ordine, alla magistratura e all’alta dirigenza dello Stato, all’impiego pubblico e militare. Non possiamo buttare a mare più di un secolo di storia per qualche decennio finale di parassitismo.
Ma bisogna avere il crudo realismo di narrare anche l’altra faccia della storia; per amor di verità, per rispetto di quei morti e per riportare dentro l’Italia gli eredi di coloro che subirono l’Unità. Perché resta ancora da costruire un’Italia condivisa e non da dividere un’Italia già costruita.
Sul Risorgimento non avete il coraggio di rispondere a quelle domande e così contribuite in modo determinante a rendere le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia come uno stanco rituale, estraneo agli italiani, dominato dai tromboni e dalle stucchevoli oleografie. Salvo poi scrivere stupefatti e indignati che il Paese non partecipa, è assente, è refrattario. Ma non vi accorgete che lo diventa se continuate con il vostro manierismo e le vostre omissioni?
Come forse sapete, sono tutt’altro che un detrattore del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, anzi sono un fautore di lunga data dell’identità italiana, quando eravamo davvero in pochi a difenderla. Sono convinto che il processo unitario fosse necessario, che molti patrioti fossero ardenti e meritevoli d’onore, e che l’idea stessa di unire l’Italia fosse il sacrosanto coronamento di un’identità, di una storia, vorrei dire di una geografia, di una cultura e di una lingua antiche. Ma per rendere autentica quell’unità non possiamo negare le sue pagine oscure e pure infami, non possiamo negare le sofferenze che ne seguirono e lo sprofondare del sud nei baratri della miseria, della malavita e dell’emigrazione. Quella malavita organizzata che dette una mano ai garibaldini come poi agli sbarchi americani. Sono convinto che l’Unità d’Italia non portò solo guai ma modernizzò il Paese, lo alfabetizzò e lo fece sviluppare; e considero meritevoli di rispetto i cent’anni e passa che seguirono all’Unità d’Italia, la nascita dello Stato italiano e di una dignitosa borghesia di Stato, la graduale integrazione dei meridionali nello Stato, il loro grande contributo alla scuola e all’università, alle prefetture e alle forze dell’ordine, alla magistratura e all’alta dirigenza dello Stato, all’impiego pubblico e militare. Non possiamo buttare a mare più di un secolo di storia per qualche decennio finale di parassitismo.
Ma bisogna avere il crudo realismo di narrare anche l’altra faccia della storia; per amor di verità, per rispetto di quei morti e per riportare dentro l’Italia gli eredi di coloro che subirono l’Unità. Perché resta ancora da costruire un’Italia condivisa e non da dividere un’Italia già costruita.

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Da “Storia di un Regno maltrattato” tratto da “IL GIORNALE INDIPENDENTE DEL MEZZOGIORNO”

Posted by on Apr 29, 2019

Da “Storia di un Regno maltrattato” tratto da “IL GIORNALE INDIPENDENTE DEL MEZZOGIORNO”

Le follie del generale borbonico Lanza, così Garibaldi conquistò Palerm…o.

Il 15 maggio soldati borbonici e volontari garibaldini si scontarono per la prima volta a Calatafimi.
Se Garibaldi avesse avuto la sfortuna di incontrare un generale appena appena un pò piú accorto, probabilmente sarebbe stato subito ricacciato in mare e la sua avventura avrebbe conosciuto con immediatezza la parola fine.
Invece ebbe la fortuna di imbattersi nel generale Lanza, un generale indeciso a tutto.

Mentre Garibaldi si inoltrava nell’isola, il comando borbonico di Palermo non fu in grado di reagire con prontezza, temendo inoltre di una rivolta in città.

L’11 maggio, saputo dello sbarco, il principe di Castelcicala aveva avvisato il governo di Napoli, chiedendo rinforzi da far sbarcare a Marsala. Nell’attesa del loro arrivo aveva mandato incontro agli sbarcati il generale Landi che si trovava nei pressi di Alcamo, mentre un’altra colonna armata era pronta a Trapani.

Landi giunse ad Alcamo la mattina del 12 maggio, dove sostò per 24 ore. I rinforzi richiesti a Napoli invece di sbarcare a Marsala come dovuto, sbarcarono il 14 a Palermo andando ad ingrossare la già numerosa guarnigione della città, rimanendo inattivi ed inutili.
II giorno prima comunque, Castelcicala visto che i rinforzi non giungevano aveva dato ordine a Landi, di agire.
Francesco Landi era figlio di militari e allievo dell’accademia militare, nel 1806 si iscrisse alla carboneria partecipando ai moti del 1821. Espulso dall’esercito fu riammesso nel 1832.

Allo sbarco del nizzardo, fu inviato proprio lui ad affrontarlo. Invece che a cavallo alla testa delle truppe, era costretto dagli acciacchi ad utilizzare una carrozza per gli spostamenti, questo per dare l’idea dell’antitesi di un militare.
Terrorizzato dal pensiero di affrontare il nemico, arrivò allo scontro con forze superiori e ne impiegò a malapena un terzo.

Morì con l’accusa infamante di traditore. Una figura trattata male da entrambe le parti, dai vincitori che lo volevano inetto e dai borbonici che ne vedevano un traditore per spiegarsi meglio le sconfitte subite con un esercito forte e preparato.
Landi, estremamente prudente, decise di attendere il nemico a Calatafimi, in posizione molto vantaggiosa. Attorno a sé aveva il vuoto: il telegrafo con i fili tagliati; le campagne piene di briganti che non attaccavano le truppe, ma rubavano e numerosi cecchini pronti a sparare a lupara.
Nella mattinata del 15 maggio, i Mille diventati nel frattempo circa 1500 presero la strada per Palermo.

Divisi in due battaglioni ebbero come capi uno il genovese Nino Bixio, l’altro il palermitano Giacinto Carini.
Garibaldi giunse a Calatafimi verso alle 9 antimeridiane e informato da contadini della presenza dell’esercito, fece schierare i suoi uomini a semicerchio sul monte Pietralunga, che dominava la strada per Calatafimi, appena fuori di esso, coperti dalle siepi di fichi d’India. I napoletani pensarono di avere di fronte solo un piccolo gruppo di insorti, dato che molti non indossavano neppure la mitica camicia rossa, ma abiti civili.

Mentre Landi era rimasto a Calatafimi con una riserva di 1600 uomini, il palermitano tenente colonnello Francesco Sforza, si lanciò all’attacco.
Egli disponeva di truppe bene addestrate ed armate di moderne carabine rigate.
I garibaldini risposero con un tiro preciso correndo giù dal colle in formazione obliqua, disperdendosi solo quando entrò in azione l’artiglieria. Questa manovra ben coordinata produsse nei napoletani una grossa impressione:

Essi pensavano di avere di fronte i soliti ribelli privi di ogni capacità militare, invece avevano di fronte elementi con un certo grado di addestramento. La parte più pericolosa per i garibaldini era lo spazio che dovevano percorrere nella vallata piana sottostante, dove erano totalmente scoperti e al tiro d’artiglieria e di fucileria del nemico piazzato in alto sul colle di fronte.

Arrivati anche i bergamaschi di Cairoli, fu sferrato il primo assalto che fu respinto. Una ventina di garibaldini rimasero sul terreno. Un secondo assalto ebbe lo stesso esito. Poi giunsero dei rinforzi guidati da un Bixio scatenato. Con il suo cavallo correva dappertutto, preso di mira da numerose carabine napoletane, ma miracolosamente illeso.

I gradoni del colle offrivano angoli morti che furono sfruttati dai garibaldini per coprirsi e per colpire i napoletani appostati sul ciglio superiore, i quali venivano centrati quasi tutti in testa. Così, malgrado il fuoco terrificante delle carabine napoletane, le camice rosse avanzarono, conquistando alla baionetta il primo gradone. I regi si riordinarono sul secondo gradone.

Qui respinsero un assalto portato nel centro da una cinquantina di armati guidati personalmente da Garibaldi. AI tentativo di aggiramento dei napoletani, Garibaldi gli si scagliò sopra con un gruppo di camice rosse e li respinse sul terzo ed ultimo gradone.

Da attaccanti si ritrovarono assediati. Alle tre del pomeriggio Garibaldi lanciò l’assalto definitivo e Landi invece di mandare sul campo di battaglia i 1600 uomini freschi che si sarebbero mangiati gli stanchi ribelli in un boccone, fece suonare la ritirata.

I garibaldini avevano superato la prima prova grazie ad un grande coraggio ed una grande motivazione, malgrado il loro armamento scadente e una posizione strategica svantaggiosa specie nella seconda fase della battaglia.

Decisiva fu la differenza di qualità dei capi, cosa che sarà sempre più evidente man mano che l’impresa andò avanti: Garibaldi aveva un carisma ed una determinazione ignota a Landi e dei collaboratori all’altezza della situazione.

Le perdite dei garibaldini furono di 25 morti, circa 200 fra feriti gravi e leggeri; quelle napoletane furono di 35 morti, 110 feriti. La battaglia di Calatafimi, di per sé di poco conto, fu decisiva invece dal punto di vista del morale infiammando i siciliani più diffidenti o conservatori.

La Sicilia era presidiata da un consistente numero di soldati bene addestrati ed armati, ma se questi stessi soldati in combattimento, da una posizione addirittura vantaggiosa erano riusciti a perdere per imperizia dei loro capi, si capirà bene che la conclusione dell’impresa non potesse che essere favorevole ai rivoltosi.
In questa battaglia nacque il mito dell’imbattibilità di Giuseppe Garibaldi.

Da “Storia di un Regno maltrattato”

IL GIORNALE INDIPENDENTE DEL MEZZOGIORNO

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La vera storia dell’impresa dei Mille 4/ Da Talamone con vento in poppa alla volta di Marsala

Posted by on Apr 27, 2019

Dopo le prime tre puntate di questo libro scritto da Giuseppe ‘Pippo’ Scianò, leader storico degli Indipendentisti siciliani si comincino ad avvertire i primi musi storti. Della serie: “Ma come si permettono questi a mettere in dubbio la storia raccontata dagli storici?”. Li vogliamo tranquillizzare: gli ‘storici’, sul Risorgimento nel Sud Italia – e segnatamente sull’impresa dei Mille – hanno raccontato un sacco di bugie. Man mano che il racconto di questo libro andrà avanti ci sarà da divertirsi…   

di Giuseppe Scianò

Una originale parata militare… – Non mancherà, al centro della piazza di Talamone, una bella parata militare (o quasi), alla quale tutti i Garibaldini partecipano. Molti sono in camicia rossa. Non tutti. Nel corso della manifestazione ha luogo la lettura dell’ordine del giorno «Italia e Vittorio Emanuele» del quale abbiamo parlato.

Il momento più solenne è quello del sermone di Garibaldi, ricco di retorica patriottarda, sulla cui sincerità gli abitanti di Talamone cominciano a nutrire qualche dubbio. Finita la cerimonia, i Garibaldini si scatenano fra le vie del paese.

A questo punto non possiamo che constatare come se ne sia andato allegramente a quel paese il piano accuratamente preparato a monte, di far credere all’opinione pubblica internazionale che i comandanti della guarnigione di Talamone abbiano fornito le armi a Garibaldi soltanto perché ingannati dal Duce dei Mille travestito da ufficiale piemontese. Per il seguito più immediato della vicenda, ci affidiamo ancora una volta ad un pezzo di Giancarlo Fusco:

«Scende la sera. Traluce, dalle finestre, il giallore dei lumi a petrolio e dei candelotti a sego. Una tromba, da chissà dove, modula le note malinconiche della ritirata. Il Generale è già tornato a bordo. Ma il trombettiere, stasera, spreca il suo fiato. Le stradette di Talamone, i cortili, gli orti dietro le case, la piazza centrale e gli spalti affacciati al mare sono in piena battaglia. I futuri eroi di Calatafimi e di Ponte dell’Ammiraglio ribolliscono, su e giù, come fagioli in pentola. Si pestano fra monarchici e mazziniani, fra repubblicani unitari e con federalisti, fra monarchici intransigenti e monarchici provvisori. Già che ci sono, se le danno anche per motivi campanilistici; bergamaschi con bresciani, pavesi con milanesi, veronesi con padovani, i romagnoli un po’ con tutti. Ma tutti, a tratti, fanno fronte comune contro gli uomini di Talamone. Ai quali non va assolutamente giù che le ragazze e le sposine debbano difendersi con le unghie e con la fuga, già mezze discinte, dagli assalti e dagli aggiramenti delle assatanate ‘’camice rosse’’.
‘Annate al paese vostro, a fa’ le porcate, pelandroni!’.

‘Ma indove v’ha raccattato Garibaldi? In galera?’.
‘Altro che l’Italia volete fa’! Ve volete fa’ le donne nostre!’ .
‘Con la manfrina della patria, annate in giro a rovina’ le zite!’.
Un inferno. Inutili le trombe. Inutili il correre a destra e a sinistra degli ufficiali. Vane le minacce di arresti, di espulsione dal corpo e di ferri. Finché, avvertito, scende a terra Garibaldi. I suoi occhi chiari sembrano di ghiaccio. Brandisce la spada sguainata, rivolge agli ufficiali, pallidi e avviliti, rimproveri pesanti, quasi feroci:
‘Chi vi ha cucito i grandi sulle maniche, rammolliti! Avete le sciabole al fianco e non sapete tirarle fuori! Cominciamo bene! Credete che non sappia ordinare una decimazione?’ .
Poi, al centro della piazza principale, a gambe larghe, con la spada puntata al cielo già stellato, grida con tutto il suo fiato:
‘ A bordo!’ ». (11)

Avviene così – ci spiega il Fusco – che la gazzarra nel giro di pochi minuti si spenga. E che i valorosi Garibaldini si «ricompongano» nell’aspetto e nelle uniformi, e che, a poco a poco, risalgano sulle barche che li riporteranno a bordo dei due piroscafi. Un altro pezzo della «tragicommedia» è stato bene o male recitato (più male che bene, per essere sinceri).

Non è il caso di aggiungere altro. I fatti si commentano da sé.

Zambianchi sconfitto da contadini e gendarmi dello Stato Pontificio – Durante la sosta a Talamone, una sessantina di volontari vengono inviati verso i confini dello Stato Pontificio. Sono guidati da Callimaco Zambianchi, un ufficiale anziano che già negli anni 1848-1849 si era fatto onore a Roma. Non a caso lo stesso Abba lo definisce «…uno sterminatore di monaci, sanguinario».(12)

Il Macaulay Trevelyan precisa che lo Zambianchi «era un uomo di proporzioni e forza fisica immensa, probabilmente un sincero patriota ma uno spavaldo e un ribaldo e, se non un codardo, per le meno un arruffone incompetente, […] oltre che sterminatore di preti a Roma nel 1849».
Comunque la spedizione contro il Papa non avrà la solita fortuna. I Garibaldini vengono accolti, intanto, con diffidenza o con ostilità da parte della popolazione. Arrivano poi i Gendarmi Pontifici. Alle loro prime schioppettate, Zambianchi ed i suoi uomini se la danno a gambe disperdendosi per le campagne.
Non erano queste le aspettative. Gli «eroi» avevano sperato di andare ben oltre, tanto che Garibaldi aveva aggregato alla piccola spedizione ben tre medici.

Pessima, quindi, la figura con gli Inglesi, i quali avranno apprezzato il taglio politico dato alla spedizione, ma non lo squallido esito. Anzi gli Inglesi si sarebbero ulteriormente convinti del fatto che, se non si fossero preoccupati di controllare e di seguire nei minimi particolari le azioni rivoluzionarie e militari degli eroi del Risorgimento Italiano, questi ultimi avrebbero continuato a fare dei grandi pasticci. E soltanto pasticci.

Caricando le armi – La mattina del 9 maggio Garibaldi ed i suoi uomini, tutti ormai a bordo del Piemonte e del Lombardo, la trascorrono quasi interamente a caricare armi e viveri. Ed anche acqua, molta acqua. È un via vai di barche stracariche che fanno la spola fra la banchina e i due piroscafi. I barcaroli non sono, però, volontari né simpatizzanti. Hanno i loro ritmi ed una paga modesta. Lo intuisce Bixio che grida loro:
«Venti franchi ogni barile, se me li portate prima delle undici!».
«I barcaioli fanno forza di braccia e le barche volano», scrive in proposito Giuseppe Cesare Abba.
Insomma il denaro, specialmente in valuta straniera, comincia a fare i suoi miracoli.
Ed i Garibaldini ne sono ben provvisti…

Le navi garibaldine si fermano a poche miglia dal porto di Marsala… – Da Talamone alla Sicilia la navigazione dei Garibaldini non ha problemi. Vento in poppa in tutti i sensi. Anche se i Garibaldini fossero intercettati dai Duosiciliani, che peraltro dispongono di una buona Marina Militare, non succederebbe niente di grave. Le due navi, pur se rubate, hanno, infatti, le… carte in regola.

Come ci ricorda, infatti, lo storico Cesare Cantù,(13) Garibaldi navigava
«regolarmente munito di patente per Malta».(14) Non è un salvacondotto di poco conto quel documento, perché Malta era un territorio inglese. E gli Inglesi, si sa, sono permalosi e pretestuosi nei confronti del Regno delle Due Sicilie, quanto (se non di più) il lupo di esopiana memoria nei confronti dell’agnello. Poca importanza ha il fatto che il Lombardo ed il Piemonte abbiano dichiarato una destinazione diversa o che portino a bordo gente armata ed in procinto di sbarcare in Sicilia.

Guai a fermare quei due vapori. Si sarebbe anticipato quello che sarebbe realmente accaduto, di lì a poco, alla spedizione Corte della quale parleremo più avanti. Gli Inglesi avrebbero gridato alla violazione del diritto internazionale da parte del perfido Re delle Due Sicilie!

È appena il caso di ricordare quindi che il compito di scorta dell’Ammiraglio Persano è assolutamente privo di rischi. La flotta militare sabauda, ovviamente, si discosterà soltanto quando il Lombardo e il Piemonte saranno entrati nelle acque territoriali Duo-siciliane. Per recarsi, però, anch’essa nelle acque del porto di Palermo per dare manforte alle manovre di conquista della Sicilia.

Dubbio di Garibaldi: sbarcare col buio o no? – Dopo una navigazione più che tranquilla, i due piroscafi arrivano a poche miglia dalla Sicilia, di fronte alla costa marsalese. Per la verità lo sbarco a Marsala potrebbe avvenire anche nello stesso giorno: 10 maggio 1860… Ma ormai si avvicina la sera e Garibaldi ritiene che non sia prudente sbarcare al buio che, a suo giudizio, potrebbe, sì, anche giovare perché gli consentirebbe di non essere avvistato dai nemici, se non troppo tardi. Però il Nizzardo sa bene che il buio ha un inconveniente. Quello, cioè, di non far vedere bene, di non far riconoscere le persone e le bandiere, di non far vedere dove si mettono i piedi o… le navi.

Prudenza doverosa da parte di un buon vecchio marinaio, soprattutto se si considera che il Lombardo, in pieno giorno, l’indomani, sarebbe rimasto incagliato in un basso fondale. Cosa sarebbe successo se quell’incidente fosse capitato di notte?

Istruzioni… per lo sbarco – Il Fusco – con il suo linguaggio semplice e scorrevole – ci racconta che in vista di Marsala e nell’imminenza dello sbarco, Garibaldi dà incarico a Nino Bixio, per il Lombardo, e al Colonnello Sirtori per il Piemonte, di dare attuazione a quanto disposto con il «Foglio d’ordini operativo», compilato già da qualche giorno a Talamone, e più specificatamente al paragrafo che diceva che nell’imminenza dello sbarco, ai volontari bisognava parlare chiaramente dell’estrema diffidenza e della focosa suscettibilità… «che caratterizzano il temperamento de’ siculi, sovra tutto per ciò che riguarda le loro donne: spose, promesse tali, sorelle, cognate, cugine, e perfino di più lontana e indiretta parentela. A scanso di complicanze gravissime, cruente e perfino ferali, i volontari una volta a terra, dovranno astenersi da intraprendenze inopportune,

uai a fermare quei due vapori. Si sarebbe anticipato quello che sarebbe realmente accaduto, di lì a poco, alla spedizione Corte della quale parleremo più avanti. Gli Inglesi avrebbero gridato alla violazione del diritto internazionale da parte del perfido Re delle Due Sicilie!

È appena il caso di ricordare quindi che il compito di scorta dell’Ammiraglio Persano è assolutamente privo di rischi. La flotta militare sabauda, ovviamente, si discosterà soltanto quando il Lombardo e il Piemonte saranno entrati nelle acque territoriali Duo-siciliane. Per recarsi, però, anch’essa nelle acque del porto di Palermo per dare manforte alle manovre di conquista della Sicilia.

Dubbio di Garibaldi: sbarcare col buio o no? – Dopo una navigazione più che tranquilla, i due piroscafi arrivano a poche miglia dalla Sicilia, di fronte alla costa marsalese. Per la verità lo sbarco a Marsala potrebbe avvenire anche nello stesso giorno: 10 maggio 1860… Ma ormai si avvicina la sera e Garibaldi ritiene che non sia prudente sbarcare al buio che, a suo giudizio, potrebbe, sì, anche giovare perché gli consentirebbe di non essere avvistato dai nemici, se non troppo tardi. Però il Nizzardo sa bene che il buio ha un inconveniente. Quello, cioè, di non far vedere bene, di non far riconoscere le persone e le bandiere, di non far vedere dove si mettono i piedi o… le navi.

Prudenza doverosa da parte di un buon vecchio marinaio, soprattutto se si considera che il Lombardo, in pieno giorno, l’indomani, sarebbe rimasto incagliato in un basso fondale. Cosa sarebbe successo se quell’incidente fosse capitato di notte?

Istruzioni… per lo sbarco – Il Fusco – con il suo linguaggio semplice e scorrevole – ci racconta che in vista di Marsala e nell’imminenza dello sbarco, Garibaldi dà incarico a Nino Bixio, per il Lombardo, e al Colonnello Sirtori per il Piemonte, di dare attuazione a quanto disposto con il «Foglio d’ordini operativo», compilato già da qualche giorno a Talamone, e più specificatamente al paragrafo che diceva che nell’imminenza dello sbarco, ai volontari bisognava parlare chiaramente dell’estrema diffidenza e della focosa suscettibilità… «che caratterizzano il temperamento de’ siculi, sovra tutto per ciò che riguarda le loro donne: spose, promesse tali, sorelle, cognate, cugine, e perfino di più lontana e indiretta parentela. A scanso di complicanze gravissime, cruente e perfino ferali, i volontari una volta a terra, dovranno astenersi da intraprendenze inopportune,

Istruzioni… per lo sbarco – Il Fusco – con il suo linguaggio semplice e scorrevole – ci racconta che in vista di Marsala e nell’imminenza dello sbarco, Garibaldi dà incarico a Nino Bixio, per il Lombardo, e al Colonnello Sirtori per il Piemonte, di dare attuazione a quanto disposto con il «Foglio d’ordini operativo», compilato già da qualche giorno a Talamone, e più specificatamente al paragrafo che diceva che nell’imminenza dello sbarco, ai volontari bisognava parlare chiaramente dell’estrema diffidenza e della focosa suscettibilità… «che caratterizzano il temperamento de’ siculi, sovra tutto per ciò che riguarda le loro donne: spose, promesse tali, sorelle, cognate, cugine, e perfino di più lontana e indiretta parentela. A scanso di complicanze gravissime, cruente e perfino ferali, i volontari una volta a terra, dovranno astenersi da intraprendenze inopportune, corteggiamenti e galanterie disdicevoli all’uso locale. Provvederanno alla Suddetta bisogna, salvo imprevisti, il signor Colonnello Sirtori, sul Piemonte, e il signor Luogotenente Bixio, sul Lombardo».(15)

Dopo aver divagato su altri particolari dell’episodio, così continua:
«Invece, sul Lombardo, Bixio, ch’è tutto l’opposto di Sirtori, c’inzuppa il pane. La tira in lungo. Dritto, a gambe larghe, al centro della ‘ radunanza’ , la visiera del cheppì calata di traverso, fino a nascondere mezza faccia, ha l’aria di sfottere. E si diverte a inventare le spaventose torture, le indicibili crudeltà e le raccapriccianti efferatezze, con le quali, a suo dire, i gelosissimi mariti Siciliani (e specialmente, purtroppo, quelli della zona dov’è previsto lo sbarco) sono soliti vendicare le corna. Non solo quelle già messe, ma anche quelle intenzionali. Amanti squartati, scorticati, bruciati e sepolti vivi.

Corteggiatori affogati nel pozzo nero, inchiappettati da tutti i maschi del parentado e poi tritati come carne da polpette. Rivali mangiati allegramente, in famiglia, sotto forma di spezzatino, oppure bolliti, a fuoco lento, in enormi pignatte che i calderai dell’isola fabbricano appositamente… I volontari di primo pelo, o addirittura imberbi, ascoltano quelle atrocità sgranando gli occhi e non riescono a nascondere la fifa. Mentre i più maturi e scafati sogghignano (ma è più che altro una smorfia) ed ammiccano. Insomma, giovanotti, i Siciliani hanno molto dei beduini! sentenzia Bixio, che sospira, sì, un’Italia libera e unita, dalle Alpi al Lilibeo, ma che non riesce a digerire gli Italiani da Roma in giù. Tant’è vero che, proprio come fra i bedù, il taglio delle balle è la vendetta preferita dei becchi siculi!».(16)

Perché abbiamo parlato di questo aneddoto, per la verità molto marginale rispetto ai grandi fatti che avvenivano in quel giorno? Per fare conoscere meglio chi realmente fossero i futuri liberatori della Sicilia. Evidenziando come fossero, già nel 1860, forti i pregiudizi e i malintesi fra le popolazioni del Centro-Nord Italia ed il Popolo Siciliano, Bixio fra lo scherzoso ed il serioso dà voce ed alimenta i motivi di divaricazione psicologica e di incompatibilità.

E così, scherzando scherzando, allunga ai Siciliani pure le accuse di cannibalismo e di pratiche sodomitiche. Non ci sembra molto bello per un padre della Patria, che avrebbe potuto approfittare dell’esperienza siciliana per imparare qualcosa di buono.

Per quanto riguarda l’epiteto beduino dobbiamo arguire che questo doveva essere molto diffuso per offendere i Siciliani. Lo incontreremo infatti pure nel linguaggio del Bandi, il giovane ufficiale addetto al servizio personale di Garibaldi che pure è più colto di Bixio. Per la verità il Bandi usa anche, come epiteto, la parola arabo, mancando così contemporaneamente di rispetto alla nazionalità Siciliana ed alla nazionalità Araba. Quest’ultima è infatti tirata in ballo come termine di paragone assoluta- mente negativo.

C’è tuttavia una considerazione da fare. Come si vede, pur trovandoci nell’imminenza dello sbarco, di tutto si parla, tranne che delle tattiche da adottare per quella che, in teoria, è una vera e propria operazione bellica.
A bordo delle due navi garibaldine si dà infatti per scontato che lo sbarco avverrà nelle migliori condizioni di tranquillità e di sicurezza. Si dà per scontato, insomma, che non si dovrà combattere per conquistare metro per metro la costa siciliana. Così come sarebbe stato logico, se non si fosse trattato essenzialmente di seguire un copione.
(Fine della quarta puntata del volume di Giuseppe Scianò “… e nel mese di maggio del 1860 la Sicilia diventò ‘Colonia’ – Pitti edizioni Palermo/ Continua) 

(11) G. Fusco, op. cit., pagg. 18 e 19.

(12) G. C. Abba, op. cit., p. 25.

(13) Cesare Cantù nacque a Brivio (in provincia di Como) l’8 dicembre 1804. Cattolico ed antiaustriaco, fu, per la sua attività sovversiva, arrestato per un breve periodo dalla polizia del Lombardo-Veneto. Amico del Manzoni, scrisse alcuni commenti storico letterari ai Promessi Sposi. Le sue opere maggiori sono, tuttavia: La storia universale (1838-

1846), in 35 volumi, Storia degli Italiani, Gli eretici d’Italiani, Il Conciliatore e i Carbonari, Ragionamento sulla storia lombarda del secolo XVII, ed altri testi a carattere storiografico. Critico verso il liberi- smo laico, fu deputato al Parlamento italiano, prima a Torino e poi, dopo il trasferimento della Capitale d’Italia, a Firenze, per 6 anni, nel periodo che va dal 1861 al 1867.

(14) Malta, com’è noto, era dal 1800 un possedimento inglese.

(15) G. Fusco, op. cit., pagg. 25 e 26.

fonte

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La liberazione d’Italia nell’opera della Massonerìa

Posted by on Apr 27, 2019

La liberazione d’Italia nell’opera della Massonerìa

Atti del Convegno di Torino 24-25 settembre 1988, a cura di Aldo A. Mola (Centro per la storia della Massoneria, Roma); Foggia, Bastogi, 1990, in 8, pp. 394. L. 30.000.
Le logge massoniche piemontesi nell’età napoleonica, l’unificazione italiana nel­l’opera dei massoni spagnoli, l’attività massonica del condottiero dei Mille, i rapporti tra i Valdesi e la Massoneria a cavallo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, la Massoneria e l’emancipazione femminile, Massoneria ed Ebraismo nel primo e nel secondo Risorgimento: sono questi solo alcuni degli argomenti raccolti in questo elegante volume curato da Aldo A. Mola, che ha cosi reso disponibili gli Atti di un interessante convegno di studi, La liberazione d’Italia nell’opera della Massoneria , tenutosi al Teatro Nuovo di Torino nelle giornate del 24 e 25 settembre 1988. Inserito nel programma delle celebrazioni indette in occasione del Quarantennale della Repubblica, il convegno ed in maniera particolare questi Atti, che ne costituiscono la documentazione ha offerto importanti spunti per lo studio (sempre foriero di interessanti novità) e l’approfondimento dell’apporto fornito dalla Massoneria al conse­guimento dell’unificazione nazionale.
Un contributo certo non indifferente, anche se si tiene solo conto della statura morale ed intellettuale di quelli che ne furono i principali protagonisti: l’abate Ludovico Frapolli, che fu, di fatto, il trait-d’union tra gruppi di nazionalità diversa (si legga al riguardo l’intervento di LUIGI POLO FRIZ, Ludovico Frapolli: un Gran Maestro nei rapporti con esuli ungheresi e polacchi, pp. 93-112); Garibaldi, iniziato com’è noto alla Massoneria nel 1844 nella Loggia irregolare Asilo de la Vertud di Montevideo ed incurante, o quantomeno al di sopra, dei dissidi interni alla Massonerìa italiana tra il Grande Oriente Italiano di Torino ed il Grande Oriente di Rito Scozzese siciliano (interessanti, pur nella loro sinteticità, le pagine di EDWARD E. STOLPER, Garibaldi Massone, pp. 133-151); Francesco De Sanctis (ANTONIO PIROMALLI, Francesco De Sanctis e il programma massonico di pedagogia nazionale, pp. 197-206); Emesto Nathan (ROMANO UGOLINI, Ernesto Nathan e il Risorgimento, pp. 229-240); Giovanni Merloni (Ivo BIAGIANTI, Massoneria e socialismo nell’età giolittiana: il caso di Giovanni Merloni, pp. 327-358); e poi ancora: il rumeno Constantin Rosetti (DAN BERINDEI, II radicale rumeno Constantin Rosetti e il Risorgimento italiano, pp. 113-132) ed il garibaldino ungherese Istyan Turr (SALVATORE LOI, Stefano Turr, pp. 365-376) e, per concludere, ultimo (ma solo in ordine cronologico, non certo di importanza o di notorietà), Gabriele D’Annunzio, di cui Aldo A. Mola fornisce un documentato e valido resoconto sull’impresa di Fiume (L’ultima impresa del Risorgimento: la Massoneria per D’Annunzio a Fiume, pp. 261-303), corredato nell’appendice finale dalla riproduzione, in alcuni casi anche fotografica, di alcuni documenti d’epoca.
Un volume che raccoglie, dunque, materiale estremamente eterogeneo, che va spesso al di là dei termini cronologici e degli argomenti che sarebbe lecito supporre di trovare confidando nella completezza del titolo, ma che fornisce una panoramica dettagliata sul contributo, a livello nazionale, certo, ma anche nei suoi riflessi internazionali, dell’indiscutibile contributo fornito dalla Massoneria all’unificazione italiana.

VINCENZO FANNINI

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segnalato da

Celestino Filomena

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Partito Separatista delle Due Sicilie

Posted by on Apr 25, 2019

Partito Separatista delle Due Sicilie

“La separazione d’Italia è inutile discutere di rinascita del meridione, sono più momenti meno infelici, momenti più infelici, ma la risoluzione del problema di un meridione economicamente, umanamente, culturalmente socialmente libero non c’è, lo vediamo anche dalle Il processo unitario è un atto di brutalità, di malafede, di inganni, di interventi stranieri, di Garibaldi, di Vittorio Emanuele II. Quindi culturalmente anche, non c’è possibilità di riscatto se non si crea una retorica interna al proprio paese, se il proprio paese non si rivaluta agli occhi dei propri cittadini. 

Nicola Zitara 

LI CHIAMAVANO BRIGANTI …… .. E INVECE ERANO EROI
“Per quei vieni la violenza è un diritto, per tanti vieni la violenza è un delitto .. Voi potete rubare, violentare, uccidere, e nessuno vi condannerà.”.      
Il 1861 è un anno che ogni UOMO al mondo sta pensando, non per la pseudo unità di Italia imposta con la forza, ma perché è il Savoia iniziarono il massacro del Sud. 
Il Brigantaggio è un grande movimento rivoluzionario e di massa, più di un secolo e mezzo, ben 157 anni, in cui bugie, menzogne ​​e verità nascoste, hanno azionato quel subdolo meccanismo di denigrazione della popolazione meridionale, talmente oliato un dovere da aver coinvolto anche alcune persone abitanti del Sud. 
La storia o meglio gli “illustri” storiografi che l’hanno riportato e pubblicato sui libri di scuola, ha sempre raccontato l’unico colpevole dei problemi del Meridione, è stato il Regno Borbonico e il governo dei Borboni, era supportato dal carattere superficiale e indolente dei suoi sudditi Che con la filosofia della vita “bast che ce sta ‘o sol”,
La disoccupazione era praticamente nulla nel Regno delle Due Sicilie quando fu annesso al Regno di Sardegna. Sembra impossibile immaginare il Regno delle Due Sicilie, studiato nelle scuole italiane come luogo naturale dell’oscurantismo, del burocratismo, dell’arretratezza tardo feudale (borbonico sinonimo di lento, fiacco, arretrato), sia stato invece premiato, nel 1856, per sviluppo industriale . 
Le ferrovie napoletane non sono il “balocco del Re” per raggiungere la sua casa di vacanze, bensì di un’oculata politica di marketing e sviluppo industriale. I Borbone non sono stato provato dai locomotori da qualche grande azienda teutonica, come anzi oggi faremmo: le fabbricano … con un indotto industriale che in pochi anni è lavoro per migliaia di giovani meridionali.
Nel meridione si ebbe la prima repubblica socialista del mondo con San Leucio: ottanta ettari di terreno su cui Re Ferdinando fece sorgere la più famosa serie di tutti i tempi. 
Quella che oggi è Terra di Camorra, allora era, davvero, Terra di Lavoro. 
Di tutt’altro segno e spessore i dati inerenti il ​​Regno dei Savoia, negli stessi anni. Nel 1860 il debito pubblico del Piemonte ammontava più di un milione di anni: una montagna di denaro, una voragine spaventosa che 4 milioni di abitanti non sono quotati a cento anni per l’arretratezza della sua economia montanara. 
E allora cosa è successo di così determinante da sovvertire le sorti del Meridione?
Successe che al Piemonte non interessava per niente l’Unità d’Italia. Al Piemonte interessava la conquista delle ricchezze del Sud, delle sue riserve auree, delle sue fabbriche. Dal 1860 al 1870 i nuovi pirati, vieni piemontesi, si quali disponibili in tutti i paesi, quelle dei poveri contadini, quelle delle comunità religiose, dei conventi; saccheggiarono le chiese e le campagne; smontarono i macchinari delle fabbriche per montarli al Nord; rubarono opere d’arte di valore inestimabile, quadri, vassoi, statue. Le miniere di ferro, il laboratorio metallurgico della Mongiana in Calabria; le industrie tessili dell’alta Terra di Lavoro; le manifatture di Terra di Lavoro; i cantieri navali sparsi per tutto il Mezzogiorno; la magnifica fabbrica di Pietrarsa, i monti frumentari,
Cannoni contro città indifese; baionette conficcate nelle carni di giovani, preti, contadini; donne violentate e sgozzate; vecchi e bambini trucidati. Case e chiese saccheggiate, monumenti abbattuti, libri bruciati, scuole chiuse. La fucilazione di massa divenne pratica quotidiana. Dal 1861 al 1871, un milione di contadini furono abbattuti; anche se governi piemontesi su questo massacro non fornivano dati, perché nessuno dovrebbe sapere.
Col termine Briganti, ha detto volontariamente mortificare tutta quella parte di popolo, che è stata ribellata, ancora una volta, all’invasore: “Combattemmo, nella nostra terra, una guerra legittima di liberazione e di resistenza contro una società e un popolo straniero, un palmo a palmo, un caso, terre e famiglie da una rivoluzione che non sono stati uccidemmo e morìmo io e tanti eroi di una contro-rivoluzione che ci aveva già visto combattere e morire in Francia o in Spagna, nel 1799 nel 1820, nel 1848 nel 1860.  

Ecco chi erano i BRIGANTI.
Ma le mortificazioni non erano finite: 5212 condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti. Queste le cifre della repressione consumata all’indomani dell’Unità d’Italia dai Savoia. Minghetti del 15 agosto 1863 “… per la repressione del brigantaggio nel Meridione

Questi sono concentrati nei depositi di Napoli o nelle carceri, poi trasferiti in veri e propri lager: i prigionieri, appena coperti da cenci di tela, si consumano una sozza brodaglia con un po ‘di pane nero raffermo, sottende dei trattamenti veramente bestiali, ogni tipo di nefandezze fisico e morale. Per oltre dieci anni, sono stati voluti uccisi per fama, stenti.

Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti, vecchi, miseri popolani e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza luce. Vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare con il freddo i segregati. Laceri e poco nutriti era usuale vederli appoggiati a ridosso dei muraglioni, nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi solari invernali, ricordando forse con nostalgia il caldo di altri climi mediterranei.
La liberazione avveniva con la morte ed i corpi (non sono ancora in uso i forni crematori) è disciolti nella vita viva collocata in una grande vasca nel retro della chiesa che sorgeva all’ingresso del Forte. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti. Ancora oggi, entrando a Fenestrelle, su un muro è ancora visibile l’iscrizione: “Ognuno vale in quanto è ma in quanto produce”. (ricorda molto la scritta dei lager nazisti)
E anche in questo caso, chi ha scritto la storia, ha voluto umiliare ancora una volta il popolo del Sud. SCANDALOSO museo di Cesare Lombroso fondato a Torino, dove sono esposti, come fenomeni da baraccone, i corpi e le teste mozzate, sono considerati dei criminali perchè osavano difendere la propria terra. Corpi straziati, mutilati e umiliati, mai restituiti alle famiglie che non hanno potuto dar loro, degna sepoltura. 
Ecco chi erano i BRIGANTI 

La guerra è chiusa nel sud del mondo, a cui si aggiunge oltre il 65% della popolazione. Le lotte per la terra, verso il risultato elettoralistico. Con la fine dei contadini, è finita anche l’alternativa o briganti o emigranti.
In assenza di uno Stato indipendente che affrontasse i problemi connessi a nuove forme di produzione, il processo di superamento della servitù contadina è la forma di emigrazione di massa. Né la prima delle due grandi migrazioni meridionali – quella tra il 1880 e il 1914 – né la seconda – quella tra il 1948 e il 1973 – servirono a fondare uno stato, oa inserire il Sud come componente paritaria dello Stato nazionale. Il mondo contadino sopravvissuto alla prima e sarebbe sopravvissuto anche alla seconda, se l’area padana non fosse vissuta, un racconto importante, avrei bisogno di inarcare l’economia del sud con lo smercio delle sue produzioni. Nei due periodi indicati, la penetrazione delle merci di massa è stata coniata diversa. Al tempo della prima, l’industria padana non era ancora nata, e tranne lo zucchero, il tabacco, il grano importato e poche altre mercanzie, il Nord era ben poco da vendere al Sud. In questo periodo le risorse sono risucchiate attraverso altre vie, principalmente il fisco, l’ufficio italiano cambi, il sistema bancario, che accetta di essere emesso carta, e al solo costo di stampa comprava al sud prodotti veri. Inoltre la produzione meridionale è venduta all’estero. Un risvolto decisivo ai fini del sottosviluppo sudico. È stato preso una truffa, un ordine artefatti, agli industriali cavourristi, che sono serviti per pagare le materie prime, e agli importatori genovesi, che lo abbiamo visto per speculare patriotticamnete sul prezzo del grano. Eppure, non è tanto il drenaggio delle risorse che porta il sud alla completa rovina – malgrado tutto l’agricoltura continua a produrne – quanto l’insipienza, l ‘ estraneità e la malvagità della classe dirigente. Al tempo della seconda guerra, con gli aiuti americani e la partigianeria dello Stato seducente nazionale, l’apparato industriale padano decollò e di conseguenza ebbe un impellente bisogno di clienti. E quale cliente più addomesticato del Sud? L’offerta di merci – si sa – crea i consumatori di merci. Però le merci importate e si pagano con la produzione e l’esportazione di uguale valore (Antonio Serra, economista del 1600). L’assetto coloniale del Sud non è all’esportazione, perché i prezzi sono perduti insistentemente in termini di ragioni di scambio. Incassando ben poco, la coda è una parte del capitale naturale, nel caso gli uomini, i pallidi bilanci dei padroni di casa delle sette o otto province piemontesi e delle nove province lombarde. con gli aiuti americani e la partigianeria dello stato seducente nazionale, l’apparato industriale padano decollò e di conseguenza ebbe un impellente bisogno di clienti. E quale cliente più addomesticato del Sud? L’offerta di merci – si sa – crea i consumatori di merci. Però le merci importate e si pagano con la produzione e l’esportazione di uguale valore (Antonio Serra, economista del 1600). L’assetto coloniale del Sud non è all’esportazione, perché i prezzi sono perduti insistentemente in termini di ragioni di scambio. Incassando ben poco, la coda è una parte del capitale naturale, nel caso gli uomini, i pallidi bilanci dei padroni di casa delle sette o otto province piemontesi e delle nove province lombarde. E quale cliente più addomesticato del Sud? L’offerta di merci – si sa – crea i consumatori di merci. Però le merci importate e si pagano con la produzione e l’esportazione di uguale valore (Antonio Serra, economista del 1600). L’assetto coloniale del Sud non è all’esportazione, perché i prezzi sono perduti insistentemente in termini di ragioni di scambio. Incassando ben poco, la coda è una parte del capitale naturale, nel caso gli uomini, i pallidi bilanci dei padroni di casa delle sette o otto province piemontesi e delle nove province lombarde. perché io sono perduti insistentemente in termini di ragioni di scambio. Incassando ben poco, la coda è una parte del capitale naturale, nel caso gli uomini, i pallidi bilanci dei padroni di casa delle sette o otto province piemontesi e delle nove province lombarde. perché io sono perduti insistentemente in termini di ragioni di scambio. Incassando ben poco, la coda è una parte del capitale naturale, nel caso gli uomini, i pallidi bilanci dei padroni di casa delle sette o otto province piemontesi e delle nove province lombarde.

fonte https://www.partito-separatista-delle-due-sicilie.it/?fbclid=IwAR3YlR2bCzDBy6m_z_j4RIK01jwyvXeSKcZdsEK79LiRSLokqyC8zchAX0M

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