Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

IL MONITORE NAPOLITANO?……….MA

Posted by on Gen 14, 2019

IL MONITORE NAPOLITANO?……….MA

La povertà dei temi e delle idee che la repubblica napoletana, Capecelatro la definì “Repubblica da Operetta” ha prodotto e trasmesso sono racchiuse nel monitore napolitano fondato, durante quei pochi mesi del 1799, da donna Eleonora Pimentel Fonseca diventata un simbolo della città di Napoli da fine 800 fino ai giorni nostri, nonostante non abbiamo lasciato nessuna traccia, nessuna innovazione, nessuna nuova idea se non per la sua irriconoscenza verso la casa Reale che l’aveva tolta dalla miseria, se non per il suo alto tradimento verso il popolo napoletano e verso lo stato, se non per la sua attività di collaborazionista dell’esercito Francese invasore che non pensava che a saccheggiare i tesori del Regno e se non per la creazione del suddetto giornale “Monitore Napolitano” che fu solo uno strumento diffamatorio verso i Borbone, verso la realtà dei fatti che stavano accadendo e verso la cosa più importante che è la verità.

Gli stessi organi di stampa e i dispacci militari francesi erano costretti a smentire molti articoli che venivano pubblicati dal giornale che non ha fatto altro che anticipare la stampa e la tv spazzatura che ogni giorno dobbiamo sopportare.

Ancora oggi esiste il “Monitore Napolitano” organo di informazione storica che i giacobini napoletani continuano ad usare per disinformare e modificare la verità storica isolandosi dal reso del mondo che ormai ha preso coscienza di come la verità storica dal 1799 fino ai giorni nostri sia ben diversa. Di seguito pubblichiamo una storia che il nostro Raimondo Rotondi ha ritrovato che non merita nessun commento ma soltanto esser letto, nemmeno i Soviet sono arrivati a tanto.

Claudio Saltarelli

Tra i vari tipi di brigantaggio che caratterizzarono il periodo postunitario è importante evidenziare quello della zona di Sessa Aurunca in quanto, tra coloro che lo combatterono, si distinse il famoso pittore e patriota sessano Luigi Toro, che tanto aveva sacrificato per gli ideali di Libertà e Unità della Nazione.

Egli sentì il dovere di ritornare a combattere e lo fece contro i Briganti del suo territorio, quello aurunco.

Nel 1859 Luigi Toro (Lauro di Sessa CE – 1835- Pignataro Maggiore CE – 1900) si era arruolato nei Cacciatori delle Alpi ove aveva conosciuto Pilade Bronzetti di Cuneo, a cui dedicherà uno dei suoi migliori dipinti per celebrarne il sacrificio nella battaglia del Volturno.

In seguito si unì ai Mille col grado di sergente alla compagnia delle “Guide Garibaldine“ preposte alla protezione del futuro Generale.

Durante la campagna siciliana dimostrò tutto il suo valore, conquistandosi la fiducia dello stesso Garibaldi che lo volle accanto a sé in diverse occasioni.

Purtroppo dovette assistere alla morte del suo grande commilitone piemontese Pilade Bronzetti, al quale dedicò nel 1885 una tela che riproduce “La morte di Pilade Bronzetti a Castelmorrone”, oggi presente nei depositi del Museo Napoletano di San Martino.

Luigi Toro fu, dunque, uno dei protagonisti della Unificazione italiana nei momenti decisivi. Quando il brigantaggio endemico della zona sessana assunse i connotati della reazione con Francesco II che finanziava i briganti dell’alto casertano, il pittore e patriota Luigi Toro pensò che fosse il momento di difendere gli ideali per cui aveva combattuto, nonostante tutto il suo impegno era tutto dedito alla passione artistica.

In questa fase Luigi Toro fece parte della Guardia Nazionale con il grado di Maggiore e Comandante del 2° Battaglione.

La Guardia Nazionale, che era sta un’istituzione del Governo Borbonico, viene riproposta al fine di svolgere compiti di sorveglianza del territorio a sostegno delle forze governative.

Luigi Toro si guadagnò la fama di leggendario e intrepido combattente nella repressione del brigantaggio e Giovanni Sopiti, che gli dedicò una breve biografia così si esprime al riguardo del pittore e patriota sessano:

“Tutti sapevano del suo meraviglioso coraggio, e come fosse tiratore insuperabile… e dovunque si annunciasse che egli fosse per giungere, si disperdevano le masnade brigantesche…tale elevava a sé luminoso prestigio, che ne era conquista eziandio tutta la efferatezza di quei malfattori, i quali altresì lo ammiravano, ed erano costretti ad amarlo, per gli umanitari riguardi che egli adoperava verso le famiglie di quegli che aveanla abbandonata per darsi alla vita del bandito.”

Allo stesso modo il pittore e critico d’arte di Frosinone Costantino Abbatecola rivela:

“Toro mostrò molto coraggio nella lotta contro i Briganti… In quel tempo Toro si esercitava al tiro della pistola ed era giunto a tale perfezione che metteva cento colpi l’un dopo l’altro nel medesimo bersaglio. Questa qualità del Toro, accoppiata ad una grande influenza morale che esercitava sul mandamento di Sessa Aurunca, ben conosciuta dai Briganti, bastò a salvare il Paese dalle loro oppressioni perché credettero prudente non affrontare il Toro, come raccontarono parecchi Briganti venuti poi in potere della giustizia.“

Ed è proprio sul brigantaggio sessano che lo storico pignatarese Nicola Borrelli, allievo dell’artista e patriota risorgimentale Luigi Toro, dà un giudizio “tranchant” molto negativo del fenomeno del Brigantaggio nell’Alto Casertano, definendolo fanaticamente “reazionario “ in un testo che avrà tanto successo.

Il titolo del testo è Episodi di brigantaggio reazionario nella campagna sessana con la cui pubblicazione il Borrelli volle anche rendere omaggio al suo maestro Luigi Toro, che , proprio nel natio territorio aurunco, dopo essere stato uno degli artefici dell’Unità lasciò la passione artistica per dedicarsi alla repressione del Brigantaggio e riaffermare in tal modo gli ideali di libertà e di giustizia, che avevano caratterizzato la sua carriera quale Patriota.

Nel libro di Borrelli si fa riferimento al Posto di Guardia in Piedimonte di Sessa, istituito dal Maggiore Luigi Toro in relazione ad un documento inviato al Comandante della Guardia Nazionale di Carano in data 8 aprile 1862.

In esso il Comandante Toro informa:

“Conseguentemente alle mie ispezioni fatte ai diversi Quartieri, ho avuto agio di osservare la posizione strategica di Piedimonte, la quale richiede un Posto di Guardia a sé; perlocché Ella sarà compiacente disporre che sia subito aperto il locale e fornito della corrispondente forza, nella intelligenza che tale servizio dovrà prestarsi dai militi del Paese nel qual caso essi non presteranno più servizio nel Posto di Carano”.

Anche in tale momento storico Luigi Toro dimostra la sua audacia e il suo coraggio misto alla generosità che lo stesso Borrelli esplicita nella maniera seguente:

“La sua maschia figura di gentiluomo franco, benefico, generoso, coraggioso fino alla temerarietà gli ottennero l’illimitato rispetto da parte dei tristi banditi che nei primi anni postunitari gettavano il terrore nella Provincia, proprio quando il Toro, nella qualità di Maggiore della Guardia Nazionale, era incaricato della repressione del Brigantaggio e da questi mostri feroci che egli sfidava ogni giorno non gli fu torto un capello… anche quando avrebbero potuto impadronirsi di lui, vendicarsi , finirlo, ma che, per rispetto, non l’avrebbero mai fatto…”

Furono soprattutto le bande dei fratelli Francesco ed Evangelista Guerra, di Alessandro Pace, di Francesco Tommassino e di Giacomo Ciccone e Luigi Alonzo detto Chiavone ad imprimere una direzione politica reazionaria al fenomeno del brigantaggio.

Inoltre vi era quel Domenico Fuoco che si definiva “ Capitano e ajutante del Re Francesco II”.

In raccordo storico con il Brigantaggio prodotto dalla reazione “borbonico-pontificia ” del Cardinale Ruffo che si era servito dei “famigerati” Fra Diavolo e Mammone, i ” tristissimi ” briganti che furono sovvenzionati dai Borbone, anche in tal caso la ferocia dei Capibriganti – sostiene Borrelli – era dovuta anche alla speranza che un probabile ritorno del re Borbone avrebbe apportato benefici notevoli.

Nell’agro aurunco, secondo lo storico, i Borbone aveva lasciato tale “scia di ignoranza, di incoscienza e di abbruttimento” da procurare un forte sentimento di odio contro la società borghese dell’ agiatezza e, dell’ozio e dello sfruttamento. Precisa infatti lo storico Nicola Borrelli:

“le barbari leggi che regolavano le triste accolte, perfezionarono via via la criminalità del gregario e trasformavano presto in terribili tipi di grassatori o di assassini i novizi, sovente passati alla banda, come dicemmo, per una leggerezza, un errore, in un momento di sovreccitazione, sotto l’impulso di un rammarico o d’uno sdegno talvolta giustissimi”!

Scrive ancora Borrelli: “V’era, in tal caso – disperata ma vera – una via di salvezza, una via irta di pericoli e d’incognite, ma ricca di speranza, di promesse, di rivendicazione: la campagna, la banda” ma alcuni andavano ad ingrossare le file dei Pace dei Guerra, dei Cedroni, degli Anfrozzi, dei Ciccone, che però non erano altro che “bieche figure di malvagi, spesso avanzi dell’esercito Borbonico.

La ribellione del brigantaggio nella zona sessana aveva quindi un’impronta ed un’insidia in quanto collegato al revanscismo borbonico.

Il Borrelli , appassionato di pittura e che diventerà un discepolo di Luigi Toro, accogliendolo nella sua casa di Pignataro Maggiore (CE) negli ultimi anni di vita, rende omaggio alla sua figura di patriota che fu coerente con i propri ideali di libertà nel periodo di conquista dell’Unità della Patria, prima combattendo con i Mille per liberare il Mezzogiorno dai Borbone e poi ritornando in prima linea a difendere l’Italia dai briganti prezzolati dagli stessi nel periodo postunitario nel proprio territorio natio di Sessa Aurunca, a confine con lo Stato Pontificio.

Lo storico Borrelli, a proposito di tale brigantaggio che imperversava nella zona sessana, non ha esitazione a collocarlo, quindi, in maniera decisa quale tentativo borbonico di suscitare una guerriglia politica ai fini della restaurazione scrivendo:

“Questo, nella sua semplice trama psicologica, il fenomeno del Brigantaggio così detto politico – reazionario, di cui fu teatro Terra di Lavoro, e particolarmente la contrada di cui trattiamo, negli albori della nostra santa indipendenza.”


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REGINA MARIA SOFIA DI BORBONE UNA EROINA DIMENTICATA

Posted by on Gen 13, 2019

REGINA MARIA SOFIA DI BORBONE UNA EROINA DIMENTICATA

“Femme hèroique qui, reine soldat, avait fait elle meme son coup de feu sur les remparts de Gaete”.

Così Marcel Proust ne “La prisonnière”, canta della regina soldato, la diciannovenne Maria Sofia di Borbone, che sugli spalti di Gaeta non esitò a sostituire un artigliere ferito a morte, continuando il fuoco contro gli assedianti piemontesi.

Il mito dell’eroina di Gaeta non è stato mai offuscato dal passare del tempo, anche se i testi di storia hanno ignorato o addirittura vituperato la figura, la personalità e il comportamento eroico dell’ultima regina delle Due Sicilie. Gabriele D’Annunzio definì Maria Sofia “l’aquiletta bavara che rampogna”, intendendo con queste parole disprezzare la regina che si oppose con tutto il suo coraggio all’usurpazione sabauda del Regno delle Due Sicilie.

Maria Sofia, infatti, tentò di riconquistare sino all’ultimo della sua vita quella patria meridionale che lei, tedesca di nascita, aveva fatto sua e profondamente amata.

Maria Sofia era figlia di Massimiliano e Ludovica di Wittelsbach; Massimiliano duca in Baviera, mentre Ludovica, sua moglie, era una delle nove figlie del re.

“….Quando giunse anche per Maria Sofia il tempo del matrimonio, la ragazza aveva diciassette anni; la duchessa Ludovica, forte del buon esito del matrimonio dell’altra figlia, si adoperò per trovare anche per Maria Sofia una testa coronata. In Germania i partiti disponibili erano scarsi e poco ragguardevoli; per un momento la duchessa madre pensò al principe ereditario di Baviera, il futuro Ludwig II, omosessuale e pazzo, che per le sue stravaganti follie avrebbe portato in seguito il Regno al collasso politico ed economico.

Per fortuna di Maria Sofia l’evento non si concretizzò mai, per cui Ludovica, con l’aiuto della Corte di Monaco, iniziò a scandagliare, con opportune iniziative diplomatiche, i migliori partiti delle case regnanti d’Europa. La risposta non tardò a venire: le comunicarono che il giovane principe ereditario delle Due Sicilie, un regno immerso nel sole del bacino del Mediterraneo, era pronto a convolare a nozze.

Maria Sofia, pur non conoscendo il futuro sposo, fu infantilmente entusiasta della prospettiva di poggiare sul suo capo una corona di regina, e immaginò il suo futuro sposo bello e aitante come il marito della amata sorella.

La giovane Wittelsbach sognò quindi di vivere la stessa favola di Elisabetta e del suo principe azzurro.

Il duca Max, che trascorreva le sue vacanze, come al solito, all’estero, le inviò un telegramma con cui sconsigliava questa unione: evidentemente dal suo frequente vagabondare in Europa non aveva tratto buone informazioni sul principe ereditario delle Due Sicilie.

Le trattative matrimoniali furono condotte dal conte Carlo Ludolf, ambasciatore di re Ferdinando II, e dallo stesso zio di Maria Sofia, il re di Baviera. Re Massimiliano aveva già preso tutte le informazioni possibili sulla vita, le abitudini, il comportamento del giovane Francesco, duca di Calabria.

D’altra parte si sapeva in tutta Europa che l’erede al trono di Napoli aveva ricevuto un’educazione confessionale, che preferiva gli studi di teologia piuttosto che le iniziative politiche, che non amava le donne, la caccia, le feste e gli altri svaghi di corte; preferiva la preghiera, la meditazione, tutto l’opposto del suo sanguigno genitore.

Francesco nutriva una particolare devozione per la madre, Maria Cristina di Savoia, detta “la Santa” dai Napoletani per la sua vita ascetica e di preghiera, ben lontana dalle attività della rumorosa e festaiola Corte Borbonica.

La regina era morta a ventiquattro anni subito dopo il parto, lasciando il figlio privo per sempre dell’amore di madre. Questo avvenimento aveva fortemente inciso sul carattere chiuso, mite e remissivo di Francesco, e lo aveva spinto più ad una vita di meditazione e di pensiero che ad un’attività politica consapevole degna di un principe ereditario.

Anche il padre Ferdinando II, conoscendo il debole carattere dell’erede al trono, non si era occupato della sua educazione come del resto aveva fatto nei confronti degli altri figli avuti dal secondo matrimonio con l’arciduchessa Maria Teresa d’Asburgo.
Ferdinando amava moltissimo i suoi figli, ma alla stregua di un buon padre di famiglia borghese e non con la responsabilità di un sovrano di una delle più antiche dinastie d’Europa.

Di conseguenza Francesco, pur essendo l’erede al trono, era rimasto lontano dalla politica: il padre gli aveva inculcato l’idea che il Regno era sicuro e tranquillo, in quanto i suoi confini stavano fra l’“acqua santa” (lo Stato Pontificio) a nord e l’“acqua salata” a sud (le coste e la Sicilia).

I rapporti fra le Due Sicilie ed il papato erano ottimi. Pio IX aveva una particolare predilezione per il re di Napoli, memore della generosa ospitalità del sovrano negli anni del suo esilio da Roma.
Le nozze tra Francesco di Borbone e Maria Sofia furono celebrate per procura, a Monaco, l’8 gennaio 1859; la sposa giunse a Bari a bordo della fregata borbonica Fulminante la mattina del 3 febbraio. Quando la fregata entrò nel porto, tutte le navi alla fonda la salutarono con salve di cannone, mentre sulle banchine una folla impressionante salutava e batteva le mani.

Le strade di Bari erano coperte da bandiere e le campane di tutte le chiese suonarono a stormo. Sulla banchina principale del porto dieci carrozze ospitavano tutta la famiglia reale venuta a rendere omaggio alla futura regina di Napoli.

Maria Sofia, dall’alto del ponte, osservava con trepidazione la città festante cercando di scorgere, fra quella marea di gente, il suo giovane marito. Francesco era già salito a bordo della lancia reale, con la regina madre e tutto il seguito. Mancava solo re Ferdinando, che era rimasto in carrozza perché già colpito dal male che di lì a poco lo avrebbe condotto alla tomba. Francesco indossava l’uniforme di colonnello degli ussari, mentre Maria Sofia sfoggiava uno splendido abito di velluto cremisi appena coperto dalla pelliccia di zibellino.

La fanciulla apparve a Francesco in tutto lo splendore della sua bellezza: occhi turchini, brillanti, i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle, il portamento fiero ed elegante. L’avvenenza della sposa fece aumentare la timidezza congenita del giovane principe, che si limitò ad un «Bonjour, Marie» e ad un compassato baciamano.

Nel tardo pomeriggio avvenne la cerimonia religiosa nel palazzo reale della città. Maria Sofia si adornò con i gioielli più fastosi della Corona di Napoli, portati appositamente dalla capitale per ordine di Ferdinando II. La benedizione nuziale fu impartita dall’arcivescovo di Bari, che lesse anche la speciale benedizione di Pio IX. Le navi nel porto spararono a salve e le bande suonarono l’inno di Paisiello.

Il 7 marzo la famiglia reale fece ritorno a Napoli a bordo della fregata Fulminante e raggiunse in carrozza la splendida reggia di Caserta. Frattanto, nel Regno di Piemonte e Sardegna, Cavour, forte dell’alleanza con Napoleone III, si preparava ad una nuova guerra con l’Austria; il 29 aprile 1859 le truppe franco-piemontesi penetravano nel Lombardo-Veneto.

Aveva inizio la seconda guerra dei Savoia contro l’impero asburgico (definita dagli storici “Seconda Guerra d’Indipendenza”), guerra di espansione militare e territoriale nella vasta pianura padana, indispensabile per l’economia e lo sviluppo del piccolo Piemonte chiuso nella morsa fra le Alpi e il mare.

Ferdinando II, malgrado la malattia che si era fortemente aggravata, seguì con apprensione le fasi della guerra, dimostrando un’aperta ostilità verso i parenti piemontesi e raccomandando al figlio di tenersi cara l’alleanza con lo Stato Pontificio e di non fidarsi mai dei cugini Savoia, che egli definiva «Piemontesi falsi e cortesi».

Mai raccomandazione fu più profetica! Il re morì il 22 maggio 1859 a quarantanove anni.

Un anno prima dello sbarco di Garibaldi, Francesco II salì sul trono di Napoli a ventitré anni e Maria Sofia si ritrovò regina a diciotto anni.

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Il benessere nel Regno delle Due Sicilie

Posted by on Gen 12, 2019

Il benessere nel Regno delle Due Sicilie

A più di 60 anni dalla caduta della monarchia sabauda e dalla nascita della Repubblica Italiana, la storiografia tende ancora oggi a sottovalutare un aspetto essenziale: il Regno delle Due Sicilie ha visto il suo tramonto perché oggettivamente rappresentava un elemento storicamente e politicamente superato, e non perché fosse un aggregato di barbari o di cafoni, degno di essere colonizzato e civilizzato da popolazioni portatrici di alte virtù civili, morali e militari.

Riscrivere la storia è un esercizio che viene fatto solo quando c’è di mezzo un interesse politico e economico. Oggi in pochi pensano che ne valga la pena per l’Antico Regno, essendo gli interessi della maggioranza rivolti a tutt’altro e, soprattutto, essendo questi interessi ancora concentrati in quella parte del Paese che abilmente seppe volgere a suo vantaggio la crisi degli Stati indipendenti preunitari. Inoltre, chi si prende la briga di riscrivere, more solito, riscrive a sua volta a proprio uso e consumo, tralasciando quella che dovrebbe essere la caratteristica principale della Storia: l’obiettività.

In questa sede quindi ci piace ricordare che il Regno delle Due Sicilie non era uno staterello nato come contropartita ad una fuggevole alleanza, bensì lo Stato italiano preunitario più antico e più esteso territorialmente, comprendendo tutto il Sud continentale d’Italia: Campania, Calabrie, Puglie, Abruzzi, Molise, la parte meridionale del Lazio e la Sicilia [1]. La sua situazione economica era, rispetto a quella dei molti altri stati italici, una delle più floride. Lo studio, non preconcetto, della sua storia ci trasmette l’immagine di un Regno e di una società non sradicati dalle correnti del pensiero illuministico europeo, di una amministrazione che cerca, a dispetto del ribellismo popolare e tra gli sconvolgimenti sollevati dalla rivoluzione francese e dalla occupazione napoleonica, di spezzare i tradizionali e duri a morire rapporti feudali e di avviare una industrializzazione, in alcuni settori chiave come la siderurgia, le miniere, l’enologia, la navigazione, ecc. (cfr: I records del Regno delle due Sicilie).

È necessario però tenere presente che stiamo pur sempre parlando di uno stato assoluto, e che la ricchezza, come il potere, era concentrata in poche mani: quelle del sovrano e dell’aristocrazia. Scarsa era la presenza della borghesia, praticamente ininfluente la presenza operaia, non organizzata e priva di una coscienza di classe. Con Carlo di Borbone ed il ritorno alla indipendenza dalla Spagna, si avvia un processo di modernizzazione della macchina burocratica con nuovi codici, leggi e regolamenti. Si avvia la sprovincializzazione della cultura meridionale. Si cerca anche di fare sorgere una coscienza “nazionale”, che tuttavia cozza contro l’atavica contrapposizione tra Napoli e Sicilia, aggravata ancora di più dalle differenti vicende vissute dai due Regni tra il 1799 e il 1815 (La Repubblica Napoletana, il periodo napoleonico, il protezionismo inglese).

Da Carlo III in poi assistiamo allo sviluppo di industrie a carattere artistico, come quella della porcellana, della ceramica e della seta di pregio. Tra la fine del ‘700 e i primi decenni dell’800, furono costituite le prime società per il funzionamento della ferrovia, della navigazione, dell’illuminazione a gas, per la tessitura. Fu favorito l’allevamento degli ovini, al fine di incrementare la produzione e l’arte della lana, contemporaneamente a quella del lino e del cotone. Molto importante divenne anche la lavorazione del ferro, con la creazione di industrie metallurgiche e meccaniche. Ferdinando II fece impiantare nella città di Napoli un arsenale, un cantiere navale, e delle fabbriche di armi che diedero lavoro a molti napoletani, consentendogli anche di specializzarsi e di venire a conoscenza di alcune tecniche di lavorazione fondamentali. Fu potenziata la lavorazione delle pelli, e per alcuni manufatti, come ad esempio i guanti, si raggiunsero livelli d’eccellenza, favorendo il Mady in Naples nei commerci con l’estero. Sorsero fabbriche per la lavorazione dei vetri e del cristallo, i cui prodotti venivano inviati anche nelle Americhe (cfr: elenco monografie in calce).

Tutto ciò, se ebbe un peso nell’arricchire l’Erario, certamente non influì sulla gran massa della popolazione che rimaneva rurale e in una condizione semifeudale. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che il ministro De Medici prima e Ferdinando II poi, hanno avuto il loro bel da fare per cercare di liberarsi dall’influenza inglese (E. Pontieri, Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e dell’Ottocento, Roma 1945). Il Regno si trovò spesso in difficoltà nella grande politica internazionale del tempo, in quanto era veramente difficile acquisire una posizione autonoma nell’ambito dei rapporti tra le varie potenze. Basti pensare ad esempio alla vicenda del “privilegio di bandiera” di cui godevano Inghilterra, Francia e Spagna: Murat lo aveva abrogato, ma poi il Congresso di Vienna si affrettò a ripristinarlo. Bisognerà aspettare il 1845 perché il Regno delle Due Sicilie potesse vedere accolto, nei suoi rapporti commerciali con le altre potenze europee, il cosiddetto “principio di reciprocità”. E non dimentichiamo neppure la umiliazione che Ferdinando II dovette subire in seguito all’affaire Taix-Aycard per il commercio degli zolfi. Episodi di questo genere non impedirono tuttavia al Regno di svolgere i suoi traffici commerciali, in discreta autonomia, e che al suo interno sorgessero numeroso fabbriche ed imprese. Il sito ha dedicato a tale sviluppo numerose pagine. Qui basti ricordare: l’industria metalmeccanica e siderurgica, con circa 100 opifici metalmeccanici, di cui 21 con più di 100 addetti, e l’eccellenza costituita dallo stabilimento di Stato di Pietrarsa; la Cantieristica navale (Castellammare di Stabia, con 1.800 operai, l’Arsenale di Napoli con annesso bacino in muratura, i Florio con la loro fonderia i loro cantieri e le loro cantine a Palermo); l’industria tessile, capillarmente diffusa in tutto il Regno; le circa duecento cartiere; i pastifici alimentari; le fabbriche di cristalli e ceramiche, tra cui la rinomata Capodimonte.

È possibile analizzare la situazione finanziaria, di bilancio e fiscale del Regno con consapevolezza che le vicende economiche e politiche non sono mai indipendenti le une dalle altre, ma si intrecciano e vanno a formare un complesso sistema, in cui l’evidenza delle cose è solo la punta dell’iceberg.

La documentazione che va dal 1848 al 1859 fornisce alcuni spunti per introdurre la riflessione. Nel 1848 il Regno fu colpito dalla violenza dei moti rivoluzionari, sedati nel 1849. Si determinò una contrazione degli introiti effettivi rispetto a quelli preventivati, e parallelamente un forte aumento delle spese, a testimonianza del processo di ricostruzione e “normalizzazione” seguito alla restaurazione. Variabilità che potrebbe essere stata causata anche, specialmente per i dati degli ultimi anni, dalla crescente ostilità manifestata dal Regno Piemontese, che conduceva la politica di annessione degli stati sparsi sulla penisola italiana, e dalla continua e persistente instabilità della Sicilia, riconducibile alle istanze di autonomia politica che da lì provenivano. Una interpretazione in tale senso ci viene data dallo scritto di Savarese, “Le Finanze Napoletane e le Finanze Piemontesi dal 1848 al 1860”: La storia delle nostre finanze è la storia delle nostre rivoluzioni, e delle restaurazioni che a quelle si sono succedute.

La relazione Sacchi

Subito dopo l’annessione del 1861 delle Due Sicilie al Piemonte, un ministro sabaudo, Vittorio Sacchi, titolare del Ministero delle Finanze in Napoli dal 1° aprile al 31 ottobre 1861, fece circolare un resoconto in cui si sosteneva che nel 1860 l’ex Regno di Napoli avevano presentato un disavanzo di 62 milioni di ducati, dipingendo l’Antico Regno come gravato di debiti, destinato al fallimento, se non fosse intervenuta la “pietosa mano piemontese”.

Un funzionario napoletano, Giacomo Savarese, si sentì in dovere di controbattere, dati alla mano e per iscritto.

La replica del Savarese

La sua prima considerazione è di natura fiscale: con l’ascesa al trono di Carlo III nel 1734, il governo Tanucci avviò una politica tesa all’abbattimento della pressione fiscale e del debito pubblico. Questa politica fu scrupolosamente seguita dai suoi successori, ed identificata quale strumento di stabilità dello Stato, che aveva quali principi basilari il rispetto della proprietà privata, la solidarietà sociale e l’amicizia con gli altri Paesi. Il governo del ministro de’Medici continuò la politica del Tanucci per la quale “le risorse finanziarie non vanno ricercate nell’indebitamento, né in nuove imposte, ma esclusivamente nell’ordine e nella

, perché veramente il miglior governo è quello che costa meno”.

L’imposizione diretta fu fissata come segue (Decreto del 10 agosto 1815):

Tav. 1 – Il prelievo fiscale diretto nel Regno di Napoli (Ducati)

Imposta fondiaria6.150.000
Addizionali per il debito pubblico615.000
Addizionali per le Province307.500
Esazione282.900
Totale 7.355.400

La contribuzione diretta restò uguale fino al 1860. Il prelievo indiretto era così articolato:

Tav. 2 – Gli strumenti fiscali indiretti nel Regno di Napoli

Dazi (dogane e monopoli)
Imposta del Registro
Tassa postale
Imposta sulla Lotteria

La relazione Sacchi

Subito dopo l’annessione del 1861 delle Due Sicilie al Piemonte, un ministro sabaudo, Vittorio Sacchi, titolare del Ministero delle Finanze in Napoli dal 1° aprile al 31 ottobre 1861, fece circolare un resoconto in cui si sosteneva che nel 1860 l’ex Regno di Napoli avevano presentato un disavanzo di 62 milioni di ducati, dipingendo l’Antico Regno come gravato di debiti, destinato al fallimento, se non fosse intervenuta la “pietosa mano piemontese”.

Un funzionario napoletano, Giacomo Savarese, si sentì in dovere di controbattere, dati alla mano e per iscritto.

La replica del Savarese

La sua prima considerazione è di natura fiscale: con l’ascesa al trono di Carlo III nel 1734, il governo Tanucci avviò una politica tesa all’abbattimento della pressione fiscale e del debito pubblico. Questa politica fu scrupolosamente seguita dai suoi successori, ed identificata quale strumento di stabilità dello Stato, che aveva quali principi basilari il rispetto della proprietà privata, la solidarietà sociale e l’amicizia con gli altri Paesi. Il governo del ministro de’Medici continuò la politica del Tanucci per la quale “le risorse finanziarie non vanno ricercate nell’indebitamento, né in nuove imposte, ma esclusivamente nell’ordine e nella

, perché veramente il miglior governo è quello che costa meno”.

L’imposizione diretta fu fissata come segue (Decreto del 10 agosto 1815):

Tav. 1 – Il prelievo fiscale diretto nel Regno di Napoli (Ducati)

Imposta fondiaria6.150.000
Addizionali per il debito pubblico615.000
Addizionali per le Province307.500
Esazione282.900
Totale 7.355.400

La contribuzione diretta restò uguale fino al 1860. Il prelievo indiretto era così articolato:

Tav. 2 – Gli strumenti fiscali indiretti nel Regno di Napoli

Dazi (dogane e monopoli)
Imposta del Registro
Tassa postale
Imposta sulla Lotteria

I tributi diretti ed indiretti non furono mai più aumentati né in numero né in aliquota, tranne in circostanze particolarissime e per tempi limitati, eppure le entrate passarono dai 16 milioni di ducati del 1815, ai 30 milioni del 1859, a dimostrazione della crescita generale di quella fiorente economia. Le entrate pubbliche rimasero strettamente correlate alla ricchezza generale: “entrambi questi patrimoni sono soggetti alle medesime leggi; crescono e decrescono insieme, ma la proporzione rimane sempre la stessa. Or se vi è un paese dove questa regola sia stata rigorosamente applicata, e fino alla superstizione, noi non temiamo di affermare che questo paese è stato il Regno di Napoli”.

La nota rivolta carbonara del 1820, cui seguì l’esperienza costituzionale, la sommossa siciliana, quindi l’intervento e l’occupazione austriaca, costò allo Stato 80 milioni di ducati e gli interessi del debito pubblico consolidato, che nel 1820 erano di 1,42 milioni di ducati annui, passarono a 5,19 milioni di ducati. Ma non si ricorse a nuove tasse, bensì le risorse furono cercate nel risparmio. Rivoluzionario per l’epoca, fu il nuovo regolamento del 15 dicembre 1823, con cui fu introdotta la Tesoreria Unica, sottoponendo le spese allo stretto controllo del Ministro delle Finanze. Inoltre le dogane e la vendita dei generi di monopolio furono dati in concessione (regie interessate), con un aumento del relativo introito da 4,65 milioni di ducati annui a 5,83 milioni.

Nel 1830 Ferdinando II, re a venti anni, promulgò nuove misure a sostegno dell’economia. Il de’Medici era morto e fu nominato Ministro delle Finanze il marchese d’Andrea. In pochi anni gli interessi sul debito pubblico si ridussero a 4,15 milioni di ducati; furono costruiti le prime vie ferrate; si gettarono ponti in ferro sui fiumi; la Marina Militare fu dotata di undici navi a vapore; l’industria progredì ed il bilancio offriva un avanzo di cassa.

Gli avvenimenti degli anni 1848-49, l’intervento a fianco del Piemonte e la composizione della nuova rivolta siciliana, gravarono l’erario per oltre 30 milioni: gli interessi sul debito pubblico passarono da 4,15 milioni a 5,19 milioni e si ebbe un deficit di cassa di ben 15,73 milioni di ducati. Ma anche in tale occasione non si fece ricorso a nuove tasse: il fabbisogno fu colmato con l’emissione di una rendita che fruttò 11,12 milioni, e con la riscossione di crediti per 8,42 milioni.

Nel luglio 1860 fu pubblicato dal Ministero delle Finanze la situazione delle nostre finanze dal 1848 al 1859. Per la storia delle finanze piemontesi, sebbene lì ci fosse un regime parlamentare, l’assestamento definitivo dei bilanci giunge solo all’anno 1853. Savarese, per fare i confronti, usò quindi per l’anno 1854 il conto amministrativo presentato al parlamento, ed approvato con legge del 17 luglio 1858. Per gli anni successivi passò a rassegna tutte le leggi piemontesi di autorizzazione alla spesa. “Così abbiamo potuto stabilire il disavanzo annuale del Piemonte. Ma le nostre cifre dal 1855 in poi debbono necessariamente essere molto al di sotto del vero”. Mancano infatti i dati di disavanzo di cassa; soprattutto non vi è traccia delle approvazioni dei finanziamenti occulti che, come vedremo, furono smisurati.

Tav.3 – Nuovi prelievi fiscali, e aumento degli esistenti, nel Regno di NAPOLI e nel Piemonte, dal 1848 al 1859.

Regno di NapoliRegno di SardegnaData
Nessuna tassa  nuova e  nessun  aumento di tassa esistente             Aumento nel prezzo dei tabacchi 1° febbraio 1850
Aumento del prezzo della polvere da sparo e piombo da caccia 19 febbraio 1850
Tassa per pesi e misure 26 marzo 1850
Diritto di esportazione sulla paglia, fieno, ed avena5 giugno 1850
Aumento del 33 % del prezzo della carta bollata22 giugno 1850
Aumento del 20% dei diritti d’insinuazione22 giugno 1850
Tassa sulle fabbriche31 marzo 1851
Tassa sulle mani morte23 maggio 1851
Tassa sulle successioni17 giugno 1851
Tassa sull’industria 16 luglio 1851
Tassa sulle pensioni28 maggio 1852
Tassa sulle donazioni, mutui e doti; sulla emancipazione ed adozione 18 giugno 1852
Aumento d’imposta sul consumo delle carni, pelli, acquavite e birra1° gennaio 1853
Aumento d’imposta personale28 aprile 1853
Tassa sulle vetture1° maggio 1853
Tassa per la caccia26 giugno 1853
Tassa sulle società industriali30 giugno 1853
Aumento di tassa sull’industria7 luglio 1853
Tassa sanitaria 13 aprile 1854
Aumento della tassa sulle successioni9 settembre 1854
Aumento del prezzo della carta bollata9 settembre 1854
Aumento della tassa sull’industria13 febbraio 1856

Tav.4 – Disavanzi annui di bilancio del Regno di Napoli e del Piemonte (Lire)

Disavanzo napoletanoDisavanzo piemonteseLegge finanziaria (Piemonte)
184828.588.760,5437.951.431,02Legge del 21 giugno 1856
184938.257.830,7693.032.244,64Legge del 19 luglio 1857
185010.480.075,4823.438.945,75Legge del 19 luglio 1857
18515.708.927,543.716.225,11Legge del 19 luglio 1857
1852 10.676.108,1035.896.368,45Legge del 19 luglio 1857
185318.995.573,2735.024.020,60Legge del 19 luglio 1857
185411.969.226,7822.026.255,27Legge del 17 luglio 1858
18554.782.746,967.915.922,71manca
1856attivo82.858.206,15Legge del 24 marzo 1856
18577.467.561,9212.244.592,88manca
18582.005.311,6015.203.794,01manca
1859avanzo
– 4.591.023,76
126.600.311,04Ferrovie (provvedimenti vari)
134.341.099,19495.908.317,63TOTALE

Tav.5 – Interessi annui sul debito del Regno di Napoli e del Piemonte dal 1848 al 1859

REGNO DI NAPOLIPIEMONTE
DenominazioneRendita (lire)LeggeDenominazioneRendita (lire)Legge
    Rendita consolidata 5%   424.989,3826 aprile 1848Debito redimibile 5%3.044.036,237.9.48 e 26.3.51
2.549.936,252 ottobre 1848Obbligazioni 4%1.194.120,0026.3.1849
76.498,093 agosto 1850Redimibile 5%43.430.398,1612 e 16.6.1849
110.497,2421 agosto 1851Obbligazioni 4%1.080.000,009.7.1850
110.497,241° marzo 1853Redimibile 5%5.416.25026.6.1851
424.989,3826 ottobre 1853Redimibile 3%2.310.386,6613.2.1853
1.062.473,4423 ottobre 1854Prestito inglese2.000.000,008.3.1855
450.246,9813 ottobre 1859Prestito per la carta moneta di Sardegna28.228,9827.2.1856.
Prestito ferrovia di San Pier d’Arena108.050,004.7.1858
SUBTOTALE5.210.128  58.611.470,03 
Interessi al 184717.637.5009.362.707,07
TOTALE 185922.847.628 67.974.177,1

Tav.6 – Beni demaniali venduti dal Regno di Napoli e dal Piemonte dal 1848 al 1859

REGNO DI NAPOLIPIEMONTE
  Nessuna Alienazione   DenominazionePrezzo (lire)Legge
Tenuta di Torino, 6.100.000,008 febbraio 1851
Chieri, Gassino. Casella,2.778.422,3211 luglio 1852
Chiavasso, Genova, Cuneo,4.628.436,2919 maggio 1853
806.137,1323 giugno 1857
Stabilimento di S. Pier d’Arena.800.000,0019 giugno 1853
Lire 15.112.995,74

Tav.7 – Andamento del debito pubblico nel Regno di Napoli e in Piemonte

REGNO DI NAPOLIPIEMONTE
Debito a tutto il 1847Lire317.475.000168.530.000
Debito a tutto il 1859Lire411.475.0001.121.430.000
Incremento nel periodo%29,61%565,42%
Interessi sul D.P.Lire22.847.62867.974.177,1
Popolazione residente6.970.0184.282.553
Debito pro-capiteLire59,03261,86
Reddito pro-capiteLire291
PILLire2.620.860.7001.610.322.220
D.P./PIL%16,57%73,86%
Interessi D.B./PIL%0,87%4,22%

Il Piemonte dal 1848 al 1859 si indebitò per 952,9 milioni di lire (tav.7), ma le spese “legittime” assommano a 495,9 milioni (tav.4). Come fu impiegata la differenza pari a ben 457 milioni di lire? Perché dal 1855 al 1859 non furono più presentati i bilanci per l’approvazione di legge? La risposta di Savarese è che questi “contengono spese ingiustificabili, ovvero spese tali, che un ministro non oserebbe confessare al cospetto del parlamento”.

Al 1° gennaio 1860 la Tesoreria di Stato (Madrefede) disponeva di:

Tav. 8 – Regno di Napoli: disponibilità di cassa al 1° gennaio 1860

Introito dalla vendita dei grani del governo ducati2.335.227,20
Cambiali tratte dal governo per l’approvvigionamento dei grani negli Abruzzi115.000,00
Cambiali tratte per servizio dei grani, dedottone le già soddisfatte1.017.879,94
Resto della rendita iscritta del 13 ottobre 18591.878.300
Resta di Tesoreria e portafoglio al 31 dicembre 1859453.507,27
Totale ducati 5.799.914,41

Pari a 24,65 milioni di lire. Il bilancio dell’anno 1860 prevedeva entrate per ducati 30.135.442, pari a 128,08 milioni di lire. Prevedeva una spesa di ducati 35.536.411,35 pari a 151,03 milioni di lire. Si prevedeva dunque un disavanzo di ducati 5.400.969,35 pari a 22,95 milioni di lire, inferiore al valore in portafoglio (tav. 8). Al termine dell’anno la tesoreria napoletana avrebbe dovuto presentare un avanzo di ducati 398.945,06 pari a 1,70 milioni di lire. L’invasione mutò questa prospera situazione. Dal 1° gennaio al 30 giugno, le entrate si ridussero a ducati 13.563.968,92 e le spese assommarono a ducati 20.080.299,27. Sicché si verificò un disavanzo di ducati 6.516.330,35 pari a 27,69 milioni di lire.

A questo disavanzo si fece fronte come segue:

Tav.9 – Misure per il contenimento del deficit del giugno 1860.

Rendita iscritta in ragione di 111,13 su 53.408.107,07
Rendita pignorata di ducati 16.650333.000,00
Rendita pignorata di ducati 29.132582.640,00
Cessione in pagamento di una rendita di ducati 11.764264.690,00
Buoni della Tesoreria scontati alla cassa di sconto1.345.360,74
Trasferimento dalla Tesoreria582.532,54
Totale ducati 6.516.330,35

Tav. 10 – Situazione della finanza napoletana al 30 giugno 1860

Disponibilità al 31 dicembre 18595.799.914,41
Trasferimento dalla Tesoreria-582.532,54
Buoni del Tesoro-1.345.360,74
Rendita del 1° maggio e 6 giugno (valore in portafoglio) 2.943.168,60
Totale ducati 6.815.189,73

pari a 28,96 milioni di lire al 30 giugno 1860.

Dal 30 giugno al 7 settembre 1860

In base al rendiconto pubblicato dal piemontese Sacchi si ebbero nel periodo:

Entrateducati3.152.803,80
Usciteducati-10.096.672,23
Disavanzoducati -6.943.868,43

Il disavanzo però era saldato con le risorse riportate in tav.10 ( di ducati). Ciò nonostante il governo Spinelli con due decreti del 6 agosto e del 1° settembre 1860, creava altri ducati 350 mila di rendita iscritta sul gran libro, che rappresentano un valore di 7 milioni di ducati, ossia 29,75 milioni di lire.

Questi soldi, lasciati a Napoli dai regi nella ritirata del 6 settembre, furono subito fagocitati dai piemontesi e da Garibaldi. Francesco II non pensò neanche di ritirare la sua liquidità personale, né la dote materna, che i Savoia restituirono solo in parte 30 anni dopo.

Tav. 11 – Situazione al 6 settembre 1860

NAPOLI
Disavanzo d’esercizioducati13.460.198,78
Disponibilità di cassaducati7.000.000,00
Oro a garanzia monetaducati104.750.000,00

Tav. 12 – 1860: raffronto in milioni di lire

NAPOLIPIEMONTE
Debito pubblico consolidato441,2251.271,43
Interessi annui25,18175,474

Tav. 13 – Valore oro della moneta degli antichi stati italiani al momento dell’annessione

Milioni di lire – oro
Due Sicilie 445,2
Lombardia 8,1
Ducato di Modena 0,4
Parma e Piacenza 1,2
Roma (1870) 35,3
Romagna, Marche e Umbria 55,3
Piemonte 27,0
Toscana 85,2
Venezia (1866) 12,7
TOTALE 670,4

Lo Stato delle Due Sicilie possedeva un “patrimonio” doppio rispetto a tutti gli altri stati della penisola messi assieme.

Dal 7 settembre al 31 dicembre 1860.

L’allegra gestione dittatoriale fece lievitare le spese a ducati 17.422.385,80, mentre le entrate ammontarono a ducati 6.970.347,82. Il disavanzo nel periodo fu perciò fu di ulteriori ducati 10.452.037,98.

Seguiva l’anno 1861, ed il regno d’Italia s’inaugurava a Torino con un altro debito di 500 milioni di lire. Il bilancio per l’anno 1862 prevedeva un nuovo disavanzo di lire 308.846.372,02. Contemporaneamente le provincie dell’Antico Regno furono gravate dalla nuova tassa del decimo di guerra, e da quella del registro graduale, e dalla nuova tassa sull’industria, la mobiliare, e la personale.

Appendice

Relazione del Direttore Generale alla Commissione Parlamentare di Vigilanza

Il Debito Pubblico in Italia 1861 – 1987: Volume I

Parte I – La Storia

Capitolo 1 – La finanza di “emergenza” all’inizio del Regno d’Italia. 1861 – 1872

Dopo l’istituzione del Gran Libro del Debito Pubblico italiano, avvenuta con legge 10 luglio 1861, n. 94, in cui confluirono i debiti degli stati preunitari si aprì un decennio di fuoco per la finanza pubblica, che dovette ad un tempo far fronte ai costi smisurati di azzardati eventi militari e alla creazione di una struttura unitaria.

Tav. 14 – Periodo 1861-1872

 18611872
Debito Pubblico/PIL45%95%
Spesa Pubblicabase+ 17%
Entrate/Spesa60% 

La classe dirigente dell’epoca non seppe far altro di aumentare le imposte.

Tav. 15 – Contribuzioni introdotte con la proclamazione del regno d’Italia

DenominazioneAnno
Tassa del decimo di guerra1861
Tassa del registro graduale1861
Tassa sull’industria1862
Imposta sui redditi di ricchezza mobile1864
Fondiaria1864
Imposta sul macinato1868
Imposta sui redditi dei titoli pubblici1868

La rapida conquista dell’unità nazionale e la volontà di consolidarla a ogni costo costituiscono il grande evento del decennio e il problema che ossessiona i gruppi dirigenti. Le componenti liberalmoderate della nuova classe politica italiana dedicano le loro energie soprattutto all’unificazione e allo sviluppo del mercato nazionale. In vista di questo obiettivo si procede all’immediato abbattimento delle tariffe doganali interne (1861) e all’estensione all’intero paese della tariffa liberista in vigore in Piemonte. L’unificazione amministrativa viene imposta analogamente attraverso l’estensione e la generalizzazione della legislazione del Regno di Sardegna, che peraltro non è sempre la più avanzata, né la più adatta a regioni molto diverse dal punto di vista dell’economia, dell’assetto sociale, delle consuetudini. Per quel che riguarda l’andamento dell’economia nel decennio, si nota una crescita del prodotto interno abbastanza soddisfacente fino al 1866 e dovuta soprattutto ad annate agricole favorevoli. La guerra del 1866 con l’Austria si rivela però disastrosa per le finanze del giovane regno, già fortemente indebitato: in particolare mostra un maggior dinamismo il settore industriale, che anche in seguito all’introduzione del corso forzoso (cioè la fine della convertibilità della moneta in oro) è avvantaggiato nelle esportazioni. L’aumento dei prezzi, che non è seguito da corrispondenti aumenti dei salari, produce una diminuzione della domanda dei beni di consumo. La drastica cura imposta dalla destra storica al bilancio statale, riducendo l’indebitamento, rende meno necessario il ricorso al credito e alla raccolta del risparmio privato da parte dello stato. Una massa di capitali precedentemente investiti in titoli di stato è così resa disponibile per impieghi produttivi. Contemporaneamente, però, il prelievo fiscale, assai elevato nei confronti dei consumi popolari, frena lo sviluppo del mercato interno. La politica doganale fortemente orientata in senso liberistico, già in vigore da dieci anni nel Regno di Sardegna, accresce gli scambi commerciali con l’Europa, ma crea notevoli difficoltà in ampi settori della produzione manifatturiera nazionale. Ne risultano in particolare danneggiati gli impianti di minori dimensioni, e le grandi industrie meridionali. Nell’insieme la politica delle “porte aperte” si rivela poco efficace, in quanto i danni che produce in alcuni comparti del sistema produttivo non trovano un contrappeso adeguato nella modernizzazione di altri settori. La politica economica dell’età della destra finisce col favorire soprattutto gli interessi dei proprietari terrieri. Infatti la politica doganale serve a incentivare in particolare modo le esportazioni di prodotti agricoli, e quella fiscale è assai blanda nei confronti della grande proprietà fondiaria, mentre si rivela invece severa verso i redditi industriali, commerciali e professionali e decisamente punitiva verso i consumi popolari, dato il massiccio ricorso all’imposizione indiretta che tocca l’apice nel 1868 con l’introduzione dell’imposta sul macinato. Costituito formalmente il 17 marzo 1861 il Regno d’Italia, la classe dirigente del nuovo stato si trovò ad affrontare una serie di gravi problemi legati ai settori economico e finanziario. La situazione ereditata dal periodo precedente era abbastanza complessa: ai sette stati preunitari corrispondevano infatti ben nove amministrazioni finanziarie (la Sicilia e l’Emilia godevano infatti di uno statuto autonomo), con differenti sistemi monetari e criteri di riscossione delle imposte. Il ministro delle finanze del nuovo regno, Pietro Bastogi, dovette fare i conti con un debito pubblico già piuttosto alto: 111.500.000 lire, di cui il 57% di origine sabauda. Per tentare di contenere il deficit, aggravato dall’abolizione di una gran parte dei dazi doganali che vigevano tra gli stati preunitari, vennero estese a tutto il regno tasse e gabelle proprie del Regno di Sardegna. Mentre, nel frattempo, tutte le aliquote impositive venivano progressivamente inasprite. Per le sconsiderate spese militari, e per opere sproporzionate alle risorse, la spesa aumentò e, al netto degli interessi, restò su di un livello molto elevato rispetto al PIL. Fu quindi inevitabile che il riequilibrio di bilancio provenisse quasi interamente dal lato delle entrate, con l’aumento della pressione fiscale. Ci fu inoltre l’assunzione del debito veneto nel 1868, il pagamento dell’indennità di guerra all’Austria nel 1866 e l’acquisto delle ferrovie dell’Austria meridionale nel 1876, per un totale di poco più di 2 miliardi di capitale nominale e circa 80 milioni annui di rendita. Si procedette alla vendita di beni demaniali ed ecclesiastici del Sud, alla cessione nel 1865 alla Società Alta Italia delle ferrovie per 188 milioni di lire, alla concessione nel 1869 della Privativa dei Tabacchi ad una regìa interessata per 15 anni, contro anticipazione di 180 milioni di lire. In media, nel decennio 1860 le entrate extra tributarie ebbero un’incidenza del 16% circa sul totale delle entrate. Fu così che tra il 1862 e il 1868 le entrate aumentarono del 79%, ed il pareggio di bilancio al netto degli interessi si raggiunse nel 1867. La spesa per interessi, che era però ormai diventata insostenibile, fu coperta solo nel 1872. Di fronte a queste imponenti esigenze di reperimento di capitali, la politica del Debito subì notevoli cambiamenti nel corso del decennio. Il primo prestito di 500 milioni netti fu collocato sul mercato dal Ministro delle Finanze Bastogi nel luglio del 1861 a 70,5 lire effettive per 100 lire di capitale nominale. Doveva servire per colmare il deficit del 1861 e quello previsto del 1862. Durante il corso del 1862, Sella, subentrato a Bastogi, fece molte proposte di aumento delle entrate, fra cui la vendita dei beni demaniali e dei beni della neo­costituita Cassa ecclesiastica, vendita che venne autorizzata nell’agosto 1862. Il risultato finanziario dei provvedimenti presi fu, a breve termine, così scarso che Minghetti si trovò l’anno successivo a dover ricorrere nuovamente ad un prestito di ben 700 milioni netti, collocati a 71 lire. Oltre a ciò, veniva allargata la circolazione dei Buoni del Tesoro, che passarono tra il 1861 e il 1862 da 38,9 a 227,5 milioni di lire, restando poi sempre su cifre molto elevate. Con il ritorno di Sella l’anno dopo al Ministero delle Finanze, si iniziò a cercare delle alternative alla emissione dei prestiti assai onerosi, precedentemente collocati. Sella, concluse una convenzione con una neo­costituita Società Anonima per la vendita di beni demaniali, in base alla quale tale società anticipava 150 milioni al Governo. La “novità” di Sella venne ampiamente discussa in Parlamento, dove si levarono molte critiche, ma alla fine la convenzione venne approvata il 20 novembre 1864. L’anno dopo, il Sella non poté evitare di proporre un nuovo prestito per 425 milioni netti, oltre alla alienazione delle ferrovie per 185 milioni circa. Non vennero risparmiati sarcastici commenti in Parlamento. “A me pare ­ dichiarò l’on. Lazzaro nella seduta del 13 aprile 1865 ­ che in quattro o cinque anni dacché stiamo qui riuniti, la questione finanziaria non ci abbia presentato null’altroché una serie di illusioni, e per conseguenza una serie di disinganni; e si potrebbe ancora dire che i diversi Ministeri si sono demoliti gli uni e gli altri; i precedenti illudevano sé e il paese; ed i successori demolivano i primi mostrandosi illusi, aspettando gli altri che li demolissero a volta loro dimostrando il disinganno”. “Nell’amministrazione finanziaria, ­ rilevava l’On. La Porta ­ che cosa abbiamo noi osservato? Un sistema che si puntella sui prestiti ogni due anni: un prestito al 1861, un prestito al 1863, un prestito al 1865! Due miliardi di lire!”. Crispi osservava: “Contrarre degli imprestiti per le spese ordinarie è uno di quei fatti anomali di cui a noi sembra dato privilegio. Gli imprestiti si fanno per le spese straordinarie, in caso di guerra, per grandi lavori pubblici, per esigenze eccezionali, e che non è possibile soddisfare con mezzi normali; ma quando si tratta di avere, bisogna tenersi a quello che si ha”. E il senatore Siotto­Pintor concludeva: “il malcontento è grave, un senso di malessere si diffonde in tutte le classi della società. Le sorgenti della ricchezza vanno a disseccarsi. Noi facciamo il lavoro di Tantalo o di Penelope. Il signor Rothschild, re del milione, è, finanziariamente parlando, re dell’Italia”. Il miglioramento nel bilancio corrente che nel frattempo si era registrato venne vanificato dagli eventi del 1866. In primo luogo una crisi finanziaria internazionale fece precipitare le quotazioni della rendita italiana all’estero, dalle 66 lire di marzo alle 49 di fine aprile. Le banche restringevano il credito; s’iniziava la corsa agli sportelli. Fu in questo clima che il Ministro delle Finanze Scialoja fece approvare il 30 aprile un disegno di legge che accordava “al governo la facoltà di provvedere per via di decreti reali, anche con mezzi straordinari, ai bisogni della finanza”. Il 1° maggio successivo fu emanato un decreto che obbligava la Banca Nazionale a dare un mutuo al Tesoro di 250 milioni di lire al tasso di interesse dell’1,1/2%, proclamando al contempo il “corso forzoso” di tutti i biglietti di banca in circolazione. Questa decisione si rivelò determinante per i destini del Debito Pubblico italiano: se, infatti, prima di tale provvedimento, l’unica alternativa al collocamento di prestiti consolidati (e di Buoni del Tesoro) era stata l’alienazione di patrimoni pubblici, ora si presentava anche percorribile il canale della creazione di moneta. Intanto, però, dobbiamo ricordare che nel giugno 1866 era scoppiata la guerra con l’Austria che fece notevolmente lievitare le spese.

Il ministro Scialoja decise dunque di ricorrere ad un prestito redimibile forzoso interamente collocato in Italia. L’anno dopo l’attenzione del Parlamento fu polarizzata dalla liquidazione dell’Asse ecclesiastico, una delle questioni più lunghe ed intricate della storia della finanza (e dell’agricoltura) italiana. Per quanto riguarda i suoi effetti sul Debito Pubblico, nel giugno 1866, era stata decretata la conversione dei beni delle corporazioni religiose, ma fu nel 1867 che si discusse come effettuarla. Durante la sua breve permanenza al Ministero delle Finanze, Ferrara concluse una convenzione con il banchiere Erlanger, che avrebbe dovuto versare al Tesoro italiano 600 milioni e avrebbe dovuto provvedere alla liquidazione dei beni. La convenzione suscitò la opposizione parlamentare e fu accantonata. Fu invece approvato il disegno di legge Rattazzi (15 agosto 1867) che prevedeva l’emissione d’obbligazioni per 500 milioni nominali per 395 milioni di ricavo netto, obbligazioni da accettare in pagamento dei beni dell’Asse ecclesiastico acquistati dai privati e quindi da annullare. Ma l’accoglimento presso il pubblico di queste obbligazioni non fu buono, così che i 150 milioni della prima tranche vennero depositati presso la Banca Nazionale a garanzia di un anticipo di 100 milioni concesso al Tesoro nel 1868. Nello stesso anno, si pensò di varare un’altra operazione che sistemasse ad un tempo l’amministrazione poco florida del monopolio dei tabacchi e alcuni buchi di bilancio. Fu Cambray­Digny a concludere, nel 1868, con la Società Generale di Credito Mobiliare, la creazione di una Regìa cointeressata dei tabacchi alla quale veniva ceduto per 15 anni l’esercizio del monopolio dei tabacchi: la proposta di Cambray­Digny sollevò una grossa battaglia parlamentare, ma alla fine venne approvata. Dopo un anno (il 1869) di relativa calma, nel 1870 Sella, ritornato al Ministero delle Finanze, si ritrovò di nuovo di fronte al problema del ripianamento dei deficit residui, comunque meno preoccupanti di quelli dei suoi primi ministeri. Nella sua esposizione finanziaria davanti alla Camera dei deputati del 10­11 marzo 1870, Sella concludeva di avere bisogno di altri 200 milioni. “Come si fa, o signori ­ si interrogava ­ a trovare questi 200 milioni? Ecco la questione. Volete procacciarvi tutta questa somma con prestiti? Combinateli con rimborsi, o senza rimborsi, fate quel che volete, se esaminate la cosa attentamente, voi troverete che questi prestiti a rimborso hanno costato tutti assai caro alla finanza, salvo il Prestito Nazionale che fu imposto al paese, e gliene furono quindi imposte le condizioni …Vorreste procedere per prestito forzato, o signori? Una misura di tal genere, per regola, è bene riservarla per i momenti gravissimi pel paese, e poi crederei impossibile di ottenerla oggi”. Sella propose quindi una convenzione con la Banca Nazionale per il versamento di altri 122 milioni, il che avrebbe portato il debito totale del governo verso la Banca a 500 milioni. Nel contempo, si annullarono tutte le obbligazioni ecclesiastiche ancora invendute e si stabilì l’emissione di una nuova serie d’obbligazioni per 333 milioni nominali. Questo prestito venne dato in garanzia alla Banca Nazionale, la quale doveva provvedere al suo collocamento, il cui ricavato sarebbe andato a diminuire l’esposizione del Tesoro nei confronti della Banca. Altri 80 milioni (netti) vennero ricavati con un normale prestito. l “rubinetto” della Banca Nazionale era assai allettante e, in un primo tempo, sembrava privo del tutto di effetti collaterali negativi che non fossero quelli dell’aggio dell’oro. Mentre il deflatore implicito del PIL aumentò in 10 anni (1861­71) di meno del 10%, mostrò poi una forte crescita nel 1872­73 (nei due anni aumentò del 23%). Il mercato dei capitali, praticamente monopolizzato dai titoli pubblici, non lasciava spazio ai titoli privati. Si continuò in tale direzione per sistemare gli ultimi buchi di bilancio, evitando la crescita esponenziale della spesa per interessi che si era verificata nei primi 10 anni: tra il 1862 e il 1871 essa si era pressoché triplicata! Le operazioni di credito con la Banca Nazionale erano però diventate ormai di importo talmente consistente, che la Banca si prestò a farle solo contro deposito in garanzia di titoli di Stato, ossia seguendo il metodo instaurato nel 1870 in occasione della convenzione relativa alle obbligazioni ecclesiastiche. “Sebbene a caro prezzo…. –concludeva J. Tivaroni ­ il Governo allontanava così la necessità di ricorrere a nuovi ingenti debiti per far fronte ai disavanzi dei bilanci e sino al 1881 non troviamo stipulati altri debiti a tale scopo”. I “biglietti di Stato” ascesero nel 1872 a 790 milioni di lire, per raggiungere 940 milioni nel 1875: il tasso d’inflazione s’impennò, passando dal 2 per cento del 1871 al 12 per cento nel 1872. Si chiuse in questo modo il primo grande ciclo della storia del Debito Pubblico italiano, durante il quale si registrò una violenta crescita dello stesso e una progressiva diversificazione delle sue fonti di finanziamento.

Note

[1] Il territorio era diviso in 22 province di cui 15 nel Sud continentale e 7 in Sicilia


Bibliografia e fonti

  • Relazione “Sacchi”, Ministero delle Finanze, Torino 1861
  • Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860, Giacomo Savarese, Napoli – tipografia Gaetano Cardamone – 1862
  • Annuario ISTAT 2002
  • Relazione del Direttore Generale della Banca d’Italia alla Commissione Parlamentare di Vigilanza, Roma, 2001.

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Garibaldi? Ma quale eroe. Fu solo un invasore al soldo dei piemontesi

Posted by on Gen 10, 2019

Garibaldi? Ma quale eroe. Fu solo un invasore al soldo dei piemontesi

Garibaldi? Ma quale eroe. Fu solo un invasore al soldo dei piemontesi E’ ora di dire “basta” a questa paccottiglia su Garibaldi! In un’era in cui si revisiona la Resistenza e la Costituzione (le basi della nostra repubblica), si inizi a picconare quel falso mito del Risorgimento.

Che cosa diremmo oggi se un nugolo di avventurieri, foraggiati dal governo turco, partissero alla conquista di Cipro? Come minimo si beccherebbero l’accusa di terroristi.

E’ possibile nel 2016 sorbirsi la stessa retorica delle camice rosse e dei “mille” e non ricordare che il “merito” di questi pseudoeroi mercenari (come Garibaldi) , foraggiati dalla massoneria e dai servizi segreti britannici, fu solo quello di invadere uno stato sovrano, prospero e secolare come il Regno delle Due Sicilie con la complicità della mafia e delle truppe di uno stato invasore come il regno dei Savoia, alla faccia di ogni diritto internazionale? Ma dove è questa impresa? Ma chi li voleva i “liberatori” gari

baldini e sabaudi? Ma quale stato dovevano liberare? E da chi? Dai loro legittimi sovrani (i Borboni)?

Tutti questi storici ansiosi di celebrare il falso mito di Garibaldi vadano a tirar fuori i dagherrotipi e i documenti custoditi negli archivi delle Prefetture e delle Questure del Sannio, dell’Irpinia, della Puglia, della Lucania, degli Abruzzi, del Molise, della Terra di Lavoro, della Calabria (insomma di quasi tutto il Sud) e restino scioccati dalle stragi, dagli incendi, dalle devastazioni, dai genocidi compiuti dal 1860 al 1865 nel sud Italia durante quello che al storiografica dell’Italietta ottocentesca definitì “Brigantaggio” e che invece fu solo una grande guerra di popolo e di liberazione repressa nel sangue! Al confronto degli artefici di queste “imprese” Kappler, Reder e Priebke sono dei dilettanti!

Tutti noi ricordiamo (e anche giustamente – Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Caiazzo e altri luoghi delle rappresaglie nazifasciste. Ma chi ricorda, chi ha dedicato vie e piazze e monumenti a Castelduni, Pontelandolfo, a Gaeta, a Civitella del Tronto e ai centinaia e centinaia di paesi del Regno delle Due Sicilie messi a ferro e fuoco dall’esercito invasore piemontese che trattò il neoconquistato Regno di Francesco II di Borbone come o peggio di una colonia? Nemmeno il Fascismo si spinse a così tanta barbarie e repressione nei confronti dei libici negli anni ’20 e ’30.

Non vogliamo – giustamente – avere vie e piazze intitolate a Tito, ma accettiamo che lo siano a Bixio, Farini, Cialdini e al mercenario Garibaldi, che furono solo dei criminali di guerra. Sì, anche Garibaldi perché la prima rappresaglia, quella di Bronte, fu compiuta propria dai suo fedelissimi generali. Perché non dire finalmente quella che fu la con

quista del Regno delle Due Sicilie, il tradimento messo in atto dalla massoneria e dai corruttori inviati da Cavour che si comprarono ministri del governo borbonico?

Perché non ricordare che i tanto celebrati “Mille” vennero a patti con la Mafia siciliana e con la Camorra napoletana per comprarsi i potentati locali? E perché non ricordare che il popolo, quello vero, i meridionali rimasero fedeli, fino alla morte più atroce, al loro Re e alla loro Patria? Le gesta di schiere di cafoni e di cosiddetti “briganti” (Ninco Nanco, il generale Borghes, Carmine Crocco), che nulla hanno da invidiare ai partigiani della Secondo Guerra mondiale? Anzi, diciamola tutta: la vera Resistenza, intesa come lotta di popolo, che l’Italia ha conosciuto non è quella del ’43-45, ma quella vissuta nel Sud Italia dal ’60 al ’65!

Non sono chiacchiere: basta leggere i documenti! Invece di allestire mostre sui “cimeli” garibaldini, gli storici e i curatori di musei, facciano vedere al pubblico gli orrori che i bersaglieri, i carabinieri e i garibaldini commisero ai danni dei sudditi di Re Francesco. Immagini di donne stuprate, di uomini massacrati, torturati, decapitati, di villaggi incendiati, di montagne deforestate.

Perché nessuno ha il coraggio di ammettere che la nascente industria settrentrionale fu foraggiata con il denaro pubblico delle casse statali borboniche? Perché nessuno ha il coraggio di ammettere che il denaro pubblico e le riserve auree del secolare Regno di Napoli furono depredate per ripianare il debito pubblico del Piemonte? Perché non riveliamo che subito dopo la “liberazione” dei Mille e dei Piemontesi, nei villaggi dal Tronto allo Ionio i contadini si affrettarono ad abbattere le insegne tricolori degli invasori e ad issare di nuovo la loro vera e legittima bandiera, il giglio borbonico?

Perché non ammettiamo che i famosi plebisciti del 1861 furono una farsa in quanto vi parteciparono solo il 2% della popolazione in seggi elettorali che erano tutto un trionfo di stemmi sabaudi, busti del “re” cosiddetto “galantuomo” e di tricolori che ben presto di sarebbero macchiati del sangue dei meridionali? Perché nessuno ha il coraggio di ammettere che l’eroe dei due Mondi aveva il vizio di andare a “rompere le scatole” – come diremmo oggi – agli stati sovrani, prendendosela anche con lo Stato pontificio (1866) che al tempo non aveva nulla da invidiare all’Iran degli Ayatollah in quanto a … liberalismo, ma era pur sempre uno stato sovrano i cui sudditi non smaniavano certo di passare sotto i Savoia? Perché questa sinistra che si professa libertaria, si impossessa del “mito Garibaldi” o del mito della repubblica partenopea, di realtà che in fondo erano solo l’esplicitazione della repressione delle patrie e dei popoli?

Quando si parla del Sud, del suo sottosviluppo post unitario, della sua arretratezza, bisogna una volta per tutte, anche a scapito del meriodionalismo straccione e piagnucolone di Giustino Fortunato, di De Sanctis, di Tommaseo e di altri intellettuali che oggi potremmo definire tranquillamente come “venduti e traditori”, ebbene bisogna avere il coraggio di ammettere che quel sottosviluppo ha un responsabile ben preciso: la repressione feroce, anche ambientale, che il governo di Torino compì sulla colonia quale era considerato l’ex Regno delle Due Sicilie.

Da quella forzata “Unità d’Italia” si avvantaggiò quella classe borghese e arruffona che è stata la rovina del Sud e di tutta l’Italia. Se di eroi si deve parlare, questi non sono i piccolo borghesi avidi di affari al seguito del mercenario Garibaldi, Nel XXI° secolo è ora di celebrare i patrioti e gli eroi che resistettero fedeli al loro re Borbone a Gaeta e a Civitella del Tronto, e ai sudditi meridionali che furono massacrati, deportati nei lager del Piemonte, imprigionati.

Quanti sanno che a Fenestrelle, vicino Cuneo, operò un vero e proprio campo di concentramento dove furono confinati e lasciati morire migliaia e migliaia di capi briganti, ex ufficiali borbonici, capi contadini, colpevoli secondo la storiografia italica di “non volere l’Italia”, in realtà colpevoli solo di voler difendere la loro Patria! A Francesco II e il suo Regno, abbandonati da tutti, da Vienna, dagli zar (pur suoi alleati), dalla Royal Navy che pure poteva intervenire per fermare i “Mille”, mancò una cosa: un esercito di popolo fatto di contadini, di artigiani, di commercianti, delle classi umile ma maggioritarie allora.

Se il Regno di Napoli avesse avuto un esercito di popolo (sul modello francese) e non di mercenari, stiamo certi che i “Mille” non avrebbe neanche fatto un passo in più sulla costa di Marsala.

Fonte: orgoglio sud

Tratto da: La Verità di Ninco Nanco

fonte https://www.jedanews.it/blog/garibaldi-invasore-eroe-inventato/?fbclid=IwAR15Rm09yQoac6xgJTfAeDB6qDxQxet_1Q9sN_b4Y0lWoAUyjPlqrDgQm3g

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Pino Aprile: meglio terroni che carnefici

Posted by on Gen 9, 2019

Pino Aprile: meglio terroni che carnefici

FRASCATI (Roma). Una quarantina di ulivi pugliesi di razza purissima e undicimila libri. Giuggioli e corbezzoli, uvaspina, lamponi, piante officinali, sorbe, amarene, salvia, menta, mentuccia e rosmarino. Un telefono in continua ebollizione meridionalista, visto che Pino Aprile, giornalista di storia e di rango, si sciroppa almeno 150 conferenze all’anno sulle malefatte dei piemontesi ai danni del Meridione e dei meridionali («ma perché poi ci chiamano “meridionali”? Che parola è? Noi siamo napoletani, pugliesi, calabresi, lucani, siciliani, irpini, sanniti e salentini. “Meridionali” è una non identità»).

È la cornice (appena fuori Frascati) e il quartier generale del Braveheart del Sud, l’uomo a cui decine di associazioni, movimenti e partitini vorrebbero affidare il riscatto civile, politico e economico del Sud Italia. Nel 2013 riuscirono a trascinarlo a Bari in una grande convention nella speranza di incoronarlo leader di un nuovo movimento unitario. Ma Pino Aprile fece il gran rifiuto. «Io sono uomo di informazione e quindi ho progettato un quotidiano del Sud che prima o poi farò. Ma non me la sento di tuffarmi nella politica attiva». Con gran sollievo dei due più solidi condottieri meridionalisti, il presidente della regione Puglia Michele Emiliano e il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, a cui Aprile avrebbe forse potuto sfilare il vessillo del riscatto.

Aprile, e se glielo chiedessero di nuovo oggi?
«Direi sempre di no. E poi, se un giorno decidessi di impegnarmi in un intervento politico vorrebbe dire che la situazione è precipitata e il Paese è sull’orlo dell’abisso». La teoria dell’abisso italiano ha assunto di recente numerose forme (la catastrofe etnica, l’incompetenza al potere, il separatismo lombardo- veneto), ma non ancora quella della riscrittura completa del Risorgimento e della rivendicazione meridionalista. Anche se in realtà è un bel po’ che Aprile, e non da solo, tiene viva questa brace. L’idea è che, se non si fanno i conti con la storia, se non si spiega che l’Unità d’Italia non è stata processo di unificazione bensì di allargamento del Piemonte, che non è stata fiduciosa fusione ma feroce colonizzazione costata decine di migliaia di vittime innocenti, stermini alla Pol Pot e distruzioni in stile cartaginese, non è stato progresso e benessere bensì saccheggio di una parte d’Italia che se la cavava egregiamente e non sentiva affatto la mancanza di Garibaldi. Se non si riesce a far questo non si va da nessuna parte.

Aprile parla, nei suoi libri (bestseller), di un dolore antico, di un’eco cupa che risuona nelle terre del Sud come il gemito dell’universo dal giorno del Big Bang. La terapia, secondo lui, è psicoanalitica. «L’Italia continuerà a soffrire fino al giorno in cui non raggiungeremo la consapevolezza della tragedia, e ne piangeremo tutti insieme. Dobbiamo capire che siamo nati divisi e che è stata una divisione a mano armata». Un po’ sul canovaccio di ciò che è successo in Sudafrica negli anni 90 con la Commissione per la verità e la riconciliazione che pose fine all’Apartheid.

A dire la verità, pur nel dramma storico raccontato da Aprile (e da numerosi altri ricercatori) nei suoi libri, spunta qua e là non solo l’eco del dolore ma anche quello del piagnisteo. È pur vero che il Piemonte invasore e malnato fece strage e terra bruciata e usò la fucilazione come rimedio di ogni male, ma è anche vero che sono passati più di 150 anni. In 60 anni, quel mucchietto di cenere che era la Germania del dopoguerra è tornata a guidare l’Europa. Possibile mai che le classi dirigenti meridionali siano così inette e distratte?

«Classe dirigente? Quale classe dirigente?» reagisce Aprile. «La classe dirigente del Meridione è coloniale, quelli che non si allineano al potere esogeno vengono eliminati. Gaetano Salvemini si candidò a Gioia del Colle e mafiosi e fascisti truccarono le elezioni per farlo fuori. Falcone, Borsellino, Rocco Chinnici, Giancarlo Siani, non erano forse classe dirigente? Li hanno ammazzati. Chi sono gli unici politici non assoggettati al potere centrale? De Magistris e Emiliano. E a chi fa la guerra il governo italiano? A loro».

«E poi, senta, questa storia che è passato tanto tempo va rovesciata. Noi non stiamo parlando di cose che sono successe 150 anni fa. Ma di cose che succedono da 150 anni, dall’indomani di un genocidio, e non uso questa parola per caso. L’identità meridionale andava cancellata. Ci sono scritti di ufficiali piemontesi che affermano: “sono napoletani e nemmeno se ne vergognano…”. È chiara l’idea?». Certo che è chiara. Ma è anche vero che le tesi di Aprile hanno trovato fieri contestatori, come lo storico torinese Alessandro Barbero che ha replicato colpo su colpo.

Aprile è un fiume in piena:  «La questione meridionale viene costruita prima con le armi e poi con politiche che tolgono al Sud per portare al Nord. Giustino Fortunato, l’apostolo supremo dell’Unità d’Italia, lucano, muore maledicendola: “Non c’è dubbio che la nostra condizione sotto i Borbone fosse profittevole e questi ci hanno rovinati. Sono porci, molto più porci dei porci nostri”». L’esito concettuale e interpretativo (e anche terribilmente assolutorio) di queste tesi è intuitivo. Se il Meridione d’Italia combatte con l’arretratezza sociale ed economica tutto nasce dalla ferita mai rimarginata dell’unificazione italiana. Il Nord piemontese è il carnefice e il Meridione la vittima. Anche dopo un secolo e mezzo.
«Guardi che il sistema di potere che nasce in quegli anni lontani è esattamente quello che regge ancora oggi il Paese.

Lo storico Francesco Benigno (docente all’università di Teramo) ha spiegato come la criminalità venne associata dal Piemonte sabaudo al potere politico ed economico. Nasce lì la mafia. Mafia, anzi  maffia, con due effe, è una parola piemontese. Certificata dall’Accademia della Crusca. La prima cosca mafiosa nasce nel 1963 a Monreale, creata dal questore di Palermo, che ci mette a capo suo genero. Lo schema è quello tutt’ora in voga. Fate i vostri traffici e commettete pure i vostri crimini, magari senza esagerare, ma arriverà il momento in cui vi chiederemo collaborazione. È qui che nascono i delitti politici, gli attentati contro gli oppositori e i nemici del sistema. Guardi che a me queste cose le spiegava Rocco Chinnici e io avevo 29 anni. Ma tutto questo nei libri di scuola non c’è».

fonte https://www.repubblica.it/venerdi/interviste/2017/09/27/news/ma_io_vi_dico_meglio_terroni_che_carnefici-176625681/

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La presa di Gaeta

Posted by on Gen 6, 2019

La presa di Gaeta

Lo spunto per questa succinta esposizione dell’assedio e della presa di Gaeta, avvenuta il 13 Febbraio 1861, parte da una lettera indirizzata al Gen. Cialdini che all’ epoca dirigeva le operazioni militari contro la piazzaforte.


Questa lettera parte da Procida il 5 Gennaio con destinazione Napoli e da qui “corretta” a Mola di Gaeta.


In arrivo a Mola viene apposto l’annullo “R. Posta Mil. e Sarda ( )”.


Purtroppo il numero della posta militare non è visibile, ma si ritiene sia il n. 1 poiché il Possolini Gobbi nel suo “lettere dei combattenti del risorgimento” assegna questo numero al comando delle operazioni.


Per poter meglio descrivere l’interessante documento postale tracciamo una breve panoramica dell’ultima battaglia di Francesco II dentro la fortezza di Gaeta desunta, oltre che dal citato volume del Pozzolini Gobbi, anche dal volume di Piero Pieri “storia militare del risorgimento”, nonché dal volume di S. Romito “Le Marine Militari italiane nel risorgimento”.


La fortezza di Gaeta era ritenuta imprendibile dato che nel 1806 resistette per 5 mesi al Massena, sotto il comando del principe d’Assia Philippstadt e nel 1815 il gen. Begani tenne testa agli austriaci coi resti dell’esercito di Murat.


I borbonici difendevano la fortezza con 12.500 uomini, con 690 tra cannoni, obici e mortai e avevano di contro il IV corpo d’armata, composto da 3 divisioni, e parte del V corpo, al comando del generale Cialdini.


Proteggevano la fortezza dal lato mare le navi della squadra navale francese che con la loro presenza ostacolavano le operazioni della squadra sarda; tanto è vero che, pare, artiglieri francesi si erano uniti con gli artiglieri della piazza di Gaeta per concorrere a mettere in posizione le batterie a mare e a far fuoco sulla squadra sarda.


L’assedio vero e proprio della piazza inizia il 5 novembre, mentre sono in corso trattative diplomatiche tra l’Italia e la Francia con l’evidente scopo di Napoleone III di intralciare l’azione militare italiana.


Il 29 novembre gli assediati tentano una sortita, ripetuta il 4 dicembre, di tentare di infrangere il cerchio che serra la fortezza, ma senza nessun esito fruttuoso.


Intanto i bombardamenti continuano sempre più intensi da parte dei sardi.


Il re e Cavour vogliono un successo immediato poiché il 25 ottobre, nello storico incontro di Teano, il re aveva defenestrato Garibaldi e tutto l’esercito meridionale e quindi premeva loro di dimostrare all’opinione pubblica che l’esercito regolare si era battuto con successo contro i borbonici contribuendo tangibilmente alla liberazione del mezzogiorno.


Ma i borbonici e Francesco II non sono dell’opinione di abbandonare la lotta. Il re vuole riscattare il suo atteggiamento tentennante e indeciso nei confronti dell’esercito garibaldino con una strenua difesa, e della stessa opinione sono i soldati che vogliono conservare l’onore delle armi e chiedono insistentemente la difesa a oltranza della piazza.


L’8 gennaio Napoleone ottiene una tregua d’armi di 10 giorni, ma è costretto a concedere in contropartita l’allontanamento da Gaeta della squadra navale francese.


“Apparvero subito” – narra il Romito – “provenienti da Napoli, la Costituzione e le cannoniere Ardita e Veloce seguite poi dalla Maria Adelaide, la Carlo Alberto e la Vittorio Emanuele, nonché la Monzambano e la Garibaldi”.


Il 22 gennaio la squadra italiana, che ormai tale era diventata, aprì il fuoco contro le batterie del fronte a mare della piazza.


Qui i pareri tra gli storici si fanno discordi sull’aiuto della squadra nelle operazioni. Il Pieri sostiene che l’azione della flotta risulta inefficace, mentre il Romito afferma che sebbene il tiro delle navi risulti impreciso, il contributo della flotta è sostanziale.


Il 25 gennaio scoppia il tifo nella guarnigione. I piemontesi scoprono ogni giorno nuove batterie, mentre il tifo aumenta d’intensità i danni alla piazza sono ormai rilevanti.


A questo momento drammatico si riallaccia la nostra lettera, che presumibilmente il gen. Cialdini ha già ricevuto e che dice testualmente: “Angelo Giordano fu Carmine, Antonio Spirito fu Ferdinando, forzati nel bagno di Procida, rispettosamente rassegnano all’E.V. qualmente avendo nella qualità di maestri muratori travagliato nella fortezza di Gaeta, e vedendo la tragedia che ne si sta facendo spinti quali figli della patria nel dovere di umanità ed attaccamento che devesi al re galantuomo, si rivolgono all’innata bontà e giustizia dell’E.V. acciò si compiacerà chiamarli della di lei autorità per indi fargli conoscere il mezzo e il modo di adoperarsi per il felice trionfo che eseguiranno mediante l’aiuto del potente braccio dell’E.V.


Tanto sperano dall’E.V. mentre non ponno affidare alla carta né ad altra autorità per quanto ha per scopo il punto umiliato foglio.


Bagno di Procida 4 gennaio 1861″.


E’ una lettera sibillina che non dice niente di primo acchito, anzi sembrerebbe una supplica.


Infatti non è facile capire quello a cui i due ergastolani alludono “avendo travagliato nella fortezza di Gaeta, e vedendo la tragedia che ne si sta facendo”, che asseriscono di agire “quali figli della patria…” e che vogliono “fargli conoscere il mezzo e il modo di adoperarsi per il felice trionfo che eseguiranno mediante l’aiuto del potente braccio dell’E.V.”.


Solo alla fine della lettera, per il timore di essere stati troppo evasivi i due maestri muratori si fanno più espliciti e dicono che “non ponno affidare alla carta né ad altra autorità per quanto ha per scopo il punto umiliato foglio”.


Un importante segreto, quindi, legato al fatto che hanno lavorato nella fortezza di Gaeta, che possono dire soltanto di persona al generale e che permetterà di porre fine alla “tragedia che se ne sta facendo”.


A questo punto ogni dubbio sulla missiva è sciolto. Ciò che vogliono dire Angelo Giordano fu Carmine e Antonio Spirito fu Ferdinando è che conoscono un modo, certamente segreto, di penetrare nella fortezza di Gaeta, così da sorprendere e rendere inoffensivi gli assediati.


Giocano d’azzardo i due maestri muratori oppure conoscono veramente quel segreto?


La storia ci conferma comunque che la piazza di Gaeta non fu presa con l’astuzia ma con la forza, e dopo altre abbondanti perdite umane.


Infatti fino al 13 febbraio continua l’incessante martellamento da parte delle batterie italiane, con danni notevoli alle case che fanno molte perdite tra i civili.


La sera del 13 febbraio si giunge alla fase conclusiva delle trattative per la resa senza che per un solo minuto si sia ordinato il “cessate il fuoco”!


Constatata la difficoltà della situazione, tra tifo, cannoneggiamenti e difficoltà di approvvigionamento, la sera del 13 viene firmata la resa della piazzaforte e il 14 febbraio Francesco II s’imbarca su una nave francese.


Da parte napoletana si lamentano 560 morti per azioni di guerra e 307 per tifo, 800 feriti, 743 dispersi. I piemontesi denunciano 50 morti e 350 feriti.


La caduta di Gaeta viene consegnata alla storia come prova del valore italiano. Chissà quale giudizio avrebbero dato allora l’opinione pubblica e ora gli storici se la presa di Gaeta fosse avvenuta nel modo indicato dai due forzati. 

Giuseppe Marchese

fonte https://www.eleaml.org/sud/den_spada/presa_di_gaeta.html

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