Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

La vera storia dell’impresa del Mille 3/ I Mille? Erano quasi tutti del Nord Italia

Posted by on Apr 25, 2019

La vera storia dell’impresa del Mille 3/ I Mille? Erano quasi tutti del Nord Italia

La storia ufficiale ha sempre cercato di accreditare l’impresa dei Mille con tanti siciliani e, in generale, tanti meridionali pronti a fare la rivoluzione per ‘cacciare il Borbone’. Tutte bugie. I siciliani erano appena 31. Ancora più esigua fu la presenza dei meridionali: 25 in tutto, dei quali solo 5 napoletani. Gli unici siciliani che, in Sicilia, daranno una mano a Garibaldi saranno i ‘picciotti’ della mafia. Così nasce l’Italia: con la prima ‘trattativa’ con i mafiosi. Nino Bixio che a Talamone fa il ‘galletto’ con le donne

di Giuseppe Sciano

I MILLE? QUASI TUTTI DEL NORD – Lo scrittore garibaldino, Giuseppe Cesare Abba, sottolinea che fra gli accenti dei volontari spicca soprattutto quello lombardo. Per la verità quasi tutti gli altri accenti sono pure settentrionali. Sembra strano, ma è così: tutti partivano alla conquista del Mezzogiorno e della Sicilia, tranne, appunto, i Meridionali ed i Siciliani. Le minime percentuali di questi, che comunque vi aderirono, non dovrebbero fare testo e sono quasi sempre spiegabili in modo specifico.

Insomma: la totalità dei volontari, con pochissime eccezioni, proveniva dal Nord-Italia. E non a caso. Dalla sola città di Bergamo ne provenivano ben 160: da Genova 156, inclusi i Carabinieri; da Milano 72; da Brescia 59; da Pavia 58. «Poi vi erano in buon numero gli esuli della Venezia… “Austriaca”», ci ricorda in una nota il commentatore Luigi Russo.

Numerosi, fra loro, i nuovi volontari che erano soldati di carriera in servizio presso l’Esercito Sabaudo. Erano stati convinti a partire con Garibaldi e a spacciarsi per volontari, interrompendo soltanto formalmente il rapporto con l’esercito. Anche questa circostanza – lo ripetiamo per inciso – conferma che il Governo Sabaudo partecipava attivamente all’operazione.

Per l’immagine e l’economia della Spedizione (perché ne garantivano la spontaneità), i volontari erano, nella pubblicistica risorgimentale, classificabili per metà operai e per metà: «studenti, avvocati (!), dottori (!), ingegneri (!), farmacisti (!), capitani di mare, pittori e scultori (sic!), ex-preti (!), benestanti, impiegati, scrittori, professori e giornalisti (sic!)»(7). Questa esibizione di titoli e di professioni ci crea un dubbio: erano i Garibaldini che si spacciavano per tali o era soltanto una esagerazione per fini propagandistici, regolarmente prevista nel copione?

Propendiamo per la seconda ipotesi, anche se né Luigi Russo, né altri commentatori la prendono molto in considerazione. Lo stesso Russo ci ricorda la presenza di un «nucleo di stranieri fra i quali quattro ungheresi e fra loro il Türr». Non ci spiega, però, che questo nucleo è solo una piccolissima rappresentanza della massiccia presenza di mercenari ungheresi inviati alla conquista del Sud. Vi sarà, infatti, in campo la
«Legione Ungherese», comandata dal Colonnello Eber. Un’Armata mercenaria che il Governo Inglese aveva già da tempo organizzato in Piemonte, e che poi metterà – con migliaia di uomini – a disposizione di Garibaldi a mo’ di zoccolo duro, di forza d’urto e… di forza di occupazione della Sicilia.

I MERCENARI UNGHERESI PAGATI DAGLI INGLESI – Si tratta di mercenari, dicevamo, di soldati professionisti, ottimamente addestrati (talvolta di eccezionale crudeltà e violenza), che salveranno in diverse occasioni le sorti delle battaglie – simulate o no – le cui vittorie e le cui azioni risolutive vengono attribuite all’Eroe dei Due Mondi ed alle sue camicie rosse. La Legione Ungherese sarebbe stata riutilizzata, dal giovane Regno d’Italia, dal 1861 e, questa volta, con contratto ufficiale a durata pluriennale, allo scopo di contrastare, di reprimere i moti e di massacrare, se necessario, i patrioti e le popolazioni della Napolitania (che si sarebbero ribellati all’occupazione piemontese della loro vera Patria ed alla riduzione in schiavitù, conseguenti alla conquista ed alla successiva annessione).

Lo scarso numero di volontari del Sud delegittima la Spedizione. Vogliamo soffermarci, però, ancora sulla irrisoria presenza di Siciliani (e di Napoletani). È vero che l’Abba, per mettere una pezza, fa capire che i Siciliani hanno tutti incarichi importanti, ma il problema della mancata partecipazione di esponenti delle popolazioni del Sud all’impresa garibaldina appare in tutta la sua evidenza e rimane sul tappeto. Sarà confermata in Sicilia ed in Napoletania prima, durante e dopo l’occupazione anglo-piemontese, sabaudo, mafiosa e camorristica.

Stiracchiando i dati, il Russo ci parla di quarantasei Meridionali. Ci dimostra, quindi, sia pure involontariamente, che dalla parte continentale del Regno delle Due Sicilie (8) sono partiti meno volontari che non dalla sola città di Pavia (58) o dalla sola città di Brescia (59). Analoga considerazione vale per la Sicilia, dalla quale, a seguito delle vicende rivoluzionarie degli anni 1848-49, erano emigrate verso il Regno Sabaudo alcune centinaia di persone compromesse con la dinastia dei Borbone.

Questi esuli ebbero accoglienza ottima, prebende, cariche, incarichi, posti di sottogoverno, cattedre universitarie ed onorificenze varie. Pagavano, però, a loro volta, un prezzo altissimo: abbandonavano, cioè, la causa siciliana e la loro fede indipendentista ed abbracciavano, più o meno sinceramente, la causa dell’Unità d’Italia e, per meglio dire, quella di Vittorio Emanuele di Savoia. Il fatto che a Quarto mancassero quasi tutti all’appello, significava che non se la sentivano proprio di compiere altri atti contrari alla loro fede sicilianista ed ai loro convincimenti politici… Oppure, più semplicemente, non volevano fare altri sacrifici e neppure correre altri rischi.

Per concludere le nostre osservazioni, diciamo che la Spedizione dei Mille verso la Sicilia partiva, in sostanza, senza la legittimazione di volontari Siciliani. Le poche eccezioni, registrate ed esaltate al massimo, confermavano la regola. Sarebbero diventati, pertanto, sempre più preziosi i picciotti della mafia e che – machiavellicamente, ma opportunamente dal proprio punto di vista – i Servizi Segreti Britannici avevano da tempo agganciato e che ora si accingevano ad utilizzare pienamente per creare, quantomeno, un consenso chiassoso, oltre che inquietante.n E che avrebbe paradossalmente legittimato, agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, l’occupazione prima e la riduzione in colonia, iterna e non dichiarata, di quella che era stata per diversi secoli una Nazione indipendente e sovrana.

QUANTI ERANO I GARIBALDINI? – Abbiamo ancora il tempo, dato che il viaggio è appena all’inizio, di rispondere a questa domanda. Secondo il Montanelli, il numero preciso delle camicie rosse sarebbe stato di 1088; più una donna, la moglie di Francesco Crispi, Rosalia Montmasson. Secondo Renda, i Garibaldini in questione erano 1087. E precisa:

«Dei 1087 Garibaldini sbarcati a Marsala (secondo l’elenco ufficiale pubblicato a suo tempo nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia) solo 31 furono Siciliani, ed ancora più esigua fu la presenza dei Meridionali (25 in tutto, dei quali solo 5 Napoletani).

Altra circostanza non meno significativa fu che nessuno dei Siciliani e Meridionali arruolati nell’esercito dei Mille apparteneva alla vecchia nobiltà o all’alta borghesia, e solo un ristrettissimo gruppo, che non superava le dita di una mano, aveva funzioni di comando generale. Fra questi, l’unico ad emergere fu l’agrigentino Francesco Crispi, il quale dal principio alla fine rimase in posizione chiave nella direzione politica dell’impresa».(9)
Il numero esatto dei Garibaldini varia, per la verità, da autore ad autore, ma di poco. Nell’insieme dobbiamo trarre la conclusione che il dato ufficiale coincide, o quasi, (una volta tanto) con quello reale. Fatto salvo qualche pic- colo arrotondamento in più o in meno e sempre a ridosso del numero di mil- le. Nome e numero, questi, con i quali gli storici hanno battezzato con ecce- zionale celerità la Spedizione: i Mille, appunto. La denominazione dei Mille sarebbe rimasta per sempre, ma riferita al primo nucleo, in quanto il numero reale dei Garibaldini sarebbe cresciuto a dismisura, perché altre spedizioni si accingevano a partire dal Continente e perché altri reclutamenti sarebbero stati effettuati da lì a poco.

In Sicilia, in particolare, saranno reclutate diverse migliaia di picciotti agli ordini dell’Onorata Società. Soprattutto dopo che si era capito che Garibaldi era comunque predestinato ad avere la meglio. Su questi Garibaldini, considerato il fatto che nessuna commissione antimafia ha mai indagato, avremo modo di fornire, via via, qualche altra indiscrezione.

PRIMA TAPPA: TALAMONE – La mattina di lunedì 7 maggio 1860, dopo diverse ore di navigazione, i due piroscafi sono in vista di Talamone, il piccolo centro marinaro della Maremma (Toscana), nel quale Garibaldi dovrà fornirsi di armi. Poco prima ai Garibaldini è stato letto un ordine del giorno che li ribattezza «Cacciatori delle Alpi». Una denominazione non nuova, già anticipata e già inflazionata. E, per la verità, tutt’altro che azzeccata per un esercito che deve andare a conquistare la Sicilia, millantando di condividerne i destini e vantando una certa fratellanza. Un nome che, in pratica, evidenzia maggiormente le diversità e gli effetti «scomodi» della distanza geografica fra la Sicilia ed il Piemonte. E non solo…

Primo aiutante viene nominato il Colonnello ungherese Stefano Türr; Capo di Stato Maggiore viene nominato il Colonnello Giuseppe Sirtori.

In vista di Talamone, Garibaldi si affretta ad indossare la divisa di Generale del Regio Esercito Sardo (cioè Piemontese). Perché tale deve apparire al presidio militare di Talamone. Sui due piroscafi viene issata la bandiera del Regno Sabaudo (tricolore italiano con lo scudo sabaudo al centro, sulla banda bianca). Le navi si fermano a poca distanza dalla costa.

Dalla piccola banchina di Talamone, dopo circa mezz’ora, si distacca una lancia con un equipaggio costituito da timoniere, tre rematori e due ufficiali. Si avvicina al Piemonte. Poi, faticosamente, gli ufficiali salgono a bordo. Garibaldi li riceve nella propria cabina. Parla loro affabilmente. Recita la parte del Generale che deve compiere una missione per conto di Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele. Una missione segreta, ovviamente, della quale non deve restare niente di scritto.

I due ufficiali toscani recitano, a loro volta, la parte di coloro che, per carità di patria, credono facilmente alla parola di un superiore. Per giunta ufficiale e gentiluomo (quale il Nizzardo certamente non è). La fama di Garibaldi, peraltro, è vastissima. È stata alimentata in ogni modo. Garibaldi è già l’Eroe per antonomasia. Tutti lo mitizzano e, nello stesso tempo, ne conoscono i movimenti ed i piani. Anche a Talamone.

GARIBALDI, LA FARSA, LE BUGIE – Nessun sospetto, ma solo certezze, dunque. Si capisce fin troppo bene che Garibaldi snocciola una serie di bugie. Del resto le armi, i viveri e le munizioni non sono lì proprio per lui? Perché perdere altro tempo? A Talamone gli sarà dato, pertanto, tutto quello che è disponibile. Assicurano, premurosi, i due ufficiali. Uno dei quali, il più anziano, si chiama De Labar.

Il grosso delle forniture, però, è custodito presso i magazzini di Orbetello, dove comanda il Colonnello Giorgini. Questi sicuramente non mancherà di mettersi, a sua volta, a disposizione. Orbetello dista da Talamone circa quindici chilometri. A Stefano Türr viene dato l’incarico di andare con dei carri a ritirare tutto ciò che serve. Garibaldi gli affida a tale scopo una lettera per il Colonnello Giorgini. Evidentemente si è già dimenticato di avere affermato che non bisogna lasciare traccia. Ma si sa: si recita a soggetto. I primi attori possono inserire le battute che credono più adatte.

MANO MORTA E PIZZICOTTO DI BIXIO – Per dare un’idea del clima umano e politico nel quale si svolgono questi eventi, riportiamo un piccolissimo passaggio della cronaca elaborata con disinvoltura da Giancarlo Fusco, dopo più di un secolo. Il Fusco è credibile, soprattutto quando si avvale, riprendendone fedelmente il testo, delle memorie del tenente Giuseppe Bandi. Questi è persona di fiducia di Garibaldi ed è un prezioso testimone oculare, dal quale anche noi attingeremo molte notizie di prima mano.

«Guidati dal tenente De Labar, Garibaldi e i suoi ufficiali, ai quali si è aggiunto Bixio, salgono verso il castello, dove l’anziano ufficiale di artiglieria abita con la moglie molto più giovane. La signora, avvisata da un ragazzetto ch’è corso avanti, ha indossato il suo vestito migliore. Di seta viola, con un mazzetto di fiori finti ficcati nel fisciù, a nascondere, in piccola parte, la scollatura molto ampia e profonda”. È una donna sui trenta, non proprio bella, ma molto piacente. Anni dopo, in un volumetto di ricordi, Bandi la descriveva così:

«[…] Per quanto l’abito che indossava fosse assai ricco, saltano subito all’occhio le sue rigogliose rotondità. Aveva pupille scure e vivacissime. La freschezza delle sue labbra e il candore dei suoi denti mettevano in risalto la sua giovinezza, a petto della quale, per contrasto, il povero marito appariva addirittura decrepito. Il Generale le fece i suoi complimenti, mentre Bixio, secondo il suo solito, cercò subito d’arrembarla, torcendosi il baffo. Senza perdersi in convenevoli, le chiede subito se potesse accompagnarlo a visitare la cima della torre, con l’evidente speranza di trovarsi secolei a tu per tu e allungar le mani… Ma il Generale, avvedutosi di quelle manovre, dopo una degustazione di ottimo ratafià, pose fine alla visita».

Ma non finisce qui. Arrivato mezzogiorno la generosa signora De Labar, nonostante fosse in agitazione per le occhiate audaci del Bixio, invita gli ospiti a restare a colazione.

Ci riferisce ancora il bravo narratore:

«Ma Garibaldi, con gentile fermezza, declina l’invito. Accetta, invece, che l’attempato marito lo accompagni, assieme agli altri, a mangiare un boccone alla buona, dall’Annina. La vedovella di un marinaio che tiene osteria nel Borgo Vecchio di Talamone. […] Mangiammo riso in brodo, manzo bollito con contorno di saporitissimi fagioli bianchi e, alla fine, una frittata di cipolle da ricordare – ci racconta il Bandi -. Ma, essendo l’ostessa, certa Anna Mazzocchi, poco più in là della trentina, belloccia e pronta alla battuta, il solito Bixio attaccò subito a mangiarla con gli occhi, a sussurrarle parole conturbevoli e a farle la mano morta ogni volta che le passasse a tiro. Così che, a un certo punto, pizzicata con la forza nel posteriore, la donna non poté trattenere un grido e si rifugiò in cucina, tuttavia avvampata in volto e con gli occhi umidi. Al che, il Generale, assai contrariato, richiamò all’ordine Bixio, rammentandogli che non s’era partiti da Quarto per un viaggio di piacere e per dare la caccia alle femmine, ma per un motivo ben più nobile e serio».(10)

Il Colonnello Giorgini, intanto, arriva a Talamone per conferire personalmente con Garibaldi. È molto rispettoso dell’Eroe e durante il colloquio rimane sempre sull’attenti. Dichiara, tuttavia, di volere alcune assicurazioni. Vorrebbe, cioè, garanzie che le armi che gli saranno consegnate non verranno utilizzate, ad esempio, per sferrare un attacco al confinante Stato della Chiesa. Deve fargli capire che, in quanto ufficiale anch’egli di S.M. Vittorio Emanuele, non può avere incidenti, né complicazioni, con la diplomazia straniera.

Garibaldi lo rassicura. La verità è però alquanto diversa, perché è già stata programmata, per poi essere smentita in alto loco, un’azione di penetrazione verso lo Stato di Pio IX. Si tratta di poca cosa, per la verità, decisa in parte nella speranza che le popolazioni si ribellino, in parte per depistare l’opinione pubblica ed eventuali spie Duo-siciliane sugli effettivi scopi di quella Spedizione. Ed in parte per fare bella figura con gli Inglesi, ai quali lo Stato Pontificio appare come il più pericoloso degli avversari della politica espansionistica dell’Impero di S.M. Britannica. Ed infine perché uno sgarbo in più, verso quell’antipatico del Papa, non guasterà certamente (Fine terza puntata/continua).

(7) G. C. Abba, op. cit., p. 115, nota 3.

(8) Il territorio del Regno delle Due Sicilie comprendeva, oltre che la Sicilia, le attuali regioni di Calabria, Basilicata, Campania, Puglie, Abbruzzi e Molise (nonché quasi tutte le isole minori del Tirreno) e che allora, rispetto a quello dell’Italia Meridionale, così com’è definita oggi, era più vasto. Alcune delle regioni sopraccitate includevano comuni, province e popolazioni che sarebbero stati, dopo l’Unità, d’autorità ed innaturalmente aggregati ad altre regioni confinanti.

(9) Francesco Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1870, Sellerio, Palermo, 1987, vol. I, pag. 152.

(10) Vedi Giancarlo Fusco, I Mille e una notte – Storia erotica del Risorgimento, Tattilo, Roma 1974, pagg. 15 e 16.

Foto tratta da turismoinmaremma.wordpress.com

AVVISO AI NOSTRI LETTORI

Se ti è piaciuto questo articolo e ritieni il sito d’informazione InuoviVespri.it interessante, se vuoi puoi anche sostenerlo con una donazione. I InuoviVespri.it è un Sud all’impresa garibaldina appare in tutta la sua evidenza e rimane sul tappeto. Sarà confermata in Sicilia ed in Napoletania prima, durante e dopo l’occupazione anglo-piemontese, sabaudo, mafiosa e camorristica.

Stiracchiando i dati, il Russo ci parla di quarantasei Meridionali. Ci dimostra, quindi, sia pure involontariamente, che dalla parte continentale del Regno delle Due Sicilie (8) sono partiti meno volontari che non dalla sola città di Pavia (58) o dalla sola città di Brescia (59). Analoga considerazione vale per la Sicilia, dalla quale, a seguito delle vicende rivoluzionarie degli anni 1848-49, erano emigrate verso il Regno Sabaudo alcune centinaia di persone compromesse con la dinastia dei Borbone.

Questi esuli ebbero accoglienza ottima, prebende, cariche, incarichi, posti di sottogoverno, cattedre universitarie ed onorificenze varie. Pagavano, però, a loro volta, un prezzo altissimo: abbandonavano, cioè, la causa siciliana e la loro fede indipendentista ed abbracciavano, più o meno sinceramente, la causa dell’Unità d’Italia e, per meglio dire, quella di Vittorio Emanuele di Savoia. Il fatto che a Quarto mancassero quasi tutti all’appello, significava che non se la sentivano proprio di compiere altri atti contrari alla loro fede sicilianista ed ai loro convincimenti politici… Oppure, più semplicemente, non volevano fare altri sacrifici e neppure correre altri rischi.

Per concludere le nostre osservazioni, diciamo che la Spedizione dei Mille verso la Sicilia partiva, in sostanza, senza la legittimazione di volontari Siciliani. Le poche eccezioni, registrate ed esaltate al massimo, confermavano la regola. Sarebbero diventati, pertanto, sempre più preziosi i picciotti della mafia e che – machiavellicamente, ma opportunamente dal proprio punto di vista – i Servizi Segreti Britannici avevano da tempo agganciato e che ora si accingevano ad utilizzare pienamente per creare, quantomeno, un consenso chiassoso, oltre che inquietante.n E che avrebbe paradossalmente legittimato, agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, l’occupazione prima e la riduzione in colonia, iterna e non dichiarata, di quella che era stata per diversi secoli una Nazione indipendente e sovrana.

QUANTI ERANO I GARIBALDINI? – Abbiamo ancora il tempo, dato che il viaggio è appena all’inizio, di rispondere a questa domanda. Secondo il Montanelli, il numero preciso delle camicie rosse sarebbe stato di 1088; più una donna, la moglie di Francesco Crispi, Rosalia Montmasson. Secondo Renda, i Garibaldini in questione erano 1087. E precisa:

«Dei 1087 Garibaldini sbarcati a Marsala (secondo l’elenco ufficiale pubblicato a suo tempo nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia) solo 31 furono Siciliani, ed ancora più esigua fu la presenza dei Meridionali (25 in tutto, dei quali solo 5 Napoletani).

Altra circostanza non meno significativa fu che nessuno dei Siciliani e Meridionali arruolati nell’esercito dei Mille apparteneva alla vecchia nobiltà o all’alta borghesia, e solo un ristrettissimo gruppo, che non superava le dita di una mano, aveva funzioni di comando generale. Fra questi, l’unico ad emergere fu l’agrigentino Francesco Crispi, il quale dal principio alla fine rimase in posizione chiave nella direzione politica dell’impresa».(9)
Il numero esatto dei Garibaldini varia, per la verità, da autore ad autore, ma di poco. Nell’insieme dobbiamo trarre la conclusione che il dato ufficiale coincide, o quasi, (una volta tanto) con quello reale. Fatto salvo qualche pic- colo arrotondamento in più o in meno e sempre a ridosso del numero di mil- le. Nome e numero, questi, con i quali gli storici hanno battezzato con ecce- zionale celerità la Spedizione: i Mille, appunto. La denominazione dei Mille sarebbe rimasta per sempre, ma riferita al primo nucleo, in quanto il numero reale dei Garibaldini sarebbe cresciuto a dismisura, perché altre spedizioni si accingevano a partire dal Continente e perché altri reclutamenti sarebbero stati effettuati da lì a poco.

In Sicilia, in particolare, saranno reclutate diverse migliaia di picciotti agli ordini dell’Onorata Società. Soprattutto dopo che si era capito che Garibaldi era comunque predestinato ad avere la meglio. Su questi Garibaldini, considerato il fatto che nessuna commissione antimafia ha mai indagato, avremo modo di fornire, via via, qualche altra indiscrezione.

PRIMA TAPPA: TALAMONE – La mattina di lunedì 7 maggio 1860, dopo diverse ore di navigazione, i due piroscafi sono in vista di Talamone, il piccolo centro marinaro della Maremma (Toscana), nel quale Garibaldi dovrà fornirsi di armi. Poco prima ai Garibaldini è stato letto un ordine del giorno che li ribattezza «Cacciatori delle maggiormente le diversità e gli effetti «scomodi» della distanza geografica fra la Sicilia ed il Piemonte. E non solo…

Primo aiutante viene nominato il Colonnello ungherese Stefano Türr; Capo di Stato Maggiore viene nominato il Colonnello Giuseppe Sirtori.

In vista di Talamone, Garibaldi si affretta ad indossare la divisa di Generale del Regio Esercito Sardo (cioè Piemontese). Perché tale deve apparire al presidio militare di Talamone. Sui due piroscafi viene issata la bandiera del Regno Sabaudo (tricolore italiano con lo scudo sabaudo al centro, sulla banda bianca). Le navi si fermano a poca distanza dalla costa.

Dalla piccola banchina di Talamone, dopo circa mezz’ora, si distacca una lancia con un equipaggio costituito da timoniere, tre rematori e due ufficiali. Si avvicina al Piemonte. Poi, faticosamente, gli ufficiali salgono a bordo. Garibaldi li riceve nella propria cabina. Parla loro affabilmente. Recita la parte del Generale che deve compiere una missione per conto di Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele. Una missione segreta, ovviamente, della quale non deve restare niente di scritto.

I due ufficiali toscani recitano, a loro volta, la parte di coloro che, per carità di patria, credono facilmente alla parola di un superiore. Per giunta ufficiale e gentiluomo (quale il Nizzardo certamente non è). La fama di Garibaldi, peraltro, è vastissima. È stata alimentata in ogni modo. Garibaldi è già l’Eroe per antonomasia. Tutti lo mitizzano e, nello stesso tempo, ne conoscono i movimenti ed i piani. Anche a Talamone.

tutt’altro che azzeccata per un esercito che deve andare a conquistare la Sicilia, millantando di condividerne i destini e vantando una certa fratellanza. Un nome che, in pratica, evidenzia GARIBALDI, LA FARSA, LE BUGIE – Nessun sospetto, ma solo certezze, dunque. Si capisce fin troppo bene che Garibaldi snocciola una serie di bugie. Del resto le armi, i viveri e le munizioni non sono lì proprio per lui? Perché perdere altro tempo? A Talamone gli sarà dato, pertanto, tutto quello che è disponibile. Assicurano, premurosi, i due ufficiali. Uno dei quali, il più anziano, si chiama De Labar.

Il grosso delle forniture, però, è custodito presso i magazzini di Orbetello, dove comanda il Colonnello Giorgini. Questi sicuramente non mancherà di mettersi, a sua volta, a disposizione. Orbetello dista da Talamone circa quindici chilometri. A Stefano Türr viene dato l’incarico di andare con dei carri a ritirare tutto ciò che serve. Garibaldi gli affida a tale scopo una lettera per il Colonnello Giorgini. Evidentemente si è già dimenticato di avere affermato che non bisogna lasciare traccia. Ma si sa: si recita a soggetto. I primi attori possono inserire le battute che credono più adatte.

MANO MORTA E PIZZICOTTO DI BIXIO – Per dare un’idea del clima umano e politico nel quale si svolgono questi eventi, riportiamo un piccolissimo passaggio della cronaca elaborata con disinvoltura da Giancarlo Fusco, dopo più di un secolo. Il Fusco è credibile, soprattutto quando si avvale, riprendendone fedelmente il testo, delle memorie del tenente Giuseppe Bandi. Questi è persona di fiducia di Garibaldi ed è un prezioso testimone oculare, dal quale anche noi attingeremo molte notizie di prima mano.

«Guidati dal tenente De Labar, Garibaldi e i suoi ufficiali, ai quali si è aggiunto Bixio, salgono verso il castello, dove l’anziano ufficiale di artiglieria abita con la moglie molto più giovane. La signora, avvisata da un ragazzetto ch’è corso avanti, ha indossato il suo vestito migliore. Di seta viola, con un mazzetto di fiori finti ficcati nel fisciù, a nascondere, in piccola parte, la scollatura molto ampia e profonda”. È una donna sui trenta, non proprio bella, ma molto piacente. Anni dopo, in un volumetto di ricordi, Bandi la descriveva così:

«[…] Per quanto l’abito che indossava fosse assai ricco, saltano subito all’occhio le sue rigogliose rotondità. Aveva pupille scure e vivacissime. La freschezza delle sue labbra e il candore dei suoi denti mettevano in risalto la sua giovinezza, a petto della quale, per contrasto, il povero marito appariva addirittura decrepito. Il Generale le fece i suoi complimenti, mentre Bixio, secondo il suo solito, cercò subito d’arrembarla, torcendosi il baffo. Senza perdersi in convenevoli, le chiede subito se potesse accompagnarlo a visitare la cima della torre, con l’evidente speranza di trovarsi secolei a tu per tu e allungar le mani… Ma il Generale, avvedutosi di quelle manovre, dopo una degustazione di ottimo ratafià, pose fine alla visita».

Ma non finisce qui. Arrivato mezzogiorno la generosa signora De Labar, nonostante fosse in agitazione per le occhiate audaci del Bixio, invita gli ospiti a restare a colazione.

Ci riferisce ancora il bravo narratore:

«Ma Garibaldi, con gentile fermezza, declina l’invito. Accetta, invece, che l’attempato marito lo accompagni, assieme agli altri, a mangiare un boccone alla buona, dall’Annina. La vedovella di un marinaio che tiene osteria nel Borgo Vecchio di Talamone. […] Mangiammo riso in brodo, manzo bollito con contorno di saporitissimi fagioli bianchi e, alla fine, una frittata di cipolle da ricordare – ci racconta il Bandi -. Ma, essendo l’ostessa, certa Anna Mazzocchi, poco più in là della trentina, belloccia e pronta alla battuta, il solito Bixio attaccò subito a mangiarla con gli occhi, a sussurrarle parole conturbevoli e a farle la mano morta ogni volta che le passasse a tiro. Così che, a un certo punto, pizzicata con la forza nel posteriore, la donna non poté trattenere un grido e si rifugiò in cucina, tuttavia avvampata in volto e con gli occhi umidi. Al che, il Generale, assai contrariato, richiamò all’ordine Bixio, rammentandogli che non s’era partiti da Quarto per un viaggio di piacere e per dare la caccia alle femmine, ma per un motivo ben più nobile e serio».(10)

Il Colonnello Giorgini, intanto, arriva a Talamone per conferire personalmente con Garibaldi. È molto rispettoso dell’Eroe e durante il colloquio rimane sempre sull’attenti. Dichiara, tuttavia, di volere alcune assicurazioni. Vorrebbe, cioè, garanzie che le armi che gli saranno consegnate non verranno utilizzate, ad esempio, per sferrare un attacco al confinante Stato della Chiesa. Deve fargli capire che, in quanto ufficiale anch’egli di S.M. Vittorio Emanuele, non può avere incidenti, né complicazioni, con la diplomazia straniera.

Garibaldi lo rassicura. La verità è però alquanto diversa, perché è già stata programmata, per poi essere smentita in alto loco, un’azione di penetrazione verso lo Stato di Pio IX. Si tratta di poca cosa, per la verità, decisa in parte nella speranza che le popolazioni si ribellino, in parte per depistare l’opinione pubblica ed eventuali spie Duo-siciliane sugli effettivi scopi di quella Spedizione. Ed in parte per fare bella figura con gli Inglesi, ai quali lo Stato Pontificio appare come il più pericoloso degli avversari della politica espansionistica dell’Impero di S.M. Britannica. Ed infine perché uno sgarbo in più, verso quell’antipatico del Papa, non guasterà certamente (Fine terza puntata/continua).

(7) G. C. Abba, op. cit., p. 115, nota 3.

(8) Il territorio del Regno delle Due Sicilie comprendeva, oltre che la Sicilia, le attuali regioni di Calabria, Basilicata, Campania, Puglie, Abbruzzi e Molise (nonché quasi tutte le isole minori del Tirreno) e che allora, rispetto a quello dell’Italia Meridionale, così com’è definita oggi, era più vasto. Alcune delle regioni sopraccitate includevano comuni, province e popolazioni che sarebbero stati, dopo l’Unità, d’autorità ed innaturalmente aggregati ad altre regioni confinanti.

(9) Francesco Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1870, Sellerio, Palermo, 1987, vol. I, pag. 152.

(10) Vedi Giancarlo Fusco, I Mille e una notte – Storia erotica del Risorgimento, Tattilo, Roma 1974, pagg. 15 e 16.

Foto tratta da turismoinmaremma.wordpress.com

AVVISO AI NOSTRI LETTORI

Se ti è piaciuto questo articolo e ritieni il sito d’informazione InuoviVespri.it interessante, se vuoi puoi anche sostenerlo con una donazione. I InuoviVespri.it è un

l’anziano ufficiale di artiglieria abita con la moglie molto più giovane. La signora, avvisata da un ragazzetto ch’è corso avanti, ha indossato il suo vestito migliore. Di seta viola, con un mazzetto di fiori finti ficcati nel fisciù, a nascondere, in piccola parte, la scollatura molto ampia e profonda”. È una donna sui trenta, non proprio bella, ma molto piacente. Anni dopo, in un volumetto di ricordi, Bandi la descriveva così:

«[…] Per quanto l’abito che indossava fosse assai ricco, saltano subito all’occhio le sue rigogliose rotondità. Aveva pupille scure e vivacissime. La freschezza delle sue labbra e il candore dei suoi denti mettevano in risalto la sua giovinezza, a petto della quale, per contrasto, il povero marito appariva addirittura decrepito. Il Generale le fece i suoi complimenti, mentre Bixio, secondo il suo solito, cercò subito d’arrembarla, torcendosi il baffo. Senza perdersi in convenevoli, le chiede subito se potesse accompagnarlo a visitare la cima della torre, con l’evidente speranza di trovarsi secolei a tu per tu e allungar le mani… Ma il Generale, avvedutosi di quelle manovre, dopo una degustazione di ottimo ratafià, pose fine alla visita».

Ma non finisce qui. Arrivato mezzogiorno la generosa signora De Labar, nonostante fosse in agitazione per le occhiate audaci del Bixio, invita gli ospiti a restare a colazione.

Ci riferisce ancora il bravo narratore:

«Ma Garibaldi, con gentile fermezza, declina l’invito. Accetta, invece, che l’attempato marito lo accompagni, assieme agli altri, a mangiare un boccone alla buona, dall’Annina. La vedovella di un marinaio che tiene osteria nel Borgo Vecchio di Talamone. […] Mangiammo riso in brodo, manzo bollito con contorno di saporitissimi fagioli bianchi e, alla fine, una frittata di cipolle da ricordare – ci racconta il Bandi -. Ma, essendo l’ostessa, certa Anna Mazzocchi, poco più in là della trentina, belloccia e pronta alla battuta, il solito Bixio attaccò subito a mangiarla con gli occhi, a sussurrarle parole conturbevoli e a farle la mano morta ogni volta che le passasse a tiro. Così che, a un certo punto, pizzicata con la forza nel posteriore, la donna non poté trattenere un grido e si rifugiò in cucina, tuttavia avvampata in volto e con gli occhi umidi. Al che, il Generale, assai contrariato, richiamò all’ordine Bixio, rammentandogli che non s’era partiti da Quarto per un viaggio di piacere e per dare la caccia alle femmine, ma per un motivo ben più nobile e serio».(10)

Il Colonnello Giorgini, intanto, arriva a Talamone per conferire personalmente con Garibaldi. È molto rispettoso dell’Eroe e durante il colloquio rimane sempre sull’attenti. Dichiara, tuttavia, di volere alcune assicurazioni. Vorrebbe, cioè, garanzie che le armi che gli saranno consegnate non verranno utilizzate, ad esempio, per sferrare un attacco al confinante Stato della Chiesa. Deve fargli capire che, in quanto ufficiale anch’egli di S.M. Vittorio Emanuele, non può avere incidenti, né complicazioni, con la diplomazia straniera.

Garibaldi lo rassicura. La verità è però alquanto diversa, perché è già stata programmata, per poi essere smentita in alto loco, un’azione di penetrazione verso lo Stato di Pio IX. Si tratta di poca cosa, per la verità, decisa in parte nella speranza che le popolazioni si ribellino, in parte per depistare l’opinione pubblica ed eventuali spie Duo siciliane sugli effettivi scopi di quella Spedizione. Ed in parte per fare bella figura con gli Inglesi, ai quali lo Stato Pontificio appare come il più pericoloso degli avversari della politica espansionistica dell’Impero di S.M. Britannica. Ed infine perché uno sgarbo in più, verso quell’antipatico del Papa, non guasterà certamente (Fine terza puntata/continua).

(7) G. C. Abba, op. cit., p. 115, nota 3.

(8) Il territorio del Regno delle Due Sicilie comprendeva, oltre che la Sicilia, le attuali regioni di Calabria, Basilicata, Campania, Puglie, Abbruzzi e Molise (nonché quasi tutte le isole minori del Tirreno) e che allora, rispetto a quello dell’Italia Meridionale, così com’è definita oggi, era più vasto. Alcune delle regioni sopraccitate includevano comuni, province e popolazioni che sarebbero stati, dopo l’Unità, d’autorità ed innaturalmente aggregati ad altre regioni confinanti.

(9) Francesco Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1870, Sellerio, Palermo, 1987, vol. I, pag. 152.

(10) Vedi Giancarlo Fusco, I Mille e una notte – Storia erotica del Risorgimento, Tattilo, Roma 1974, pagg. 15 e 16.

fonte https://www.inuovivespri.it/2018/12/02/la-vera-storia-dellimpresa-del-mille-3-i-mille-erano-quasi-tutti-del-nord-italia/

Read More

LA CALUNNIA E’ COME UN VENTICELLO

Posted by on Apr 17, 2019

LA CALUNNIA E’ COME UN VENTICELLO

Quando gli studiosi di… regime si scagliano in modo selvaggio contro i Borbone, non posso che prendere la penna e cercare di difendere il mio Sud, le mie tradizioni e la mia Storia, quella che mi è stata insegnata, fin dalla tenera età, quando nonno Antonino, vicino al focone, mi parlava dei briganti, che si riunivano sul monte Polveracchio, dei Borbone, che amavano le nostre zone e che cercavano di rendere la vita nel loro regno il più vivibile possibile.

Read More

La vera storia dell’impresa dei Mille (II) La farsa di Quarto e i Repubblicani sul libro paga dei britannici

Posted by on Apr 15, 2019

La vera storia dell’impresa dei Mille (II) La farsa di Quarto e i Repubblicani sul libro paga dei britannici

Seconda puntata del libro di Giuseppe Scianò “… e nel maggio del 1860 la Sicilia diventò colonia” (Pitti edizioni Palermo). La prefazione nella quale si dà atto a Pino Aprile di avere aperto uno squarcio nella disinformazione italiana sulla storia del Sud nel Risorgimento. Quindi il primo capitolo con la sceneggiata della finta ‘cattura’ dei piroscafi ‘Lombardo’ e ‘Piemonte. Il viaggio verso la Sicilia scortati dai piemontesi e, soprattutto, dagli inglesi

di Giuseppe Scianò

PREFAZIONE

Pino Aprile, noto giornalista e scrittore pugliese (nato nel 1950), già vicedirettore di Oggi e direttore di Gente, che aveva lavorato con Sergio Zavoli nell’inchiesta a puntate «Viaggio nel Sud» e a Tv7, settimanale del Tg1, nel 2010 ha pubblicato il libro Terroni, incentrato sulla conquista del Sud-Italia, o, per meglio dire, dei territori del Regno delle Due Sicilie, da parte del Regno Sabaudo di Vittorio Emanuele II, il quale, a sua volta, agiva sotto la protezione e per mandato del Governo Britannico.

Il libro ebbe un successo immediato ed eclatante e non costituì soltanto un «caso letterario», ma divenne un evento storico, culturale e politico, i cui effetti sono ancora in piena evoluzione. Vi si comprende, infatti, come e perché il Sud divenne una colonia interna del neonato Regno d’Italia.
Anche se altri avevano affrontato lo «scottante» argomento, fra cui l’indimenticabile Carlo Alianello (e tanti altri Meridionalisti e Sicilianisti, molti dei quali viventi e con i quali ci scusiamo per non poterli citare tutti), considerato il capostipite del revisionismo «moderno» del Risorgimento, Pino Aprile ha avuto il grande merito di «prendere di petto» le tante, scottanti, «verità», che erano state occultate e spesso sostituite dalle favolette e dalle leggende della cultura ufficiale italiana.

TRA MASSACRI E GENOCIDI – Sono stati portati alla luce massacri, genocidi, persecuzioni, saccheggi, deportazioni ed, in una parola, le gravissime violazioni dei diritti dell’Uomo, soprattutto per l’uso spregiudicato di truppe mercenarie provenienti sia dall’Europa (da ricordare la «feroce» Legione Ungherese…) che dall’India e dall’Africa, che attuarono espoliazioni e rapine di ogni tipo. Delitti, questi, che si sarebbero protratti anche nel periodo successivo al fatale 1860…

Sono tornati così alla luce quei fenomeni di alienazione culturale e di lavaggio collettivo dei cervelli, di cui tanto aveva parlato Frantz Fanon per i Paesi del cosiddetto «Terzo Mondo» negli anni Cinquanta del secolo scorso.

Finalmente viene messo sotto accusa il Regno d’Italia per i crimini commessi nel 1860! Ed anche successivamente…

I GRANDI MERITI DI PINO APRILE – Con il «libro» di ricerca, di «documentazione» e di denunzia di Pino Aprile, sostanzialmente la verità è diventata ancora una volta «rivoluzionaria». Ed i popoli del «soppresso» Regno delle Due Sicilie hanno cominciato a capire che è, per loro, un diritto ed un dovere quello di uscire finalmente e decisamente dalla condizione di letargo (anzi: narcosi), nella quale sono stati regalati dal 1860 ai nostri giorni.

I nostri Popoli sono cioè diventati sempre più determinati nel fare i primi passi verso lo sviluppo, il progresso e verso quella civiltà che era un loro «bagaglio» e una loro ricchezza, un loro obiettivo prioritario. Soprattutto hanno compreso che devono lottare per ritornare in quei Consessi Internazionali e sovranazionali, dai quali ancora oggi sono esclusi proprio per l’antistorica condizione coloniale.

Per completare la «cronaca» di questo tormentato periodo della storia della Sicilia possiamo anticipare che con il «Plebiscito», falso e bugiardo, del 21 ottobre 1860, si confermò ciò che si sarebbe dovuto con ogni mezzo negare. E cioè che la Sicilia, già nel mese di maggio del 1860 era diventata una colonia di sfruttamento interna al Regno Sabaudo (in qualsiasi modo denominato)…

In questa sede ricostruiremo le principali vicende che avevano determinato e caratterizzato la «conquista» della Sicilia e la sua riduzione in colonia interna del Regno d’Italia. Il tutto al servizio del recupero della verità.

Con questo nostro lavoro, che sottoponiamo all’attenzione ed al giudizio dei lettori, non possiamo ovviamente parlare di tutto, ma abbiamo cercato di spiegare – in ordine logico e cronologico e con la speranza di non trascurare alcuno dei fatti principali – quanto avvenne in Sicilia e nella parte continentale del Regno delle Due Sicilie, appunto dal mese di maggio del 1860 e per il quinquennio successivo.

Ribadiamo che consideriamo il diritto alla verità come diritto fondamentale (fino ad oggi, di fatto, negato) dei Popoli del soppresso Regno delle Due Sicilie.

CAPITOLO PRIMO/  5 maggio 1860: da Quarto i Mille prendono il mare. La prima tappa sarà Talamone

Una sera nel porto di Genova…

La sera del 5 maggio 1860 dal porto di Genova fu allontanata la polizia portuale e furono allontanati anche curiosi e «perditempo». C’era nell’aria qualcosa di grosso che tutti ben conoscevano, ma della quale era assolutamente vietato fare cenno. Due piroscafi, il Lombardo ed il Piemonte, si dondolavano tranquillamente nella rada.
Avevano da poco cambiato proprietario. Il loro acquisto era stato trattato ed operato riservatamente da emissari del Governo Piemontese con il sig. Fauchet, amministratore della Società Armatrice Rubattino. Quei due piroscafi servivano, infatti, per trasportare in Sicilia Garibaldi ed un mi- gliaio di uomini. Si trattava del primo nucleo di quell’Armata che avrebbe conquistato la Sicilia.
Agli occhi del corpo diplomatico, dell’opinione pubblica e di non po- chi cronisti e dei futuri storici, il Lombardo ed il Piemonte, tuttavia, dovevano apparire catturati, nel corso di una imprevista ed audace azione piratesca, dai Garibaldini. Il finto colpo di mano verrà affidato a Nino Bixio (1) collaborato dal Capitano Castiglia (uno dei pochissimi Siciliani che partecipavano alla Spedizione garibaldina).
I due eroi, con un manipolo di volontari, penetrarono, quindi, nel porto, avanzando nell’oscurità. Successivamente, utilizzando una tartana, provvidenzialmente trovata ormeggiata nella banchina antistante a quel tratto di mare, si avvicinarono ai bastimenti.
A bordo del Piemonte e del Lombardo, in quel momento, si trovavano, al completo, i rispettivi equipaggi, che, però, guarda caso, stavano dormendo fin troppo sodo…
Il tutto con assoluta fedeltà al copione. Ovviamente.

LA ‘CATTURA’ DEI PIROSCAFI PIEMONTE E LOMBARDO – I volontari si arrampicarono sui due vapori (non casualmente privi di sentinelle) e, armati di revolver, finsero di svegliare dal loro sonno i marinai, compresi gli uomini che avrebbero dovuto fare la guardia. Quindi costrinsero «i fuochisti ad accendere le caldaie, i marinai a salpare l’ancora, i macchinisti a prepararsi al loro mestiere», «tutti a sgomberare, a pulire il bastimento, ad allestirlo in fretta per la partenza. E così avrebbero fatto – conclude un nostro testimone – col massimo ordine e silenzio e non senza molti sorrisi d’ironia per quella farsa con cui l’epopea esordiva».(2)
Aggiungiamo che Bixio, subito dopo, avrebbe fatto un discorsetto ai marinai, i quali, peraltro, avevano provveduto per tempo a salutare le ri- spettive famiglie, lasciando un gruzzoletto di soldi, maggiore di quello che di solito lasciavano per le frequenti lunghe assenze che la vita di marittimo comportava.
Quando si dice le coincidenze!

LA RECITA – In sostanza, il braccio destro avrebbe detto agli stessi marinai che potevano scegliere fra tornare a casa o arruolarsi con Garibaldi per conquistare (anzi: per liberare) il Regno delle Due Sicilie e per fare l’Unità d’Italia. I marinai, entusiasti, avrebbero detto di scegliere, seduta stante, la seconda opzione. Non a caso si erano portati anche la biancheria di ricambio.
Quarto, nella notte fra il 5 e il 6 maggio 1860, si parte!…
Le operazioni di messa in moto dei due piroscafi sarebbero state lente, complicate, confuse. E avrebbero richiesto diverse ore. Garibaldi, nella vicinissima borgata di Quarto, attende nervoso e preoccupato. Comincia già a sospettare che Bixio abbia fatto fiasco, nonostante tutto fosse stato preparato, per filo e per segno. Nei minimi dettagli, insomma.
Tuttavia, c’è da dire che anche la presenza a Quarto di Garibaldi, alloggiato a Villa Spinola, e la concentrazione di quegli oltre Mille volontari, con non pochi accompagnatori, erano ufficialmente un segreto. Così come era un segreto il fatto che gli alberghi di Genova e dintorni erano zeppi di clienti e che non tutti vi avevano trovato alloggio. Molti bivaccavano nei dintorni. Erano quei segreti all’italiana che avrebbero tanto affascinato i lettori dei giornali Inglesi in tutto il mondo. E avrebbero in seguito dato modo all’agiografia risorgimentale di avvalorare la tesi della spontaneità dell’iniziativa.
Finalmente, al largo dello «scoglio di Quarto», comparvero, sbuffando, i due piroscafi che si fermarono, però, prudentemente a debita distanza dalla riva. Non vi saranno problemi, perché, fortunatamente, sono già belle e pronte tante barche di ogni tipo per portare i Mille a bordo dei due colossi del mare. A questo punto entra in scena Garibaldi.
Ecco cosa scrive in proposito l’Abba:
«… Dinanzi, sullo stradale che ha il mare lì sotto, v’era gran gente e un bisbiglio e un caldo che infocava il sangue. La folla oscillava: “Eccolo! No, non ancora!”. E invece di Garibaldi usciva dal cancello qualcuno che scendeva verso il mare, o spariva per la via che mena a Genova. Verso le dieci la folla fece largo più agitata, tacquero tutti, era Lui!».(3)

I MILLE SCORTATI DA CAVOUR E DAGLI INGLESI – “Le numerose barche, poterono, così, avere l’ordine di procedere al traghettamento dei volontari sui piroscafi. Anche questa operazione durerà diverse ore. Ma non c’è fretta. Nessuno insegue i Garibaldini o minaccia di interromperne le manovre maldestre. Una sola condizione: la consegna del silenzio. Nessuno deve sapere niente… (quantomeno ufficialmente).
La prima sosta è prevista a Talamone, in Toscana. Ed in tale direzione i due piroscafi procedono tranquillamente. Appena si sono allontanati abbastanza dalle acque di Quarto, il Piemonte ed il Lombardo vengono seguiti con discrezione da alcune navi da guerra Piemontesi, agli ordini dell’Ammi- raglio Persano. Ufficialmente le navi da guerra Piemontesi dovrebbero inseguire e catturare quei pirati, che hanno avuto l’ardire di rubare le due navi.
Ma i veri ordini in merito li ha dati riservatamente e per iscritto il Capo del Governo, Camillo Benso conte di Cavour, allo stesso Persano e sono fin troppo chiari, anche per il politichese dell’epoca:
«Vegga di navigare – gli scrive – tra Garibaldi e gli incrociatori napolitani. Spero m’abbia capito».
In sostanza, la flotta piemontese non dovrà assolutamente raggiungere né bloccare la spedizione garibaldina. La dovrà soltanto proteggere da eventuali attacchi della Marina da Guerra Duosiciliana. L’Ammiraglio Persano non è certamente un’aquila, ma sa comprendere fin troppo bene ciò che Inglesi e Governo Piemontese gli ordinano di fare, di volta in volta.
Prescindendo dall’affidabilità del Cavour e del Persano, gli Inglesi, a loro volta, avevano adottato già qualche precauzione. A debita distanza della flotta piemontese, infatti, vi erano alcune navi da guerra britanniche che avevano preso sotto protezione i nostri eroi e le navi Piemontesi.
E li scorteranno fino alle acque territoriali siciliane. Qui avrebbero trovato altre navi britanniche.

L’ACCORDO TRA GARIBALDI E VITTORIO EMANUELE II – Insomma: le precauzioni del Governo di Londra non sono mai troppe. E saranno sempre utili, se non necessarie.
Il giorno 7 maggio 1860, l’Abba ci descrive, con i soliti intenti agiografici, il momento della lettura dell’ordine del giorno:
«La missione di questo corpo sarà, come fu, basata sull’abnegazione, la più completa davanti alla rigenerazione della patria. I prodi Cacciatori servirono e serviranno il loro paese colla devozione e disciplina dei migliori corpi militanti, senza altra speranza, senz’altra pretesa che quella della loro incontaminata coscienza. Non gradi, non onori, non ricompensa, allettarono questi bravi; essi si rannicchiarono nella modestia della vita privata, allorché scomparve il pericolo; ma suonando l’ora della pugna, l’Italia li rivede ancora in prima fila ilari,

volenterosi e pronti a versare il loro sangue per essa. Il grido di guerra dei Cacciatori delle Alpi è lo stesso che rimbombò sulle sponde del Ticino or sono dodici mesi: “Italia e Vittorio Emanuele!”, e questo grido ovunque pronunziato da noi incuterà spavento ai nemici dell’Italia».(4)
Un particolare poco evidenziato: i Garibaldini sono a tutti gli effetti incorporati nell’Esercito Sabaudo, nel Corpo dei «Cacciatori delle Alpi».
Ed è questa una situazione a dir poco scandalosa.
Dai punti di vista morale, politico, giuridico e costituzionale resta il fatto che il proclama, che tanto fa commuovere l’Abba, altro non era che un’altra dimostrazione di come, fin dall’inizio, si fosse progettato di imporre alla Sicilia l’annessione al Regno di Vittorio Emanuele II. A prescindere dalla volontà dei Siciliani ed a prescindere dal plebiscito che, falso e spudorato, si sarebbe svolto soltanto il 21 ottobre di quell’anno.
Alcuni repubblicani intransigenti, indignati (pochissimi, per la verità), avrebbero successivamente tagliato la corda e se ne sarebbero andati. Altri, ben sistemati nella macchina unitaria, sarebbero rimasti.
Per Garibaldi il problema non esisteva. Fra l’altro il Nizzardo era legato, oltre che dalle tante affinità culturali e morali, anche da sincero affetto a Vittorio Emanuele II. Con questi aveva addirittura un filo diretto di costante intesa e di reciproca complicità. Senza però escludere qualche rivalità per il ruolo di prima donna del Risorgimento. Rivalità che però non riusciva a scalfire l’amicizia né i vincoli di consorteria… se non per brevi periodi.

ANCHE I REPUBBLICANI SUL LIBRO PAGA DEI BRITANNICI – Luigi Russo così scrive: «Il proclama fondeva in una sola unità i Mille ed i Volontari della campagna alpina dell’estate precedente; ma non tutti furono contenti delle parole del Generale. Il motto “Italia e Vittorio Emanuele!” garbò poco ai mazziniani, i quali avevano sperato che in Garibaldi, una volta in mare e con la camicia rossa, risorgesse la fede e l’istinto repubblicano.» […] (5)
E lo stesso Abba, giudicando quell’episodio a distanza di anni, così lo racconta con la sua consueta benigna equanimità:
«Molti non si sapevano liberare da certo scontento che aveva la- sciato loro il motto monarchico; ma la disciplina volontaria era forte. Difatti si staccarono poi dalla spedizione e se ne tornarono di là, alle loro case, soltanto sei o sette giovani cari. Seguivano il sardo Bruno Onnis che del motto “Italia e Vittorio Emanuele!” era rimasto quasi offeso. Repubblicano inflessibile, si era imbarcato a Genova sperando forse che Garibaldi, una volta in mare, si ricordasse d’essere anche egli repubblicano; ma deluso, ora se ne andava e se ne andavano con lui quei pochi, però senza che fosse fatto a loro nessun rinfaccio. Rinunciavano per la loro idea ad una delle più grandi soddisfazioni che cuor di allora potesse avere, e il sacrificio meritava rispetto».(6)
Quello che i memorialisti omettono, talvolta, di puntualizzare è che non pochi repubblicani, taluni diventati poi Padri della Patria, erano (pure loro!), nel libro paga del Governo Britannico già da tempo. Non si possono più dissociare, quindi, dal grande progetto unitario, proprio nel momento in cui questo sta per essere realizzato.
E sono costretti a fare buon viso a cattiva sorte…(Fine seconda puntata/continua)

Foto tratta da felicitapubblica.it

(1) Nino Bixio (nato a Genova nel 1821 e morto a Sumatra nel 1873) era di fatto il numero due della spedizione dei Mille, Luogotenente e uomo di fiducia di Garibaldi. Personaggio molto discusso. Diventò decisamente impopolare in Sicilia, soprattutto per la fucilazione, ordinata a Bronte il 10 agosto del 1860, di cinque cittadini (fra cui l’avvocato Nicolò Lombardo) sospettati di essere coinvolti nella sanguinosa sommossa di qualche giorno prima. Il tutto senza prove e per compiacersi gli Inglesi che avevano tanto aiutato l’impresa garibaldina. Sia durante la spedizione garibaldina del 1860, sia nella sua attività politica successiva, Bixio usò sempre toni sprezzanti verso i Siciliani

(2) Giuseppe Guerzoni, Vita di Bixio, pag. 158, Barbera, 1875. Testimonianza, questa, ripresa da Lorenzo Bianchi nel commento all’edizione del 1955 del testo Da Quarto al Volturno, di Giuseppe Cesare Abba, pagg. 28-29, Zanichelli.

(3) G. C. Abba, op. cit., pag. 18.

(4) Lo stesso proclama sarà letto, come vedremo, da Garibaldi in persona, dopo lo sbarco a Talamone, di fronte a tutto l’esercito garibaldino schierato. Peccato che in Sicilia troppi intellettuali e troppi scrittori continuino a parlare di un Garibaldi uomo sincero ed in perfetta buona fede, democratico, repubblicano e persino autonomista. Ingannato, però, da altri… La verità è che nel 1860 furono traditi ed ingannati soltanto i Siciliani.

(5) Luigi Russo, nelle note al libro Da Quarto al Volturno, di G. Cesare Abba, pag. 118, Sellerio, 2010.

(6) Ibidem.

Prima Puntata

fonte

Read More

La vera storia dell’impresa dei Mille: tutto quello che i libri di storia continuano a nascondere

Posted by on Apr 14, 2019

La vera storia dell’impresa dei Mille: tutto quello che i libri di storia continuano a nascondere

Cominciamo oggi la pubblicazione a puntate di un saggio scritto da Giuseppe ‘Pippo Scianò, figura storica dell’Indipendentismo siciliano. Libro dal titolo emblematico: “e nel maggio del 1860 LA SICILIA DIVENTO’ COLONIA” (Pitti edizioni Palermo, 18,50 euro). Titolo che sintetizza in modo efficace la storia di un volgare imbroglio, contrabbandato come grande impresa epica. In realtà, come leggerete in questo volume – ricco di citazioni originali e di fatti nascosti dalla storiografia ufficiale – nell’impresa non di Garibaldi, ma degli inglesi che lo foraggiavano e gli impartivano ordini, non c’è proprio nulla di eroico.

Non vogliamo anticiparvi quello che leggerete, sicuramente con interesse, anche divertendovi, perché nell’operetta oscena dell’impresa dei Mille non mancarono gli aspetti tragicomici.

Due cose, però, le vogliamo dire.

La prima cosa è che quella che è passata alla storia come ‘L’impresa dei Mille’ fu, in verità, un’operazione di immane corruzione morale ed economica.

Senza la corruzione operata dagli inglesi e dai piemontesi e, soprattutto, senza il tradimento di generali, ammiragli e alti ufficiali del Regno delle Due Sicilie Garibaldi e i suoi ‘Mille’ non avrebbero nemmeno messo piede in Sicilia.

La seconda cosa – legata sempre alla corruzione – è il ruolo esercitato dalla criminalità organizzata del Sud. In questo volume Scianò parla solo della Sicilia e, per ciò che riguarda i criminali, della mafia siciliana, allora già attiva, anche se legata al feudo. 

Per i nostri lettori non si tratta di una novità. Nelle dieci puntare della ‘Controstoria dell’impresa del Mille’ pubblicata su questo blog (QUI TROVATE LE DIECI PUNTATE DELLA CONTROSTORIA DELL’IMPRESA DEI MILLE) abbiamo già raccontato del ruolo attivo svolto dalla mafia nelle ‘imprese’ garibaldine in Sicilia.

Nel saggio di Scianò l’argomento viene trattato in modo molto dettagliato. E questo è importante, perché è solo approfondendo la storia di quei giorni – quando comincia quella che lo scrittore Carlo Alianello definisce ‘La conquista del Sud’ – che si comincia a capire perché l’Italia di oggi è così brutta.

Del resto, lo stesso Indro Montanelli – che dell’impresa del Mille ha raccontato poco o nulla – ammette che il ‘mastice’ con il quale, nel Risorgimento, è stata fatta l’Italia era debole. Perché, aggiunge, il Risorgimento fu un fatto che riguardò pochi, lasciando fuori il popolo, che l’unità d’Italia la subì. 

La prima cosa è che quella che è passata alla storia come ‘L’impresa dei Mille’ fu, in verità, un’operazione di immane corruzione morale ed economica.

Senza la corruzione operata dagli inglesi e dai piemontesi e, soprattutto, senza il tradimento di generali, ammiragli e alti ufficiali del Regno delle Due Sicilie Garibaldi e i suoi ‘Mille’ non avrebbero nemmeno messo piede in Sicilia.

La seconda cosa – legata sempre alla corruzione – è il ruolo esercitato dalla criminalità organizzata del Sud. In questo volume Scianò parla solo della Sicilia e, per ciò che riguarda i criminali, della mafia siciliana, allora già attiva, anche se legata al feudo. 

Per i nostri lettori non si tratta di una novità. Nelle dieci puntare della ‘Controstoria dell’impresa del Mille’ pubblicata su questo blog (QUI TROVATE LE DIECI PUNTATE DELLA CONTROSTORIA DELL’IMPRESA DEI MILLE) abbiamo già raccontato del ruolo attivo svolto dalla mafia nelle ‘imprese’ garibaldine in Sicilia.

Nel saggio di Scianò l’argomento viene trattato in modo molto dettagliato. E questo è importante, perché è solo approfondendo la storia di quei giorni – quando comincia quella che lo scrittore Carlo Alianello definisce ‘La conquista del Sud’ – che si comincia a capire perché l’Italia di oggi è così brutta.

Del resto, lo stesso Indro Montanelli – che dell’impresa del Mille ha raccontato poco o nulla – ammette che il ‘mastice’ con il quale, nel Risorgimento, è stata fatta l’Italia era debole. Perché, aggiunge, il Risorgimento fu un fatto che riguardò pochi, lasciando fuori il popolo, che l’unità d’Italia la subì. 

Regno delle Due Sicilie, che ancora era uno Stato libero ed indipendente.

Paradossalmente avviene che la sola ipotesi di un eventuale Stato Siciliano

sovrano – proprio per la posizione strategica della Sicilia nel Mediterraneo -venga vista con diffidenza dal Governo di Londra. Ciò nonostante la tradizionale amicizia ed i trascorsi sostanzialmente filo-inglesi di gran parte di Indipendentisti Siciliani ancora presenti sulla scena politica.

La Sicilia, insomma, viene considerata dal Gabinetto di Londra come un fattore di instabilità e di pericolo proprio per la pax britannica. Vale a dire proprio per quel progetto più grande di nuovo ordine che la stessa Inghilterra, maggiore potenza del mondo in quel momento, vuole instaura- re nel Mediterraneo ed in Europa.

La conquista della Sicilia diventa, pertanto, il primo obiettivo da rag- giungere, senza darle alcuna via di scampo. Ovviamente facendola ingloba- re nello Stato sardo-piemontese saldamente in mano a Vittorio Emanuele
II. Il tutto con l’inganno, con la violenza e… soprattutto manu militari. Ed a prescindere dalla volontà e dalle aspirazioni del Popolo Siciliano.

Il premier inglese Lord Palmerston, leader dei Whigs, peraltro forte di un fresco successo elettorale è, infatti, da sempre sostenitore dell’utilità di quel grande Stato Italiano, da costruire, facendolo estendere, come abbiamo già detto, dalle Alpi al centro del Mediterraneo. E che diventi forte e credibile fagocitando due realtà statuali importantissime: lo Stato Pontificio ed il Regno delle Due Sicilie. Da aggiungere alle altre realtà geopolitiche del Centro e del Nord-Italia, già fagocitate e che ci permettiamo di definire minori (rispettosamente), soprattutto in rapporto all’incidenza sulla grande strategia imperialista della Gran Bretagna.

Il Governo Inglese ha un suo ben definito programma che vuole attuare al più presto. Teme, infatti, che quel facilista di Napoleone III, Imperatore dei Francesi, si accorga prima o poi del ginepraio nel quale si è cacciato. E teme altresì che l’Impero Austro-Ungarico e la Russia decidano a loro volta di raggiungere una intesa per attivare qualche contromossa.

Occorre, dunque, far presto e dare a tutta l’operazione una parvenza di legittimità rivoluzionaria interna al Regno delle Due Sicilie, per ingannare meglio l’opinione pubblica internazionale. Occorrerà ovviamente fornire alle varie diplomazie, che non volessero né vedere né capire, una buona giustificazione per continuare, appunto, a non vedere e a non capire.

La rappresentazione della tragi-commedia dell’Unità d’Italia, a queste condizioni, può andare in scena.

Gli attori in Italia non mancano ed i ragazzi del coro neppure, alcuni di rango altissimo. Il copione lo ha in tasca da tempo lo stesso Lord Palmerston. Non è affatto segreto, soprattutto a Londra. Ed è condiviso dalla maggior parte degli uomini politici britannici e dalla stessa Regina Vittoria.
Occorre, però, aggiornare i programmi ed organizzare e dare attuazione ad una nuova e definitiva rivoluzione anti-borbonica e filo-italiana in Sicilia. La miccia della millantata rivoluzione la dovranno accendere quei Mille volontari forti e puri, che da Genova andranno a dare soccorso ai ribelli Siciliani e che proseguiranno, subito dopo, verso il «Continente» per dare soccorso ai ribelli Napoletani…

Fatte queste premesse illustreremo gli altri contenuti del copione, seguendone, sin da questo momento e passo dopo passo, l’esecuzione, mettendo a confronto le testimonianze e le descrizioni dell’impresa, dai suoi molteplici punti di vista. La prima parte del copione prevede, come sappia mo, che la Spedizione dei volontari, con alla testa Garibaldi, parta dalla Liguria alla volta della Sicilia. Lo scopo dichiarato: dare sostegno alla immaginata ed immaginaria grandissima rivoluzione in pieno svolgimento in tutta la Sicilia. E della quale la stampa internazionale è stata informata. E continuerà ad essere informata e coinvolta, con grande abilità.

Ovviamente il tutto dovrà avvenire senza compromettere ufficialmente il Governo Piemontese (che pure vi collaborerà a tempo pieno ed attiva- mente). Si dovranno, prima di ogni altra cosa, procurare o, per meglio dire, catturare (fingendo di sottrarli furtivamente), i due grossi piroscafi ‘Lombardo’ e ‘Piemonte’, di proprietà della Società di Navigazione Rubattino di Genova, e portarli al punto di partenza della Spedizione che sarà la borgata marinara genovese di Quarto (a sinistra, foto tratta da trentoincina.it)

I Garibaldini dovranno fare una sosta a Talamone, dove, con un finto colpo di mano, preleveranno le armi. Queste sceneggiate, pur se di qualità scadente, saranno utili a convincere l’opinione pubblica internazionale della spontaneità dell’iniziativa di Garibaldi (che comunque sarà rifornito di ottime armi, successivamente, in Sicilia). Da Talamone, inoltre, staccandosi dal grosso, una piccola colonna di Garibaldini fingerà addirittura di operare un’aggressione allo Stato Pontificio. Ciò per continuare ad ingannare l’opinione pubblica internazionale sulle reali finalità della Spedizione dei Mille.

Ed infine le navi degli eroi potranno puntare le loro prue alla volta della Sicilia, dove tutto è già predisposto per la sorpresa. Non si andrà, tuttavia, a casaccio. La méta prescelta è proprio Marsala, la cittadina dove maggiore è la presenza di cittadini Inglesi, di ogni tipo. È notevole, in particolare, la presenza di grossi imprenditori, che hanno investito capitali ed energie nel prestigioso vino liquoroso denominato, appunto, ‘Marsala’. E che possono vantare, in città, ed in tutta la Sicilia, una certa leadership commerciale e finanziaria. Nel porto di Marsala è peraltro un via vai continuo di navi commerciali britanniche, intensificatosi in modo sospetto negli ultimi tempi.

Per non fare correre alcun rischio ai prodi Garibaldini, è stato previsto che alcune navi da guerra della flotta militare piemontese li seguano senza perderli mai di vista. Lo scopo dichiarato sarà quello di inseguire i pirati che avranno intanto rubato i due piroscafi. Ovviamente la scorta dovrà mantenersi a debita distanza in maniera tale da non raggiungerli, ma, nel contempo, di essere nella condizione di intervenire, in loro difesa, nel caso in cui qualche nave della marina militare del Regno delle Due Sicilie intercettasse e cercasse di fermare la Spedizione.

Tutto previsto, compreso il supporto dell’esercito mercenario Ungherese, che sbarcherà in Sicilia dopo qualche settimana. Si reciterà sul mare, insomma. Ed anche sulla terra. In Sicilia e nel Napoletano, intanto, la massoneria, la mafia (1) e le benemerite Fratellanze di tradizione carbonara, nonché ’ndrangheta e camorra, e tante autorità ed alti gradi dell’esercito e dell’Amministrazione Statale Borbonica, sono stati mobilitati dai servizi segreti di Sua Maestà britanni- ca per rendere tutto più facile all’Eroe dei Due Mondi.

Andiamo, però, con ordine, per non sciupare lo spettacolo… Non privo di sorprendenti aspetti comici. Ma che non ci farà affatto ridere, in quanto foriero di sventure. Anzi causa principale di uno dei più grandi traumi che il popolo Siciliano abbia mai vissuto.(2)

Il copione prevede che la caduta del Regno delle Due Sicilie e la successiva annessione al Regno Sabaudo siano presentati come fatti rivoluzionari, interni allo stesso Regno delle Due Sicilie. Una copertura sottile, ma da non sottovalutare. Per portare a buon fine la conquista, nella realtà gli Inglesi hanno previsto e predisposto l’ingaggio e l’utilizzazione di truppe mercenarie straniere. La più potente delle quali è la Legione Ungherese, della quale avremo modo di parlare più ampiamente.

I mercenari saranno numerosi e, ovviamente, posti al servizio di Garibaldi, con laute ricompense e con ampie possibilità di saccheggio. Figureranno, però, come volontari e come generosi benefattori improvvisamente folgorati, anch’essi, dall’ideale di fare l’Unità d’Italia con a capo, come Re, quel galantuomo di Vittorio Emanuele II di Savoia.

Insomma: tutti Italiani per l’occasione e tutti in aiuto… della Sicilia e della «sua» rivoluzione immaginaria. Con l’impegno – ovviamente – di liberare anche la Napolitania. La parte continentale, cioè, del Regno delle Due Sicilie, Napoli compresa.

(Fine prima puntata/ continua)

(1) Anticipiamo alcune osservazioni su una protagonista, la mafia, che ritroveremo spesso sul nostro cammino. Prima del 1848 ed anche prima del 1860, questa era pressoché inesistente e viveva ai margini estremi della società siciliana. La parola mafia (o meglio maffia, come si è detto e scritto fino alla metà del secolo XX), come termine che indicasse una vera organizzazione illegale, non esisteva ancora nei documenti ufficiali, né nel linguaggio letterario. Il suo ruolo e la sua potenza sarebbero cresciuti enormemente nell’ambito del progetto inglese di fare l’Unità d’Italia. I picciotti di mafia, le loro squadre (al servizio di nobili senza scrupoli, di agrari e di notabili, che avevano paura delle riforme che il Governo indipendentista del 1848 aveva fatto intravedere), fanno da supporto alla politica unitaria ed in particolare all’impresa garibaldina

del 1860. Questi reazionari temevano, altresì, le riforme che il Regno delle Due Sicilie avrebbe varato con il ritorno alla normalità. Da qui la scelta di accettare le offerte ed i compromessi che il  mondo degli unitari offriva. Già dal 1849 sembra che i picciotti delle squadre fossero regolar- mente stipendiati. Ma nel 1860 avviene il salto di qualità dei voltagabbana e del fenomeno mafioso: la mafia entrerà nelle strutture e nel sistema del nuovo Stato unitario, il quale ne avrà estremo bisogno per ridurre più facilmente la Sicilia a colonia di sfruttamento. Il ruolo della mafia, che appesta la vita pubblica e l’economia in Sicilia, è soprattutto quello di contrastare il nazionalismo
Siciliano, prima e dopo il 1860. La mafia sarà strumento della conquista della Sicilia e collaborerà con i partiti dominanti per perpetuare l’asservimento della Sicilia agli interessi del Centro-Nord Italia. Non agirà mai con il popolo Siciliano e per il popolo Siciliano, ma per se stessa.
Anche contro il popolo Siciliano ed i suoi interessi vitali, i suoi valori, il suo diritto alla libertà.

(2) Le conseguenze di quella conquista sono ancora oggi visibili nel degrado della vita pubblica, nella compressione dell’economia, nella deculturazione, nella complicata vita di ogni giorno, nella subordinazione, pressoché totale, agli interessi settentrionali, nelle carenze di ogni genere. E nella vocazione ascarica di non pochi fra i partiti politici dominanti ed i loro uomini in Sicilia.

Fonte

Read More

Quando il Sud Italia era più industrializzato del nord Europa. La verità che non ci hanno detto

Posted by on Apr 9, 2019

Quando il Sud Italia era più industrializzato del nord Europa. La verità che non ci hanno detto

Fra le regioni più industrializzate d’ Italia, prima del 1860, c’erano la Campania, la Calabria e la Puglia: per i livelli di industrializzazione le Due Sicilie si collocavano ai primi posti in Europa. In Calabria erano famose le acciaierie di Mongiana, con due altiforni per la ghisa, due forni Wilkinson per il ferro e sei raffinerie, occupava 2.500 operai. L’industria decentrata della seta occupava oltre 3.000 persone.

La piu’ grande fabbrica metalmeccanica del Regno era quella di Pietrarsa, (fra Napoli e Portici), con oltre 1200 addetti: un record per l’Italia di allora. Dietro Pietrarsa c’era l’Ansaldo di Genova, con 400 operai. Lo stabilimento napoletano produceva macchine a vapore, locomotive, motori navali, precedendo di 44 anni la Breda e la Fiat.

A Castellammare di Stabia, dalla fine del XVIII secolo, operavano i cantieri navali più importanti e tecnologicamente avanzati d’Italia. L In questo cantiere fu allestita la prima nave a vapore, il Real Ferdinando, 4 anni prima della prima nave a vapore inglese. Da Castellammare di uscirono la prima nave a elica d’ Italia e la prima nave in ferro. La tecnologia era entrata anche in agricoltura, dove per la produzione dell’olio in Puglia erano usati impianti meccanici che accrebbero fortemente la produzione.

L’ Abruzzo era importante per le cartiere (forti anche quelle del Basso Lazio e della Penisola Amalfitana), la fabbricazione delle lame e le industrie tessili. La Sicilia esportava zolfo, preziosissimo allora, specie nella provincia di Caltanissetta, all’ epoca una delle città più ricche e industrializzate d’ Italia. In Sicilia c’erano porti commerciali da cui partivano navi per tutto il mondo, Stati Uniti ed Americhe specialmente. Importante, infine era l’ industria chimica della Sicilia che produceva tutti i componenti e i materiali sintetici conosciuti allora, acidi, vernici, vetro.

Puglia e Basilicata erano importanti per i lanifici e le industrie tessili, molte delle quali gia’ motorizzate. La tecnologia era entrata anche in agricoltura, dove per la produzione dell’olio in Puglia erano usati impianti meccanici che accrebbero fortemente la produzione. Le macchine agricole pugliesi erano considerate fra le migliori d’Europa. La Borsa più importante del regno era, infine, quella di Bari.

Una volta occupate le Due Sicilie, il governo di Torino iniziò lo smantellamento cinico e sistematico del tessuto industriale di quelle che erano divenute le “province meridionali”. Pietrarsa (dove nel 1862 i bersaglieri compirono un sanguinoso eccidio di operai per difendere le pretese del padrone privato cui fu affidata la fabbrica) fu condannata a un inarrestabile declino. Nei cantieri di Castellammare furono licenziati in tronco 400 operai. Le acciaierie di Mongiana furono rapidamente chiuse, mentre la Ferdinandea di Stilo (con ben 5000 ettari di boschi circostanti) fu venduta per pochi soldi a un colonnello garibaldino, giunto in Calabria al seguito dei “liberatori”. (Fonte: Regno delle Due Sicilie – La verità che non ci hanno detto).

Tratto da: www.cronaca.news

fonte https://www.politicamentescorretto.info

Read More

Lettera del Cav. Griffi uno dei 12 Eletti del Minicipio di Napoli nel 1860…..al Barone Commendatore Ferdinando Malvica.»

Posted by on Apr 4, 2019

Lettera del Cav. Griffi uno dei 12 Eletti del Minicipio di Napoli nel 1860…..al Barone Commendatore Ferdinando Malvica.»

Roma 27 Maggio 1863
«Egregio Signor Barone
«Ella, non ha guari, diè alle stampe un libretto intorno ad una Federazione italiana. Sa ciascuno com’ella abbia animo retto e leale; epperò dove altri sentisse diversamente da lei, non ne andrebbe punto offuscata la sua fama. Accoglierà per Unito benignamente una mia protesta contro certe linee del suo scritto, dettata piuttosto dal dovere, che da pensiero di contradirla.

A pagina 80,ella dice:
«In Napoli eran cento mila soldati ed avvenne Io stesso miserando spettacolo, ed assai più turpe ancora. L’ugual mena agiva da per tutto, ed il……….
Ma usciamo una volta da questo lezzo d’iniquità o d’ipocrisia chè non ci regge l’animo a durarvi più lungamente.

Esso non è stato messo all’aperto che per una piccola parte; giacché, come ci fa sapere l’Opinione di Torino (n.143,24 Maggio), la prudenza vieta di scoprire le carte, mentre il giuoco non è terminato.

Ma per coperte che restino coteste carte, esse tuttavia per quel poco che n’è
«Garibaldi entrava nella città capitale del Napoletano reame, ove sono mezzo milione d’uomini, invitato dal Municipio, che gli va incontro, gli apre iniquamente le porte, ed ei col frustino in pugno percorre le pubbliche Vie,. plaudendolo, e salutandolo il popolo: ecc.»

«Qui ella, certo senza volerlo, dà in più storici errori, cui la malignità dei nostri nemici mise innanzi per fingere al mondo il Garibaldi desiderato, e invitato da’ nostri popoli; errori ripetuti da chi v’aveva interesse, e dal volgo ignaro, ma che ora ridetti da lei potrebbero per avventura accreditarsi, e mandarsi ad insozzarne la storia delle nostre sventure.

«Io che nel 1860, aveva l’onore d’essere uno dei dodici Eletti, e però parte del Municipio di Napoli, sono nel debito dichiararle, che non mai quel Municipio si disonorò in nulla, ne mai invitò il Garibaldi.
Il Reame delle due Sicilie non ebbe già cento mila soldati, ma poco meno; ed essi dai loro Generali traditi e sbandati, in cinque mesi di vane pugne e disagi, andarono in gran parte disciolti.

Al Re restavano appena quaranta mila uomini, quando ingannatori consigli spinsero il buon Monarca ad uscire dalla sua città per non insanguinarla.

Allora, ritrattosi al Volturno, ei lasciava in Napoli non cento mila soldati, come ella dice, ma sei mila nelle Castella; cioè il nono ed il sesto Reggimento di linea, quello di marina, e due Battaglioni, uno di Gendarmi e l’altro tredicesimo cacciatori; con ordine di non far fuoco, se non aggrediti, e stare nei forti a difesa.

«In Napoli era concorso quanto aveva di settario il mondo, tutti annali; v’era la stampa rivoluzionaria; la Guardia Nazionale scelta rivoluzionari» da traditori Ministri; questi stessi Ministri legati al Garibaldi; insomma la rivoluzione irta d’armi, ed il popolo inerme, atterrito per la non più vista catastrofe, cui non s’era lasciata altra libertà, che quella di plaudire allo straniero col titolo di liberatore.

Dovrà la storia narrare le arti di quei Ministri traditori, che costrinsero Napoli a vedere quel turpe spettacolo; ma la Città non avea difesa di sorta; non di cento mila, com’ella dice, ma neppure di un soldato solo.

«lo noterò il fatto del Municipio:
«Questo per legge del 12 Dicembre 1861 era rappresentato dall’intiero corpo di Città, cioè dodici Eletti ed il Sindaco Presidente; sicché il solo sindaco non era il Municipio.

Ogni Eletto aveva due Aggiunti per gli affari amministrativi, i quali non aveano toga, né rappresentanza. Ora de’ 24 Aggiunti, soli quattro (giovanetti) osarono dimandare al Sindaco che il Municipio si presentasse al Garibaldi; ma fur cacciati via.

«Il Municipio il dì stesso che il Re si partiva, deliberò unanime di non aderir punto alla rivoluzione. Venuta la sera, il sindaco solo fu segno a tutte insidie.

Chiamato dal ministero in casa del presidente, cominciavano discussioni sul da farsi, quando arrivò il Villamarina Ministro sardo, che pretendeva ad ogni costo si aderisse a Vittorio Emanuele prima ch’entrasse il Garibaldi, ed assicurava avere egli tutti i poteri per pigliare le redini del Governo, e che farebbe scendere i sardi dalle navi per mantenere l’ordine.

Il ministero per iscansare la manifesta infamia, rispose si rivolgesse al sindaco presente.
Costui si negò recisamente; ma alle minacce del Villamarina, che sorgerebbero barricate per le vie, e seguirebbero zuffe tra piemontisti e garibaldini, si risolse andare incontanente al generale Desauget, comandante della guardia nazionale per provvedere alla quiete.

Credeva così ubbidire agli ordini del Re, il quale nella sua ultima proclamazione aveva raccomandato ad esso ed a quel generale di risparmiare alla patria gli orrori della guerra civile, onde avea lor concesse estese ed ampie facoltà.

Ma il Desauget, già venduto al nemico, lo atterrì, mostrandogli un certo telegramma allora giunto, che affermava il Nizzardo trovarsi con grandi forze a Salerno pronto ad entrare in Napoli ai primi albori; però unica via ad evitare sangue nella città fosse, l’andarlo a pregare di entrar solo senza seguito di armati.

E senza dar tempo a riflessioni contrarie, valendosi dell’atterrita fantasia di lui, che pingevagli la città vicina a veder sangue cittadino, preselo e menollo a Salerno, dove invece si trovò il Nizzardo senza esercito, solo in una casa.

Il sindaco accortosi dell’inganno volea dare indietro, ma fu, con bei modi, trattenuto, ed ebbe ad accompagnarsi col Garibaldi nel ritorno a Napoli, sebbene posato alla stazione della strada ferrata subito s’involò.
Nessun uomo di cuore credo possa lodare quella gita a Salerno del sindaco.

Di che nascono spontaneamente due conseguenze: l’una, che una mole fabbricata su tanto fango non può essere né prosperosa né duratura; se vuolsi aver fede nella forza de’ principii morali e nella giustizia di Dio.

L’altra conseguenza è, che la riputazione del Conte di Cavour ha ricevuto, come suol dirsi, il colpo di grazia presso chiunque ritiene ancora un fiorellino di onestà e di decoro.
E qui è appunto dove noi sentiamo una specie di raccapriccio e di orrore; giacché i Giornali libertini, lungi dal vergognarsi di sì fatte rivelazioni, ne menano altissimo trionfo, come di cosa da grandemente onorarsene la memoria del Conte di Cavour.

L’ Opinione di Torino giunge a dire che esse varranno a crescerne sempre più il culto presso gl’Italiani .
Ciò dimostra che il senso morale in costoro è del tutto spento, esso il ripeto non era il municipio, né ne avea ricevuto mandato di sorta.

Il municipio anzi con anche il sindaco lasciò l’uffizio, né fe’ pur l’atto di chiedere la dimissione all’usurpatore, il quale per primo suo atto ebbe a nominarne altro quel giorno stesso.

«Ella, signor barone, prenderà, ne son certo, in buon grado questa mia, e spero anzi rettificherà l’errore, perché niuno se ne valga a snaturare la storica verità, che nuda e bella svelerà ai posteri i turpi garbugli della rivoluzione.
«Mi creda per sempre……..
Dilio Amico e Servo
C. Filippo Patroni Griffi

All’Egregio Signore
Il Sig. Barone Commendatore
Ferdinando Malvica.» 

Read More