Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

STORIE DI DONNE DIVERSE ……………le brigantesse ottocentesche del meridione d’Italia (II)

Posted by on Mar 31, 2019

STORIE DI DONNE DIVERSE ……………le brigantesse ottocentesche del meridione d’Italia (II)

La “donna del brigante” è colei che ha dovuto o voluto seguire il proprio uomo (spesso marito, talora amante, raramente figlio) che si è dato alla macchia.
Nel prio caso, quello della costrizione, il darsi alla macchia del proprio uomo l’ha confinata in una condizione ancora più disperata.

Le è venuta meno ogni forma di sostentamento: l’opinione pubblica l’ha additata con disprezzo e l’ha isolata, spesso anche per timore di sospetti di connivenza. Non le è rimasto che il mendicio ed il meretricio. Sola, senza mezzi, disprezzata dai borghesi benpensanti e dai popolani acquiescenti, controllata a vista dalle autorità governative, talvolta oggetto di attenzioni inconfessabili dei “galantuomini”, ha preferito alla fine seguire fino in fondo la scelta di vita del suo uomo.

La “donna del brigante” è anche colei che viene rapita e sedotta dal bandito, ridotta in stato di schiavitù e costretta – contro il suo volere – a seguirlo nelle sue azioni brigantesche. Spesso finisce però per innamorarsene, per quella condizione psicologica che oggi è classificata come “sindrome di Stoccolma”. E’ il caso, ad esempio – sempre nel periodo di occupazione francese – di una non meglio identificata Margherita.

Il brigante Bizzarro, uomo violento e sanguinario, imperversava nelle Calabrie. Costui, nel corso di una delle sue crudeli scorribande, sterminò un intera famiglia, trucidò un padre e ne rapì la figlia Margherita. Bizzarro sicuramente stuprò la donna, la rese sua schiava e la condusse con sé, in groppa al proprio cavallo, nelle imprese brigantesche alle quali dava continuamente vita.

Ci si aspetterebbe che la donna fosse investita da rabbia, rancore e odio. Invece in Margherita, lentamente, l’odio verso Bizzarro si trasformò in ammirazione, il sentimento di vendetta fu sostituito dall’amore verso il boia della sua famiglia. Ne diventò la compagna ed il braccio destro e lo accompagnò nelle sue scorrerie, gareggiando con lui in audacia e coraggio. Catturata in un’imboscata, non sopravvisse a lungo ai rigori della prigione che, come vedremo più avanti non erano inferiori a quelli della latitanza.

Per un beffardo gioco del destino una reazione opposta dimostrò invece – proprio nei confronti dello stesso Bizzarro – la donna che subentrò a Margherita nelle grazie del bandito: Niccolina Licciardi. Un giorno erano entrambi braccati dai piemontesi.

Bizzarro, in un raptus di follia omicida, sfracellò contro le pareti di una caverna il neonato avuto dalla compagna, per la sola ragione che il pianto del bimbo rischiava di rivelarne la presenza agli inseguitori. Niccolina non versò neppure una lacrima.

Con le mani scavò una fossa, vi seppellì il figlioletto e si pose a guardia della tomba – anche dormendovi sopra – per evitare lo scempio da parte degli animali selvatici che infestavano la zona. Profittando poi del sonno di Bizzarro, gli sottrasse il fucile e gli fece saltare le cervella, sparandogli in un orecchio.

Decapitato il bandito, ne avvolse la testa in un panno, si diresse a casa del governatore di Catanzaro e sul suo desco lanciò il macabro trofeo. Incassata la taglia, ritornò sui monti e di lei si perse ogni traccia.
Alcune volte, ed è il caso della libera scelta, “la donna del brigante ” segue volontariamente l’uomo di cui è innamorata.

Tale appare la vicenda di Maria Capitanio. La ragazza, nel 1865, a quindici anni si innamorò di Agostino Luongo, un operaio delle ferrovie. Maria continuò ad amarlo e a frequentarlo di nascosto anche quando questi si dette alla macchia. Lo seguì nella latitanza, consumò le “nozze rusticane” e partecipò per pochi giorni alle azioni delittuose della banda, fungendo da vivandiera e da carceriera di un ricco possidente, tenuto in ostaggio.

Catturata dopo una decina di giorni, in uno scontro a fuoco, grazie ai denari del padre, fu prosciolta dall’accusa di brigantaggio, essendo riuscita a dimostrare – attraverso false testimonianze – di essere stata costretta con la forza a seguire il brigante Luongo.

Rivelatrice di contraddizioni è la vicenda di Filomena Pennacchio, una tra le più note “brigantesse”. Figlia di un macellaio, nata in Irpinia nella provincia borbonica di Principato Ultra, fin dall’infanzia incrementò il povero bilancio familiare servendo come sguattera presso alcuni notabili del paese.

Alcuni mesi dopo il primo incontro con Giuseppe Schiavone, famoso capobanda lucano, vendette per alcuni ducati il poco che aveva e lo seguì nella latitanza. La vita brigantesca la rese subito un’intrepida combattente, evidenziando le sue inclinazioni sanguinarie. Con Schiavone partecipò a furti di bestiame ed a sequestri di persona, trovando modo di meritarsi il rispetto e la simpatia di tutta la banda.

Non si sottrasse nemmeno all’omicidio, avendo preso attiva parte all’eccidio di nove soldati del 45° Reggimento di Fanteria nel luglio del 1863 a Sferracavallo. Era altresì capace di slanci di generosità come è testimoniato dal soccorso che offrì ad alcune vittime della banda Schiavone e per aver cercato di salvare alcune vite.

Di lei si disse anche, ma senza suffragio di prove, essere stata non solo l’amante di Schiavone ma anche di Carmine Crocco, il leggendario e riconosciuto capo di tutte le bande lucane e dei suoi luogotenenti Ninco Nanco e donato Tortora.

La presenza di più donne nella banda portava facilmente ad episodi di gelosia, dei quali si servì largamente l’esercito occupante per annientare il nemico. E fu proprio la gelosia di Rosa Giuliani, cui Filomena Pennacchio aveva sottratto i favori di Schiavone a tradire quest’ultimo: la delazione della Giuliani consentì, infatti, l’arresto di Schiavone e di altri briganti che furono subito condannati a morte.
Prima di morire il feroce Schiavone volle rivedere ancora Filomena, gravida di un suo figlio.

Fu un incontro tenerissimo tra la brigantessa regina di ferocia ed il capobanda terrore delle valli dell’Ofanto che in ginocchio – chiedendole perdono – le baciava le mani, i piedi ed il ventre pregno.

Filomena Pennacchio però non visse – come altre – nel ricordo del suo uomo. Preferì – allettata da una promessa di sconto della pena – tradire anch’essa e fece catturare con le sue rivelazioni un altro luogotenente di Crocco, Agostino Sacchitiello ed altre due famose “brigantesse”, Giuseppina Vitale e Maria Giovanna Tito. Condannata a venti anni di reclusione, la Pennacchio godette di vari sconti di pena: dopo sette anni di detenzione tornò a casa ed anche per lei si aprirono le porte di una vita anonima.

Nella storia della calabrese Marianna Olivierio, detta “Ciccilla”, è sempre il sentimento della gelosia il detonatore che fa esplodere la determinazione criminale della “brigantessa”: Ciccilla era una bellissima ragazza dalle lunghe e nere chiome e dagli occhi corvini. Sposa di Pietro Monaco, un ex soldato borbonico ed ex garibaldino, datosi al brigantaggio dopo un omicidio, non lo aveva inizialmente seguito.

Rimase nel proprio paese, accontentandosi di rari, furtivi momenti di intimità con il marito quando questi scendeva dai monti, fino a quando venne a sapere che Monaco aveva avuto una fugace relazione con la sorella. Ciccilla decise di vendicarsi. Invitò la sorella in casa e – nel cuore della notte – la trucidò con un pugnale, martoriandone il corpo con una trentina di colpi d’ascia.

Subito dopo – a dorso di mulo – raggiunse la banda del marito, divenendone addirittura il capo di fatto. Il raccapriccio che accompagnò le sue gesta si diffuse in tutto il circondario.

Perfino i suoi stessi briganti ne ebbero terrore e disprezzo. Usava, ad esempio, infierire sui cadaveri dei nemici uccisi, mutilandoli atrocemente con coltelli e rasoi che portava sempre con sé.

Catturata dopo la morte del marito, fu disconosciuta dai suoi stessi familiari. Anche la madre rifiutò di visitarla in carcere. Il processo, che fu celebrato a Catanzaro con grande partecipazione di gente e che vide come testimoni a carico anche i parenti suoi e del marito, si concluse con la condanna a morte.

Ed è uno dei rarissimi, se non l’unico, caso di sentenza capitale per una donna. La sentenza – contrariamente a quanto sostengono taluni frettolosi cronisti – non fu poi eseguita ma tramutata nell’ergastolo perché il governo italiano non aveva interesse a mostrarsi all’opinione pubblica internazionale come giustiziere di una donna.
Storie brigantesche, come si vede di inaudita ferocia, ma anche storie di teneri sentimenti che le esasperazioni di una guerra civile non riescono a sopprimere del tutto.

Valentino Romano

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LA VOCE DELL’ERGASTOLO DI CARMINE CROCCO

Posted by on Mar 27, 2019

LA VOCE DELL’ERGASTOLO DI CARMINE CROCCO

Dagli archivi polverosi – sconosciuti ai più., accademici compresi – un altro brandello di storia negata. Grazie al nostro infaticabile collaboratore, Nino Gernone, pubblichiamo una intervista a Crocco effettuata durante una “gita scientifica” dal prof. Ottolenghi al carcere dfi Portoferrajo e inserita  da Romolo Ribolla nella sua pubblicazione del 1903. Nel testo è contenuta anche la firma di Carmine Crocco.

Donatello (Crocco) n. 2351

Due guardie conducono nel cortile innanzi a noi un uomo vecchio, che mal si regge in piedi ma che tuttavia cerca di avanzarsi con una certa energia.

Il prof. Ottolenghi gli va incontro e ci presenta Carmine Donatello di anni settantasei, da Rionero in Vulture che sparse tanto terrore verso il 6°, sotto il nome di Croccoe che condannato nel 1872 a morte dalla Corte di Assise e poi graziato, sta orai scontando il trentottesimo anno della sua pena.

Ecco i reati pei quali fu condannato: associazione al delinquere contro le persone e contro le proprietà; formazione di bande armate nelle quali esercitò comando; furto qualificato, tre grassazioni con omicidi; quattro grassazioni semplici; nove assassinii; nove omicidi volontari; quattro ribellioni; dodici estorsioni; numero non ben determinate di saccheggi; due attentati per cambiamento di forma di Governo dal 1860 al 1864.

Ha il tipo etnico del suo paese esagerato nelle proporzioni: la sezione cranica e meno sviluppata della facciale: il segmento anteriore e sfuggente. Forte sporgenza delle ossa zigomatiche e della mandibola asimmetria notevole della faccia a destra. Segmento superiore frontale sfuggente: glabella prominente. La mandibola e sviluppata, specie nella parte mediana, il naso grosso, gibboso e deviato a sinistra.Orecchie ad ansa, specie quella di destra.

Il professore gli domanda:

— Come state?

— Male — risponde il vecchio uomo con voce poco intelligibile.

— Quanto tempo siete stato brigante?

— Circa sei anni, due col passato Governo borbonico e quattro con questo.

— Che banda avevate?

— Di duemila uomini perfino!

— Che professione facevate?

— Quella di Abele, fratello di Caino.

— Come?…

— Il pastore, insomma…

— Quanti anni avevate quando vi deste al brigantaggio?

— Cominciai a darmi alla macchia poco dopo l’epoca della leva.

— Quanti anni sono che siete in carcere?

— Trentotto al 6 di agosto.

— Come fu che da soldato diventaste brigante?

— Per una supplica: mia madre morì nel manicomio di Aversa; io avevo quattro fratellini e sei sorelle tutti più piccoli di me, tutte creature…

Il brigante a questo punto interrompe il suo discorsa perché è scoppiato in un dirotto pianto.

Il professore lo invita a mettersi in capo il berretto, ma non c ‘è verso di persuaderlo. Crocco rimanere a capo scoperto.

— Presentai una prima supplica a Ferdinando II perché raccogliesse quelle cre4ature in un luogo qualunque. Non ebbi risposta. Ne mandai una seconda: nulla; allora un giorno dissi al Re, che avevo spesso occasione di avvicinare essendo soldato: o provvedi per quelle creature o ti darà da fa’! Perquesta minaccia mi fu inflitto un mese di prigione.

Appena uscito disertai, uccisi due gendarmi e mi diedi alla macchia.

Nello stesso tempo che il Crocco s’è commosso al ricordo della famiglia, quando ha raccontato delle sue minacce e della prima vendetta i suoi occhi hanno lampeggiato, nella sua voce, prima fioca, e nel suo gesto c’era qualcosa che rivelava 1’antica fierezza. — Crocco continua:

Nel ’60 si fece la rivoluzione e noi briganti ci unimmo al Governo provvisorio.

Il prefetto del Governo venuto da Torino mi invitò a presentarmi: ma io non accettai per paura che mi facessero subire un processo e mi diedi di nuovo alla macchia.

I nemici d’Italia che stavano con occhi aperti, mi avevano proposto di muovere una reazione contro il Governo provvisorio perché sarebbe riuscito facile fare 1’insurrezione; ma io alzai un giorno bandiera bianca e lasciai la partita politica per darmi di nuovo alla macchia.

— E meglio 1′ insurrezione politica o la macchia?

— La politica!

— Durante 1′ insurrezione quanti uomini voi comandavate?

— Duemila e settecento.

— Ma quando vi deste alla macchia erano molto meno i vostri sottoposti?

— Dai quattro ai sette.

— Quanti omicidi avete commesso?

— Mi accusano di molti, ma io non ne ho commessi che due.

— Come allora si dice che siete reo di tanti delitti pei quali foste dai giudici condannato?

— Perché io ero il capo e davo gli ordini di ammazzare, ma non uccidevo di mia mano. Quando era decisa la vendetta verso qualcuno, si faceva un piccolo consiglio; il tale, per esempio, non ha voluto mandare quel poco che gli chiedevamo: ebbene ammazzatelo, dicevo io! Se poi non potevano uccidere chi era stato condannato, quello non doveva pero piùuscire di casa!

— Che concetto avevate di Vittorio Emanuele II?

— Fu un grande eroe che fece 1′ Italia; egli caccio gli stranieri, non troppa gente in casa tua portare perché ilmondo e pieno di malizia ed ognuno cerca ciò che gli bisogna: cosa vogliono da noi questi Tedeschi?

— Dunque voi preferite il Governo che successe al Borbone?

— Si, e gli sono anche riconoscente, perché mi ha fatto del bene,mi ha graziato della condanna a morte.

— Avete saputo della morte del Re Umberto? Che impressione vi ha fatto?

Io ho pianto, davvero ho pianto di cuore; se non avessero ammazzato quell’innocente uomo, forse io morivo a casa mia, ai 6 di agosto diquest’anno avrei finita la pena; ucciso Umberto, Vittorio Emanuele III non può aver l’animo di sposto a far grazie; se a me avessero ucciso il padre, io non avrei certo pensato a far del bene, ma a vendicarmi: tutti i condannati hanno detto lo stesso.

— Cosa pensate dei regicidi?

— Gente da poco.

— Sentiste mai parlare di socialismo, di anarchia?

— Si, da qualche condannato stupido che pro fessa queste idee, ed io mi ci sonoappiccicato (ho avuto diverbio, questione). E una cosa impossibile pensare all’anarchia; anche Sparta, Tebe, Corinto, Atene furono sotto 1′ anarchia, e che vantaggi ne ebbero?

— Come, sotto l’anarchia?

— Si, avevano tre giorni 1’anno di anarchiacompleta.

— La vita del brigante e brutta?

— E una vita indipendente.

— Ma ammazzare gli altri?

— Il brigante è come laserpe, se non la stuzzichi non ti morde.

— Trovate giusto che l’esercito freni il brigantaggio?

— Si: il brigante che ammazza un soldato, piange; piange pensando che e tin uomo che lascia la madre, i figli…

Qui il Crocco scoppia nuovamente in un pianto.

— Come credete che si potrebbe frenare il brigantaggio?

— Colla clemenza.
— Quindi bisognerebbe perdonare i briganti?

— Si.

— Ma quando rubano, estorcono?

— Non si ruba, non si estorce in mezzo alla strada e noi teniamo in odio quello che lo fa.

— Vi capito mai di incontrare chi lo facesse nella vostra banda?

— Si, ma allora noi abbiamo fatto si che il birbante cadesse in mano della legge.

— Ma tra i briganti c’ e sempre di questa canaglia!

— Noi li esperimentavamo e se non la pensavano come noi, si diceva: « Non ti uccidiamo perché sei una carogna», e lo mandavamo via.

— Il carcere credete sia utile per frenare ilbrigantaggio?

— Eh! ci si rassegna; nessuno si lamenta della sua condizione, ci si rassegna: ho peccato, devo scontare!

— Credete che dopo una lunga condanna si esca emendati?

— Qualche imbecille c’ e sempre che rifà del male.

— Ma la maggior parte?

— Esce corretta ed emendata.

— Voi riconoscete di aver fatto del male?

— Senza dubbio, ho fatto del male alla società, ma io facevo per difendere la mia vita; per essa avrei dato fuoco a tutto il mondo.
— Lo avreste fatto: e lo rifareste?

— Eh! chi lo sa? Ora 1’animo mio si commuove per 1′ onore che ho avuto, nella mia vecchiaia, di vedere tutti questi signori; non me lo sarei mai aspettato!

— Che ne dite della camorra?

— E la cosa più cattiva del mondo; in essa c’ e un sacco di mascalzoni, di miserabili; i camorristi sono come gli anarchici, cospirano sempre, ma sono schiacciati.

— La mafia la conoscete?

— La paragono allo spurgo del mio naso: il mafioso è uno sporcaccione.

— Quale sarebbe il vostro desiderio?

— Di morire dove sono nato.

— Da giovane eravate religioso?

— All’eccesso.

— Ma il sentimento religioso non vi ha mai frenato nella colpa?

— Quando si è nella furia non si rispetta più niente; ma sempre per difendere la propria vita!

— In carcere vi ha giovato la religione?

— Si, ma senza corona! la mia religione e qui (accennando al cuore).

— Facevate vita libertina, vi piacevano le donne?

— Sì, quando l”e trovavo non le lasciavo, ma non amavo molto né le donne, néil vino.

— Che cosa vi faceva più orrore?

— La morte, 1′ uccisione.

— Che preferivate dunque?

— Amici no; un po’ di pane di granturco e basta.

— Avevate con voi nella vostra banda qualche donna?

— No, quando si trovavano si faceva come il beccafico: si beccava e via.

— Avevano stima di voi le popolazioni della Calabria?

— Pel bene che ho fatto si; quando passavo io tutti mi venivano appresso sicuri, io andavo avanti e dicevo: se volete esser sicuri venite dietro di me: perché io ero astuto, con uno strattagemma ero capace di andare in mezzo all’esercito nemico senza farmi. riconoscere.

— Avete saputo della guerra d’Africa? Sareste voi andato volentieri a combattere laggiù?

— Si, sarei andato anche in una fornace.

— Conosceste Garibaldi?

— Personalmente no.

— Che ne pensate di lui?

— Era un uomo audace. Quello che ha fatto Garibaldi io l’ho tutto qui nel cervello e lo ricordo minutamente.

— Se voi foste stato capo di un esercito come vi sareste comportato?

— Avrei fatto il mio dovere.

Preghiamo il brigante di apporre la sua firma in un foglio che. gli presentiamo, ed egli messosi gli occhiali, lentamente scrive il suo nome, cognome e patria.

Congedato da noi, egli di nuovo colle lacrime agli occhi ci ringrazia della visita, dicendo: “Io sono vecchio, a momenti morirò; vale più questo onore che mi avete fatto che tutti gli onori del mondo!”

ALL’ILLUSTRE

COMM. ALESSANDRO DORIA

D1RETTORE  GENERALE  DELLE  CARCERI

CHE INTRAVEDENDO I NUOVI ORIZZONTI DELLE DISCIPLINE CARCERARIE, NELLA SCIENZA E NELL’AMMINISTRAZIONE SEGUE  LE NOBILI TRADIZIONI DELL’ILLUSTRE  SENATORE MARTINO BELTRANI-SCALIA, QUESTA RELAZIONE DI UNA GITA SCIENTIFICA AI PENITENZIARI DI PORTOLONGONE E PORTOFERRAIO

DEDICA L’AUTORE

Dal Laboratorio di Medicina legale della R. University di Siena, l’Ottobre del 1902.

PREFAZIONE

Da  parecchi anni gli Insegnanti di Medicina legate hanno la lodevole consuetudine di con durre le loro scolaresche a visitare qualche stabilimento penale.


Queste gite, che una volta si limitavano ad una rapida visita dei locali e più rapida rivista dei .condannati, sono andate gradatamente perfezionandosi, essendo orientate più all’esame dei delinquenti che dei locali ed inspirate più alla ricerca scientifica che alla pura curiosità che nei più desta la vista dei luoghi di pena e dei reclusi.


Tali visite agli stabilimenti carcerari, per la grande forza di persuasione che sempre esercitarono i fatti quando sono direttamente osservati, di quando non vengono che riferiti, divennero sempre più istruttive, più convincenti dei lunghi  studi teorici nei manuali di psichiatria forense e di antropologia criminale.


La Scuola di Siena negli anni trascorsi visitò ripetutamente il manicomio dell’Ambrosiana e gli stabilimenti penali di Volterra e San Gemignano.

L’ampia messe annualmente raccolta in queste gite scientifiche e dimostrata dalle pubblicazioni che le ricordano.


Quest’anno il prof. Ottolenghi, aderendo anche al desiderio  espresso  dai suoi studenti, pensò di spingersi fino  alla  vicina /sola d’ Elba per visitarvi gli stabilimenti di Portolongone e Portoferrajo, il primo dei quali comprende uno dei nostri più rinomati ergastoli. La gita si riprometteva quindi di essere tra le più interessanti per la medicina legale, dato il genere degli stabilimenti ed i tipi. di delinquenti da studiare.


L’esito superò infatti ogni nostra aspettativa. Veramente lusingato dell’incarico avuto dal prof. Ottolenghi, mi proverò di esporre qui una breve relazione sull’importante gita, persuaso che i fatti osservati e che tanto ci colpirono  non potranno a meno di interessare tutti coloro i quali non sono indifferenti ai grandi quesiti scientifici e sociali che sono connessi allo studio dei carcerati e degli stabilimenti carcerari.


Le case penali, che una volta erano impenetrabili tombe di vivi, sono, come più volte ci venne ripetendo il prof. Ottolenghi nel suo insegnamento,


il tavolo anatomico degli istituti giudiziari e penitenziari.


Quanti errori ci vengono esse rivelando!


E’ necessario che su quanta in queste case di pena e dato osservare venga richiamata l’attenzione degli studiosi, dei legislatori e dei filantropi, tanto più ora che dalle stesse autorità carcerarie opportunamente e invocato lo studio dei delinquenti negli stabilimenti.


Mentre siamo lieti di rinnovare qui pubblicamente i nostri ringraziamenti al prof Ottolenghi, che ci guidò nell’ interessante viaggio e ci illustrò i tipi più notevoli, in modo da far vibrare per qualche ora innanzi a noi quei reietti dalla società, ci sentiamo in dovere di dichiararci profondamente grati all’onorevole Direzione generale delle carceri che tale visita autorizzò, ed a tutti del personale direttivo degli stabilimenti di Portolongone e Portoferrajo i quali, interpretando con intendimenti moderni i regolamenti carcerari ed aiutandoci colla loro conoscenza pratica, ci fornirono le prime e più necessarie condizioni perchè questa gita riuscisse interessante ed istruttiva.

ROMOLO RlBOLLA

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(i) Rivista di Discipline carcerarie, 1901.

fonte https://www.eleaml.org/sud/crocco/voci_dall_ergastolo_crocco.html






La grotta di Crocco a Monticchio
CROCCO
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LE INSORGENZE NEL REGNO DI NAPOLI E IN TERRA DI LAVORO A SANTA MARIA C.V.

Posted by on Mar 27, 2019

LE INSORGENZE NEL REGNO DI NAPOLI E IN TERRA DI LAVORO A SANTA MARIA C.V.

L’ Archeoclub Italia di Santa Maria C.V”. domenica 31 marzo alle ore 10;30 presso il Salone degli Specchi del Teatro Garibaldi di Santa Maria C.V. organizza in collaborazione con l’ “Ass. Id. Alta Terra di Lavoro” e con il patrocinio del Comune di Santa Maria C.V. un importante convegno  “LE INSORGENZE NEL REGNO DI NAPOLI E IN TERRA DI LAVORO NEL 1799”

    Interverranno Antonio Mirra, Sindaco di Santa Maria C.V, Antonio Crisci, Pres. Archeoclub di Santa Maria C.V. Claudio Saltarelli Pres. Ass. Id. Alta Terra di Lavoro, Fernando Riccardi storico, saggista, membro della Società di Storia Patria di Napoli e Terra di Lavoro e Pres. dell’Ist. Di Ricerca delle Due Sicilie, Conte Giulio de Jorio Frisari, Centro Interuniversitario Internazionale Studi sul Viaggio Adriatico.

     Nel convegno verrà presentato un importante testo che l’ Ass. Id. Alta di Lavoro ha di recente ristampato, in copia anastatica, l’opera scritta da Domenico Petromasi risalente al 1801, “Storia della spedizione del Cardinale Ruffo

     E’ la prima volta che nel nostro paese si compie un’impresa del genere: c’era già stata, infatti, in passato, qualche altra edizione della stessa opera, ma mai una ristampa anastatica, riproducente il testo nella sua versione originale.

     Tale libro, che contiene un corposo ed assai circostanziato saggio introduttivo a firma del suddetto storico Fernando Riccardi, ricostruisce, passo dopo passo e in maniera dettagliata, la straordinaria impresa che nel 1799 portò il cardinale calabrese Fabrizio Ruffo a riconquistare il Regno di Napoli, invaso dai giacobini, con la sua “armata reale e cristiana”, composta esclusivamente o quasi di volontari raccolti strada facendo sotto l’emblema della Santa Croce.

     Una vicenda che la vulgata storiografica dominante non ha trattato, nel corso degli anni, con la dovuta obiettività, gettando sulla stessa una densa patina di oblio.

     La preziosa cronaca di Petromasi, invece, restituisce la giusta proporzione a quegli accadimenti, che molto interessarono anche il territorio del Cilento e la stessa Calabria senza mai sconfinare nella partigianeria oppure distorcere gli eventi.

     Considerata l’importanza dell’opera, che costituisce un “unicum” a livello nazionale, considerato che “Michele Arcangelo Pezza alias Fra’ Diavolo” è stato uno dei principali protagonisti di quel tumultuoso semestre e considerato che anche Santa Maria C.V., anche in questa vicenda ha scritto una importante pagina di storia universale è importante che gli abitanti di Santa Maria C.V. e di tutta la Terra di Lavoro si accostino ad una vicenda storica, quella del 1799, che ancora oggi resta assai poco conosciuta.

    Raimondo Rotondi reciterà in lingua Laborina monologhi teatrali

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GENOVA 1834, IL PRIMO FALLIMENTO INSURREZIONALE DELL’EROE GARIBALDI

Posted by on Mar 26, 2019

GENOVA 1834, IL PRIMO FALLIMENTO INSURREZIONALE DELL’EROE GARIBALDI

L’insurrezione in SAVOIA era fallita.Il piano ordito da MAZZINI ,che vedeva insorgere anche GENOVA grazie a G. ed i marinai convinti e coinvolti da quest’ultimo,era dunque,anch’esso fallito. La rivolta genovese, che doveva scoccare insieme all’invasione della SAVOIA, prevedeva di impadronirsi dell’arsenale militare ,di occupare la caserma dei CARABINIERI in Piazza SARZANO, e di requisire alcuni bastimenti ormeggiati nel porto.
Come sappiamo il 3 febbraio 1834, mentre RAMORINO aspettava la riunione delle colonne di rivoltosi a SAINT-JULIEN, G.,che attendeva l’invasione della SAVOIA per insorgere, fu trasferito dalla nave EURIDICE alla Nave CONTE DES GENEYS che stava per togliere gli ormeggi. Fremente, il 4 febbraio, insieme all’amico MUTRU,riuscì a scendere a terra da questa,con la scusa che entrambi avevano bisogno di una visita medica per curarsi la loro malattia venerea.
La verità e che dovevano capeggiare la rivolta.
MUTRU e G. vagano per GENOVA convinti di trovare i rivoltosi già radunati e pronti alla tenzone.
Ma di loro nessuna traccia.
Corsero in Piazza S.GIORGIO ed in Piazza SARZANO ma non trovarono nessuno.
Dopo ore ,in Piazza FONTANE MAROSE, invece, trovarono ,finalmente,centinaia di “rivoluzionari” rifugiatesi nelle taverne del luogo ,non con le armi in pugno ma con il bicchiere di vino in mano. Come si suol dire dalle parti nostre, questo atteso evento rivoluzionario che doveva scuotere uomini e coscienze ..” ERA FINITO A TARALLUCCI E VINO “.
I mazziniani genovesi, ed i soldati sardi comprati da G. con i soldi della GIOVANE ITALIA, alla pugna avevano preferito salsicce e friarielli.
G. capì subito che la rivolta era finita prima di cominciare.Decise subito di non tornare più sulla nave , temendo di essere arrestato, visto che ormai le voci di sommossa erano giunte alle orecchie della polizia Sabauda.
Ritornò a Piazza SARZANO nella vana ed ultima speranza di trovare qualche sodale ma ,ivi giunto, trovò solo gendarmi piemontesi in armi. Per non farsi scorgere si nascose in un negozio di frutta e verdura di tal NATALINA POZZO ( su questo dato è sorto un giallo storico che poi sveleremo) ove ebbe ospitalità. Da qui ne esce di buon mattino ,vestendo i panni di contadino ,per mescolarsi tra la gente del porto nel tentativo di non farsi prendere sai Piemontesi.
Ormai ,per la Marina Sarda era diventato un DISERTORE. Ed il disertore Garibaldi , non sapendo più cosa fare, si incammina sui monti di SESTRi per raggiungere la propria casa a NIZZA.( nella foto :Garibaldi in fuga verso Nizza sui monti di Sestri)

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Don José Garibaldi, ciudadano peruano

Posted by on Mar 25, 2019

Don José Garibaldi, ciudadano peruano

Si suole rilevare il fatto che Giuseppe Garibaldi fosse nizzardo e che, di solito, non comunicasse in italiano. Il fatto è che egli non avrebbe potuto nemmeno essere considerato europeo, avendo rinunciato nel 1851 alla cittadinanza savoiarda per assumere quella peruviana.

A differenza delle ex-colonie spagnole in America che, con la sola eccezione del Messico, si erano frantumate in decine di repubbliche più o meno liberali, i possedimenti portoghesi erano invece rimasti uniti sotto l’egida di Dom Pedro I, fondatore del gigantesco Impero brasiliano. Approfittando della minore età del suo successore, Dom Pedro II, nel 1835 scoppiò la cosiddetta “Guerra dos Farrapos” (Guerra degli stracci), una ribellione nella provincia di Rio Grande do Sul (capitale, Porto Alegre) di carattere repubblicano e separatista alla quale presero parte alcuni immigrati italiani, affiliati alla Carboneria. I suoi seguaci erano chiamati farroupilhas, straccioni.

Inizialmente vittoriosa — nel 1836 venne perfino proclamata un’effimera Repubblica Rio-Grandense — questa ribellione fu successivamente stroncata dalle truppe imperiali, in una guerra per terra e per mare. La Repubblica venne sciolta e la pace sancita nel 1845 dal Trattato di Poncho Verde. Bisogna registrare che questo conflitto ebbe anche carattere di guerra civile, poiché i monarchici riograndensi combatterono con gli imperiali.

Nel 1837, nella prigione Santa Cruz di Rio de Janeiro, Livio Zambeccari, massone aderente alla Giovine Italia nonché segretario della Repubblica riograndense, incontrò un giovane esiliato ligure chiamato Giuseppe Garibaldi desideroso di partecipare alla ribellione insieme ai “fratelli”. Presentandosi come esperto marinaio, Garibaldi chiese e ottenne subito una “patente di corsa”, cioè un’autorizzazione per dare la caccia e affondare le navi imperiali. In altre parole, per fare il pirata. Garibaldi ottenne il comando della lancia Mazzini, dando inizio alla sua avventura farroupilha, nella quale accumulò praticamente solo sconfitte di fronte alla Marina Imperiale.

Dopo la disfatta finale dei riograndensi, Garibaldi fuggì in Uruguay con alcuni sopravvissuti. Per strada sequestrarono un carico di stoffa rossa con cui confezionarono le camicie che poi contraddistinsero i suoi seguaci. In Uruguay era in corso una guerra civile che opponeva il governo costituzionale di Manuel Oribe a quello de facto di Fructuoso Rivera, appoggiato dall’Inghilterra.

Garibaldi si mise al servizio degli interessi britannici, ottenendo il comando di una flotta, ma venne sconfitto dall’ammiraglio Guillermo Brown nella battaglia del fiume Paraná. Finita prematuramente la sua carriera marinara, Garibaldi formò la “Legión Italiana”, tristemente nota per gli efferati saccheggi, dei quali lo stesso Garibaldi si vantava chiamando anzi i suoi mercenari “virtuosi saccheggiatori”. Si calcola che fu col frutto di questi saccheggi che egli comprò Caprera.

Nel corso di questa guerra Garibaldi riuscì anche a fare le “prove generali” dello sbarco a Marsala, prendendo d’assalto la città di Colonia nel 1845, con l’appoggio delle flotte britannica e francese.

È interessante notare che, mentre in Europa Garibaldi caldeggiava l’unificazione dell’Italia, in Sudamerica egli lottò invece per la frammentazione delle antiche colonie spagnole e portoghesi. Ciò solleva il sospetto che il suo disegno unitario non fosse tanto patriottico quanto strumentale alla diffusione del giacobinismo.

Don José Garibaldi

Esiliato ancora una volta dall’Italia, nel 1851 Garibaldi giunse in Perù proveniente dall’America Centrale. Prima di arrivare alla capitale Lima, egli fece scalo nel porto di Paita, dove incontrò Manuelita Sáenz, amante ormai appassita del “Libertador” Simón Bolívar. Tutti gli storici, tra cui Victor von Hagen («Las cuatro estaciones de Manuela», Sudamericana, 1989), coincidono nel sottolineare l’importanza di questo incontro. Garibaldi passò un’intera giornata ad ascoltare il racconto delle gesta di Bolívar, massone e giacobino come lui, da chi le aveva vissute in prima persona, si commosse fino alle lacrime e trasse dall’esperienza un rinnovato slancio nei suoi aneliti rivoluzionari.

In Perù v’era una fiorente colonia italiana. Dei centomila abitanti della capitale Lima, ben cinquemila erano italiani, e soprattutto liguri. Pullulavano cellule della Giovine Italia, della Carboneria e della Massoneria. Molti, infatti, vi si erano trasferiti, oltre che per tentare fortuna anche per gustare l’aria di libertà nella giovane repubblica peruviana. Arrivato a Lima, Garibaldi venne subito accolto in questo ambiente. Tramite un cugino di Mazzini, Manuel Solari, anch’esso immigrato in Perù, Garibaldi viene messo sotto la protezione del ricco, commerciante ligure Pietro Antonio Denegri Vasallo.

È curioso notare come sia una costante nella vita di Garibaldi la facilità con la quale, ovunque, trovasse gente disposta ad aiutarlo, a finanziarlo, a appoggiarlo e perfino a proteggerlo. Il ché scalfisce non poco la sua fama di “eroe”, visto che il vero eroe è colui che supera difficoltà apparentemente insormontabili, e non colui che trova davanti a sé strade sempre spianate. Questa gente, oltre all’appoggio, offriva anche consigli che orientavano la vita del rivoluzionario. Nella sua «Historia cronológica del Perú 1850-1878», lo storico peruviano Lázaro Costa Villavicencio racconta, per esempio, l’incontro di Garibaldi a Lima con lo studioso milanese Antonio Raimondi che gli disse con tono profetico: “Il destino vuole che Lei sia il liberatore dell’Italia”.

A Lima Garibaldi lasciò un’immagine di tipo violento e vendicativo, soprattutto quando era in ballo il suo smisurato ego. Il celebre scrittore peruviano Ricardo Palma racconta un tipico episodio di iracondia garibaldina, del quale fu testimone. Il giornalista Carlos Ledos, di “El Correo de Lima”, si era permesso di criticare Garibaldi. Cieco di rabbia, questi si presentò nella redazione del giornale e prese Ledos a bastonate, lasciandolo sanguinante e tramortito. Portato in carcere con l’accusa di lesioni aggravate, egli se la cavò solo grazie alla puntuale intercessione del Console di Sardegna Giuseppe Canevaro, un noto monarchico.

Questo episodio fece riflettere Garibaldi, aiutandolo a convincersi che doveva fare un patto con la monarchia sabauda, per portare avanti i suoi disegni rivoluzionari. Più tardi, nel 1854, egli inviò una lettera a Mazzini cercando di convincerlo di accantonare, almeno per il momento, gli aneliti repubblicani, e di appoggiare invece la politica di Vittorio Emanuele II. Pietro Denegri aveva una piccola flotta con la quale commerciava con l’Oriente. Egli offrì a Garibaldi il comando della “Carmen”, di 400 tonnellate. A tal fine, Garibaldi dovette però rinunciare alla sua cittadinanza savoiarda per assumere quella peruviana. Appena quindici giorni dopo il suo arrivo a Lima — la burocrazia si faceva veramente in quattro per questo nizzardo! — il capitano Manuel de la Haza (massone affiliato alla Loggia “Concordia Universal 2” del Callao) — rilasciava la patente di capitano a “Don José Garibaldi, natural de Génova (sic) y ciudadano peruano”.

Garibaldi trafficante di “semi-schiavi”

Fioriva in Perù il commercio del guano, prodotto dalle deiezioni degli uccelli marini sulle isole e allora molto pregiato come fertilizzante. Il lavoro era durissimo e le condizioni igieniche pessime. Gli imprenditori, per lo più stranieri, erano costretti a utilizzare lavoro schiavile. Fu così che, dal 1849, cominciò a svilupparsi l’importazione di contadini cinesi, chiamati coolie, destinati alle isole. Un articolo dell’“Illustrated Times” di Londra, del 5 marzo 1859, racconta di condizioni così inumane che i coolie si suicidavano in massa. La minima mancanza di disciplina era castigata con 24 colpi di frusta. Il già menzionato Ricardo Palma, testimone oculare, racconta che i coolie avevano le spalle lacerate: non appena le ferite di un castigo cominciavano a rimarginarsi, erano di nuovo flagellati.

Nell’ottobre 1851, Pietro Denegri affidò a Garibaldi un carico di guano per l’Oriente. Dopo aver imbarcato la merce al sud, Garibaldi partì dal Callao il 10 gennaio 1852 con destinazione Manila e Canton, facendo ritorno il 28 gennaio 1853 con un carico di coolie per le aziende del guano.

I difensori di Garibaldi, specialmente le logge massoniche peruviane, cercarono di scagionare il loro “fratello” affermando trattarsi non di schiavi ma, in realtà, di “traffico di semi-schiavi destinati a essere venduti alle aziende” (“Un masón peruano llamado Garibaldi”, Gran Logia Occidental del Perú, 28 giugno 2008). A noi, francamente, ci sfugge la sfumatura…

Con grande sollievo dei limensi, sempre più turbati dall’irrequieto personaggio, Garibaldi rientrò in Italia nel 1854, dove ovviamente seppelì i suoi documenti peruviani. Il resto è storia.

di Augusto de Izcue

fonte https://www.atfp.it/rivista-tfp/2018/287-dicembre-2018/1561-don-jose-garibaldi-ciudadano-peruano

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