Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

MAESTRO SAMUELE PAGANO di ATINA IN ALTA TERRA DI LAVORO

Posted by on Gen 24, 2019

MAESTRO SAMUELE PAGANO di ATINA IN ALTA TERRA DI LAVORO

COMPOSITORE – DIRETTORE – CONCERTISTA

DEL CONSERVATORIO DI MUSICA S. PIETRO A MAIELLA DI NAPOLI

LORETO PAGANO

La prima persona coinvolta nella passione musicale nella famiglia Pagano è Loreto Pagano, padre di Samuele e figlio di Antonio Pagano che si era trasferito da Napoli ad Atina per esercitare il commercio di vini. Costui, che sposò la sorella del Parroco, coltivava ambizioni di una brillante carriera per il figlio Loreto e per questo motivo lo manda a Trisulti fra i Certosini per studiare latino, greco, teologia e l’arte farmaceutica del dispensario delle medicine del monastero. Successivamente, dal 1858 al 1860, lo trasferisce  a Napoli per frequentare la Scuola di Bassa Chirurgia presso la scuola medica del Monterossi.

1883. Nasce il 18.05.1883 ad Atina (Caserta) in Terra di Lavoro, nono di diciannove figli che suonano tutti uno o più strumenti.

1892. Fin dall’adolescenza mostra sempre una speciale tendenza musicale tanto che da semplice dilettante suona il violino, è già un esperto suonatore di

flauto e di chitarra e scrive delle” suonatine  di sua iniziativa”.

Loreto Pagano, padre di Samuele,“Flauto solista” della Banda di Atina dal 1860  al 1890, dopo le continue  e insistenti richieste del figlio, decide di assecondare l’inclinazione che il ragazzo ha per la musica mandandolo a Napoli a studiare.

Con la certezza che i sacrifici che dovrà fare non saranno inutili, chiede all’Amministrazione Comunale di Atina, guidata dal sindaco Giuseppe

Visocchi, di concedere con il Bilancio Comunale un sussidio di almeno duecento lire annue per la durata di quattro anni. Il Consiglio accetta la

domanda e delibera di stanziare una apposita categoria nel Bilancio per il sussidio suddetto il quale dovrà pagarsi a rate trimestrali posticipate e

previa esibizione di attestati dai quali risulti che Samuele Pagano trae profitto dall’insegnamento.

Successivamente, però,  il richiedente giunge alla determinazione di far studiare Samuele ad Atina limitando la dimora a Napoli a soli due o tre mesi circa sotto la direzione di “maestri particolari” i quali  devono essere ricompensati.

1894. Accompagnato dall’On. Alfonso Visocchi, supera l’esame di ammissione al Reale Conservatorio di Musica” San Pietro a Maiella” di Napoli, privilegio destinato a pochi dotati di straordinarie qualità musicali. Ha per insegnanti illustri maestri  come Camillo De Nardis, Pietro Platania, Ettore Fieramosca, Francesco Ancona e Giuseppe Martucci  dai quali derivò una severa concezione dell’arte. Per tali studi il ragazzo supera brillantemente gli esami del Reale Conservatorio come risulta dai certificati rilasciati dal Direttore di detto Conservatorio.

1903. Consegue, il 16 novembre, il Diploma di licenza e di Magistero nel ramo Istrumentazione per Banda e nel Pianoforte e Violino complementari, con il massimo dei voti.

Dal 1903 al 1906 presta Servizio Militare di leva nel II Reggimento dei Granatieri di Sardegna e si distingue come musicista, come tiratore scelto e come attore teatrale. Dopo  il congedo la passione per il tiro non svanisce  e ciò è documentato dalla nomina di Vice Direttore della Società di Tiro a Segno Nazionale e della Società di Tiro a Segno di Atina.

1906.  Il sette dicembre viene nominato maestro di musica  del Complesso Bandistico “ Città di Atina” a titolo di esperimento  per l’anno 1907 con uno stipendio di L.75 mensili.

1907. Il 3 dicembre il Consiglio Comunale conferma la nomina del maestro Samuele Pagano con lo stipendio di L. 1200 annue “lorde di Ricchezza Mobile”.Dirigerà, poi, il corpo musicale fino al 1964.

Quando è invitato alla Direzione della Banda dal Cav. Orazio Visocchi, che ne è  Presidente,  si imbatte in una situazione poco confortante in quanto vi è insufficiente preparazione e i brani spesso presentano errori di strumentazione e di armonizzazione. Attraverso un paziente lavoro di oltre mezzo secolo,  egli riesce a  perfezionare il complesso fino a raggiungere il giusto equilibrio tra i vari strumenti.

1915. Vince il Concorso per la Direzione della Banda Presidiaria del 59° Reggimento di Fanteria di stanza a Frosinone.

          Al termine dell’incarico, nel 1918, riceve un’attestazione di merito per le capacità organizzative, artistiche, tecniche e per le sue “ottime maniere”.

1918. Avviene la fusione della Banda di Atina con metà Fanfara per la quale  scrive diversi brani. In epoca fascista ne scriverà altri.

1920. Il 20 settembre a Parigi dirige in Concerto”La Banda Musicale della Lira Italiana”.

1921. Dirige in Concerto la Southwairk Boro Prize Band a Londra. In programma anche la Symphonic March “The Tiber” di sua composizione.

          Tale marcia in Inghilterra verrà ripetutamente eseguita  da parecchie bande.

  Dal 1920 al 1921 la Banda di Atina è alle dipendenze del fratello Beniamino, diplomatosi anche lui a S. Pietro a Majella.

          Alla fine dell’anno 1921 ritorna ad Atina. In tale anno la Banda conta 43 elementi. Dal 1922 al 1944   essa si esibisce ogni domenica in

          Piazza Garibaldi ed effettua esecuzioni musicali   anche nei paesi vicini.

1922. E’ vincitore del Concorso per la direzione del “Quartetto Haydan di Londra”.

 Il 18 settembre  gli perviene  un contratto per la direzione della “Banda G. Rossini” di Parigi. Il 22 settembre è preparata la pratica per il  

           trasferimento, ma egli decide di non partire.

1923. Viene molto applaudita la sua marcia sinfonica “ Capricciosa” eseguita durante il “Concerto Musicale, Vocale e Instrumentale “ diretto dal Maestro

            B. Pagano in occasione del Genetliaco di Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III.

1924. Il 14.10  di quest’anno gli perviene una richiesta da parte di “Cimino Frères”, una importante casa musicale di Parigi che chiede la gentilezza di inviargli una decina di brani musicali per piano automatico.

1925. Contrae le nozze con Lucia Mancini.

Dalle esperienze musicali fatte a Roma, a Parigi, a Londra, a Glasgow appare come un artista di respiro nazionale ed europeo, eppure rinuncia alla possibilità di successo e di carriera che offrono le grandi capitali per vivere nella  sua valle e dedicarsi  alla composizione delle sue opere.

1932. E’ nominato Membro Onorario dell’Accademia Musicale “G. Verdi” per i suoi meriti artistico-culturali.

1945.  Ricostituisce e dirige il Complesso Bandistico  “Città di Alvito”, il primo a riprendere il discorso musicale nella valle dopo gli eventi bellici.

 In varie epoche è invitato frequentemente alla direzione di importanti complessi bandistici Abruzzesi e Pugliesi.

Raggiunge la piena maturazione artistica nel 1946-48 quando sarà costituita la “Grande Banda Città di Atina” la cui direzione gli è affidata da Guglielmo Visocchi, Presidente della “ Società Musicale Città di Atina”

Accresce il numero degli elementi portando a 64 il numero complessivo dei musicanti sia reclutandoli in vari conservatori musicali sia formando numerosi allievi e crea un vero repertorio originale per banda. Il complesso, nel caso in cui esegue il Gran Canzoniere, raggiunge il numero di 75 esecutori. Per le grandi occasioni vi è la partecipazione del grande flautista Severino Gazzelloni. Il successo , documentato dalla stampa, è strepitoso e la banda è giudicata tra le migliori in Italia. A tale epoca risale la composizione delle opere più significative.

Molte delle sue numerose composizioni hanno il riconoscimento di Medaglie d’oro in Concorsi nazionali e lusinghiere valutazioni in Inghilterra, in Francia e in America.

1947.  Dal 1947 al 1960 insegna musica presso gli Istituti Magistrali di Pontecorvo e di Cassino e presso la Scuola di Avviamento di Atina.

Impartisce, fino al 1967, lezioni private di pianoforte,di violino, di chitarra,di  fisarmonica e di altri strumenti.

E’ formatore di ben tre generazioni di allievi che ricordano con venerazione il Maestro  e tengono alta la cultura e la tradizione musicale nella Valle. Alcuni di essi hanno ricevuto lusinghiere affermazioni all’estero.

1948. La Società Musicale “Città di Atina”, presieduta dall’Ing. Guglielmo Visocchi,  sindaco di Atina, non è più in grado di sostenere le spese per la Banda  e Samuele accetta di dirigere, per tutto il 1948, la Banda di Monte San Giovanni Campano.

1949. Dal 1949  aumentano le difficoltà finanziare per sovvenzionare il complesso bandistico di Atina.

1956.  La Banda conclude l’attività che per tanto tempo aveva brillantemente rappresentato  la nostra città.

1970. Al 24 maggio di quest’anno risale l’ ultima apparizione ufficiale  di Samuele Pagano per ricevere l’onorificenza di “ Cavaliere di Vittorio

         Veneto”concessa con decreto del presidente della Repubblica ai combattenti della prima Guerra Mondiale in riconoscimento del

          servizio prestato.

 1972. Il dieci dicembre viene dato l’annuncio della  morte del Maestro.

1923. Lo stesso anno il fratello Beniamino, che lui aveva sostenuto negli studi dopo la morte del padre Loreto, fu nominato maestro Direttore della Banda “ Gioacchino Rossini” di Parigi e, in seguito, fu chiamato  a dirigere anche la Banda della “Lira italiana di Parigi”. Pianista solista, concertista e violinista, le sue composizioni sono state incise da varie case discografiche.

1982. La “Pro Loco” di Atina premia il Maestro Pagano con un Diploma di Medaglia d’oro.

1983. Samuele Pagano  non pubblicò quasi nulla da vivo, forse perché la sua natura aristocratica, solitaria  e  a momenti spirituale lo portò a trovare  pieno appagamento nella creazione dell’opera musicale in sé.  Può darsi che sia questo  il motivo per cui che egli non volle mai staccarsi dalla fonte della sua ispirazione, la terra natale, per inseguire le lusinghe del successo che lo avrebbero portato in altri luoghi.

Della  produzione del maestro  fanno parte circa 3000 pagine di manoscritti. Le composizioni scampate  allo scempio della seconda guerra mondiale e al logorio del tempo sono 260. Una quarantina sono quelle andate disperse. Quelle sottratte all’oblio sono state  raggruppate tenendo conto del genere di musica e delle dimensioni dei manoscritti.

 Nel centenario della sua  nascita , nel corso di una manifestazione commemorativa in cui  gli fu intitolata la  strada in cui ebbe la sua

dimora  per cinquanta anni, viene presentato, per interessamento dei figli Flavio, Concetta e Franca, il primo volume della raccolta di musiche “ Antologia Pianistica” e il II volume “Fantasie Musicali .Nel salone del Palazzo Ducale  si tiene un concerto vocale e strumentale durante il quale vengono eseguite numerose composizioni inedite. La Famiglia Pagano, alla quale l’Amministrazione P. di Fr. fa omaggio di una Medaglia d’Oro, dona la Museo Comunale tutti i manoscritti del Compositore, i Diplomi di Ben.  e di Concorsi  e molti cimeli.

1984. Il 17 e il 18  Novembre il Comune di Atina organizza due manifestazioni in memoria del Maestro: il primo giorno si tiene un Concerto di Musica Strumentale del Rinascimento del “Concentus Concert” di Budapest, il secondo si esibiscono nelle piazze e per le vie del paese le bande convenute al “III raduno Nazionale di Bande”.

1985.  Nel mese di marzo  è dato alle stampe il III volume di manoscritti  “Antologia musicale n. 1”.

            Il 29 settembre sono presentati i volumi IV e V  di musiche “Antologia musicale n.2 ” e   “Marce sinfoniche”

1987.    Viene presentato il VI volume di manoscritti”Marce militari”.

Il Corpo Bandistico di Atina fu fondato nel 1835. Fino al 1956 ebbe sempre annessa una scuola di musica  e lavorò ininterrottamente tanto da rappresentare una tradizionale fonte di educazione artistica generatrice dei più nobili sentimenti  tramite l’opera  compiuta da tanti bravi maestri. I suonatori erano tutti artigiani del posto animati da passione musicale .

  Gli strumenti musicali, avendo  il Corpo sempre avuto la qualifica di concerto civico, erano di proprietà del comune e  ceduti in uso alla banda stessa.  . Molti venivano regalati annualmente  dalla famiglia Visocchi.

Nel 1942 l ’Amministrazione Comunale corrispondeva al Dopolavoro Comunale di Atina, alle cui dipendenze era passato il concerto civico, un contributo per il mantenimento dello stesso corrispondente a L. 6.000. Per tale sostegno il “concerto” aveva l’obbligo di suonare sia  nelle Feste Nazionali  che nelle grandi occasioni a titolo gratuito ed a semplice richiesta del Capo dell’Amministrazione. Nei “periodi estivi e normali prestava servizio serale e ogni domenica”. ( Archivio Storico Comunale di Atina)

1946. Dirige il Complesso Bandistico “Città di Monte San Giovanni Campano”.

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Nono di diciannove figli che suonavano tutti uno o più strumenti, nacque ad Atina il 10 maggio del 1883.

Fin dall’adolescenza mostrò sempre una speciale tendenza musicale tanto che da semplice dilettante suonava diversi strumenti e scriveva anche delle suonatine di sua iniziativa. Grazie alla determinazione del padre che volle assecondare la sua inclinazione musicale e  grazie  anche alla filantropia dell’amministrazione comunale di Atina, guidata dal sindaco Giuseppe Visocchi,  fu condotto  a Napoli dal senatore Alfonso Visocchi dove superò l’esame di ammissione presso il Regio Conservatorio di Musica “San Pietro a Maiella. Nel 1903 conseguì, col massimo dei voti, il Diploma di Licenza e di Magistero nel ramo Istrumentazione per Banda. Nel 1907 fu nominato Maestro della Banda musicale di Atina percependo uno  stipendio di £. 75 mensili lorde ( Archivio storico comunale di Atina, Registro Deliberazioni Comunali ,1893-1908).

Nel 1946 diresse la Banda di “Città di Monte S. Giovanni Campano” e nel 1954  il Complesso Bandistico “Città di Alvito”. In varie epoche fu  vincitore di concorsi  e  Direttore di grandi complessi bandistici pugliesi e Abruzzesi e diresse concerti a  Londra e a Parigi dove si affermò come compositore, direttore d’orchestra e concertista. Formatore di ben tre generazione di allievi, morì  ad Atina il 10 dicembre del 1972.

Sostenne negli studi musicali il fratello Beniamino (1894-1989)  il quale nel 1923 fu nominato maestro Direttore della Banda “ Gioacchino Rossini” di Parigi e, in seguito, fu chiamato  a dirigere anche la Banda della “Lira italiana di Parigi”. Pianista solista, concertista e violinista, le sue composizioni sono state incise da varie case discografiche.

ricerca effettuata da

Mario Riccardi

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Unità d’Italia: frammento di storia locale, Stefano Jadopi di Lucia Di Rubbio

Posted by on Gen 23, 2019

Unità d’Italia: frammento di storia locale, Stefano Jadopi di Lucia Di Rubbio

La sera del 30 settembre 1860 Francesco Di Paola Jadopi, figlio di Stefano, 19enne fu macellato a colpi di scure e pugnale. Infine gli furono strappati gli occhi.
Cosa aveva fatto, per subire una sorte così tremenda?
Figlio di Stefano, aveva la colpa di essere il figlio di un liberale, propugnatore dell’unità d’Italia.
Ma chi era Stefano?
Il vescovo di Isernia Adeodato Cardosa, lo descrisse in questi termini: “uomo di mente elevata, di animo informato a libero sentire, di cuore nobile e retto”.
Designato dal re di Napoli Ferdinando I quale membro della Giunta Provvisoria, istituita il 9 luglio 1820; aveva il compito di esaminare tutte le disposizioni del Governo, fino all’apertura del Parlamento democraticamente eletto.
Era un aperto riconoscimento, alla sua profonda cultura, alle sue idee progressiste, avanzate, liberali.
Tra le quindici personalità più influenti del regno, figurava il suo nome nella Giunta Provvisoria voluta da re Ferdinando I. Tutti “murattiani” (liberali moderati), esclusi i rappresentanti della Carboneria.
Con il nuovo regime Costituzionale, re Ferdinando concesse libertà di stampa, per cui in tutto il regno di Napoli, si sviluppò un dibattito di alto profilo culturale, di cui il nostro, faceva parte.
Sorsero quotidiani, riviste settimanali, giornali di informazione, e discussione politica.
Re Ferdinando I consentì anche spinte autonomistiche; nella Costruzione erano previsti Consigli Comunali elettivi, come elettivi erano i membri della Deputazione Provinciale, i cui Presidenti, dovevano essere approvati dal re.
Conquiste importanti e innovative, che avevano un compito propulsore di progresso a tutto campo, nel Regno di Napoli.
C’è da dire, che i sovrani italiani, il Papa, e Vittorio Emanuele I, non videro di buon occhio la Costituzione napoletana, temendo il diffondersi della Rivoluzione, e iniziarono forti pressioni per farla abrogare.
L’Austria corse in aiuto dei sovrani (lamentatori) e il 7 marzo 1821 sconfisse l’esercito napoletano, soffocando nel sangue l’esperimento liberale, ripristinando l’assolutismo borbonico.
A Isernia, il seme liberale, continuò a germogliare nella figura di Stefano Jadopi.
Fuse nella sua persona, i principi della dottrina cattolica, con le idee laiche e liberali.
Queste due concezioni apparentemente idiosincratiche, diedero vita ad un uomo equilibrato e moderato; credente, saggio amministratore della cosa pubblica, attento ai reali bisogni dei cittadini.
Queste lodevoli qualità, fecero la sua fortuna politica da un lato, dall’altro, furono fonte delle tragedie che si abbatterono sulla sua famiglia.
Le sue idee moderate e progressiste, lo resero inviso alla classe politica, e alle gerarchie ecclesiastiche.
Cresciuto severamente dal padre, fu sempre soggetto a crisi depressive, che rendevano il suo carattere nervoso e irascibile, specie nei momenti di forte tensione emotiva.
Sposato con Olimpia de Lellis, figlia di un potente politico isernino, da cui ebbe nove figli, tra cui lo sfortunato Francesco, massacrato la notte del 30 settembre 1860.
Ottimo amministratore dei beni pubblici, fu riconfermato nelle sue cariche, anche dopo i fatti inerenti il 1860.
Nell’adempimento delle sue funzioni, ricevette grandi elogi da parte delle autorità superiori.
Ricordiamo alcuni dei suoi meriti:
dimostrò grande zelo nella campagna contro il vaiolo arabo, che mieteva vittime nelle nostre zone; ridusse le disfunzioni e gli abusi commessi dagli esponenti della Commissione Vaccinica; si rese promotore della costruzione della Strada dei Pentri “compiuta perfettamente fino alla Centrale della Provincia, che apre l’adito con più facilità agli Abruzzi”; diede un forte impulso a tutte le opere pubbliche, in particolare, alla costruzione dei Campi-santi; si oppose strenuamente, al dissennato disboscamento; aumentò razionalmente, gli addetti all’agricoltura, definiti da lui stesso: “la classe più utile della società”; riuscendo a ottenere per loro, un miglioramento di vita e di lavoro; da Sindaco lottò per l’istituzione dell’ospedale, e il già citato cimitero cittadino, dando l’incarico nel 1818 a Michelangelo Petitti, ingegnere di Napoli.
Re Ferdinando I ordinò che nella Provincia del Molise fossero costruiti tre ospedali: a Campobasso, a Isernia, a Larino. Stefano Jadopi, si occupò anche di questo; portò a compimento il lavatoio pubblico, la fontana monumentale in Piazza d’Isernia (non più esistente); costruì la strada per Castelromano, onde valorizzare e sfruttare a fini economici, le acque termali; ottenne per la città, l’illuminazione pubblica, secondo “caso” dopo la città di Napoli, capitale del Regno.
Ma i suoi generosi successi, non lo tennero al riparo dal malanimo dei suoi concittadini, a causa delle sue idee liberali.
Nel novembre 1853, si giunse alle denuncie da parte dei suoi avversari politici, che miravano all’allontanamento dell’illustre personaggio dalla città.
Iniziarono così mille difficoltà, tra cui il domicilio coatto, ma Jadopi resistette a tutte le intimidazioni e le minacce.
Eppure la piccola città era molto amata da Jadopi; infatti, benché incompleta, una breve monografia su Isernia ha dato un contributo importante alla conoscenza storica della città.
La vittima predestinata fu Stefano Jadopi, che fortemente impegnato nella causa dell’unità nazionale, ne pagò un immane prezzo.
La reazione forte, da parte della città, durò dal 30 settembre al 20 ottobre 1860.
Tristi avvenimenti, che fecero versare fiumi d’inchiostro.
Il 7 settembre 1860, Garibaldi entrò a Napoli autonominandosi Dittatore, costrinse il legittimo sovrano del Regno delle Due Sicilie Francesco II a rifugiarsi a Gaeta.
Lo stesso giorno, ad Isernia, il sottintendente Venditti, nominò Stefano Jadopi sindaco, affinché, pacificasse gli animi, e creasse un clima favorevole allo storico passaggio di regime. Ad Isernia, però gli animi erano di fuoco, capeggiati dal vescovo Gennaro Saladino.
La dinastia Borbone in città era molto amata, si ricordava infatti la visita del re Ferdinando I nel 1837.
Inoltre, la città fa sfoggio di un notevole gioiello architettonico, un palazzo costruito dall’architetto napoletano Vanvitelli (lo stesso che costruì la reggia di Caserta), donato alla figlia del re; ospitò, per un breve soggiorno, l’augusto padre.
Il vescovo Saladino, avvisò il sindaco Jadopi di dimettersi al più presto dalla carica, paventando disordini e azioni rivoluzionarie, che potevano mettere in pericolo l’incolumità dello stesso, e della sua famiglia.
L’ amore per la sua città, e l’intenzione di traghettare la stessa, il più pacificamente possibile, verso il nuovo (osteggiato) regime, fallirono miseramente, la sera del 30 settembre 1860.
Al grido di viva Francesco, morte a Garibaldi, i contadini armati entrarono in città. Agli ordini del vescovo Saladino, i contadini, dapprima assaltarono la Guardia nazionale, per rifornirsi di armi; indi si diressero al palazzo del Governo, mettendo in fuga il maggiore Ghirelli, il sottogovernatore Venditti, un drappello di garibaldini, e uno sparuto gruppetto di liberali isernini. Subito dopo l’assalto al palazzo del Governo, si diressero alle abitazioni dei liberali, mettendole a ferro e a fuoco; tra cui palazzo Jadopi. Il giovane Francesco di Paola Jadopi, fu massacrato, e la dimora saccheggiata e data alle fiamme. Sulla ringhiera del suddetto palazzo, vi furono infilzate le teste di sette garibaldini trucidati.
Il ragazzo martoriato ed agonizzante, fu imprigionato. La mattina seguente, il vescovo Saladino diede l’ordine che venisse riconsegnato alla madre, nelle cui braccia spirò, dopo alcune ore, e dopo aver vanamente chiesto asilo al nonno (tramite la madre); che rifiutò ogni soccorso, per codardia.
I disordini si protrassero fino alla mattina del 20 ottobre, quando l’armata piemontese, nella piana del Macerone, sbaragliò le truppe borboniche, e la massa dei contadini armati.
Lo stesso giorno, trionfante, entrò in città il feroce Enrico Cialdini, preceduto dalle avanguardie del generale Griffini.
Il processo per i fatti di sangue, accaduti alla famiglia Jadopi, prende il via, dopo un esposto, presentato il 25 ottobre a Napoli, dinanzi al Commissario della Prefettura Antonio Reale, dallo stesso Stefano Jadopi, dopo che aveva riunito fortunosamente, a Roma, la famiglia superstite.
Lo svolgimento del processo, si tenne a Santa Maria Capua Vetere, dopo una fase istruttoria lunga e laboriosa, durata quasi due anni, 21 mesi per la precisione.
La sentenza fu emessa il 25 agosto 1864, che condannava sostanzialmente, gli esecutori materiali dello scempio, lasciando intatti coloro che Stefano Jadopi, considerava i mandanti; nel frattempo, anche il vescovo Saladino era morto. Al danno, la beffa:
una parte della sentenza (volutamente?), era così ambigua, “rifacimento del danno” a favore della parte civile, che alla fine, Jadopi, non ricevette nessun risarcimento.
La sentenza destò clamore, e si gridò allo scandalo, sopra tutte le pagine dei giornali, varcando anche le soglie, della neonata Nazione.
Nel frattempo, morì anche la moglie Olimpia, inconsolabile dal giorno in cui le ammazzarono il figlio.
Stefano come reazione alla delusione per gli esiti del processo, si chiuse in sé stesso.
Non tollerava che, chi un tempo aveva osteggiato l’unità d’Italia, oggi si ergeva a paladino della stessa; e disgustato, si isolò sempre più, nel suo casino di campagna in contrada Selverine a Isernia.
La sua unica consolazione fu erigere a museo della reazione di Isernia, la Cappella Gentilizia di famiglia, in cui riposavano anche i resti del padre Vittorio, stroncato dal colera nel 1838. Vi traslò in seguito, anche il corpo del figlio Francesco. Tutt’intorno alle tombe, collocò grosse lastre di marmo, con incisi passi del processo, tenuto a Santa Maria Capua Vetere; e le motivazioni della sentenza. Inoltre, importanti notizie riguardanti il palazzo dato alle fiamme, nonché il suo valore economico, fino al suo atto di vendita.
Lo scopo prefisso da jadopi, era di fissare sulla pietra le sciagure che si erano abbattute sulla sua casa, a motivo della unità nazionale.
La morte, lo sorprese la notte del 19 novembre 1872 nel suo rifugio di campagna in contrada Selverine. Venne seppellito nella cappella-museo, e sulla sua tomba, aveva fatto scrivere: “Questa dimora ultimo riposo, a sé a suoi apparecchiò Stefano Jadopi, con affetto di figlio, di marito e padre.
… il saccheggio, l’incendio della casa, l’uccisione del figlio. Esule volontario, visse lontano da ogni cosa diletta, provando a vincere la nequizia degli uomini. Non vale integrità di vita, amore del pubblico bene.
Anelò liberi tempi…
Rivolse alla tomba le deluse speranze”

Fonte: Stefano Jadopi, la proprietà illuminata
Fernando Cefalogli Editore Cosmo Iannone

Lucia Di Rubbio

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FALSI EROI MA VERI CRIMINALI

Posted by on Gen 18, 2019

FALSI EROI MA VERI CRIMINALI

Tutti sanno che esistono parecchie vie dedicate a Garibaldi, e anche diverse vie che portano il nome di Nino Bixio. In alcune località è possibile trovare vie o piazze dedicate a Vittorio Bottego e a Giovanni Miani. Chi erano questi ultimi? Se hanno dedicato loro piazze o vie si intende che possano essere eroi, o perlomeno persone degne di onore. Addirittura, al più noto Pietro Badoglio è stato rinominato un paese, chiamato in suo onore Grazzano Badoglio (AT).
Tuttavia, chi fa ricerca storica si accorge che molti personaggi onorati o spacciati per eroi nell’attuale sistema, in realtà erano criminali incalliti o persone pronte a calpestare qualsiasi senso morale pur di avere fama e successo. Ogni sistema premia o riconosce chi gli è affine.

Nella foto: Giuseppe Garibaldi e i Mille sbarcano a Milazzo.
Per capire la natura del sistema attuale basterebbe accorgersi dei tanti personaggi riconosciuti come eroi, ma che di fatto erano feroci criminali, che ad oggi danno il nome a molte vie o piazze delle città italiane.
Ad esempio, a Parma troviamo un monumento dedicato a Vittorio Bottego, e in altre città troviamo vie a lui dedicate. Questo personaggio fu uno dei più crudeli che esplorarono l’Africa nella seconda metà del XIX secolo. Egli era mosso, più che da intenti scientifici, da motivi politici e strategici: voleva rendere più deboli le tribù indigene mettendole le une contro le altre, per preparare il terreno alla conquista.

Bottego partecipò a diverse spedizioni. Nel 1892 fu incaricato dalla Società Geografica Italiana di esplorare il medio e basso corso del Giuba. Raggiunse il Ganale Doria e l’anno dopo si spinse fino al bacino dell’Omo, armato di tutto punto e con 250 ascari al seguito, come se si trovasse in battaglia e non su un territorio sovrano. A Jellèm (Etiopia) la sua impresa fu definitivamente stroncata: nel tentativo di attraversare l’Etiopia fu fermato e invitato a disarmarsi per avere salva la vita, ma egli preferì combattere e morire.

Privo di scrupoli, Bottego considerò gli indigeni alla stessa stregua degli animali, non ebbe la pur minima considerazione della loro vita e della loro dignità e praticò ogni genere di violenza, di cui parlò nei suoi stessi scritti. Egli, come altri esploratori europei, raccontò di saccheggi, uccisioni, stupri e incendi. Si sentì più che autorizzato a compiere crudeltà e massacri, e del resto, l’atteggiamento di sopraffazione e di violenza prevaleva fra i colonialisti, aizzato da numerose pubblicazioni come il “Bollettino della Società africana d’Italia” che, ad esempio, scriveva:
“Siate ricchi, forti e vi rispetteranno. Allora il negro, al quale pel più lieve gesto d’insofferenza voi avete assestato trenta colpi di frusta sulla schiena, verrà da voi con una pietra sul collo perché gli schiacciate la testa e vi bacerà i piedi e vi sarà grato che gli abbiate lasciato la vita”.(1)
Diversi massacri furono commessi anche dall’esploratore Giovanni Miani, che così raccontò una delle sue scorribande in un villaggio:
“Io circondai l’incinta ponendo vari soldati agli usci, chi cercava di fuggire era preso per così dire al volo. Il scek fu ucciso con tutta la sua famiglia, poi mutilate le mani per cavargli i braccialetti d’onore, indi (i soldati) gli tagliarono il membro portandolo in trionfo sopra una lancia. Dato l’assalto al villaggio, ordinai di estrarre tutto il grano e gli animali che potevano. Il saccheggio fu accordato a tutti i soldati e selvaggi nostri (…) Osservando l’incendio ebbi un gusto superiore a Nerone perché mi feci accendere la pipa col fuoco del villaggio.”(2)

Interminabili furono i crimini di Pietro Badoglio. Egli fu nominato Governatore della Tripolitania e della Cirenaica nel dicembre del 1928, e rimarrà in carica fino al dicembre del 1933. Sarà mandato in Etiopia da Mussolini durante la guerra di conquista.
In Libia darà inizio ad una lotta senza limiti di crudeltà, per realizzare la riconquista definitiva e porre fine al controllo incerto che l’Italia aveva avuto nel periodo di conquista precedente al fascismo. Badoglio, insieme a Graziani, sarà il maggiore artefice delle crudeltà e dei massacri che saranno perpetrati nelle colonie africane. Senza pietà egli commise i crimini più efferati contro la popolazione inerme, utilizzando anche i gas tossici, oltre alle deportazioni, ai lager e alle impiccagioni dopo processi sommari.

Nel 1930 Badoglio approvò una grande offensiva per piegare definitivamente la resistenza libica. Le operazioni di Graziani però daranno scarsi risultati. Gli insuccessi sollevarono le critiche di Badoglio, che voleva inasprire ulteriormente le misure e consigliava le deportazioni. Egli scrisse:

“Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica.(…) urge far rifluire in uno spazio ristretto tutta la popolazione sottomessa, in modo da poterla adeguatamente sorvegliare ed in modo che vi sia uno spazio di assoluto rispetto tra essa e i ribelli. Fatto questo, allora si passa all’azione diretta contro i ribelli”.(3)

La soluzione proposta da Badoglio piacque anche a Mussolini, e si dette inizio alla deportazione dal Gebel di 100.000 persone, che furono costrette ad abbandonare i propri villaggi e a fare un viaggio senza ritorno.
Durante il viaggio almeno 15.000 persone persero la vita, alcune per fame o sete, altre uccise dagli italiani o abbandonate nel deserto. Badoglio, soddisfatto scriveva: “Bisogna assolutamente bandire il sistema arabo della sparatoria da lontano (…) (occorre) essere feroce, inesorabile. Deve essere una vera caccia al ribelle nella quale sarà redditizio ogni atto della più sfrenata audacia.”(4)

Badoglio e Graziani, con il pieno appoggio di Mussolini, avevano deciso di ricorrere ai metodi più spietati per distruggere la resistenza libica, e anche il massacro dei civili risultava utile. Dal novembre del 1929 al maggio del 1930, furono lanciate 43.500 bombe in 1605 ore di volo, ma non sappiamo esattamente quante bombe furono caricate di iprite.
Un telegramma di Badoglio a Siciliani e a De Bono consigliava di essere spietati: “Si ricordi che per Omar al-Mukhtàr occorrono due cose: primo ottimo servizio informazioni, secondo, una buona sorpresa con aviazione e bombe a iprite”.

Il 20 gennaio del 1931 Cufra, città santa per gli islamici, verrà occupata dopo un combattimento molto aspro, in cui la resistenza sarà costretta a fuggire verso il confine con l’Egitto e sarà inseguita e uccisa. Si verificheranno per tre giorni violenze sfrenate e continui saccheggi da parte degli italiani sulla popolazione: fucilazioni indiscriminate, torture anche su bambini e vecchi (ad alcuni estirpati unghie e occhi), indigeni evirati e lasciati morire dissanguati, donne incinte squartate e feti infilzati, testicoli e teste portati in giro come trofei (molte foto terribili di questo e di altri eventi si trovano oggi negli Archivi Storici di Addis Abeba).
L’11 settembre del 1931 Omar al-Mukhtàr fu catturato e impiccato dopo un processo farsa che non considerò nemmeno l’età avanzata del prigioniero (oltre 70 anni). Nel processo fu accusato di tradimento ma in realtà egli non aveva mai riconosciuto l’autorità degli italiani e non si era mai sottomesso al loro potere.
Omar al-Mukhtàr era soltanto un vecchio che aveva lottato per venti anni contro l’oppressione dello straniero e si era dovuto trasformare, da insegnante del Corano, in partigiano combattente.
La condanna a morte di Omar al-Mukhtàr sarà eseguita davanti ai prigionieri senussiti del campo di concentramento di Soluch, che furono costretti ad assistere all’impiccagione del loro eroe, su cui per tanti anni avevano riposto le loro speranze di libertà. Dopo la morte di Omar al-Mukhtàr la resistenza senussita sarà sconfitta, e i pochi combattenti rimasti si arrenderanno oppure si rifugeranno in Egitto, in attesa del riscatto che arriverà con la Seconda guerra mondiale.
In Etiopia Badoglio utilizzò i gas anche per terrorizzare la popolazione e sganciò bombe ad iprite senza sosta su villaggi, fiumi e laghi, uccidendo persone inermi, anche vecchi, donne e bambini.
Con la guerra d’Etiopia, i funzionari della colonia ottennero notevoli vantaggi, come anche la classe ricca, le banche, le grandi industrie e i generali, che furono insigniti di titoli e di ricchi trattamenti economici. Ad esempio, Badoglio ottenne una villa a Roma, un ricco vitalizio e il titolo di duca di Addis Abeba.

Il 6 maggio 1946 un decreto del governo De Gasperi istituì, presso il Ministero della Guerra (poi della Difesa), una Commissione d’inchiesta per i presunti criminali di guerra italiani, che fu attiva fino al 1948 (5); l’impegno principale della Commissione fu di giustificare il rifiuto di consegnare i criminali alla giustizia, accogliendo senza eccezioni le argomentazioni difensive. Il numero stesso degli inquisiti andò assottigliandosi col passare del tempo. Inizialmente, le richieste internazionali al governo italiano di estradizione dei criminali di guerra ammontavano a 295. Nel 1946 il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi aveva reso pubblico un elenco di 40 persone tra militari e civili, accusati di aver violato le leggi del diritto internazionale di guerra compiendo crimini contro l’umanità; nel 1947 la Commissione governativa li aveva ulteriormente e definitivamente ridotti a 29, ma nemmeno questi ultimi verranno mai sottoposti a processo.
Il primo caso vagliato fu quello del generale Badoglio, accusato di aver usato gas tossici e di aver bombardato ospedali della Croce Rossa durante la guerra d’Etiopia. Malgrado le resistenze inglesi, gli etiopici (sostenuti anche da Norvegia e Cecoslovacchia) riuscirono a persuadere la Commissione internazionale a inserire Badoglio nella lista dei criminali di guerra col “grado A” (il massimo), insieme ad altri gerarchi e generali.
Badoglio, insieme a Graziani, Pirzio Biroli, Gallina, Lessona e altri, aveva fatto uccidere soltanto in Etiopia oltre 700.000 persone, eppure non sarà mai processato per questi delitti.
Gli etiopici organizzarono una loro commissione nazionale sui crimini di guerra. Nel 1949 l’Italia respinse la richiesta etiope per l’estradizione di Graziani e Badoglio. Il 17 settembre l’ambasciatore etiope a Londra sottopose la questione al Foreign Office, che consigliò di desistere. Così nessun criminale fu mai estradato. Pietro Badoglio alla sua morte ebbe un funerale di Stato.

A scuola ci hanno raccontato una Storia d’Italia assai mistificata, in cui alcuni personaggi che in realtà erano criminali o mercenari di bassa lega appaiono come eroi di primario splendore. Questo risulta logico se si pensa che la stessa Unità d’Italia fu un evento pilotato da chi deteneva il potere imperiale. Dire la verità significa far comprendere il vero sistema di potere.
Garibaldi, spacciato per “eroe dei due mondi”, in realtà era un criminale al soldo degli inglesi, per i quali aveva praticato il traffico di schiavi e il saccheggio mediante la “guerra di corsa”. Nell’America del sud era stato arrestato e condannato per aver rubato cavalli. Gli stessi Savoia si lamentavano del suo comportamento a dir poco disonesto. In una lettera inviata a Cavour, Vittorio Emanuele II, dopo lo storico “incontro di Teano”, scriveva di Garibaldi: “Come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene – siatene certo – questo personaggio non è affatto così docile né così onesto come lo si dipinge, e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il denaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui, che s’è circondato di canaglie, ne ha seguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa”.(6)

L’11 maggio del 1860 i Mille sbarcarono a Marsala, favoriti dalle navi della flotta inglese “Intrepid” e “H.M.S. Argus”, ormeggiate al porto di Marsala (la flotta borbonica non avrebbe mai attaccato gli inglesi). Fra i Mille c’erano diversi delinquenti comuni. Garibaldi stesso aveva scritto: “Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini e criminali di ogni sorta”.(7)
L’impresa dei Mille non fu altro che un modo per soggiogare la popolazione al nuovo potere, e infatti, dopo l’unificazione d’Italia le repressioni saranno ferocissime e riguarderanno molte regioni d’Italia, specie quelle meridionali e il Veneto. Ovviamente, dopo l’impresa militare, nel 1864, Garibaldi sarà accolto a braccia aperte dalla regina d’Inghilterra e dal ministro Henry John Palmerston. Ufficialmente, in quell’incontro Garibaldi ringraziò le autorità inglesi per l’appoggio dato alla spedizione dei Mille, ma non raccontò che da molti anni era al soldo di Londra per commettere nel Sud America ogni sorta di crimine.

Anche Nino Bixio, altro personaggio spacciato per eroe, non risparmiò repressioni nel sangue. Ad esempio, nell’agosto del 1860, egli represse nel sangue le proteste a Biancavilla, Cesarò, Randazzo, Maletto e Bronte.
A Bronte i contadini avevano fatto ricorso alla giustizia, sostenuti dall’avvocato Nicola Lombardo, ma tutte le cause intentate contro gli usurpatori delle loro terre erano fallite. L’unica strada rimasta era quella della sollevazione.
La repressione a Bronte fu feroce, gli insorti furono massacrati durante i tumulti o arrestati e fucilati in seguito. Furono fucilate almeno cento persone, che in nome dei principi propugnati dallo stesso Garibaldi si erano riappropriate di alcune terre usurpate dai parenti di Nelson.
La responsabilità del massacro di Bronte sarà attribuita a Bixio, che in una serie di lettere documentò gli eventi che portarono al fatto criminale. Ad esempio, in una di queste, scritta il 7 agosto 1860 e inviata al maggiore Giuseppe Dezza, dice di aver messo le “unghie addosso a uno dei capi”. Si raccontò anche l’episodio del garzone che chiese il permesso di portare due uova all’avvocato Lombardo, che si trovava in carcere, a cui Bixio disse cinicamente: “altro che uova, domani avrà due palle in fronte!”. Lombardo sarà fucilato insieme ad altre quattro persone, accusate di aver organizzato la rivolta a Bronte.

I fatti di Bronte furono considerati di poco conto e posti sotto silenzio dalla storiografia ufficiale, per proteggere il mito di Garibaldi e dei Mille. Gli eventi furono in parte chiariti soltanto da uno studioso di Bronte, il professor Benedetto Radice, che pubblicò nell’Archivio Storico per la Sicilia Orientale, nel 1910, una monografia dedicata a Nino Bixio a Bronte (1910, Archivio Storico Siciliano).(8) Dopo questo scritto, molti sapevano dell’eccidio, ma nessuno storico considerò questo e altri fatti per modificare l’interpretazione del Risorgimento Italiano.
Nell’ottobre del 1985, il Comune di Bronte pose un monumento alla memoria delle vittime delle repressioni. Sulla targa del monumento si legge: “Ad perpetuam rei memoriam che nell’agosto 1860 di cittadini brontesi donò la vita in olocausto – Amministrazione Comunale – 10 ottobre 1985”. Ciò nonostante, a pochi metri è rimasta una strada dedicata a Nino Bixio, segno che i presunti eroi, anche quando i fatti vengono a galla, tardano ad essere considerati per quello che erano veramente, ovvero criminali al soldo del potere dominante.

Questi personaggi sono diventati “eroi” proprio per aver sottomesso le popolazioni attuando crimini di vario genere e promettendo cose che sapevano di non poter mantenere. Con l’avvento di Garibaldi, i contadini siciliani si erano illusi di poter avere quella libertà che chiedevano da tempo. Con un decreto, Garibaldi abolì la tassa sul macinato e ogni altra tassa imposta dal potere precedente. Il 2 giugno 1860 emanò norme per la divisione delle terre dei demani comunali, assegnandone una quota ai combattenti garibaldini o ai loro eredi, se caduti. Con queste riforme Garibaldi accrebbe la sua popolarità, e accese le speranze dei siciliani, che però ben presto dovettero accorgersi che le riforme erano state soltanto un atto propagandistico, poiché la quantità di tasse da pagare era quella di prima e la redistribuzione delle terre non era avvenuta. I contadini sarebbero diventati ancora più poveri, e quelli che si sarebbero sollevati sarebbero diventati “fuorilegge” e uccisi senza alcuna pietà.

Bixio, Garibaldi e altri “eroi” obbedivano al diktat “Italia e Vittorio Emanuele”, che veniva indicato in tutti i decreti come formula che conferiva poteri pressoché assoluti al fine di imporre l’occupazione in vista dell’unificazione dell’Italia. Nell’art. 1 del decreto del 17 maggio 1860 si legge: “Durante la guerra, il giudizio dei reati…”, tale decreto avrà efficacia anche dopo la “sconfitta” dell’esercito borbonico. Da ciò si inferisce che l’occupazione delle terre veniva considerata uno stato di guerra, e le popolazioni “ribelli” dovevano essere trattate come combattenti in guerra. Tutti coloro che si ribellarono al potere sabaudo furono trucidati, repressi, oppure fucilati dopo un processo sommario nei Tribunali di guerra. In altre parole, il popolo italiano fu considerato come un nemico in guerra, e non come compartecipe ai fatti unitari. Nelle sollevazioni, il popolo faceva richieste economiche precise, e la repressione scattava affinché queste richieste venissero ritirate, in quanto non c’era alcuna intenzione da parte dei Savoia di rispettare la sovranità popolare o di rendere più equa la situazione economica dell’Italia.
I massacri della popolazione e le condanne a morte venivano attuati in nome del re (che soltanto con la legge 17 marzo 1861 n. 4671 diventerà ufficialmente re d’Italia), sulla base del decreto 17 maggio 1860 n. 84, da cui si legge “Le sentenze, le decisioni e gli atti pubblici saranno intestati: In nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia”.

A sua volta, Vittorio Emanuele obbediva alle autorità inglesi che lo avevano messo sul trono. Le autorità inglesi difendevano gli interessi dei Lord e degli altri personaggi dell’establishment. Ad esempio, a Bronte, il Console inglese, John Goodwin, faceva continue pressioni affinché Garibaldi e l’allora Ministro dell’Interno Francesco Crispi tutelassero a tutti i costi gli interessi agricolo-patrimoniali dei Nelson. Nelle lettere, Goodwin invita a punire l’avvocato Nicola Lombardo: “arrestare l’autore di tale assassinio onde essere giudicato dall’autorità competente e condannato. (9)
In conclusione, ieri come oggi molti sono i falsi eroi nazionali, che in realtà sono veri criminali, e molti veri eroi delle terre depredate dalle autorità occidentali risultano essere considerati “terroristi” e per questo perseguitati e uccisi.
Oggi, se volete essere consacrati ad eroi, andate a massacrare innocenti nelle missioni estere, e se morirete ammazzati magari vi dedicheranno una via o una piazza. Di sicuro diranno che siete “caduti per la libertà” e vi offriranno una corona di fiori e una medaglia. La vostra vita sarà valsa una medaglia e molti onori, mentre le vite innocenti che avrete distrutto non avranno nemmeno il valore di un minuto di silenzio.

Antonella Randazzo
Fonte: http://lanuovaenergia.blogspot.com
Link: http://lanuovaenergia.blogspot.com/2009/04/falsi-eroi-ma-veri-criminali.html
10.04.2009

NOTE

1) “Bollettino della Società africana d’Italia”, 1882, cit. in Aruffo Alessandro, “Storia del colonialismo italiano da Crispi a Mussolini”, Editrice Datanews, Roma 2003, p.29.
2) Miani Giovanni, “Diari”, cit. in Aruffo Alessandro, “Storia del colonialismo italiano da Crispi a Mussolini”, Editrice Datanews, Roma 2003, p. 28.
3) ACS, Carte Graziani, b. 1, f. 2, sottof. 2, in Del Boca Angelo, “Gli italiani in Libia, dal fascismo a Gheddafi”, Laterza, Roma-Bari 1991.
4) ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98, cit. in Del Boca Angelo, “Gli italiani in Libia, dal fascismo a Gheddafi”, Laterza, Roma-Bari 1991.
5) Sulle vicende della Commissione, cfr. in particolare F. Focardi e L. Klinkhamer [a cura di], “La questione dei criminali di guerra italiani e una Commissione d’inchiesta dimenticata”, in “Contemporanea”, a. IV, n. 3, luglio 2001, pagg. 497-528.
6) Smith Denis Mack, “Garibaldi, una grande vita in breve”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993, p. 285.
7)www.brigantaggio.net/brigantaggio/Storia/Meridionale/Q37_Mafia.PDF+inglesi+terre+sicilia+contadini&hl=it&ct=clnk&cd=5&gl=it&ie=UTF-8
8) Sciascia Leonardo, “Nino Bixio a Bronte”, Edizioni Salvatore Sciascia, Caltanissetta, 1963.
9) Radice Antonio, “Risorgimento perduto”, De Martinis & C., Catania 1995.

BIBLIOGRAFIA

Alianello Carlo, “La conquista del Sud – Il Risorgimento nell’Italia meridionale”, Rusconi, Milano 1982.
Ciano Antonio, “I Savoia e il massacro del Sud”, Grandmelò, Roma 1996.
De Matteo Giovanni, “Brigantaggio e Risorgimento – legittimisti e briganti tra i Borbone ed i Savoia”, Guida Editore, Napoli 2000.
Di Fiore Gigi, “1861. Pontelandolfo e Casalduni: un massacro dimenticato”, Grimaldi & C. Editori, Napoli 1998.
Di Fiore Gigi, “I vinti del Risorgimento”, UTET, Torino 2004.
Izzo Fulvio, “I Lager dei Savoia”, Controcorrente, Napoli 1999.
Pellicciari Angela, “Risorgimento da riscrivere”, Ares, Milano 2007.
Radice Antonio, “Risorgimento perduto”, De Martinis & C., Catania 1995.
Servidio Aldo,”L’imbroglo Nazionale”, Alfredo Guida Editore, Napoli 2000.
Smith Mack Denis, “I Savoia Re d’Italia”, Rizzoli, Milano 1990.
Smith Denis Mack, “Garibaldi, una grande vita in breve”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993.
Zitara Nicola, “Il proletariato esterno. Mezzogiorno d’Italia e le sue classi”, Jaca Book, Milano 1977.
Zitara Nicola, “Negare la negazione”, La Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria 2001.

fonte https://comedonchisciotte.org/falsi-eroi-ma-veri-criminali/?fbclid=IwAR0PDDcobZ7P-t7yBPVj-u4KGwUaVokcUMj7bqwEeQTaunU9iJuHqyxeqng

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REGINA MARIA SOFIA DI BORBONE UNA EROINA DIMENTICATA (III)

Posted by on Gen 15, 2019

REGINA MARIA SOFIA DI BORBONE UNA EROINA DIMENTICATA (III)

16 gennaio 1860 Francesco II compì ventiquattro anni, e fu grande festa in tutta Napoli; i sovrani accolsero la nobiltà borbonica a palazzo reale, e fu uno spettacolo di divise, grandi uniformi, fregi, ricchi abbigliamenti; ministri, alto clero, diplomatici stranieri; le carrozze della nobiltà fecero la spola tra i fastosi palazzi aviti e la piazza di palazzo reale.

Purtroppo i sovrani di Napoli erano circondati, anche in questa occasione, da una massa di cortigiani, funzionari, militari, uomini di governo ignoranti e incapaci, tutti pronti al tradimento.

Da questi emergeva un solo statista degno di rispetto, quel Carlo Filangeri che, deluso dalle circostanze, aveva abbandonato la barca del governo nel momento in cui si addensavano, paurosamente, le nuvole della tempesta. Maria Sofia, sul trono accanto a Francesco, era splendida, affascinante, la corona reale le riluceva sull’acconciatura dei capelli, opera del più rinomato parrucchiere napoletano, quel Totò Carafa, del quale si serviva la migliore aristocrazia del Regno.

Accanto alla regina sedeva l’ambasciatore di Spagna, don Salvador Bermudez de Castro, un hidalgo dai modesti natali che si era conquistato sui campi di battaglia il favore dei sovrani di Spagna, che lo avevano nominato marchese di Lema e ambasciatore presso il governo delle Due Sicilie. Bermudez de Castro era un uomo affascinante: appena quarantenne, aveva guadagnato l’amicizia incondizionata di Francesco e la simpatia piuttosto interessata della regina.

Le malelingue del tempo, compresa Maria Teresa, lo attribuirono come amante della regina, ma in realtà fra lo spagnolo e Maria Sofia ci fu solo una forte, leale e sincera amicizia, anche perché la regina di Napoli vedeva nel de Castro tutte quelle doti e virtù che avrebbe voluto trovare nel marito.

Il genetliaco del re fu anche l’occasione del varo a Castellammare di Stabia di una potente nave da guerra, la nuova fregata Borbone, che era armata con sessanta moderni cannoni. Una delle migliori navi a vapore del tempo, che andava a rinforzare la già potentissima squadra navale napoletana: la migliore nel bacino del Mediterraneo.

Nel porto di Napoli, una grande città di cinquecentomila abitanti, la quarta metropoli d’Europa, stavano ancorate le navi militari di molti Paesi: la Bretagne, ammiraglia della flotta francese; l’Algeciras, l’Imperial; le inglesi Hannibal, Agamemnon, London; pericolosa intrusa, anche l’ammiraglia della flotta del Regno di Piemonte e Sardegna: la Maria Adelaide, comandata dall’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, che ritroveremo nel mare all’assedio di Gaeta, e poi quale responsabile del disastro navale di Lissa nella guerra del 1866 contro l’Austria.

Fra le navi straniere la Borbone, con il suo gran pavese e i suoi lucidi cannoni schierati, faceva un bell’effetto. Ironia della sorte, la fregata, consegnata ai Piemontesi dal suo comandante traditore e ribattezzata Garibaldi, la ritroveremo con i suoi sessanta cannoni a sparare sulla piazzaforte di Gaeta contro quegli stessi carpentieri e marinai napoletani che l’avevano costruita e varata.

Frattanto gli eventi precipitavano: il Piemonte, dopo l’occupazione della Lombardia con l’appoggio militare francese, aveva conquistato tutta l’Italia centrale: Toscana, Emilia, Romagna (queste ultime terre sottratte allo Stato Pontificio) con il sistema dei plebisciti truccati.

Pio IX aveva comminato la scomunica agli usurpatori: questo atto della Chiesa aveva turbato profondamente il cattolico Francesco, che aveva rafforzato in sé la convinzione che i Piemontesi fossero i primi nemici della fede cristiana in Europa.

Nel marzo successivo giunsero dalla Sicilia i primi segni della crisi che avrebbe sconvolto e distrutto il Regno: le campane del convento della Gancia suonarono a martello annunziando lutti e sciagure. I servizi segreti napoletani avvisarono il re dei preparativi che Garibaldi andava effettuando in Liguria con il tacito consenso del governo sardo. Fu individuato anche il luogo dello sbarco: la Sicilia.

Maria Sofia, consapevole del pericolo più del marito, spinse il sovrano ad emanare disposizioni urgenti per fronteggiare l’imminente aggressione; il re allertò la flotta, concertò personalmente le misure di difesa per bloccare sul nascere l’impresa di Garibaldi.

La squadra navale napoletana era allora la più potente del bacino del Mediterraneo: comprendeva fra navi grosse e piccole 36 vascelli, fra cui 11 fregate (l’equivalente oggi dei moderni incrociatori); a capo della squadra navale era Luigi conte d’Aquila, zio del re.

L’esercito napoletano era il più potente di tutti gli Stati italiani: comprendeva 83.000 uomini bene armati e bene addestrati, senza contare i mercenari svizzeri e bavaresi, che costituivano il nocciolo duro di tutte le forze armate.

Impensabile, dunque, che 1072 borghesi guidati da Garibaldi potessero battere un siffatto esercito. Infatti, il gruppo capeggiato dall’eroe dei Due Mondi era costituito da professionisti: medici, avvocati, ingegneri, commercianti, capitani di marina mercantile, chimici; c’erano pure alcuni preti che avevano abbandonato da tempo l’abito talare.

I Siciliani erano 34:24 palermitani, 3 messinesi, 3 trapanesi, 1 catanese, e rispettivamente uno di Trabia, uno di Gratteri e Francesco Crispi, con la moglie Rosalia, di Castelvetrano.

A comandare l’esercito napoletano erano in tanti: Landi, Lanza, Nunziante, Clary; tutti incapaci, corrotti ed invidiosi l’uno dell’altro. Landi e Lanza erano addirittura ultrasettantenni e non erano più in grado di montare a cavallo: seguirono le operazioni militari in Sicilia seduti in carrozza! Pur tuttavia, se i due generali non fossero stati corrotti e inclini al tradimento, i garibaldini non sarebbero certo riusciti neanche a sbarcare.

Ma Landi, a Calatafimi, pur disponendo di una posizione strategica favorevole, le colline, e di una forza di 3000 uomini di truppa scelta, di un reggimento di cacciatori, di 20 pezzi di artiglieria, di una cavalleria forte di 1500 unità, si ritirò senza combattere, così come Lanza a Palermo consegnando la città a Garibaldi.

Quando giunse a Napoli la notizia che in Sicilia la situazione stava drammaticamente precipitando, la regina chiese a Francesco di intervenire personalmente e lo incitò a mettersi a capo delle truppe per combattere la sfiducia che serpeggiava fra i soldati, già consapevoli del tradimento dei loro generali. Maria Sofia consigliò con energia di fare arrestare Landi e Lanza e farli processare per alto tradimento.

Poi chiese che fosse richiamato a capo del governo il principe di Satriano, l’unico uomo politico in quel momento capace di padroneggiare la situazione che si andava profilando disastrosa.

Il principe di Satriano, convocato dal re, in un primo tempo declinò l’invito poiché l’età e le malattie legate alla vecchiaia non gli consentivano di adempiere con la solita premura ed attenzione all’incarico di primo ministro; cedette poi alle insistenti richieste di Maria Sofia, che si recò di persona nella villa di campagna dove il principe si era ritirato da tempo.

Filangeri dettò subito le sue condizioni, previa accettazione del suo incarico di primo ministro: proclamazione immediata della Costituzione, invio di un contingente di 40.000 uomini a Messina, che dovevano essere guidati dallo stesso re. A queste condizioni, il vecchio generale era disposto ad assumere la carica di Capo di Stato Maggiore.

La regina rinnovò con entusiasmo la sua disponibilità a cavalcare accanto al re, alla testa dei soldati, ma Francesco, sempre dubbioso ed esitante, non si mostrò favorevole alle proposte del principe di Satriano, anche perché la Corte, controllata da Maria Teresa, non vedeva di buon grado la concessione della Costituzione.

Filangeri, deluso ed amareggiato dall’atteggiamento del re, declinò il suo incarico e, sollevato, se ne tornò nella sua residenza di campagna. Furono contattati i generali Ischitella e Nunziante perché assumessero il comando supremo in Sicilia, ma essi rifiutarono.

L’alto incarico fu affidato, pertanto, al generale Ferdinando Lanza.
Francesco II, su consiglio di Maria Sofia, inviò ai comandi di Sicilia delle direttive precise ed avvedute, purtroppo disattese da comandanti incapaci di applicarle, o per inefficienza, insipienza, o per serpeggiante tradimento.

La regina continuò ad insistere affinché il marito concedesse la Costituzione, malgrado l’ostilità aperta della regina madre e di tutta la corte filoaustriaca. Segretamente trattò col Papa, e lo convinse ad inviare una lettera al re di Napoli. Il dispaccio di Pio IX giunse nella reggia di Caserta il 24 maggio 1860.

La parola del Papa fu per il re di Napoli verbo divino, anche perché il Pontefice lo esortava a non fidarsi troppo dei Savoia e di un Piemonte abilmente padroneggiato da Cavour.

Il re convocò i ministri e il Consiglio di Famiglia, ed espose fermamente la sua intenzione, scatenando la fiera opposizione di Maria Teresa, che lo accusò di mancanza di coraggio, di insensibilità e di aver ceduto alle intimazioni dei cugini sabaudi.

La sfuriata della regina madre mortificò il timido Francesco, che piegò il capo in silenzio senza reagire; reagì, pesantemente, invece Maria Sofia, che rintuzzò con orgoglio e fierezza le parole dell’ex regina ingiungendole con dura voce, appena frenata dalla rabbia, di rispettare il re e di piegare il capo dinanzi alla volontà sovrana. In quel frangente, Maria Sofia si comportò da vera regina dimostrando, ancora una volta, il suo carattere deciso e fermo e la piena lealtà che la legava al marito.

Quel giorno stesso Francesco II promulgò l’atto sovrano di concessione della Costituzione. Ma questa decisione ormai tardiva non suscitò gli effetti sperati; i liberali rimasero indifferenti anche perché i Borbone avevano già concesso altre tre Costituzioni: nel 1812, nel 1820 e nel 1848, tutte disattese nella loro promessa di libertà e riforme.

Quando giunse a Napoli la notizia della conquista di Palermo da parte di Garibaldi, la situazione precipitò drammaticamente: in città scoppiarono tumulti e violenze, ci furono scontri a fuoco fra i filoaustriaci e i liberali, e come al solito furono saccheggiati negozi, abitazioni civili; alcuni commissariati di polizia furono abbandonati e dati alle fiamme. In questo frangente drammatico il re proclamò lo stato di assedio e nominò ministro di Polizia quel Liborio Romano che poi sarebbe passato anche lui, come gli altri traditori, dalla parte di Garibaldi.

Quel momento drammatico segnò anche la divisione della Corte: Maria Teresa, i suoi figli e molti dignitari e funzionari abbandonarono la capitale per rifugiarsi nella fortezza di Gaeta.
Accanto al re rimasero pochi ministri fedeli e l’indomita Maria Sofia, che assunse subito la guida del governo, rivelando, ancora una volta, le sue doti di coraggio, equilibrio e saggezza.

Passato lo Stretto con la complicità delle navi inglesi e americane e con il favore dei comandanti di marina traditori, Garibaldi si affacciò sul continente e avanzò verso Salerno non trovando alcuna seria resistenza ad eccezione delle truppe comandate da Von Mechel e dal colonnello siciliano Beneventano del Bosco.

A Napoli il generale Nunziante, che aveva fatto carriera e accumulato ricchezze sotto i Borbone, prezzolato da Cavour stilò una vergognosa “Proclamazione” per esortare i soldati fedeli al re alla diserzione: Compagni d’arme!

Già è pochi dì, lasciandovi l’addio, vi esortavo ad essere forti contro i nemici d’Italia dar prove di militari virtù nella via aperta dalla Provvidenza a tutti i figli della patria comune… forte mi sono convinto non esservi altra via di salute per voi e per cotesta bella parte d’Italia che l’unirci sotto il glorioso scettro di V. Emanuele: di questo ammirevole monarca dall’eroico Garibaldi annunziato alla Sicilia, e scelto da Dio per costituire a grande nazione la nostra patria…

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REGINA MARIA SOFIA DI BORBONE UNA EROINA DIMENTICATA (II)

Posted by on Gen 14, 2019

REGINA MARIA SOFIA DI BORBONE UNA EROINA DIMENTICATA (II)

Maria Sofia, forte del suo temperamento tedesco, malgrado la giovanissima età, capì subito che la politica del Regno era nelle mani di Maria Teresa, che godeva dell’appoggio della Corte e del partito filoaustriaco. La regina madre, infatti, aveva esercitato tutta la sua influenza sul marito, pur essendo Ferdinando autoritario e deciso, e pensò di continuare l’opera di soggezione con il nuovo re, di cui conosceva il carattere timido e remissivo.

Le sue mire furono subito contrastate dal fiero orgoglio della Wittelsbach, che si mise subito in urto con la suocera e rivendicò con fermezza il suo ruolo di regina, avendo capito che Francesco non aveva alcuna competenza in fatto di politica e di affari di Stato.

Fu Maria Sofia, infatti, a convincere il marito, subito dopo l’incoronazione, a concedere l’amnistia ai detenuti politici per gli avvenimenti del ’48 e a ordinare l’abolizione della schedatura di tutti quei cittadini in fama di essere liberali. In pratica, gli affari di Stato passarono nelle mani della regina malgrado l’ostilità della Corte tutta schierata a favore della vedova di Ferdinando.

Maria Sofia rivelò subito un carattere forte e deciso, idee molto chiare ed un coraggio impensabile in una fanciulla appena diciottenne. La prima occasione in cui la regina dimostrò appieno il suo temperamento avvenne circa un mese dopo la sua incoronazione, quando a Napoli scoppiò la rivolta dei mercenari svizzeri.

Ferdinando II, molto consapevole ed esperto di arti militari, aveva infatti creato nel suo esercito quattro reggimenti di mercenari svizzeri coraggiosi, forti e bene addestrati al combattimento, costituivano l’orgoglio del re e rappresentavano la punta di diamante dell’esercito borbonico. Quando la Svizzera decise di abolire il mercenariato, che costituiva un residuo anacronistico degli eserciti dell’età moderna, il governo elvetico ordinò a tutti i mercenari svizzeri di togliere dalle loro uniformi i simboli cantonali, minacciandoli di privarli della cittadinanza.

Questi soldati avevano sempre goduto della protezione e della benevolenza di re Ferdinando, che li considerava fedelissimi ed esperti nell’arte della guerra. Pertanto accusarono il nuovo re di avere ignorato i loro diritti e di non averli saputi difendere adeguatamente dai provvedimenti del governo svizzero.

La rivolta dei mercenari scoppiò la sera del 7 luglio e si estese rapidamente con violenza in tutta Napoli: furono incendiati negozi, infrante a fucilate le finestre delle abitazioni, distrutte alcune carrozze nobiliari; intorno alla mezzanotte i rivoltosi si piazzarono dinanzi alla reggia di Capodimonte, dove soggiornava la famiglia reale.

La paura fu grandissima: la regina madre, presa dal panico, raccolse i figli e si preparò alla fuga; Francesco si chiuse in preghiera nella stanza della madre. Solo Maria Sofia dimostrò il suo coraggio ed il suo forte temperamento: si affacciò dalla terrazza e cominciò ad inveire in tedesco contro i rivoltosi, ordinando subito dopo ad un ufficiale della scorta reale di trattare con i mercenari in rivolta.

La piena fermezza della giovane regina e il suo fiero comportamento ebbero l’effetto di placare gli animi e sedare la rivolta. Purtroppo, però, mentre i rivoltosi stavano per allontanarsi, giunse sul posto un reggimento di mercenari rimasti fedeli alla Corona e fu scontro a fuoco violentissimo, con morti e feriti da ambo le parti.

Qualche giorno dopo questi avvenimenti giunse dalla Curia Pontificia la notizia che il Papa aveva proclamato “venerabile” la regina Maria Cristina. Francesco considerò questo fatto quale un celeste intervento della madre in occasione dei drammatici avvenimenti di quei giorni.

Dopo la vittoria della coalizione franco-piemontese a Magenta, erano scoppiati a Napoli alcuni focolai insurrezionali rapidamente soffocati. Maria Sofia aveva percepito il campanello di allarme e, sebbene fosse ancora estranea alla politica del Regno ed agli affari di Stato, capì che al timone del governo napoletano occorreva un uomo forte, fedele e deciso.

Nel Paese si erano andati delineando, da tempo, due partiti, non sempre chiaramente identificabili sul terreno dell’ideologia: uno era quello austriaco, legato alla burocrazia militare, alla nobiltà, all’alto clero; l’altro raccoglieva quella parte della borghesia più illuminata, vagamente liberale, riformista con presupposti costituzionali.

La regina Maria Sofia si era schierata a capo del secondo movimento, avendo intuito che la salvezza del Regno andava riposta in un processo di svecchiamento e di rinnovamento delle vecchie strutture burocratiche, atto a favorire il ricambio di una classe dirigente non più all’altezza del nuovo tempo che si andava profilando in Italia e in tutta Europa.

Con un’azione sottile di convincimento, Maria Sofia convinse il marito a sottrarsi all’egemonia della regina madre, favorevole al partito austriaco, e lo indusse a nominare a capo del governo il principe Carlo Filangeri di Satriano.

La giovane regina aveva mostrato subito una grande simpatia per il Filangeri e lo considerava un politico accorto, deciso e soprattutto fedelissimo alla causa dei Borbone.
La scelta del principe di Satriano quale primo ministro fu fortemente osteggiata dalla regina madre Maria Teresa, ma il re, confortato dall’appoggio della moglie, fu deciso nel suo orientamento politico anche perché sapeva che Filangeri era a favore di una Costituzione ed aveva in mente l’idea di favorire una distensione dei rapporti con Francia e Inghilterra, tradizionalmente ostili alle Due Sicilie.

Maria Sofia, inoltre, diffidava fortemente dei Savoia e con uno straordinario intuito aveva messo in guardia il marito affinché non si fidasse dei cugini sabaudi. Intuito che in seguito si rivelerà confermato dai drammatici avvenimenti che porteranno al crollo del Regno. Purtroppo, il mite Francesco era convinto che la sorte del Regno fosse nelle mani di Dio e della sua “Santa madre”.

Questo convincimento gli fece perdere l’unica grande occasione di salvezza del suo trono: infatti Cavour, che aveva abilmente tessuto l’alleanza antiaustriaca con Napoleone III, dopo avere soddisfatto le sue mire espansionistiche nella pianura padana ed in Toscana, mirava ad un progetto politico di ampio respiro: la formazione in Italia di tre grandi Stati: il Piemonte sabaudo al nord, lo Stato Pontificio al centro, le Due Sicilie al sud. Nel progetto erano previste garanzie costituzionali, riforme liberali e amnistia per gli esuli politici.

Il piano dello statista piemontese prevedeva, però, una parziale soppressione del territorio della Chiesa, con il territorio di Perugia ed Ancona che sarebbe stato annesso al Regno di Napoli. Le trattative furono condotte dal conte di Salmour, un francese abilissimo nelle trattative diplomatiche.

Il principe Filangeri aderì al progetto pur con qualche perplessità. Maria Sofia ci pensò a lungo e ne discusse favorevolmente con il primo ministro, ma fu Francesco a respingere con sdegno il progetto: non avrebbe mai accettato di sottrarre del territorio alla Santa Chiesa. I suoi scrupoli religiosi non gli permettevano di mettersi in urto con Pio IX, che lo aveva sempre protetto (e che lo proteggerà, in seguito, nella disgrazia). Il fallimento delle trattative determinò le dimissioni del principe di Satriano, ma la regina lo convinse a riprendere le redini del governo in un momento che si presentava particolarmente difficile per la Corona.

Filangeri ritirò le dimissioni e, su consiglio della regina, preparò una bozza di Costituzione; il primo ministro, confortato da eminenti giuristi napoletani (Napoli aveva allora le più prestigiose scuole giuridiche d’Italia), portò a termine il suo lavoro in tutta segretezza per evitare reazioni da parte del partito austriaco, egemonizzato dall’ex regina.

Malgrado ciò l’austriaca ebbe sentore della stesura della nuova Costituzione e, con l’appoggio dell’alta burocrazia militare, dell’aristocrazia e dell’alto clero, organizzò un complotto per destituire Francesco e porre sul trono il suo primogenito: Luigi conte di Trani. Un vero e proprio colpo di Stato!

Ma l’abilissima Maria Sofia venne a conoscenza della congiura contro il legittimo re e, con l’aiuto del Filangeri, portò a Francesco le prove del complotto, chiedendo, infuriata, l’esilio della intrigante suocera e la messa al bando dei fratellastri.

Francesco, terrorizzato dal prendere un simile provvedimento, non ebbe la forza di ascoltare il consiglio della moglie, anche perché la matrigna gli giurò, falsamente, che le accuse contro di lei erano volgari menzogne e che mai ella avrebbe avuto in animo di tramare contro il legittimo re delle Due Sicilie. Francesco, nella sua infinità bontà le credette e sopportò con rassegnazione l’ira della moglie, che giustamente lo accusava di essere un inetto e incapace a reggere il trono.

Il principe di Satriano, questa volta, presentò le sue dimissioni irrevocabili e si ritirò definitivamente dalla politica. Al suo posto il re chiamò il principe di Cassano, un reazionario e persecutore dei liberali. Il partito austriaco aveva trionfato! Il successivo crollo del Regno pone le sue premesse proprio in questo iniziale tradimento nei confronti di un re onesto e leale come Francesco II.

Nel frattempo Cavour ordiva la sua rete di corruzione che avrebbe minato alle fondamenta la già traballante mo-narchia borbonica.
Consapevole della debolezza del re di Napoli e dell’infedeltà della sua Corte, lo statista piemontese reperì una forte somma di denaro (gli storici parlano di 4.800.000 ducati) da appoggiare con fedi di credito al Banco di Napoli.

Con questo denaro vennero corrotti generali, ammiragli, funzionari dello Stato; fu corrotto lo stesso ministro di Polizia, Liborio Romano, e lo zio di Francesco, fratello del padre, Leopoldo conte di Siracusa. Il Piemonte, con la tacita complicità dell’Inghilterra, organizzò l’aggressione al libero e sovrano Regno delle Due Sicilie, affidandone l’esecuzione a Garibaldi.

L’invasione del Regno di Napoli, infatti, doveva apparire agli occhi della comunità internazionale come l’iniziativa autonoma di un’avventuriero, poiché il Piemonte temeva la reazione della Santa Alleanza, Austria in testa.

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