Posted by altaterradilavoro on Mar 9, 2019
A Torino,
tra il 21 e il 22 settembre del 1864, a Unità d’Italia (meno Roma e Veneto)
proclamata da tre tre anni, chi arriva nella città avverte solo un odore di
morte. I cittadini, scesi in piazza per protestare contro la decisione del
governo di spostare la
capitale del Regno a Firenze, sono stati repressi nel sangue.
52 morti, una strage. Un episodio poco ricordato, ma che spiega molto di quanto
fosse complesso in quegli anni il processo di unificazione della nazione.
GLI ANTEFATTI E IL MASSACRO – Nel giugno 1864,
approfittando delle voci su una possibile sollevazione popolare nello Stato
Pontificio guidato da Papa Pio IX, il presidente del
consiglio Marco Minghetti inviò Gioacchino Napoleone Pepoli presso
l’ambasciatore italiano a Parigi, Costantino Nigra, con la precisa disposizione
di contrattare il ritiro delle truppe francesi dai territori della Santa Sede.
Per raggiungere l’accordo l’imperatore Napoleone III chiese una garanzia:
la rinuncia alla conquista di Roma. Pepoli, a sua volta, ipotizzò come prima
garanzia lo spostamento della capitale italiana da Torino ad altra città.
L’imperatore dichiarò che avrebbe certamente firmato l’accordo con questa
condizione. Vittorio Emanuele II fu informato dei fatti. Non senza qualche
mugugno, secondo gli storici, accettò il trattato che contemplava lo
spostamento della Capitale in Toscana. Ragioni politiche, diplomatiche e
strategiche, dunque, alle basi della saldatura.
La convenzione fu firmata
il 15 settembre.
Su richiesta di Vittorio Emanuele II, il documento avrebbe dovuto tenere il
segreto almeno per sei mesi. Nonostante il riserbo ministeriale, i dettagli
iniziarono a circolare ugualmente. I giornali locali, legati a varie fazioni
politiche, assunsero posizioni diverse. La diffusione di notizie frammentarie e
poco chiare alimentarono così le accuse contro il governo. Si aggiunsero, a
quelle precedenti, ulteriori voci, che implicavano persino la possibilità di
alcune cessioni di territorio alla Francia, ma sopratutto in molti si
indignarono del fatto che Roma, Capitale già decisa da tempo nello spirito del
Risorgimento, fosse stata barattata e – forse – persino perduta.
In
breve tempo gli animi si accesero e il 20 Settembre si svolse una
manifestazione per le vie della città contro lo spostamento della capitale.
“Roma o Torino! Abbasso la convenzione! Viva Garibaldi!”: questi gli slogan
documentati. Cinque o seimila persone, secondo alcune fonti, si riversarono
nelle principali piazze. Tra assembramenti, primi tumulti, assedi alla
questura, arresti e momenti di tensione, gli allievi Carabinieri del Regio
Esercito aprirono un terribile fuoco di fila rivolto contro la popolazione. A
terra rimasero morti e feriti. Fatti che si ripeterono per ben due volte, tra
il 21 e il 22 Settembre.
I TRAGICI NUMERI – Alla fine si contarono 15 morti
per gli eventi del 21 settembre in piazza Castello e 47 morti per quelli del 22
settembre in piazza San Carlo. 138 feriti i feriti stimati, ma
si pensa che il numero reale fosse superiore dato che alcune persone colpite
dalle pallottole si curarono senza l’intervento del medico per non incorrere in
sanzioni penali o per tutelare la famiglia da possibili ritorsioni.
Il
più giovane dei caduti aveva 15 anni, il più anziano 75. Quasi tutti sotto i
trent’anni gli altri uccisi. Calzolai, carrettieri, falegnami e muratori,
ferrovieri, fornai. La morte falciò sopratutto gli operai e i poveri. Il 28
settembre, a causa delle ripercussioni dell’accaduto, il governo Minghetti
cadde. Definito “il ministero dell’assassinio”, diramò un comunicato in cui
dichiarava che la
‘plebaglia armata’ aveva aggredito i soldati, i quali erano stati costretti a
difendersi. La magistratura militare mandò sotto processo
58 carabinieri. Furono tutti assolti.
Una
storia dimenticata in fretta e nascosta nelle pieghe della storia, nell’Italia
che doveva sembrare una straordinaria conquista per le generazioni presenti e
future.
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Posted by altaterradilavoro on Mar 8, 2019
E bisogna notare che comunque zoppo, consunto,
ed estenuato dalla privazione di ogni sorta di vitale sostentamento, l’Esercito
napoletano fu sempre temuto dai suoi oltramontani nemici, imperocché dessi non
si deliberarono giammai di attaccarlo in campo aperto, e qualche volta che non
poterono evitarlo, ebbero tale sgarbata accoglienza, che il sedicente invitto
Cialdini, giurò di mai più cimentarsi in quella guisa, e fu fedele al suo
giuramento, sicché possiamo ben asserire, che se l’Esercito delle due Sicilie
non fosse stato nel 1860 abbandonato e sacrificato dalla maggior parte dei suoi
Generali, a cominciare dal Generale Filangieri, ad onta pure degli elementi
guasti che lo rendevano debole ed incompatto, avrebbe anche una volta soffocata
la rivoluzione; l’invasione Piemontese non avrebbe avuto un felice
risultamento, e non gemerebbe oggi il povero Napoletano, sotto il peso delle
sventure che l’opprimono.
Intanto
il codardo (secondo il Fanti ed il Ricasoli) Esercito delle due Sicilie,
sostenne per due mesi la difesa di quella Piazza, e quando arrivò proprio come
suol dirsi colle spalle al muro per tutti i riflessi, allora capitolava; ma a
patti non disonorevoli, forzando il nemico a renderglieli a malgrado della
perfetta conoscenza in cui esso era, di non potersi ulteriormente protrarre la
difesa.
E
non fu generosità del nemico, ma fu ardente desiderio in lui di presto finirla,
imperocché non il prode e generoso volontario, che si batté sempre a petto a
petto, stipolò la capitolazione, ma fu il vandalo, il vile bombardatore
Piemontese, che altro non seppe fare se non che bombardare soltanto.
Specificheremo l’ultimo stadio di
quell’assedio, onde la storia tenga il giusto giudizio fra l’accusato di
codardia e l’accusatore, il quale è codardo davvero,quando colla coscienza di
non aver vinto pel proprio valore, ma sol per le sventure che colpirono il sito
nemico, abusa della vittoria, figlia della combinazione,per commettere l’altra
esecrabile viltà di insultare l’avversario inerme e vinto.
Ritenga pure la storia, le ridicole spavalderie dei Fanti, dei Cialdini, dei
della Rocca, dei della Rovere, perché serviranno a pruomuovere il riso ai
posteri…
Signor
Fanti! Oh! quanti altri uffiziali dello Esercito da voi disciolto, al posto del
Campanelli avrebbero saputo fare ed avrebbero fatto altrettanto | per arrestare
due potenti nemici innanzi ad una Piazza di guerra, sfornita di tutti i mezzi
di difesa nel momento in cui venne attaccata ed assalita. Rammentate, che solo
con un bombardamento, il quale onora ai difensori di Capua, per quanto umilia
gli aggressori, poteste ottenere la cessione di quella Piazza, che ogni
Generale non codardo e non iniquo, avrebbe presi militarmente.
Ci
potrete rispondere che i Cialdini i della Rocca, i Fanti, i della Rovere e
tutti i loro colleghi di NOVARA (1849), non sono educati alle imprese militari,
poiché il loro forte è il vile tradimento, la vergognosa foga, e la empietà
vandalica. Ma noi abbiamo il diritto di imporvi di non insultare chi può
guardarvi con disprezzo!
Il
Signor Cialdini il quale ci à riempito gli orecchi colla sua guerra dei sette
anni in Ispagna, dovrebbe avere la gentilezza di rispondere alle seguenti
domande.
1.
…..Come dev’esser qualificato quell’uomo che nel corso di sua vita combatte
or per un principio, or per un altro opposto a quello? Siccome ci occorre
qualificarlo, desideriamo sapere ciò da lui medesimo.
2……A’ esso Signor Cialdini fatto quella
guerra, o vi à assistito? Oh! quanti presumono di aver fatto la guerra dopo di
essersi ben cautelati nei momenti di tafferuglio: quanti soldati presumono di
aver diritto alla considerazione degli assediati per essere stati in una piazza
assediata, nascosti però sotto le casematte: quanti gradassi pretendono di
essersi battuti in duello, perché ànno fatto un giuochetto di sciabola col
patto espresso di non tirarsi colpi di punta né fendenti alla testa!
Bisognerebbe dunque che il Signor Cialdini ci faccia sapere con pruove
autentiche, che fece davvero la guerra dei sette anni in Ispagna, altrimenti si
rende bernesca la sua millanteria richiamandola o facendola citare in suo
elogio, specialmente dopo del guanto pittatogli dal General de Lamoricière
nello scrivergli che attendeva il momento di poterlo trattare avec la point de
sesbottes, guanto da lui non raccolto.
E al postutto dopo dei vibrati accenti di Garibaldi in Torino, i quali non lo
scossero né punto né poco, si à certamente un diritto di dubitare di ciò che
egli fa strombazzare dai settarii o dai ciarlatani.
3……Fu
in quella guerra che egli imparò ad essere un cannibale, invece di un soldato
di cuore? imperocché solo un cannibale può inorgoglire delle immanità a
tradimento, consumate in Castelfidardo, e dei massacri del 15 febbraio 1861 in
Gaeta, quando 61 persone furono uccise e 27 altre furono ferite per la inumana
voglia di fare incrudelire il bombardamento, invece di farlo cessare durante la
stipulazione dei patti di capitolazione. Signor Cialdini! Il sangue di 4
uffiziali, 76 soldati ed 8 borghesi da voi massacrati nella piazza di Gaeta il
giorno succennato, non tarderà a rivoltarsi, se già non si è rivoltato contro
di voi, per punirvi del vostro misfatto. I loro superstiti comparai di Esercito
poi, ànno tutta la fiducia che verrà il giorno in cui si potranno rimisurare
con voi a parità di condizioni, per vendicarli.
Ve lo assicura il
Vostro Devotissimo AMMIRATORE
TOMMASO CAVA nativo di Napoli
domiciliato in Napoli, disponibile in Napoli
Frattanto
è uopo di rivolgerci agli esosi detrattori dell’Esercito Napoletano, per
dimandar loro se posson mettere in dubbio quello che abbiamo di già narrato,
che comunque sia un episodio della funesta guerra in quistione, rivela però
appieno come niun merito militare abbia avuto l’Esercito Piemontese per la
vittoria riportata nella sua invasione nel Napoletano.
È
purtroppo vero, che il Piemontese della Rocca ed il Piemontizzato Cialdini,
stipularono le capitolazioni col disgregato Esercito delle due Sicilie, ma di
ciò non possono farsi alcun vanto, poiché essi non gustarono la vittoria del
guerriero del 19° secolo, sibbene quella che raccoglievano gli Eruli, i Rugj,
gli Sciti, i Gepidi, i Goti, gli Alani, dai quali, ogni mezzo il più iniquo,
era barbaramente usato per soggiogare popoli inabili ad una gagliarda difesa.
Chi
vorrebbe negarci questo, dovrebbe aver la possanza di trovare un atto col quale
il Piemonte avrebbe dichiarato la guerra a Napoli. Ma il Governo Sardo invece,
vilmente si prosternava e si dichiarava devoto ed amico del Governo Napoletano,
anche quando i suoi soldati avevano varcato la Frontiera di questo Regno,
poiché una prevenzione qualunque, avrebbe fatto prendere delle precauzioni, e
se l’Esercito Napoletano avesse potuto premunirsi in tempo, si sarebbe dato con
sicurezza il piacere di riaccompagnare nel Piemonte l’Esercito Piemontese, per
rinchiudere nelle prigioni di Torino i Cavour, i Cialdini, i della Rocca, i
Fanti, i della Rovere, i…. e tutti coloro che ad essi somigliano per nerezza
di animo, e per viltà di cuore.
Guai all’Italia, se farà ancora assegnamento in voi, o nei vostri
simili, sarebbe irremisibilmente perduta, poiché Generali che possono gustare
una certa vittoria, sol quando la fanno da’ pertichini, come in Crimea, a
Solferino, ed a Magenta, o quando possono impunemente bombardare, spolpando
polli e bevendo champagne, non potranno giammai vincere truppa che non si
troverà nelle misere condizioni io cui si trovò la Napoletana, non potranno
sconfiggere Eserciti che non si troveranno minati dal tradimento, e rosi da
tante ulceri come si trovò quello del Napoletano.
c
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Posted by altaterradilavoro on Mar 7, 2019
Il
processo di Unità di Italia ha visto come protagonisti una sfilza di uomini più
o meno celebri, i cosiddetti padri del
Risorgimento. Dal nord al sud Italia ogni piazza o via principale si fregia di
nomi illustri: Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele etc.
Il
popolo viene indottrinato fin dalla più tenera età a considerare costoro dei
veri eroi, gli artisti li raffigurano esaltando il loro valore in maniera da
rafforzare il mito che li circonda. Innumerevoli sono infatti le opere d’arte
che ritraggono l’eroe dei due Mondi ora a cavallo…ora in piedi che impugna alta
la sua spada, alcune volte indossa la celebre camicia rossa…altre volte si
regge su un paio di stampelle come un martire.
Tuttavia
un ritratto che di certo non vedremo mai vorrebbe il Gran Maestro massone,
Giuseppe Garibaldi, privo dei lobi delle orecchie. E dire che nessuna
raffigurazione potrebbe essere più realistica poiché al nostro falso eroe
furono davvero mozzate le orecchie, la mutilazione avvenne esattamente in Sud
America, dove l’intrepido Garibaldi fu punito per furto di bestiame, si
vocifera che fosse un ladro di cavalli. Naturalmente nessuna fonte ufficiale
racconta questa vicenda.
È dunque
lecito chiedersi quante altre accuse infanghino le gesta degli eroi
risorgimentali? Quante altre macchie vennero lavate a colpi d’inchiostro da una
storiografia corrotta e pilotata? Ma soprattutto quale fu il ruolo dei
banchieri Rothschild nel processo di Unità d’Italia?
La Banca Nazionale degli Stati Sardi
era sotto il controllo di Camillo Benso conte di Cavour, grazie alle cui
pressioni divenne una autentica Tesoreria di Stato. Difatti era l’unica banca
ad emettere una moneta fatta di semplice carta straccia.
Inizialmente la riserva aurea ammontava ad appena 20 milioni ma questa somma
ben presto sfumò perché reinvestita nella politica guerrafondaia dei Savoia. Il
Banco delle Due Sicilie, sotto il controllo dei Borbone, possedeva invece un
capitale enormemente più alto e costituito di solo oro e argento, una riserva
tale da poter emettere moneta per 1.200 milioni ed assumere così il controllo
dei mercati.
Cavour e
gli stessi Savoia avevano ormai messo in ginocchio l’economia piemontese, si
erano indebitati verso i Rothschild per svariati milioni e divennero in breve
due burattini nelle loro mani.
Fu così
che i Savoia presero di mira il bottino dei Borbone. La rinascita economica
piemontese avvenne mediante un operazione militare espansionistica a cui fu
dato il nome in codice di Unità d’Italia, un classico esempio di colonialismo
sotto mentite spoglie.
L’intero
progetto fu diretto dalla massoneria britannica, vero collante del
Risorgimento. Non a caso i suddetti eroi furono tutti rigorosamente massoni.
La
storia ufficiale racconta che i Mille guidati da Giuseppe Garibaldi, benché
disorganizzati e privi di alcuna esperienza in campo militare, avrebbero
prevalso su un esercito di settanta mila soldati ben addestrati e ben
equipaggiati quale era l’esercito borbonico. In realtà l’impresa di Garibaldi
riuscì solo grazie ai finanziamenti dei Rothschild, con i loro soldi i Savoia
corruppero gli alti ufficiali dell’esercito borbonico che alla vista dei Mille
batterono in ritirata, consentendo così la disfatta sul campo.
Dunque
non ci fu mai una vera battaglia, neppure la storiografia ufficiale ha potuto
insabbiare le prove del fatto che molti ufficiali dell’esercito borbonico
furono condannati per alto tradimento alla corona. Il sud fu presto invaso e
depredato di ogni ricchezza, l’oro dei Borbone scomparve per sempre.
Stupri,
esecuzioni di massa, crimini di guerra e violenze di ogni genere erano all’
ordine del giorno. L’unica alternativa alla morte fu l’emigrazione. Il popolo
cominciò a lasciare le campagne per trovare altrove una via di fuga.
Ben
presto il malcontento generale fomentò la ribellione dei sopravvissuti, si
trattava di poveri contadini e gente di fatica che la propaganda savoiarda
bollò con il dispregiativo di “briganti”, così da giustificarne la brutale
soppressione.
A 150 anni di distanza si parla
ancora di questione meridionale. Anche i più distratti scoveranno diverse
analogie con quella che oggi viene invece definita questione palestinese.
Stesse tecniche di disinformazione, stesse mire espansionistiche e soprattutto
stesse famiglie di banchieri.
Solo che un tempo gli oppressi erano chiamati briganti…oggi invece sono i
cattivi terroristi.
di Enrico Novissimo x collana eXoterica
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Posted by altaterradilavoro on Mar 5, 2019
Con una
intera pagina messa a disposizione dall’edizione di Napoli del quotidiano “la Repubblica” (23.2.2019), il presidente della Società Napoletana di Storia
Patria, Renata
De Lorenzo e diverse associazioni di docenti universitari di
Storia attaccano la Camera di
Commercio di Napoli per la decisione di spostare il busto del
generale piemontese Enrico
Cialdini (1811-1892), responsabile del bombardamento di Gaeta durante l’assedio del 1860-61, dei massacri di Pontelandolfo e Casalduni (14 Agosto 1861) e
di migliaia di fucilazioni, saccheggi e distruzioni di paesi del Sud durante la
repressione dell’insurrezione definita brigantaggio successiva all’unificazione.
Il salone
di rappresentanza dell’Ente, nel Palazzo della Borsa, ospita un grande busto in
marmo di Cialdini,
che la Giunta della Camera di Commercio, su proposta del vicepresidente vicario Fabrizio Luongo,
ha deciso all’unanimità di spostare in altro luogo. “A noi piacerebbe – ha detto Fabrizio Luongo – sostituirlo col volto
di Angelina
Romano, bimba di
9 anni che Cialdini fece
fucilare” (“la
Repubblica-Napoli”, 23.2.2019).
Diverse
città del Sud tra le quali Palermo, Catania, Barletta e Lametia Terme, hanno
cambiato negli anni scorsi la denominazione di strade e piazze intitolate
all’autore delle stragi di civili meridionali. Anche Mestre ha deciso di
cambiare il nome del piazzale che porta il nome del generale piemontese, mentre
Vicenza ha cambiato la denominazione della piazza intitolata al colonnello
vicentino Pier
Eleonoro Negri, luogotenente di Cialdini che guidò i bersaglieri nella strage di Pontelandolfo, e l’ha ridenominata Piazza Pontelandolfo.
A Napoli,
invece il tentativo di spostare un simbolo della violenza con la quale l’unificazione
fu imposta all’ex Regno
delle Due Sicilie provoca la mobilitazione della stampa
radical-chic, delle vestali del Risorgimento, di giornalisti e docenti dietro i
quali si muovono i poteri forti che presidiano la narrazione mitica
dell’unificazione.
Secondo
la De Lorenzo “i comportamenti dei Gruppi dirigenti locali” sono da “contestualizzare in base ad una valutazione del
clima complessivo che dettò scelte a suo tempo condivise”.
Gli atti
di Cialdini e dei suoi uomini, quindi,
non andrebbero valutati per il loro contenuto oggettivo (il massacro di inermi,
donne, bambini) ma giustificati dall’ideologia dominante (il liberalismo
risorgimentale) e dal consenso politico che esso raccoglieva tra i “gruppi
dirigenti”.
Per la De Lorenzo, peraltro, i massacri di
Pontelandolfo e Casalduni sono solo “presunti eccidi”, anche se perfino il
socialista Giuliano
Amato, presidente del Comitato per le celebrazioni per i 150
anni dell’unificazione, chiese ufficialmente scusa, a nome dello Stato
italiano, ai discendenti delle vittime dei massacri.
Il
presidente della Società
Napoletana di Storia
Patria, il cui metodo di ricerca storica è lo stesso degli
autori delle fiction
televisive, aggiunge che “la
repressione del brigantaggio ebbe manifestazioni crudeli da entrambe le parti in lotta (…) con episodi di cannibalismo [sic!] e altre aberrazioni” da parte di
questi ultimi, e mette sullo stesso piano “la distruzione del villaggio di Bosco”, ordinata dopo i moti
liberali del 1828 dal Governo Borbonico, che avvenne – come scrive il liberale Luigi Settembrini – quando il
villaggio era “già vuoto
di abitanti”, e le stragi di civili inermi compiute dai piemontesi,
per concludere che è su questa base che “la Società Napoletana di Storia Patria si è espressa contro una visione
del passato che stravolge gli spazi e il loro portato simbolico, disancorandoli dalle motivazioni che le hanno
plasmate”.
Torna il
concetto che “la
motivazione” può giustificare un atto, indipendentemente dal
suo contenuto. Con la stessa logica (la tesi dell’“accerchiamento delle potenze capitalistiche”) sono stati
giustificate dai comunisti le epurazioni di massa di Stalin, lo sterminio dei kulaki, i Gulag sovietici… Quanto al “portato simbolico”, bisogna effettivamente chiedersi, se i contadini
arsi vivi insieme alle loro donne ed ai bambini, nel Beneventano, non siano il
simbolo migliore dell’unificazione italiana.
Contro lo
spostamento del busto di Cialdini,
la De Lorenzo ha promosso anche un
appello di docenti universitari di Storia, ospitato senza alcuna replica da “la Repubblica-Napoli” (23.2.2019).
“Negli ultimi anni – scrivono i docenti
universitari – si sono moltiplicati i segnali di una certa
conflittualità nella produzione di memorie collettive “ e citano “l’istituzione di una giornata della memoria per
le vittime meridionali dell’Unità d’Italia”. Quanto alla decisione della Camera di Commercio di spostare
il busto di Cialdini,
si tratterebbe di un episodio di “bonifica
storica”.
Le “memorie collettive” si producono, secondo questi docenti di
Storia, e “negli ultimi anni” la loro “produzione“ sarebbe diventata “conflittuale”. Forse vogliono dire che una nuova generazione di studiosi,
in gran parte non accademici, ha cominciato, sulla base di fatti e documenti
storici e non di costruzioni ideologiche, a mettere in discussione il “rito
antico ed accettato” del Risorgimento del quale sono i guardiani.
Renata De Lorenzo è
un’allieva del prof.
Alfonso Scirocco (1924-2009), titolare della cattedra di Storia
del Risorgimento all’Università
Federico II, poi collaboratrice di Giuseppe Galasso. Il suo libro su Murat, personaggio del quale il
presidente di Storia Patria è un’ammiratrice, è stato presentato in anteprima a
Roma, l’8 luglio 2011, nella sede del Grande Oriente d’Italia, nel corso di una serata conclusa
dal “Gran Maestro” Gustavo Raffi.
Le
cattedre di “Storia del Risorgimento” furono create nelle Università italiane
per costruire la memoria storica di un evento che vide come protagonisti gruppi
ristrettissimi in ciascuno degli Stati pre-unitari dell’Italia. Un bilancio
della loro attività può essere fatto guardando alla produzione. In occasione
dei 150 anni dell’unificazione (2011), dalla parte risorgimentalista
non è stato prodotto nessun contributo scientifico di rilievo, mentre la
divulgazione ha sfornato biografie di personaggi risorgimentali firmate da
giornalisti e compilatori, saccheggiando la bibliografia già esistente, mentre
gli studiosi critici del Risorgimento hanno prodotto contributi originali
corredati da documenti. Basti citare gli studi di Antonella Grippo, Angela Pellicciari, Gennaro De Crescenzo.
Ma perché
i cultori della leggenda risorgimentale non producono nulla di serio? Perché se
ci si mettesse a studiare davvero che cosa fu quello che è stato definito Risorgimento, emergerebbero non solo le
stragi, di meridionali di cui Pontelandolofo
e Casalduni sono solo un esempio, ma
anche la totale mancanza di legittimazione dei suoi “gruppi dirigenti”. Come si svolsero i plebisciti, non solo nel Regno delle Due Sicilie, ma nel Granducato di Toscana, nelle Legazioni Pontificie, in Veneto? Da dove provenivano i “patrioti” e quali legami avevano con le
sette, con potenze straniere come l’Inghilterra? Che ruolo ebbero la camorra e
la mafia nella gestione dell’ordine pubblico a Napoli e nell’avanzata di Garibaldi in Sicilia?
A queste ed altre domande è pericoloso rispondere. Si incrinerebbe definitivamente la ricostruzione affabulatoria dell’unificazione italiana. Meglio continuare a difendere i busti di Cialdini e di altri “eroi” del Risorgimento come lui, per impedire che vengano trasferiti in appositi Musei storici con targhette che rechino scritto: “criminale di guerra”. (LN132/19)
Lettera Napoletana
fonte http://www.editorialeilgiglio.it/due-sicilie-chi-difende-il-busto-di-cialdini/
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Posted by altaterradilavoro on Mar 5, 2019
Michele ROSA in mostra
presso la Biblioteca della Giunta Regionale “Altiero Spinelli” al Palazzo della
Regione Lazio.
Si
inaugurerà il 18 marzo 2019 alle ore 10.30 presso la Biblioteca della Giunta
Regionale “Altiero Spinelli” – via Rosa Raimondi Garibaldi, 7 – la mostra
personale dell’artista che espone trenta opere relative ai recenti cicli
pittorici.
Dopo una pausa torna nella
capitale il maestro Rosa, di casa già dai lontani anni sessanta del Novecento con
le diverse mostre tenute al Palazzo delle Esposizioni. Molta la strada
artistica percorsa e numerose le tappe di successo del pittore che ha avuto
obiettivi ambiziosi con il coraggio di vederli realizzati.
Nato
nel 1925 compie gli studi artistici proprio a Roma dove si diploma al Liceo
Artistico di Ripetta per poi frequentare la facoltà di Architettura prima a Roma
e poi a Napoli. Studia alla facoltà di Fine
Arts all’Università dell’Illinois (USA). Al rientro in patria partecipa a
mostre collettive. Ha esposto in Francia, Jugoslavia, Giappone, USA e la mostra
di Roma conferma il tenore di un evento che tutti aspettavano da tempo per un
dovuto riconoscimento al prestigioso artista. Agli inizi degli anni ’90,
comincia ad indagare gli spazi dell’astrattismo e dell’arte informale con
soluzioni personali ed originali, ove declinazioni libere risultano commiste
alle esperienze figurative precedenti. Le figure reminiscenti, dai contorni
volutamente sfaldati, riaffiorano con ogni altro elemento reale ritratto per
giungere alla negazione del modello figurativista ed accademico.
Il titolo dell’evento “Svelare l’invisibile” allude al
singolare approccio espressivo del Maestro e alla vitalità della pittura nella
quale riversa un personale punto di vista. É l’intima traduzione
pittorica, prevalentemente eseguita con tecnica mista, che ci consente di
scrutare una libertà espressiva d’eccezione. Rosa, volitivo e caparbio come
sempre, getta luci, colori e sentimenti sulla tela. Traduce le passioni che la
vita gli suscita, le emozioni che trae dalle esperienze di estasianti soggiorni
in terre lontane, nell’inebriante perdersi dentro i vortici delle percezioni
vere e forti, anche talvolta banalmente quotidiane. Possiede recettori
particolari che amplificano le normali sensazioni umane e, grazie ad essi, ci
mostra su tela un lato del mondo che altrimenti non avremmo potuto mai
osservare o vivere con ordinarie risorse sensoriali. Egli è in grado di
magnificare un reale che abbiamo sempre guardato senza vedere. Per via della
profondità dei temi toccati dall’artista, la sensazione per il fruitore non si
ferma solamente all’immagine ottica. Il linguaggio pittorico, segnalando l’isolamento
degli individui dovuto alla tecnologia, agli elementi autodistruttivi del
consumismo e della finanza d’assalto, ricerca la nascosta bellezza interiore
del genere umano.
Oltre
all’artista saranno presenti all’appuntamento culturale:
Pasquale CIACCIARELLI, curatore
e consigliere Regionale del Lazio e Presidente della V Commissione: Cultura,
spettacolo, sport e turismo;
Albino
RUBERTI, capo ufficio di gabinetto
del Presidente della Regione Lazio;
Antonio POMPEO,
presidente della Provincia di Frosinone;
Roberto DE DONATIS,
sindaco di Sora;
Rosella TOMASSONI,
Professore Ordinario di Psicologia della Creatività presso l’Università di
Cassino e del Lazio Meridionale;
Eugenia TREGLIA,
Ricercatore contrattista di Psicologia dell’arte e della creatività;
Alfio BORGHESE,
artista e critico d’arte;
Rocco ZANI
critico d’arte.
(www.rosamichele.it)
La
mostra è promossa dall’Assessorato alla Cultura e Politiche Giovanili della
Regione Lazio, coordinata dal Direttore regionale dott.ssa Miriam Cipriani. Curatore
è l’arch. Claudio Cristallini.
La sala espositiva rimarrà aperta fino al 29 marzo, lunedì, mercoledì e venerdì: 9,00-14,00; martedì e giovedì: 9,00-16,30. Ingresso libero dopo rilascio del badge all’ingresso. I dipinti rimarranno presso la biblioteca “Altiero Spinelli” in esposizione permanente anche dopo la chiusura della mostra.
da lunedì 18 marzo a giovedì 28 marzo 2019
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Posted by altaterradilavoro on Mar 4, 2019
Secondo la «logica della scacchiera», un’Italia unita faceva comodo a Londra come contraltare a Parigi. Ma prima occorreva demolire il Regno delle Due Sicilie, non disposto a fare «l’ascaro» di Sua Maestà Britannica. Protesa nel Mediterraneo, con migliaia di chilometri di coste da difendere, l’Italia unita voluta e sostenuta da Londra sarebbe stata sempre sotto ricatto della potente flotta inglese. Un progetto che non andò però sempre per il verso giusto (per gli inglesi). Questa è l’immagine che emerge dal colloquio di Eugenio Di Rienzo, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma «La Sapienza» e direttore della «Nuova Rivista Storica». Di Rienzo si è occupato dei problemi relativi ai rapporti fra le potenze europee e lo Stato italiano pre-unitario dalla posizione più strategica: il Regno delle Due Sicilie. Per questo con lui verranno esaminati in questa intervista argomenti che sono più ampiamente trattati nel suo volume Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee, 1830-1861, d’imminente pubblicazione per i tipi di Rubbettino.
Durante il
XVI e il XVII secolo l’Italia esercita un grande fascino sull’Inghilterra.
Questa fascinazione continua nei secoli successivi e si estende anche al
Mezzogiorno. Per tutti i viaggiatori inglesi, l’Italia del Sud appare come un
museo a cielo aperto abitato, però, da popolazioni incivili. Nasce allora un
pregiudizio anti-italiano e in particolare anti-meridionale? Un pregiudizio
fondato?
«Anche se l’espressione un “paradiso
abitato da diavoli” riferita a Napoli e alla Campania fu coniata, come
ricordava Benedetto Croce, da Daniele Omeis, professore di morale presso
l’Università di Altdorf in Germania che, nel 1707, pronunciò una prolusione
accademica, intitolata appunto “Regnun Neapolitaum Paradisus est, sed a
Diabolis habitatus”, questo giudizio ritorna come un motivo ricorrente nei
diari e nelle corrispondenze dei gentlemen inglesi. Lo spettacolo delle
meraviglie artistiche e naturali del Mezzogiorno era, infatti, oscurato
dall’arretratezza, dalla povertà, dal degrado morale delle popolazioni e
dall’inadeguatezza delle classi dirigenti. Se nel passato quelle regioni erano
state la culla della civiltà classica, ora, esse apparivano il terreno di
coltura di una plebe indocile, ignorante, superstiziosa, tendenzialmente
delinquente: i lazzaroni di Napoli e i briganti della Calabria. Ricordiamo,
però, che questo giudizio, pur basato su dati di fatto, era potentemente
rafforzato da un pregiudizio religioso e anti-cattolico. Il culto di San
Gennaro a Napoli e la fastosa e paganeggiante processione in onore di Santa
Rosalia a Palermo apparivano, infatti, la testimonianza vivente di come il
Papato e il clero avessero mantenuto volutamente le masse del Sud in una
situazione di soggezione e di subalternità, utilizzando nel modo più
spregiudicato, il precetto di Machiavelli, soprannominato dagli inglesi Old Nick (Vecchio
Diavolo), secondo il quale la religione doveva essere instrumentum regni.
Aggiungiamo, però, che i rapporti tra Regno di Napoli e Gran Bretagna non si
limitarono a questi aspetti. Nel 1842, come illustrava un denso articolo,
pubblicato sull’autorevolissimo “Journal of the Statistical Society of London”,
una quota rilevante della bilancia commerciale britannica era rappresentata
dall’importazione di materie prime provenienti dalla Sicilia. L’ingente
traffico era costituito da vino, olio d’oliva, agrumi, mandorle, nocciole,
sommacco, barilla e soprattutto dallo zolfo (utilizzato per la preparazione
della soda artificiale, dell’acido solforico e della polvere da sparo), che
copriva il 90% della richiesta mondiale e di cui venti ditte inglesi avevano
ottenuto, di fatto, la prerogativa esclusiva, per l’estrazione e lo
sfruttamento, grazie al pagamento di un modico compenso».
Quando i Borbone furono ridotti al
possesso della sola Sicilia dall’invasione napoleonica (1805) si trovarono
sotto una pesante tutela inglese. Quanto durò l’influenza britannica su Napoli
dopo il Congresso di Vienna, e come si manifestò?
«Dopo il 1815, Londra non prese in
considerazione la possibilità di un intervento indirizzato a guadagnarle una
presenza politico-militare nella Penisola. Il principio della non ingerenza
negli affari italiani registrò, tuttavia, una clamorosa eccezione per quello che
riguardava il crescente interesse inglese a rafforzare la sua egemonia nel
Mediterraneo e quindi a riguadagnare quella posizione di vantaggio, acquisita
nel 1806 e ulteriormente incrementatasi poi, tra 1811 e 1815, grazie al
protettorato politico-militare instaurato da William Bentick in Sicilia.
Protettorato che aveva portato ad ampliare la colonizzazione economica
dell’isola già avviata dalla fine del XVIII secolo, poi destinata a
irrobustirsi nei decenni seguenti grazie all’attività delle grandi dinastie
commerciali dei Woodhouse, degli Ingham, dei Whitaker e di altri
mercanti-imprenditori angloamericani. Molto indicativa, a questo riguardo era
la presa di posizione del primo ministro, Visconte Castlereagh che, il 21
giugno 1821, aveva ricordato che il dominio diretto o indiretto della Sicilia
costituiva, ora come nel passato, un “indispensabile punto d’appoggio” per
rendere possibile il controllo dell’Inghilterra sull’Europa meridionale e
l’Africa settentrionale. Come, infatti, avrebbe sostenuto Giovanni Aceto, nel
volume del 1827, “De la Sicile et de ses rapports avec l’Angleterre”,
“quest’isola non rappresenta per l’Inghilterra soltanto un importante avamposto
strategico, da preservare, ad ogni costo, da una possibile occupazione della
Francia che la minaccia dalle sue coste, ma costituisce anche il centro di
tutte le operazioni militari e politiche che il Regno Unito intende
intraprendere nell’Italia e nel Mediterraneo”».
Il controllo del Mediterraneo
centrale fu tra i principali motivi di conflitto tra Napoli e Londra: prima
l’occupazione britannica di Malta, strappata a Napoleone (che a sua volta
l’aveva tolta ai Cavalieri di San Giovanni, che riconoscevano la sovranità
siciliana sull’isola) ma mai restituita ai Borbone, poi l’incidente dell’Isola Ferdinandea,
infine la questione degli «Zolfi». Furono solo questioni geopolitiche o
contarono anche altre considerazioni?
«Sicuramente interessi strategici e
geopolitici dominarono la politica della Corte di San Giacomo verso le Due
Sicilie dalla metà dell’Ottocento al 1860. Nel 1840, Palmerston usò tutta la
forza della gunboat
diplomacy per mantenere il monopolio inglese sugli zolfi siciliani,
ordinando alla Mediterranean
Fleet di catturare il naviglio napoletano e di condurlo nelle basi
di Malta e di Corfù con un vero e proprio atto di pirateria. Nel 1849, sempre
Palmerston, sostenne la rivoluzione separatista siciliana con l’obiettivo di
fare dell’isola uno Stato autonomo retto da un principe di Casa Savoia. Nel
corso della Guerra di Crimea, ancora Palmerston, propose più volte agli Alleati
di effettuare azioni intimidatorie contro il Regno di Ferdinando II, il quale
aveva mantenuto una neutralità indulgente e più che benevola verso la Russia.
Soltanto l’opposizione della Regina Vittoria impedì nel settembre del 1855 una
“naval demonstration” nel golfo di Napoli che, nelle intenzioni del primo
ministro, avrebbe dovuto favorire un’insurrezione destinata a rovesciare i
Borbone. Il ricorso alla politica delle cannoniere, per ridurre o azzerare la
sovranità delle Due Sicilie, trovò, invece, il pieno consenso dell’opinione
pubblica del Regno Unito. Un editoriale del “Times” sostenne, infatti, che la
visita della flotta britannica doveva ottenere gli stessi risultati delle
missioni in Giappone guidate dal Commodoro Matthew Calbraith Perry, nella baia
di Edo, tra 1853 e 1854, per ridurre a ragione la resistenza dello shogun,
Ieyoshi Tokugawa, che si era opposto alla penetrazione commerciale
statunitense. Così come gli Stati Uniti in Estremo Oriente, terminava l’articolo,
anche la Gran Bretagna non poteva tollerare l’esistenza di “un Giappone
mediterraneo posto a poche miglia da Malta e non eccessivamente distante da
Marsiglia”. Naturalmente l’ingerenza inglese si ammantava di pretesti
umanitari: la volontà di smantellare il regime dispotico di Ferdinando II e di
sostituirlo con un sistema costituzionale e liberale nel quale fossero
garantiti i diritti politici e civili. Prendendo a pretesto la denuncia di
Gladstone che, nelle “Two Lettersto the Earl of Lord Aberdeen” del 1851, aveva
definito il regime di Ferdinando II “la negazione di Dio”, Palmerston si servì
di fondi riservati del Tesoro britannico, per finanziare una spedizione
destinata a liberare Luigi Settembrini (autore, nel 1847, della virulenta
“Protesta del popolo delle due Sicilie”), Silvio Spaventa e Filippo Agresti
condannati a morte nel 1849, la cui pena era stata commutata nel carcere a vita
da scontare nell’ergastolo dell’isolotto di Santo Stefano. L’operazione,
progettata per la tarda estate del 1855, non arrivò a compimento ma il Secret Service Fund
sarebbe stato utilizzato negli anni successivi e fino al 1860 per
destabilizzare il Regno delle Due Sicilie».
Quale ruolo ebbe l’Inghilterra nella
caduta del Regno di Napoli?
«Rosario Romeo nella sua biografia
di Cavour definì l’azione inglese di sostegno allo sbarco dei Mille e alla
campagna di Garibaldi come una “leggenda risorgimentale”. Si tratta però di
un’interpretazione sbagliata. Il supporto militare, economico, diplomatico del
Regno Unito fu, invece, indispensabile alla cosiddetta “liberazione del
Mezzogiorno”. Come rivelò il dibattito, svoltosi nella Camera dei Comuni, il 17
maggio 1860, la presenza delle fregate inglesi nella rada di Marsala, che
impedì la reazione della squadra borbonica, non fu una semplice coincidenza ma
un atto deliberato deciso con piena cognizione di causa dal gabinetto
britannico. Il sostegno di Londra non si esaurì in questo episodio. In aperta
violazione al Foreign
Enlistment Act del 1819, che proibiva appunto il reclutamento di
sudditi inglesi in eserciti stranieri, Palmerston e il ministro degli Esteri
Russell tollerarono e incoraggiarono “the subscription for the
insurrectionists in Sicily” promossa dal pubblicista italiano Alberto Mario,
alla quale aderirono esponenti del partito whig
e alcuni ministri tutti egualmente disposti a elargire “ingenti somme da
utilizzare nella guerra contro il Regno delle Due Sicilie” e quindi a sostenere
economicamente una campagna di arruolamento destinata a ingrossare le fila dei
ribelli in camicia rossa. Inoltre la flotta inglese collaborò tacitamente con
quella piemontese nella protezione dei convogli che trasportarono rinforzi di
uomini e materiali destinati a raggiungere Garibaldi. E non basta! Dalla
corrispondenza tra Cavour e l’ammiraglio Persano dei primi del luglio 1860,
apprendiamo, infatti, che alla preparazione del “pronunciamento” contro
Francesco II, che sarebbe dovuto scoppiare a Napoli per prevenire
un’insurrezione mazziniana, doveva fornire un apporto fondamentale “il signor
Devicenzi, amico di Lord Russell e di Lord Palmerston, che avrà mezzo
d’influire sull’ambasciatore di Sua Maestà britannica Elliot e l’ammiraglio
comandante della squadra inglese”. Fu solo, poi, grazie al veto posto da Londra
che Napoleone III rinunciò ad attuare un blocco navale nello stretto di Messina
che avrebbe potuto impedire a Garibaldi di raggiungere le coste calabre. Non si
trattava evidentemente di favori disinteressati. Alla fine di settembre del
1860, Palmerston avrebbe ricordato, infatti, all’esule italiano Antonio Panizzi
(divenuto direttore della biblioteca del British
Museum) che “se Garibaldi aveva potuto occupare Napoli ed esser
causa che il Re scappasse a Gaeta, ciò fu dovuto all’Inghilterra che, invitata
dalla Francia a impedire che dalla Sicilia si venisse ad attaccare gli Stati di
terraferma, vi si rifiutò”, aggiungendo che “l’aiuto morale e l’influenza
britannica non furono meno utili all’Italia delle armi francesi e che sarebbe
stata mera ingratitudine per parte dell’Italia lo scordarselo”».
E’ possibile dire, quindi, che con
l’unità il Regno d’Italia eredita sostanzialmente la stessa posizione di
debolezza geopolitica delle Due Sicilie e che Londra acquista, dopo il 1861,
una sorta di protettorato sulla politica mediterranea del nostro Paese?
«Sicuramente sì. Anche se forse il termine “protettorato” rappresenta un’espressione troppo forte, non si può non riconoscere che gli argomenti con i quali Palmerston giustificava l’azione inglese a favore della conquista piemontese delle Due Sicilie miravano proprio a quest’obiettivo. E credo che valga la pena di ricordarli alla fine di questa intervista. Nella lettera inviata alla Regina Vittoria, il 10 gennaio 1861, Palmerston sosteneva che, considerando “la generale bilancia dei poteri in Europa”, uno Stato italiano esteso da Torino a Palermo, posto sotto l’influenza della Gran Bretagna ed esposto al ricatto della sua superiorità navale, risultava “il miglior adattamento possibile” perché “l’Italia non parteggerà mai con la Francia contro di noi, e più forte diventerà questa nazione più sarà in grado di resistere alle imposizioni di qualsiasi Potenza che si dimostrerà ostile al Vostro Regno”. Parole profetiche che, se si esclude l’intervallo della politica estera fascista, la Storia, fino ai nostri giorni, non ha mai completamente smentito. Il Trattato d’alleanza con gli Imperi Centrali, firmato dal governo italiano nel maggio del 1882, non modificò a nostro favore lo status quo mediterraneo che si era venuto creando con l’insediamento francese in Tunisia e di conseguenza rafforzò la nostra situazione di dipendenza dal Regno Unito. Considerato che, nei problemi mediterranei, Germania e Austria non si ritenevano impegnati ad alcuna solidarietà con il suo alleato, l’Italia, per arginare l’espansionismo di Parigi, si trovò obbligata ad orbitare nella sfera d’influenza di Londra, la quale si mostrava desiderosa di stringere un patto di collaborazione con il nostro Paese che le avrebbe consentito, ad un tempo, di mettere in minoranza le forze francesi e di impedire una possibile intesa franco-italiana, il cui effetto avrebbe potuto rendere difficili le comunicazioni tra Gibilterra, Malta e l’Egitto. Il 12 febbraio del 1887 veniva firmato così un accordo con il quale il governo britannico e quello italiano s’impegnavano a “mantenere l’equilibrio mediterraneo e a impedire ogni cambiamento che, sotto forma di annessione, occupazione, protettorato, modifichi la situazione attuale con detrimento delle due Potenze segnatarie”. Con questa convenzione, se l’Italia s’impegnava ad appoggiare la penetrazione inglese in Egitto, la Gran Bretagna si dichiarava disposta “a sostenere, in caso d’ingerenza di una terzo Stato, l’azione italiana su qualunque punto del litorale settentrionale africano e particolarmente in Tripolitania e Cirenaica”. Rinnovato, nel 1902, questo accordo ci avrebbe consentito di portare a termine l’impresa libica nel 1911. Anche dopo questo successo, l’Italia rimase, comunque, per Londra un “volenteroso secondo”, destinato a svolgere un ruolo di sostegno al suo sistema marittimo, ma al quale non poteva essere consentito una più ampia espansione nell’area mediterranea. Che questo fosse il ruolo riservato alla nostra Nazione lo dimostrava, in tutta evidenza, nel 1913, la ferma di presa posizione del Regno Unito che escludeva in linea di principio “la possibilità della conservazione delle isole dell’Egeo, già appartenenti ai domini turchi, da parte del governo di Roma, perché una simile soluzione minaccerebbe di rompere l’equilibrio politico nella parte orientale del Mediterraneo”. Una dichiarazione, questa, che conteneva in nuce le linee maestre della politica inglese successive alla fine della Prima guerra mondiale, quando Londra, d’intesa con Parigi, operò instancabilmente per impedire la realizzazione integrale delle aspirazione italiane sull’Adriatico, appoggiando e fomentando le ambizioni della Iugoslavia, dellAlbania e della Grecia in questo cruciale settore strategico».
Emanuele Mastrangelo
fonte http://www.nuovarivistastorica.it/?p=3211
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