Posted by altaterradilavoro on Giu 21, 2019
Nel 1836 Mazzini venne espulso anche dalla Svizzera e dovette cercare riparo a Londra con l’aiuto della famiglia di Mayer Moses Nathan (1799-1859), presunto Rothschild. Anche la moglie Sara Levi Nathan (1819-1882) e il figlio Ernesto (1845-1921) avevano stretti contatti con Mazzini. In generale la famiglia Nathan era anticlericale estremista e protettrice di “patrioti”. Erano talmente estremisti che avevano comprato una cappella sconsacrata appositamente per riconvertirla a “latrina” per massoni, ai quali veniva pure insegnato a sputare su Cristo, erudimento che non fu negato al nostro Mazzini. Ernesto divenne anche Gran Maestro del GOI nel 1896 e sindaco di Roma nel 1907, eletto dagli anticlericali romani che così ruppero la tradizione di eleggere un appartenente a una delle antiche famiglie romane. Esprimeva pubblicamente il suo anticlericalismo: <la moltitudine, disillusa dal Cristianesimo, la cui anima deista sarà in quel momento senza riferimenti, assetata di un ideale, ma senza sapere dove dirigere la sua adorazione, riceverà la Vera Luce dalla manifestazione universale della pura dottrina di Lucifero, resa pubblica; una manifestazione che sorgerà dal movimento generale di “reazione”, che seguirà la distruzione dell’Ateismo e del Cristianesimo, entrambi conquistati e sterminati allo stesso tempo>. Ernesto Nathan fu anche uno dei più autorevoli detrattori ufficiali dell’affiliazione massonica mazziniana.
Mazzini fu accolto a Londra dallo storico Thomas Carlyle (1795-1881) che lo introdusse nei circoli più elitari della capitale il 13 gennaio 1837. Qui Mazzini ebbe modo di conoscere importanti intellettuali inglesi come Charles Darwin. Thomas Carlyle confessò nelle sue memorie di mal sopportare la frequentazione di Mazzini, infastidito dal “suo incoerente giacobinismo e georgesandismo”, considerava le opinioni di Mazzini “incredibili e, insieme tragicamente e comicamente, impraticabili in questo mondo”. Nelle sue lettere Carlyle arrivò addirittura a liquidare Mazzini come “curiosità folcloristica” di sua moglie, Jane Welsh, la quale affermò di aver più volte fatto fallire le “matte avventure” di Giuseppe al fine di impedire che venisse ucciso, rivelando indiscrezioni sui suoi progetti futuri a conoscenti altolocati.
Alla luce delle testimonianze dei Carlyle, il nostro “eroe nazionale” era considerato un personaggio “tarato”, facilmente manipolabile facendo leva sulle sue ossessioni, le manie di persecuzione, il suo bipolarismo depressivo o l’odio viscerale verso tutto il genere umano durante le sue frequenti crisi nervose. La conferma di questo stato d’animo alterato viene dallo stesso Mazzini in una lettera a Giuditta Bellerio Sidoli: <Vorrei tanto mostrare affetto agli uomini, cioè di far loro del bene, ma non voglio più vederli. Sono malato moralmente – ho convulsioni morali come altri possono avere convulsioni fisiche – ci sono momenti in cui vorrei voltolarmi per terra e mordermi come un serpente (…). Porto un odio per gli uomini! Se tu potessi vedere il riso satanico che porto per essi sulle mie labbra!>
Ciononostante Carlyle mantenne l’amicizia e il suo protettorato per una decina d’anni con Mazzini esclusivamente per interessi strategici della massoneria. Era infatti un periodo di svolta cruciale per la massoneria. Il 18 novembre del 1830 il leader degli Illuminati di Baviera, Jean Adam Weishaupt, morì all’età di 82 anni, ben 43 anni dopo l’incompiuta condanna a morte sancita in Baviera. Il 28 luglio 1836 morì il capofamiglia Rothschild, Nathan Mayer, a causa di una infezione e il suo impero venne lasciato a suo figlio Lionel Nathan (1808-1879), mentre la guida della famiglia passò a suo fratello Jakob (James) Mayer (1792-1868) che era stanziato a Parigi. L’intera organizzazione massonica venne modificata dai nuovi leader e si aprì un’opportunità per Mazzini. L’elite aveva infatti deciso di sfruttare l’implacabile istinto reazionario di Mazzini e di affidargli il lavoro “sporco” delle provocazioni terroristiche che avrebbero dovuto favorire la rivoluzione mondiale, una ruolo che ricoprì fino alla sua morte nel 1872. Il suo soprannome nel ramo speculativo di questo nuovo impulso reazionario massonico sarebbe stato “Emunach Memed”. A riguardo del suo acquisito nuovo livello di conoscenza delle società segrete internazionali, è quantomeno curioso riportare cose Mazzini scrisse il 27 luglio 1844 da Londra nei riguardi dei Rothschild: <Il Vitello d’oro è onnipotente in Francia e (James) Rothschild potrebbe diventare re, solo se lo volesse>.
Mazzini riuscì così a compensare una serie infinita di fallimenti politico-insurrezionalisti con una incredibile carriera nelle organizzazioni segrete, unico aspetto tale da giustificare la sua postuma glorificazione. Tutto però fa pensare che il ruolo di Mazzini anche in questo caso fosse strumentale o meglio che la setta, che si ispirava evidentemente all’ormai estinto Ordine degli Illuminati, fosse però orientata ad un ruolo più operativo rispetto all’approccio di Weishaupt.
A Londra Mazzini venne introdotto a cospetto dell’illustre massone (e primo ministro inglese) Lord Henry John Temple, III Visconte Palmerston (1784-1865) e del “Comitato Rivoluzionario Internazionale”. Questa organizzazione fungeva da coordinazione suprema di tutti i movimenti massonico-insurrezionalisti che a breve avrebbero dovuto partecipare alla rivoluzione europea e tra gli esponenti di spicco, oltre a Mazzini, c’erano l’ungherese Lajos Kossuth (1802-1894) e il francese Alexandre Ledru-Rollin (1807-1874).
Lord Palmerston era un illustrissimo massone, primo ministro della regina Vittoria, membro dell’elitario ordine cavalleresco dei Knights of the Garter, una delle persone più influenti d’Europa e strettamente legato alla famiglia Rothschild. Era un eccellente esempio di occultista che pratica rituali satanici, ma che pubblicamente dichiara di essere cristiano. Palmerston è da considerare come il grande architetto degli sconvolgimenti geopolitici del continente nel XIX sec. Con la sconfitta della cattolica Austria e l’ascesa al potere del principe cancelliere di Prussia Otto von Bismarck, ha guidato le sorti di Napoleone III. Con l’elezione del massone Camillo Benso conte di Cavour come primo ministro della Sardegna e sostenendo l’attività reazionaria dei confratelli Mazzini e Garibaldi, fu anche uno dei maggiori artefici della repubblica italiana. La prima riunione dei Friends of Italy si tenne a Londra nella storica Freemasons’ Tavern [da “L’Inghiletrra di Mazzini” di E. Morelli].
Nonostante queste alte frequentazioni massoniche inglesi e della sua importante influenza sulla massoneria italiana, in realtà non vi sono fonti né massoniche, né extra-massoniche che certifichino l’affiliazione di Mazzini ad un rituale regolare massonico, ma solo della sua appartenenza alla loggia irregolare dei “Philadelphes” o della già citata sommaria iniziazione nel carcere di Savona che Mazzini stesso ridicolizza (mentre l’affiliazione di suo padre alla loggia genovese “Gli Indipendenti” è ufficialmente certificata dal Grand’Oriente d’Italia). Questo sarebbe anche comprensibile vista la peculiare conformazione ideologica Mazziniana non propriamente allineata nemmeno con la massoneria, ma in ogni modo possiamo considerarlo se non un massone a tutti gli effetti, per lo meno un illustre precursore del para-massonismo che include persone che non appartengono alla massoneria, ma che ne sono direttamente collegati e agiscono come se ne fossero appartenenti (più malignamente detti “utili idioti”).
Giuseppe Mazzini, nonostante questo nuovo incarico supremo, che lo impegnò anche nel continente americano oltre che in tutta Europa, continuò la propria attività “strettamente personale” sul territorio italiano con immutata strategia e quindi sempre con scarsi risultati, forse solo come copertura del suo nuovo ruolo. Anche questo è un segnale che Mazzini nella gerarchia massonica non era propriamente al livello decisionale, ma più che altro operativo e in questo momento doveva rispettare la volontà dei suoi superiori di dedicare gli sforzi della massoneria in America.
Come già citato Mazzini conobbe Helena Petrovna Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica, durante il suo soggiorno a Londra e cominciò con lei una collaborazione che la portò addirittura a combattere nella battaglia di Mentana con le truppe garibaldine. Da parte sua Mazzini rimase invece profondamente influenzato dalle teorie teosofiche sulla reincarnazione.
In generale si può comunque dire che la stessa (ufficiosa) affiliazione massonica era da Mazzini vissuta in maniera conflittuale, un po’ come aveva inteso quella carbonara, poiché pur condividendone le finalità ne contestava la natura troppo elitaria, mentre lui avrebbe preferito una Massoneria di Popolo più universale e il suo pragmatismo patriottico era molto più incline all’estremo attivismo politico che ad ogni forma di spiritualità, occultismo incluso.
fonte https://actualproof.wixsite.com/appuntidiviaggio/single-post/2014/05/07/Giuseppe-Mazzini-e-la-massoneria-internazionale
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Posted by altaterradilavoro on Mag 15, 2019
Breve ritratto fuori degli schemi di Giuseppe Mazzini,
uno dei cosiddetti “padri della patria risorgimentale”. Massone, esoterista,
assertore della reincarnazione, sacerdote di una nuova religione universale di
carattere iniziatico, che avrebbe dovuto sostituire la fede cattolica e
conquistare il mondo partendo da Roma, “città rinata per la terza volta, dopo
l’età classica e quella cristiana”.
La sua figura, ricordata nei libri di storia con il consueto corredo di
falsità mitologiche, è invece ben conosciuta per ciò che effettivamente era
negli ambienti esoterici internazionali, tanto che alla “protezione del suo
fantasma” è stata affidata la filiale torinese di uno dei culti spiritisti più
diffusi in Europa.
L’articolo è di Angela Pellicciari ed è stato pubblicato dalla rivista Il
Timone (il timone.org) sul n. 22 del novembre/dicembre 2003.
Risorgimento esoterico: Mazzini
Giuseppe Mazzini: genovese, avvocato, di professione cospiratore. E, col senno di poi, “padre” della patria. Di cosa è padre esattamente Mazzini? Di quale patria?
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Posted by altaterradilavoro on Mag 1, 2019
Il Risorgimento visto da un nobile irlandese:
le ombre del governo sabaudo
Patrick
Keyes O’Clery, irlandese, aveva 18 anni quando nel 1867 si arruolò tra gli
Zuavi per difendere il Papa: partecipò alla battaglia di Mentana dall’altra
parte, ossia contro i garibaldini. A 21 anni, nel 1870, è nel selvaggio West
americano a caccia di bisonti. Ma, appreso che l’esercito italiano si prepara a
invadere lo Stato Pontificio, torna a precipizio: il 17 settembre ‘70 è a Roma
di nuovo. E’ filtrato tra le linee italiane con due compagni, un nobile inglese
e un certo Tracy, futuro deputato del Congresso Usa. In tempo per partecipare,
contro i Bersaglieri, ai fatti di Porta Pia.
Tornato
in Inghilterra ed eletto parlamentare, si batterà per l’autonomia dell’lrlanda.
Nel 1880 abbandona la politica per dedicarsi all’avvocatura. Morirà nel 1913,
avendo lasciato due volumi sulla storia dell’unificazione italiana. L’opera,
che le edizioni Ares di Milano manderanno in libreria alla fine di agosto
(Patrick K. O’Clery, La Rivoluzione Italiana.
Come
fu fatta l’unità della nazione, 780 pagine, 48 mila lire), sarà presentata al
prossimo Meeting di Rimini giovedì 24 agosto. Opera stupefacente degna del suo
avventuroso autore, dovrebbe essere letta nelle scuole italiane: e non solo
come esempio di revisionismo storico precoce e antidoto alla mitologia del Risorgimento.
Vedere l’Italia con l’occhio di uno straniero di cultura anglosassone – allora
il centro culturale e politico del mondo – risulterà salutare.
Esempio.
A proposito del brigantaggio del Sud, stroncato In anni spietati dal Regno
d’Italia, O’Clery riporta voci di dibattiti parlamentari a Torino. Il deputato
Ferrari, liberale, che nel novembre 1862 grida in aula: “Potete chiamarli
briganti, ma combattono sotto la loro bandiera nazionale; potete chiamarli
briganti, ma i padri di quei briganti hanno riportato due volte i Borboni sul
trono di Napoli.
E’
possibile, come il governo vuol far credere, che 1500 uomini comandati da due o
tre vagabondi tengano testa a un esercito regolare di 120 mila uomini? Ho visto
una città di 5 mila abitanti completamente distrutta e non dai briganti”
(Ferrari allude a Pontelandolfo, paese raso al suolo dal regio esercito il 13
agosto 1861).
O’Clery riferisce i dubbi di Massimo D’Azeglio
(non certo un reazionario) che nel 1861 si domanda come mai “al sud del
Tronto” sono necessari “sessanta battaglioni e sembra non
bastino”:
“Deve esserci stato qualche errore; e bisogna cangiare atti e principii e
sapere dai Napoletani, una volta per tutte, se ci vogliono o no… agli Italiani
che, rimanendo italiani, non volessero unirsi a noi, credo non abbiamo diritto
di dare delle archibugiate”.
Persino Nino Bixio, autore dell’eccidio di
Bronte, nel ‘63 proclamò in Parlamento:
“Un sistema di sangue è stato stabilito nel Mezzogiorno. C’è l’Italia là,
signori, e se volete che l’Italia si compia, bisogna farla con la giustizia, e
non con l’effusione di sangue”.
O’Clery
non manca di registrare giudizi internazionali sulla repressione. Disraeli,
alla Camera dei Comuni, nel 1863: “Desidero sapere in base a quale
principio discutiamo sulle condizioni della Polonia e non ci è permesso
discutere su quelle dei Meridione italiano. E’ vero che in un Paese gl’insorti
sono chiamati briganti e nell’altro patrioti, ma non ho appreso in questo
dibattito alcun’altra differenza tra i due movimenti”.
O’Clery
fornisce alcune cifre. Tra il maggio 1861 e il febbraio 1863, l’esercito
italiano ha catturato “con le armi” e perciò fucilato 1038 rivoltosi;
ne ha uccisi in combattimento 2.413; presi prigionieri 2.768.
Inoltre;
“Secondo Bonham, console inglese a Napoli, sistematicamente favorevole ai
piemontesi, c’erano almeno 20 mila prigionieri politici nelle carceri
napoletane”, ma secondo altre stime 80 mila. I più – indovinate – in
attesa di giudizio, o addirittura del primo interrogatorio, “senza sapere
di cosa fossero accusati”, in celle sovraffollate: testimonianza di Lord
Henry Lennox, un turista di rango che nel 1863 visitò appunto le prigioni di
Napoli.
Altro
esempio: la politica finanziaria del neonato Regno d’Italia. Non vi stupirà
sapere che l’Italia anche allora covava un deficit mostruoso. O’Clery fornisce
dati precisi di bilancio. Ma basterà un suo dato: il deficit del Regno nel 1866
fu di 800 milioni di lire,
“Cifra
pari alla metà delle entrate della Gran Bretagna e lrlanda”, ossia del
Paese allora più ricco d’Europa. Deficit coperto da “prestiti e ipoteche
sui beni nazionali, vendita di beni demaniali e istituzione di monopoli”,
ovviamente coperti da stranieri, prodromo e causa della durevole dipendenza
italiana da interessi finanziari estranei. “Altra grande risorsa fu la
rapina ai danni della Chiesa”, la confisca dei beni e degli ordini
religiosi, “che nel solo 1867 fruttò 600 milioni”.
La
condizione della Chiesa nel Regno viene così riassunta dal nostro irlandese:
“Esilio e arresto di vescovi; proibizione di pubblicare le encicliche
papali; detenzione di preti e sorveglianza della loro predicazione;
soppressione di capitoli e benefici e incameramento dei beni; chiusura di
seminari; leva obbligatoria per i seminaristi; rimozione delle immagini religiose
sulle vie e divieto di processioni”.
Se
il lettore d’oggi troverà in questo riassunto qualche tratto anacronisticamente
sovietico, non è tutto. Leggendo O’Clery, finirà per chiedersi se i cronici
mali italiani che siamo abituati a considerare “retaggi borbonici”
(ottusità amministrativa, inefficienza e improvvisazione, centralismo
autoritario) o persino “fascisti” (tracotanza guerrafondaia) non
sarebbero invece da ribattezzare savoiardi o piemontesi.
L’enorme
deficit del regno, scrive O’Clery, è dovuto alle spese per mantenere “il
più grande esercito d’Europa” e formare “una marina imponente per
numero e qualità”, nel tentativo di “recitare il ruolo di grande
potenza”. Quel costoso esercito fu come noto sconfitto dagli austriaci a
Custoza, per l’insipienza dell’”eroe” Lamarmora (ma anche Garibaldi,
che proclamò di prendere Monaco “in quindici giorni”, fu bloccato in
Trentino da pochi jaeger). L’enorme flotta corazzata subì a Lissa la nota
umiliante sconfitta, contro navi di legno.
Poteva
mancare il ricorso all’iniqua pressione fiscale? Non mancò. “Nel Regno
delle Due Sicilie la tassazione era, nel 1859, di 14 franchi a testa. Nel 1866,
sotto il nuovo regime, le tasse erano salite fino a 28 franchi a testa, il
doppio di quanto pagava l”’oppresso” popolo napoletano prima che
Garibaldi venisse a liberarlo”.
La
tassa sul macinato, bersaglio polemico dei patrioti mazziniani quando
l’applicava il governo pontificio, “fu più che raddoppiata ed estesa a
tutte le granaglie, perfino alle castagne”. Causa la fiscalità, vi stupirà
sapere che fu necessario organizzare “la lotta all’evasione”?
Fu
organizzata, e manu militari. I contribuenti in arretrato subivano
“perquisizioni domiciliari” e durante queste “visite”, che
evidentemente duravano giorni e notti, avevano l’obbligo di cedere ai soldati
“i letti migliori” nelle loro case. Ciò non impedì che il Regno
restasse sempre in pericolo d’insolvenza.
Tanto
che i titoli del debito pubblico italiano “si vendono a 33 punti sotto il
loro valore nominale”, al contrario del debito napoletano; che “fino
al 1866 era così solido, che i suoi titoli si ponevano al disopra del
nominale”. Si dirà il prezzo fu alto, ma almeno il Sud fu raggiunto dalla
modernità, i piemontesi portarono un’amministrazione più razionale; saranno
stati ottusi, ma erano incorruttibili No. “La contabilità pubblica si
trovava in condizione spaventosa, ordini di pagamento non autorizzati
apparivano continuamente nei registri della Corte dei Conti”, e il caos
favoriva “malversazioni di ogni genere”.
O’Clery
cita: “Nel 1865 il ricevitore generale delle imposte a Palermo fuggi con
70 mila franchi; a Torino fu scoperta una stamperia di tagliandi del debito
pubblico e un impiegato delle Finanze, processato per ciò fu assolto
…L’anno
1866 portò alla luce le frodi degli impiegati incaricati della vendita dei beni
ecclesiastici; a Napoli un alto ufficiale di polizia fu arrestato per essersi
appropriato di fondi destinati ai pubblici servizi.
Casi
simili se ne possono citare all’infinito”, conclude O’Clery: e chissà perché,
noi spettatori di Tangentopoli 1992, siamo inclini a credergli sulla parola. Ma
almeno, uno stato militaresco, mise ordine nel disordine pubblico del
Meridione? Stroncò la mafia? Serafico,
O’Clery
dà la parola alla Guida della Sicilia una guida turistica per inglesi, scritta
da un certo Murray, che metteva in guardia: “Le strade siciliane non sono
più sicure come al tempo del governo borbonico, il quale, pur con tutti i suoi
errori ebbe il merito di rendere le sue strade sicure come quelle del Nord Europa”.
Piacerebbe
non crederci. Attribuire questi racconti all’animo papalino e “reazionario
dello storico. Purtroppo, qualcosa lo impedisce. L’Italia vista dagli occhi di
O’Clery ci appare sinistramente familiare. Per noi lettori del Duemila,
l’effetto è un déjà vu.
Avvenire – 6 agosto 2000
Maurizio Blondet
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Posted by altaterradilavoro on Apr 27, 2019
Dopo le prime tre puntate di questo
libro scritto da Giuseppe ‘Pippo’ Scianò, leader storico degli Indipendentisti
siciliani si comincino ad avvertire i primi musi storti. Della serie: “Ma come
si permettono questi a mettere in dubbio la storia raccontata dagli storici?”.
Li vogliamo tranquillizzare: gli ‘storici’, sul Risorgimento nel Sud Italia – e
segnatamente sull’impresa dei Mille – hanno raccontato un sacco di bugie. Man
mano che il racconto di questo libro andrà avanti ci sarà da divertirsi…
di Giuseppe Scianò
Una originale
parata militare…
– Non mancherà, al centro della piazza di Talamone, una bella parata
militare (o quasi), alla quale tutti i Garibaldini partecipano. Molti sono in
camicia rossa. Non tutti. Nel corso della manifestazione ha luogo la lettura
dell’ordine del giorno «Italia e Vittorio Emanuele» del quale abbiamo parlato.
Il
momento più solenne è quello del sermone di Garibaldi, ricco di retorica
patriottarda, sulla cui sincerità gli abitanti di Talamone cominciano a nutrire
qualche dubbio. Finita la cerimonia, i Garibaldini si scatenano fra le vie del
paese.
A
questo punto non possiamo che constatare come se ne sia andato allegramente a
quel paese il piano accuratamente preparato a monte, di far credere
all’opinione pubblica internazionale che i comandanti della guarnigione di
Talamone abbiano fornito le armi a Garibaldi soltanto perché ingannati dal Duce
dei Mille travestito da ufficiale piemontese. Per il seguito più immediato della
vicenda, ci affidiamo ancora una volta ad un pezzo di Giancarlo Fusco:
«Scende la sera.
Traluce, dalle finestre, il giallore dei lumi a petrolio e dei candelotti a
sego. Una tromba, da chissà dove, modula le note malinconiche della ritirata.
Il Generale è già tornato a bordo. Ma il trombettiere, stasera, spreca il suo
fiato. Le stradette di Talamone, i cortili, gli orti dietro le case, la piazza
centrale e gli spalti affacciati al mare sono in piena battaglia. I futuri eroi
di Calatafimi e di Ponte dell’Ammiraglio ribolliscono, su e giù, come fagioli in
pentola. Si pestano fra monarchici e mazziniani, fra repubblicani unitari e con
federalisti, fra monarchici intransigenti e monarchici provvisori. Già che ci
sono, se le danno anche per motivi campanilistici; bergamaschi con bresciani,
pavesi con milanesi, veronesi con padovani, i romagnoli un po’ con tutti. Ma
tutti, a tratti, fanno fronte comune contro gli uomini di Talamone. Ai quali
non va assolutamente giù che le ragazze e le sposine debbano difendersi con le unghie
e con la fuga, già mezze discinte, dagli assalti e dagli aggiramenti delle
assatanate ‘’camice rosse’’.
‘Annate al paese vostro, a fa’ le porcate, pelandroni!’.
‘Ma indove v’ha raccattato
Garibaldi? In galera?’.
‘Altro che l’Italia volete fa’! Ve volete fa’ le donne nostre!’ .
‘Con la manfrina della patria, annate in giro a rovina’ le zite!’.
Un inferno. Inutili le trombe. Inutili il correre a destra e a sinistra degli
ufficiali. Vane le minacce di arresti, di espulsione dal corpo e di ferri.
Finché, avvertito, scende a terra Garibaldi. I suoi occhi chiari sembrano di
ghiaccio. Brandisce la spada sguainata, rivolge agli ufficiali, pallidi e
avviliti, rimproveri pesanti, quasi feroci:
‘Chi vi ha cucito i grandi sulle maniche, rammolliti! Avete le sciabole al
fianco e non sapete tirarle fuori! Cominciamo bene! Credete che non sappia
ordinare una decimazione?’ .
Poi, al centro della piazza principale, a gambe larghe, con la spada puntata al
cielo già stellato, grida con tutto il suo fiato:
‘ A bordo!’ ». (11)
Avviene
così – ci spiega il Fusco – che la gazzarra nel giro di pochi minuti si spenga.
E che i valorosi Garibaldini si «ricompongano» nell’aspetto e nelle uniformi, e
che, a poco a poco, risalgano sulle barche che li riporteranno a bordo dei due
piroscafi. Un altro pezzo della «tragicommedia» è stato bene o male recitato
(più male che bene, per essere sinceri).
Non
è il caso di aggiungere altro. I fatti si commentano da sé.
Zambianchi
sconfitto da contadini e gendarmi dello Stato Pontificio – Durante la sosta a Talamone, una
sessantina di volontari vengono inviati verso i confini dello Stato Pontificio.
Sono guidati da Callimaco Zambianchi, un ufficiale anziano che già negli anni
1848-1849 si era fatto onore a Roma. Non a caso lo stesso Abba lo definisce
«…uno sterminatore di monaci, sanguinario».(12)
Il Macaulay
Trevelyan precisa che lo Zambianchi «era un uomo di proporzioni e forza fisica
immensa, probabilmente un sincero patriota ma uno spavaldo e un ribaldo e, se
non un codardo, per le meno un arruffone incompetente, […] oltre che
sterminatore di preti a Roma nel 1849».
Comunque la spedizione contro il Papa non avrà la solita fortuna. I Garibaldini
vengono accolti, intanto, con diffidenza o con ostilità da parte della
popolazione. Arrivano poi i Gendarmi Pontifici. Alle loro prime schioppettate,
Zambianchi ed i suoi uomini se la danno a gambe disperdendosi per le campagne.
Non erano queste le aspettative. Gli «eroi» avevano sperato di andare ben
oltre, tanto che Garibaldi aveva aggregato alla piccola spedizione ben tre
medici.
Pessima,
quindi, la figura con gli Inglesi, i quali avranno apprezzato il taglio politico
dato alla spedizione, ma non lo squallido esito. Anzi gli Inglesi si sarebbero
ulteriormente convinti del fatto che, se non si fossero preoccupati di controllare
e di seguire nei minimi particolari le azioni rivoluzionarie e militari degli
eroi del Risorgimento Italiano, questi ultimi avrebbero continuato a fare dei
grandi pasticci. E soltanto pasticci.
Caricando
le armi – La
mattina del 9 maggio Garibaldi ed i suoi uomini, tutti ormai a bordo del
Piemonte e del Lombardo, la trascorrono quasi interamente a caricare armi e
viveri. Ed anche acqua, molta acqua. È un via vai di barche stracariche che
fanno la spola fra la banchina e i due piroscafi. I barcaroli non sono, però,
volontari né simpatizzanti. Hanno i loro ritmi ed una paga modesta. Lo intuisce
Bixio che grida loro:
«Venti franchi ogni barile, se me li portate prima delle undici!».
«I barcaioli fanno forza di braccia e le barche volano», scrive in proposito
Giuseppe Cesare Abba.
Insomma il denaro, specialmente in valuta straniera, comincia a fare i suoi
miracoli.
Ed i Garibaldini ne sono ben provvisti…
Le navi garibaldine
si fermano a poche miglia dal porto di Marsala… – Da Talamone alla Sicilia la navigazione
dei Garibaldini non ha problemi. Vento in poppa in tutti i sensi. Anche se i
Garibaldini fossero intercettati dai Duosiciliani, che peraltro dispongono di
una buona Marina Militare, non succederebbe niente di grave. Le due navi, pur
se rubate, hanno, infatti, le… carte in regola.
Come ci ricorda,
infatti, lo storico Cesare Cantù,(13) Garibaldi navigava
«regolarmente munito di patente per Malta».(14) Non è un salvacondotto di poco
conto quel documento, perché Malta era un territorio inglese. E gli Inglesi, si
sa, sono permalosi e pretestuosi nei confronti del Regno delle Due Sicilie,
quanto (se non di più) il lupo di esopiana memoria nei confronti dell’agnello.
Poca importanza ha il fatto che il Lombardo ed il Piemonte abbiano dichiarato
una destinazione diversa o che portino a bordo gente armata ed in procinto di
sbarcare in Sicilia.
Guai
a fermare quei due vapori. Si sarebbe anticipato quello che sarebbe realmente
accaduto, di lì a poco, alla spedizione Corte della quale parleremo più avanti.
Gli Inglesi avrebbero gridato alla violazione del diritto internazionale da
parte del perfido Re delle Due Sicilie!
È
appena il caso di ricordare quindi che il compito di scorta dell’Ammiraglio
Persano è assolutamente privo di rischi. La flotta militare sabauda, ovviamente,
si discosterà soltanto quando il Lombardo e il Piemonte saranno entrati nelle
acque territoriali Duo-siciliane. Per recarsi, però, anch’essa nelle acque del
porto di Palermo per dare manforte alle manovre di conquista della Sicilia.
Dubbio di Garibaldi:
sbarcare col buio o no?
– Dopo una navigazione più che tranquilla, i due piroscafi arrivano a poche
miglia dalla Sicilia, di fronte alla costa marsalese. Per la verità lo sbarco a
Marsala potrebbe avvenire anche nello stesso giorno: 10 maggio 1860… Ma ormai
si avvicina la sera e Garibaldi ritiene che non sia prudente sbarcare al buio
che, a suo giudizio, potrebbe, sì, anche giovare perché gli consentirebbe di
non essere avvistato dai nemici, se non troppo tardi. Però il Nizzardo sa bene
che il buio ha un inconveniente. Quello, cioè, di non far vedere bene, di non
far riconoscere le persone e le bandiere, di non far vedere dove si mettono i
piedi o… le navi.
Prudenza
doverosa da parte di un buon vecchio marinaio, soprattutto se si considera che
il Lombardo, in pieno giorno, l’indomani, sarebbe rimasto incagliato in un
basso fondale. Cosa sarebbe successo se quell’incidente fosse capitato di
notte?
Istruzioni… per lo
sbarco – Il
Fusco – con il suo linguaggio semplice e scorrevole – ci racconta che in vista
di Marsala e nell’imminenza dello sbarco, Garibaldi dà incarico a Nino Bixio,
per il Lombardo, e al Colonnello Sirtori per il Piemonte, di dare attuazione a
quanto disposto con il «Foglio d’ordini operativo», compilato già da qualche
giorno a Talamone, e più specificatamente al paragrafo che diceva che
nell’imminenza dello sbarco, ai volontari bisognava parlare chiaramente
dell’estrema diffidenza e della focosa suscettibilità… «che caratterizzano
il temperamento de’ siculi, sovra tutto per ciò che riguarda le loro donne:
spose, promesse tali, sorelle, cognate, cugine, e perfino di più lontana e
indiretta parentela. A scanso di complicanze gravissime, cruente e perfino ferali,
i volontari una volta a terra, dovranno astenersi da intraprendenze
inopportune,
uai a
fermare quei due vapori. Si sarebbe anticipato quello che sarebbe realmente
accaduto, di lì a poco, alla spedizione Corte della quale parleremo più avanti.
Gli Inglesi avrebbero gridato alla violazione del diritto internazionale da
parte del perfido Re delle Due Sicilie!
È
appena il caso di ricordare quindi che il compito di scorta dell’Ammiraglio
Persano è assolutamente privo di rischi. La flotta militare sabauda, ovviamente,
si discosterà soltanto quando il Lombardo e il Piemonte saranno entrati nelle
acque territoriali Duo-siciliane. Per recarsi, però, anch’essa nelle acque del
porto di Palermo per dare manforte alle manovre di conquista della Sicilia.
Dubbio di
Garibaldi: sbarcare col buio o no? – Dopo una navigazione più che tranquilla, i due
piroscafi arrivano a poche miglia dalla Sicilia, di fronte alla costa marsalese.
Per la verità lo sbarco a Marsala potrebbe avvenire anche nello stesso giorno:
10 maggio 1860… Ma ormai si avvicina la sera e Garibaldi ritiene che non sia
prudente sbarcare al buio che, a suo giudizio, potrebbe, sì, anche giovare
perché gli consentirebbe di non essere avvistato dai nemici, se non troppo
tardi. Però il Nizzardo sa bene che il buio ha un inconveniente. Quello, cioè,
di non far vedere bene, di non far riconoscere le persone e le bandiere, di non
far vedere dove si mettono i piedi o… le navi.
Prudenza
doverosa da parte di un buon vecchio marinaio, soprattutto se si considera che
il Lombardo, in pieno giorno, l’indomani, sarebbe rimasto incagliato in un
basso fondale. Cosa sarebbe successo se quell’incidente fosse capitato di
notte?
Istruzioni… per lo
sbarco – Il
Fusco – con il suo linguaggio semplice e scorrevole – ci racconta che in vista
di Marsala e nell’imminenza dello sbarco, Garibaldi dà incarico a Nino Bixio,
per il Lombardo, e al Colonnello Sirtori per il Piemonte, di dare attuazione a
quanto disposto con il «Foglio d’ordini operativo», compilato già da qualche
giorno a Talamone, e più specificatamente al paragrafo che diceva che
nell’imminenza dello sbarco, ai volontari bisognava parlare chiaramente
dell’estrema diffidenza e della focosa suscettibilità… «che caratterizzano
il temperamento de’ siculi, sovra tutto per ciò che riguarda le loro donne:
spose, promesse tali, sorelle, cognate, cugine, e perfino di più lontana e
indiretta parentela. A scanso di complicanze gravissime, cruente e perfino
ferali, i volontari una volta a terra, dovranno astenersi da intraprendenze
inopportune,
Istruzioni…
per lo sbarco
– Il Fusco – con il suo linguaggio semplice e scorrevole – ci racconta che in
vista di Marsala e nell’imminenza dello sbarco, Garibaldi dà incarico a Nino
Bixio, per il Lombardo, e al Colonnello Sirtori per il Piemonte, di dare
attuazione a quanto disposto con il «Foglio d’ordini operativo», compilato già
da qualche giorno a Talamone, e più specificatamente al paragrafo che diceva che
nell’imminenza dello sbarco, ai volontari bisognava parlare chiaramente
dell’estrema diffidenza e della focosa suscettibilità… «che caratterizzano
il temperamento de’ siculi, sovra tutto per ciò che riguarda le loro donne:
spose, promesse tali, sorelle, cognate, cugine, e perfino di più lontana e
indiretta parentela. A scanso di complicanze gravissime, cruente e perfino
ferali, i volontari una volta a terra, dovranno astenersi da intraprendenze
inopportune, corteggiamenti e galanterie disdicevoli all’uso locale.
Provvederanno alla Suddetta bisogna, salvo imprevisti, il signor Colonnello
Sirtori, sul Piemonte, e il signor Luogotenente Bixio, sul Lombardo».(15)
Dopo aver divagato
su altri particolari dell’episodio, così continua:
«Invece, sul Lombardo, Bixio, ch’è tutto l’opposto di Sirtori, c’inzuppa il
pane. La tira in lungo. Dritto, a gambe larghe, al centro della ‘ radunanza’ ,
la visiera del cheppì calata di traverso, fino a nascondere mezza faccia, ha
l’aria di sfottere. E si diverte a inventare le spaventose torture, le
indicibili crudeltà e le raccapriccianti efferatezze, con le quali, a suo dire,
i gelosissimi mariti Siciliani (e specialmente, purtroppo, quelli della zona
dov’è previsto lo sbarco) sono soliti vendicare le corna. Non solo quelle già
messe, ma anche quelle intenzionali. Amanti squartati, scorticati, bruciati e
sepolti vivi.
Corteggiatori
affogati nel pozzo nero, inchiappettati da tutti i maschi del parentado e poi
tritati come carne da polpette. Rivali mangiati allegramente, in famiglia,
sotto forma di spezzatino, oppure bolliti, a fuoco lento, in enormi pignatte
che i calderai dell’isola fabbricano appositamente… I volontari di primo pelo,
o addirittura imberbi, ascoltano quelle atrocità sgranando gli occhi e non
riescono a nascondere la fifa. Mentre i più maturi e scafati sogghignano (ma è
più che altro una smorfia) ed ammiccano. Insomma, giovanotti, i Siciliani hanno
molto dei beduini! sentenzia Bixio, che sospira, sì, un’Italia libera e unita,
dalle Alpi al Lilibeo, ma che non riesce a digerire gli Italiani da Roma in
giù. Tant’è vero che, proprio come fra i bedù, il taglio delle balle è la
vendetta preferita dei becchi siculi!».(16)
Perché
abbiamo parlato di questo aneddoto, per la verità molto marginale rispetto ai
grandi fatti che avvenivano in quel giorno? Per fare conoscere meglio chi
realmente fossero i futuri liberatori della Sicilia. Evidenziando come
fossero, già nel 1860, forti i pregiudizi e i malintesi fra le popolazioni del
Centro-Nord Italia ed il Popolo Siciliano, Bixio fra lo scherzoso ed il serioso
dà voce ed alimenta i motivi di divaricazione psicologica e di incompatibilità.
E
così, scherzando scherzando, allunga ai Siciliani pure le accuse di
cannibalismo e di pratiche sodomitiche. Non ci sembra molto bello per un padre
della Patria, che avrebbe potuto approfittare dell’esperienza siciliana per
imparare qualcosa di buono.
Per
quanto riguarda l’epiteto beduino dobbiamo arguire che questo doveva essere
molto diffuso per offendere i Siciliani. Lo incontreremo infatti pure nel
linguaggio del Bandi, il giovane ufficiale addetto al servizio personale di
Garibaldi che pure è più colto di Bixio. Per la verità il Bandi usa anche, come
epiteto, la parola arabo, mancando così contemporaneamente di rispetto alla
nazionalità Siciliana ed alla nazionalità Araba. Quest’ultima è infatti tirata
in ballo come termine di paragone assoluta- mente negativo.
C’è tuttavia una
considerazione da fare. Come si vede, pur trovandoci nell’imminenza dello
sbarco, di tutto si parla, tranne che delle tattiche da adottare per quella
che, in teoria, è una vera e propria operazione bellica.
A bordo delle due navi garibaldine si dà infatti per scontato che lo sbarco
avverrà nelle migliori condizioni di tranquillità e di sicurezza. Si dà per
scontato, insomma, che non si dovrà combattere per conquistare metro per metro
la costa siciliana. Così come sarebbe stato logico, se non si fosse trattato
essenzialmente di seguire un copione.
(Fine della quarta
puntata del volume di Giuseppe Scianò “… e nel mese di maggio del 1860 la
Sicilia diventò ‘Colonia’
– Pitti edizioni Palermo/ Continua)
(11)
G. Fusco, op. cit., pagg. 18 e 19.
(12)
G. C. Abba, op. cit., p. 25.
(13)
Cesare Cantù nacque a Brivio (in provincia di Como) l’8 dicembre 1804.
Cattolico ed antiaustriaco, fu, per la sua attività sovversiva, arrestato per
un breve periodo dalla polizia del Lombardo-Veneto. Amico del Manzoni, scrisse
alcuni commenti storico letterari ai Promessi Sposi. Le sue opere maggiori
sono, tuttavia: La storia universale (1838-
1846), in 35 volumi, Storia degli
Italiani, Gli eretici d’Italiani, Il Conciliatore e i Carbonari, Ragionamento
sulla storia lombarda del secolo XVII, ed altri testi a carattere storiografico.
Critico verso il liberi- smo laico, fu deputato al Parlamento italiano, prima a
Torino e poi, dopo il trasferimento della Capitale d’Italia, a Firenze, per 6
anni, nel periodo che va dal 1861 al 1867.
(14)
Malta, com’è noto, era dal 1800 un possedimento inglese.
(15) G. Fusco, op. cit., pagg. 25 e 26.
fonte
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Posted by altaterradilavoro on Apr 27, 2019
Ci
sono le venti paginette
Dal Papa al Concilio scritte nel 1832 e riviste nel 1849 con
un’analisi spietata in cui si dichiara «spento moralmente il Papato» e si invoca un Concilio «raccolto da
un popolo libero e affratellato nel culto del Dovere e dell’Ideale, dei
migliori per senno e virtù fra i credenti nelle cose eterne, nella missione
della creatura di Dio sulla terra, nell’adorazione della Verità progressiva».
E
c’è la lunga lettera Dal
Concilio a Dio , scritta nel 1870, due anni prima della morte in
casa Rosselli, sorta di testamento politicoreligioso in cui, rivolto ai Padri
riuniti al Vaticano I sull’infallibilità del pontefice, l’autore esplicita non
solo punti di dissenso dalla Chiesa cattolica, ma la sua Weltanschauung,
religiosa, ma tutt’altro che cristiana: «Il
vostro dogma si compendia nei due termini: Caduta e Redenzione; il nostro nei
due: Dio e Progresso. Termine intermedio tra la Caduta e la Redenzione è, per
voi, l’incarnazione del Figlio di Dio: termine intermedio per noi tra Dio e la
sua Legge è l’incarnazione progressiva di quella Legge nell’Umanità,
chiamata a scoprirla lentamente e compirla attraverso un avvenire
incommensurabile… Noi
crediamo nello Spirito, non nel Figlio di Dio».
C’è
il breve testo
Dubbio e fede
del 1862, amaro, ma non rassegnato, in cui la fiducia in Dio si lega al dovere
per il riscatto della Patria contro la tirannide papale e il cancro del
materialismo.
E c’è, infine, una ancor più breve
Preghiera a Dio per i piantatori , nata nel 1846 come un contributo
sull’abolizione della schiavitù, nella quale si chiede a Dio di intercedere non nei confronti degli
schiavi, ma dei proprietari, i piantatori di cotone, affinché «l’angelo del
pentimento discenda e si accosti al loro guanciale di morte».
I
quattro scritti mazziniani appena illustrati, senza dimenticare i Doveri dell’uomo non
solo ci dicono molto sull’importanza della religione per il celebre genovese
così deciso a tenere separati potere temporale e spirituale, nonché tenace
oppositore di ogni assolutismo clericale o laico, ma, a ben guardare, sembrano andar oltre il loro legame
con la lotta per l’unità d’Italia, pur così evidente.
Resta chiaro il dato di una religione che è solo quella del Progresso e di una
Rivelazione che, per Mazzini, configura un fenomeno molto più grande della
vicenda narrata nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Con un approccio a Gesù
considerato «fratello» ma non «Signore e Redentore», «uomo esemplare», sì, ma
non Dio, né mediatore tra l’uomo e Dio, che è Dio di tutti e non d’una casta, che «esiste, perché noi
esistiamo», che «vive nella nostra coscienza, nella coscienza dell’Umanità,
nell’Universo che ci circonda», «Dio resta, come resta il Popolo, immagine di
Dio sulla terra».
Insomma, un Mazzini
meno conosciuto quello in questa raccolta curata da Andrea Panerini, sintesi di
un pensiero religioso (nonostante l’influenza nella formazione della madre,
Maria Drago, religiosissima e di alcuni sacerdoti giansenisti) lontano da tutte
le ortodossie cristiane. «Crediamo in un cielo nel quale siamo,
moviamo, amiamo, che abbraccia, come Oceano seminato d’isole, la serie
indefinita delle nostre esistenze; crediamo nella continuità della vita, nella
connessione di tutti i periodi diversi, attraverso i quali essa si trasforma e
si svolve, nell’eternità degli affetti virtuosi, serbati con costanza fino
all’ultimo giorno d’ogni nostra esistenza…».
Il triumviro, che nelle poche settimane di vita della Repubblica Romana (1849), aveva fatto sventolare la bandiera con il motto dell’avvenire, ‘Dio e il Popolo’ più tardi così riassume il suo credo: «Splenda sulla santa Crociata il segno della Nuova fede: Dio, Progresso, Umanità. Dio, principio e fine di ogni cosa. Progresso, la legge da lui data alla Vita. L’Umanità, l’interprete, nel tempo e a tempo, di quella Legge».
Una religione in cui c’è una storia umana che ha un senso, attua un progetto divino, ma per il profeta dell’Unità nazionale, nel segno di una parola ignota all’antichità, resa a forza sacra, il Progresso, e dove il cristianesimo è ridotto a etica.
fonte http://www.gliscritti.it/blog/entry/1013
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Posted by altaterradilavoro on Apr 22, 2019
L’oracolo
di Delfi, assicurava Platone, «siede sull’ombelico della terra». Ma poi sarebbe
arrivata l’Urbe. Con l’avvento di Roma, i centri classici andarono scomparendo,
lasciando progressivamente spazio a quello che diventerà, nell’immaginario di
tutti, l’unico umbilicus mundi. Ecco, nel dna di Roma c’è anzitutto l’idea di
centralità. Tito Livio la definiva «caput orbis terrarum», e Niccolò
Machiavelli – proprio nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio – avrebbe
indicato il modello della storia di Roma come il solo, nell’Italia del ‘500 che
non riusciva ad essere Italia, capace di debellare ogni decadenza.
In quanto teneva a bada la
religione, usandola come strumento di potere, e si fondava sul nesso tra armi e
giustizia, tra buoni eserciti e buone leggi e così metteva ordine nel caos.
Nel codice genetico la centralità è scritta tre volte: capitale dell’impero
romano, capitale della cristianità, capitale della Stato unitario. Ma la
pragmatica vocazione originaria del «res, non verba!» (anche traducibile così:
poche lagne e poche preghiere), la tensione a non starsene quieta, l’ambizione
di posizionarsi all’avanguardia del mondo che ha dominato attraverso il diritto
e in generale il coraggio di farsi, come voleva Mazzini («Roma sogno de’ miei
giovani anni, idea-madre nel concetto della mente,
religione dell’anima») centro
propulsore di una missione della rigenerata nazione italiana e dell’Europa dei
popoli hanno avuto naturalmente i loro rovesci e hanno trovato nella Chiesa un
agente demolitore di questo dna. Come se le due dimensioni trascendenti e
contraddittorie – Cesare e Dio, la spada e la croce, il potere politico e
l’autorità religiosa, la terra e il cielo – dovessero risolversi a tutto
svantaggio della prima.
palazzi,
voi sarete costretti a cercare dei palazzi, ma tutti saranno più bassi del
Vaticano, alzato da secoli con quella leva possente sopra tutte, che è la
religione». E invece, la costruzione dello Stato laico ha superato il potere pre-esistente.
Se la bellezza di Roma deve moltissimo ai papi e alle famiglie cardinalizie,
alla loro industria della gloria rappresentata dalla cupola di Bramante e
Michelangelo o dal colonnato di Bernini, alla straordinaria capacità di
inglobare i pezzi della città antica assemblandoli negli edifici barocchi e
salvandoli così dallo sfascio e dall’oblio, è anche vero che la tradizione
cattolica ha agito da zavorra.
Forse
aveva ragione Cristina di Svezia: «Il sacco dei bigotti è il peggiore che Roma
abbia mai avuto». La Roma oscurantista ha bruciato, sull’altare del potere
religioso, le menti migliori: Giordano Bruno trovò il rogo e Tommaso
Campanella, per evitarlo, fu costretto a fingersi pazzo in carcere, per 27
anni. Nel tentata demolizione del dna di Roma, comprensivo della coscienza
laica nel senso migliore del termine e di una forte tensione all’eccellenza
creativa, la cristianità dopo l’impero ha sostituito il diritto con la fede
(pur salvando nel diritto ecclesiastico l’impronta di quello romano) e così la
Chiesa ha costruito una contro-idea di Roma. Opposta alla ragion pratica, che è
un carattere di questa civiltà da non considerare banalmente materialista (anzi
è anti-immobilista e innovatore) e di cui parla per esempio lo scrittore
francese Michel Onfray nella “Saggezza” di Roma, cosi s’intitola il suo recente
libro: «Atene ama le idee e i concetti metafisici, l’Urbe invece ama le cose e
la realtà. I romani hanno sempre preferito una saggezza pratica e incarnata
nell’azione, una prassi esistenziale».
quanti
ritardi, quanti sforzi per superare l’ostracismo ideologico-clericale e per non
farsi annichilire da chi, facendosi forte di secoli di dominio papalino,
lanciava anatemi come questo di un senatore toscano, Gino Capponi, alla vigilia
del trasferimento della capitale da Firenze a Roma nel 1870: «Nella città dei Il
non perdere – a dispetto dell’influenza cattolica e di ogni altro ostacolo – il
filo ideale della continuità con la propria storia, il non dimenticare il brodo
di coltura, il non sconnettersi mai dai miti della fondazione e dalla
consapevolezza della propria missione civilizzatrice: ecco, si potrebbe dire
che Roma in hoc signo vinces! E il segno di Roma, città mito che crea miti,
archetipo di ogni forma di potere che aspira a una visione larga e partecipata,
è quello che volle avere Carlo Magno, quando nell’anno 800 si fece incoronare
sacro romano imperatore. Ai contemporanei, così come agli storici, egli è
apparso come l’ennesima riprova, nel suo omaggio a Roma, che la communis patria
omnium non può che essere questa. Non è stato così anche per Napoleone?
Roma
con “il soldato venuto dal nulla”, così chiamavano Oltretevere il Bonaparte, è
ridiventata capitale ed è stata precipitata nella modernità. I riti, le
celebrazioni pubbliche, i fasti dell’impero napoleonico si sostituiscono alle
liturgie cattoliche, sulle ali di una coscienza illuministica che Roma stenta
ad accettare (vent’anni dopo Giuseppe Gioachino Belli così ricorderà il dominio
dell’ “invasore”: «E ssedute, e ddemanio, e ccoscrizzione, / Giuramenti a li
preti e a l’avocati, / Carci ‘n culo a li monaci e a li frati») ed evviva.
Nelle pasquinate impazza il gioco di parole: «Pasquino, è vero che i francesi
sono tutti ladri?». «Tutti, no: ma bona parte!».
CESARE
SI NASCE
E tuttavia furono anni straordinari, fino al 1814, perché Napoleone, educato ai
classici fin dall’adolescenza, vedeva in Roma non una città occupata e annessa,
ma una città sognata, un luogo trasfigurato nel mito del suo glorioso passato.
Amava Roma quasi quanto Parigi, la laicizzò infinitamente (era stato introdotto
anche il divorzio ai tempi della repubblica romana in salsa giacobina) e il
possesso dell’Urbe rappresentava, nella visione politica del Bonaparte, un
valore di continuità e di legittimazione del potere imperiale. «Cesare si
nasce, non si diventa», era il suo omaggio al grande imperatore romano. Oppure:
«Voi che conoscete bene la storia, non vi colpisce la somiglianza del mio
governo con quello di Diocleziano?». Non faceva che paragonare le sue gesta a
quelle dei condottieri romani, e «io sono della migliore stirpe dei Cesari, di
quelli che fondano!».
E
così, non c’è progetto ambizioso e innovativo in Europa che non abbia cercato
di attingere al dna di Roma e di intestarsi l’idea di Roma. Basti pensare a
come tanti patrioti del Risorgimento, per evitare i fulmini della censura,
usavano l’ambientazione antica della Roma repubblicana per combattere le loro
battaglie d’attualità. Ma sarà con Crispi, prima ancora che con Mussolini, che
l’idea dell’Urbe gioca un ruolo fondamentale. «La nuova missione d’Italia
comincia da Roma – disse Crispi – e resterà incompleta finché con gli studi e
con le armi, con la scienza e con la forza, non avremo provato allo straniero
che noi non siamo minori dei padri nostri».
IL RUOLO RESTITUITO
Il Ventennio sarà quello a cui la Capitale – a dispetto della retorica
antifascista mai come in questo caso incapace di spogliarsi dei pregiudizi
ideologici – deve di più. Per il Natale di Roma del 1921, il grande storico
nazionalista Gioacchino Volpe aveva scritto: «Roma aiutò gli italiani a
costruire la loro italianità». E Mussolini: «Roma e il nostro punto di partenza
e di riferimento; è il nostro simbolo o, se si vuole, il nostro mito». Così
aveva
annunciato
sei mesi prima della marcia su Roma. E il mito dell’Urbe si consoliderà come
uno degli elementi centrali della visione del fascismo. Retorica? No,
trasformazione di Roma, e nuova narrazione di una città dell’essere,
dell’accadere, del divenire, per usare una formula amata dal grande per maestro
Wilhelm Furtwangler.
In
effetti, quando il fascismo giunse al potere, il Duce cominciò una lunga marcia
su Roma, per trasformare la capitale in senso politico, urbanistico e
monumentale. E per costruire, tra l’ammirazione della comunità internazionale,
la nuova Roma fascista. «Serve un’Italia romana, cioè saggia e forte,
disciplinata e imperiale»: questo l’auspicio mussoliniano. Di fatto, quando nel
‘36 l’impero tornò a Roma, la capitale – lo scrive lo storico defeliciano
Emilio Gentile, che pure è molto severo sull’uso fascista dell’Urbe – «era
diventata una metropoli moderna. Con oltre un milione di abitanti e
profondamente trasformata».
E
comunque la romanità del regime è stata spesso fraintesa. Da sinistra e nel
mainstream, è stata vista soltanto come un’espressione grottesca delle velleità
imperiali del Duce e come conferma della natura regressiva del fascismo. Al
contrario, il mito fascista della romanità era un mito modernista, che usava il
richiamo del passato come un mezzo di mobilitazione identitaria nel presente
per un’azione proiettata verso il futuro. Altro che città parassitaria di
affittacamere e di lustrascarpe: l’Urbe e «l’Italia romana» come legittime
eredi del riscatto risorgimentale e della vittoria nella Grande Guerra.
Viene
restituito il ruolo e anche il rango, durante il Ventennio, a questa città. Il
Natale di Roma, nel ‘23, viene istituzionalizzato come festa della lavoro al
posto del primo maggio: e così si coniugano due idee, Roma e lavoro, appunto,
che fino ad allora, nella vulgata, avevano formato un’irriducibile antitesi. Ma
in generale l’idea fascista dell’Urbe possiede una forza di suggestione che le
consente d’imporsi nel linguaggio istituzionale – e caduto il fascismo questo
non si sarebbe mai più ripetuto – diventando uno dei connotati più vistosi, ma
anche più virtuosi, del regime.
REAZIONE E NEGAZIONE
La successiva svalutazione di Roma in epoca repubblicana sarà proprio una
reazione, nociva a livello nazionale e internazionale, alla straordinaria importanza
che la Capitale aveva avuto precedentemente. Il destino dell’Inno a Roma è
emblematico di questo rovescio della sorte. Sono versi celeberrimi: «Sole che
sorgi libero e giocondo / sul colle nostro i tuoi cavalli doma; / tu non vedrai
nessuna cosa al mondo / maggior di Roma, maggior di Roma!». Li aveva musicati,
per il Natale di Roma del 1919, Giacomo Puccini. Il fascismo si sarebbe
affezionato assai a questo motivo – il cui testo scritto da Fausto Salvatori si
rifaceva al Carmen saeculare – facendone una delle sue canzoni. E proprio per
questo, Puccini o non Puccini, Orazio o non Orazio, quel Sole che sorgi si è
pensato di relegarlo in soffitta, dimenticandone l’esistenza a Ventennio
finito. Perché Roma doveva pagare l’importanza che Mussolini le aveva
attribuito.
Con
la caduta del regime, è crollato anche il mito di una Roma imperiale e
conquistatrice. Negare l’importanza di questa città, per cancellare il
fascismo: un’operazione propagandistica di nessuna utilità. Ne è derivato un
grave e permanente svuotamento, non solo simbolico ma anche politico, della
capitale. Come per una sorta di ritorsione, la Costituzione del ‘48 non ha
previsto alcuno status particolare per Roma e «solo leggine speciali si fanno,
visto che manca una visione complessiva sulla capitale» (si sarebbe lamentato
nel ‘58 Aldo Moro). Così, la defascistizzazione ha assurdamente coinciso con la
deromanizzazione, in un corto circuito che ha danneggiato l’immagine del nostro
Paese e ha degradato la sua città più emblematica e l’unica che non ha (Cavour
dixit) «solo memorie municipalistiche». E il segno di questa storia, forse il
suo senso più profondo che prescinde dalle contingenze politiche e dalle loro
piccolezze, è quello sintetizzato magistralmente da Ferdinand Gregorovius, nel
1872: «Gli italiani sono entrati in possesso di Roma e mai la storia ha imposto
a qualcuno un compito così difficile e un dovere più severo: conservare e
rinnovare questa città, ridiventare grandi a contatto con la propria grandezza».
Mario
Ajello
Segnalato
da Enzo de Maio
Fonte
https://www.ilmessaggero.it/roma/eventi/natale_di_roma_intramontabile_idea_non_incidente_ventennio-4443132.html
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