Seconda puntata del libro di Giuseppe Scianò “… e nel
maggio del 1860 la Sicilia diventò colonia” (Pitti edizioni Palermo).
La prefazione nella quale si dà atto a Pino Aprile di avere aperto uno squarcio
nella disinformazione italiana sulla storia del Sud nel Risorgimento. Quindi il
primo capitolo con la sceneggiata della finta ‘cattura’ dei piroscafi
‘Lombardo’ e ‘Piemonte. Il viaggio verso la Sicilia scortati dai piemontesi e,
soprattutto, dagli inglesi
di Giuseppe Scianò
PREFAZIONE
Pino Aprile, noto giornalista e
scrittore pugliese (nato nel 1950), già vicedirettore di Oggi
e direttore di Gente, che
aveva lavorato con Sergio Zavoli nell’inchiesta a puntate «Viaggio nel Sud» e a
Tv7, settimanale del Tg1, nel 2010 ha pubblicato il libro Terroni, incentrato
sulla conquista del Sud-Italia, o, per meglio dire, dei territori del Regno delle
Due Sicilie, da parte del Regno Sabaudo di Vittorio Emanuele II, il quale, a
sua volta, agiva sotto la protezione e per mandato del Governo Britannico.
Il
libro ebbe un successo immediato ed eclatante e non costituì soltanto un «caso
letterario», ma divenne un evento storico, culturale e politico, i cui effetti
sono ancora in piena evoluzione. Vi si comprende, infatti, come e perché il Sud
divenne una colonia interna del neonato Regno d’Italia.
Anche se altri avevano affrontato lo «scottante» argomento, fra cui
l’indimenticabile Carlo Alianello (e
tanti altri Meridionalisti e Sicilianisti, molti dei quali viventi e con i
quali ci scusiamo per non poterli citare tutti), considerato il capostipite del
revisionismo «moderno» del Risorgimento, Pino Aprile ha avuto il grande merito
di «prendere di petto» le tante, scottanti, «verità», che erano state occultate
e spesso sostituite dalle favolette e dalle leggende della cultura ufficiale
italiana.
TRA
MASSACRI E GENOCIDI – Sono stati portati alla luce massacri, genocidi,
persecuzioni, saccheggi, deportazioni ed, in una parola, le gravissime
violazioni dei diritti dell’Uomo, soprattutto per l’uso spregiudicato di truppe
mercenarie provenienti sia dall’Europa (da ricordare la «feroce» Legione
Ungherese…) che dall’India e dall’Africa, che attuarono espoliazioni e rapine
di ogni tipo. Delitti, questi, che si sarebbero protratti anche nel periodo
successivo al fatale 1860…
Sono tornati così alla luce quei fenomeni di
alienazione culturale e di lavaggio collettivo dei cervelli, di cui tanto aveva
parlato Frantz Fanon per i Paesi del cosiddetto
«Terzo Mondo» negli anni Cinquanta del secolo scorso.
Finalmente viene messo sotto accusa il Regno d’Italia per i
crimini commessi nel 1860! Ed anche successivamente…
I
GRANDI MERITI DI PINO APRILE – Con il «libro» di ricerca, di «documentazione» e di denunzia
di Pino Aprile, sostanzialmente la verità è diventata ancora una volta
«rivoluzionaria». Ed i popoli del «soppresso» Regno delle Due Sicilie hanno
cominciato a capire che è, per loro, un diritto ed un dovere quello di uscire
finalmente e decisamente dalla condizione di letargo (anzi: narcosi), nella
quale sono stati regalati dal 1860 ai nostri giorni.
I nostri Popoli sono cioè diventati sempre più
determinati nel fare i primi passi verso lo sviluppo, il progresso e verso
quella civiltà che era un loro «bagaglio» e una loro ricchezza, un loro
obiettivo prioritario. Soprattutto hanno compreso che devono lottare per
ritornare in quei Consessi Internazionali e sovranazionali, dai quali ancora
oggi sono esclusi proprio per l’antistorica condizione coloniale.
Per completare la «cronaca» di questo tormentato
periodo della storia della Sicilia possiamo anticipare che con il «Plebiscito»,
falso e bugiardo, del 21 ottobre 1860, si confermò ciò che si sarebbe dovuto
con ogni mezzo negare. E cioè che la Sicilia, già nel mese di maggio del 1860
era diventata una colonia di sfruttamento interna al Regno Sabaudo (in
qualsiasi modo denominato)…
In questa sede ricostruiremo le principali vicende
che avevano determinato e caratterizzato la «conquista» della Sicilia e la sua
riduzione in colonia interna del Regno d’Italia. Il tutto al servizio del
recupero della verità.
Con questo nostro lavoro, che sottoponiamo all’attenzione ed al
giudizio dei lettori, non possiamo ovviamente parlare di tutto, ma abbiamo
cercato di spiegare – in ordine logico e cronologico e con la speranza di non
trascurare alcuno dei fatti principali – quanto avvenne in Sicilia e nella
parte continentale del Regno delle Due Sicilie, appunto dal mese di maggio del
1860 e per il quinquennio successivo.
Ribadiamo che consideriamo il diritto alla verità
come diritto fondamentale (fino ad oggi, di fatto, negato) dei Popoli del
soppresso Regno delle Due Sicilie.
CAPITOLOPRIMO/ 5
maggio 1860: da Quarto i Mille prendono il mare. La prima tappa sarà Talamone
Una sera nel porto di Genova…
La
sera del 5 maggio 1860 dal porto di Genova fu allontanata la polizia portuale e
furono allontanati anche curiosi e «perditempo». C’era nell’aria qualcosa di
grosso che tutti ben conoscevano, ma della quale era assolutamente vietato fare
cenno. Due piroscafi, il Lombardo
ed il Piemonte,
si dondolavano tranquillamente nella rada.
Avevano da poco cambiato proprietario. Il loro acquisto era stato trattato ed
operato riservatamente da emissari del Governo Piemontese con il sig. Fauchet,
amministratore della Società Armatrice
Rubattino. Quei due piroscafi servivano, infatti, per trasportare in
Sicilia Garibaldi ed un mi- gliaio di uomini. Si trattava del primo nucleo di
quell’Armata che avrebbe conquistato la Sicilia.
Agli occhi del corpo diplomatico, dell’opinione pubblica e di non po- chi
cronisti e dei futuri storici, il Lombardo
ed il Piemonte,
tuttavia, dovevano apparire catturati, nel corso di una imprevista ed audace
azione piratesca, dai Garibaldini. Il finto colpo di mano verrà affidato a Nino
Bixio (1) collaborato dal Capitano Castiglia (uno dei pochissimi Siciliani che
partecipavano alla Spedizione garibaldina).
I due eroi, con un manipolo di volontari, penetrarono, quindi, nel porto,
avanzando nell’oscurità. Successivamente, utilizzando una tartana,
provvidenzialmente trovata ormeggiata nella banchina antistante a quel tratto
di mare, si avvicinarono ai bastimenti.
A bordo del Piemonte e
del Lombardo,
in quel momento, si trovavano, al completo, i rispettivi equipaggi, che, però,
guarda caso, stavano dormendo fin troppo sodo…
Il tutto con assoluta fedeltà al copione. Ovviamente.
LA ‘CATTURA’ DEI PIROSCAFI PIEMONTE E LOMBARDO – I volontari si
arrampicarono sui due vapori (non casualmente privi di sentinelle) e, armati di
revolver, finsero di svegliare dal loro sonno i marinai, compresi gli uomini che
avrebbero dovuto fare la guardia. Quindi costrinsero «i fuochisti ad accendere
le caldaie, i marinai a salpare l’ancora, i macchinisti a prepararsi al loro
mestiere», «tutti a sgomberare, a pulire il bastimento, ad allestirlo in fretta
per la partenza. E così avrebbero fatto – conclude un nostro testimone – col
massimo ordine e silenzio e non senza molti sorrisi d’ironia per quella farsa
con cui l’epopea esordiva».(2)
Aggiungiamo che Bixio, subito dopo, avrebbe fatto un discorsetto ai marinai, i
quali, peraltro, avevano provveduto per tempo a salutare le ri- spettive
famiglie, lasciando un gruzzoletto di soldi, maggiore di quello che di solito
lasciavano per le frequenti lunghe assenze che la vita di marittimo comportava.
Quando si dice le coincidenze!
LA RECITA – In sostanza, il braccio destro avrebbe
detto agli stessi marinai che potevano scegliere fra tornare a casa o
arruolarsi con Garibaldi per conquistare (anzi: per liberare) il Regno delle
Due Sicilie e per fare l’Unità d’Italia. I marinai, entusiasti, avrebbero detto
di scegliere, seduta stante, la seconda opzione. Non a caso si erano portati
anche la biancheria di ricambio.
Quarto, nella notte fra il 5 e il 6 maggio 1860, si parte!…
Le operazioni di messa in moto dei due piroscafi sarebbero state lente,
complicate, confuse. E avrebbero richiesto diverse ore. Garibaldi, nella
vicinissima borgata di Quarto, attende nervoso e preoccupato. Comincia già a
sospettare che Bixio abbia fatto fiasco, nonostante tutto fosse stato preparato,
per filo e per segno. Nei minimi dettagli, insomma.
Tuttavia, c’è da dire che anche la presenza a Quarto di Garibaldi, alloggiato a
Villa Spinola, e la concentrazione di quegli oltre Mille volontari, con non
pochi accompagnatori, erano ufficialmente un segreto. Così come era un segreto
il fatto che gli alberghi di Genova e dintorni erano zeppi di clienti e che non
tutti vi avevano trovato alloggio. Molti bivaccavano nei dintorni. Erano quei
segreti all’italiana che avrebbero tanto affascinato i lettori dei giornali
Inglesi in tutto il mondo. E avrebbero in seguito dato modo all’agiografia
risorgimentale di avvalorare la tesi della spontaneità dell’iniziativa.
Finalmente, al largo dello «scoglio di Quarto», comparvero, sbuffando, i due
piroscafi che si fermarono, però, prudentemente a debita distanza dalla riva.
Non vi saranno problemi, perché, fortunatamente, sono già belle e pronte tante
barche di ogni tipo per portare i Mille a bordo dei due colossi del mare. A
questo punto entra in scena Garibaldi.
Ecco cosa scrive in proposito l’Abba:
«… Dinanzi, sullo stradale che ha il mare lì sotto, v’era gran gente e un
bisbiglio e un caldo che infocava il sangue. La folla oscillava: “Eccolo! No,
non ancora!”. E invece di Garibaldi usciva dal cancello qualcuno che scendeva
verso il mare, o spariva per la via che mena a Genova. Verso le dieci la folla
fece largo più agitata, tacquero tutti, era Lui!».(3)
I MILLE SCORTATI DA CAVOUR E DAGLI INGLESI – “Le numerose
barche, poterono, così, avere l’ordine di procedere al traghettamento dei
volontari sui piroscafi. Anche questa operazione durerà diverse ore. Ma non c’è
fretta. Nessuno insegue i Garibaldini o minaccia di interromperne le manovre
maldestre. Una sola condizione: la consegna del silenzio. Nessuno deve sapere
niente… (quantomeno ufficialmente).
La prima sosta è prevista a Talamone, in Toscana. Ed in tale direzione i due
piroscafi procedono tranquillamente. Appena si sono allontanati abbastanza dalle
acque di Quarto, il Piemonte ed il Lombardo vengono seguiti con discrezione da
alcune navi da guerra Piemontesi, agli ordini dell’Ammi- raglio Persano.
Ufficialmente le navi da guerra Piemontesi dovrebbero inseguire e catturare quei
pirati, che hanno avuto l’ardire di rubare le due navi.
Ma i veri ordini in merito li ha dati riservatamente e per iscritto il Capo del
Governo, Camillo Benso conte di Cavour, allo stesso Persano e sono fin troppo
chiari, anche per il politichese dell’epoca: «Vegga
di navigare – gli scrive – tra Garibaldi e gli incrociatori napolitani. Spero
m’abbia capito».
In sostanza, la flotta piemontese non dovrà assolutamente raggiungere né
bloccare la spedizione garibaldina. La dovrà soltanto proteggere da eventuali
attacchi della Marina da Guerra Duosiciliana. L’Ammiraglio Persano non è
certamente un’aquila, ma sa comprendere fin troppo bene ciò che Inglesi e
Governo Piemontese gli ordinano di fare, di volta in volta.
Prescindendo dall’affidabilità del Cavour e del Persano, gli Inglesi, a loro
volta, avevano adottato già qualche precauzione. A debita distanza della flotta
piemontese, infatti, vi erano alcune navi da guerra britanniche che avevano
preso sotto protezione i nostri eroi e le navi Piemontesi.
E li scorteranno fino alle acque territoriali siciliane. Qui avrebbero trovato
altre navi britanniche.
L’ACCORDO TRA GARIBALDI E VITTORIO EMANUELE II – Insomma: le
precauzioni del Governo di Londra non sono mai troppe. E saranno sempre utili,
se non necessarie.
Il giorno 7 maggio 1860, l’Abba ci descrive, con i soliti intenti agiografici,
il momento della lettura dell’ordine del giorno:
«La missione di questo corpo sarà, come fu, basata sull’abnegazione, la più
completa davanti alla rigenerazione della patria. I prodi Cacciatori servirono
e serviranno il loro paese colla devozione e disciplina dei migliori corpi
militanti, senza altra speranza, senz’altra pretesa che quella della loro
incontaminata coscienza. Non gradi, non onori, non ricompensa, allettarono
questi bravi; essi si rannicchiarono nella modestia della vita privata,
allorché scomparve il pericolo; ma suonando l’ora della pugna, l’Italia li
rivede ancora in prima fila ilari,
volenterosi e pronti a versare il loro sangue per essa. Il grido
di guerra dei Cacciatori delle Alpi è lo stesso che rimbombò sulle sponde del
Ticino or sono dodici mesi: “Italia e Vittorio Emanuele!”, e questo grido
ovunque pronunziato da noi incuterà spavento ai nemici dell’Italia».(4)
Un particolare poco evidenziato: i Garibaldini sono a tutti gli effetti
incorporati nell’Esercito Sabaudo, nel Corpo dei «Cacciatori delle Alpi».
Ed è questa una situazione a dir poco scandalosa. Dai
punti di vista morale, politico, giuridico e costituzionale resta il fatto che
il proclama, che tanto fa commuovere l’Abba, altro non era che un’altra
dimostrazione di come, fin dall’inizio, si fosse progettato di imporre alla
Sicilia l’annessione al Regno di Vittorio Emanuele II. A prescindere dalla
volontà dei Siciliani ed a prescindere dal plebiscito che, falso e spudorato,
si sarebbe svolto soltanto il 21 ottobre di quell’anno.
Alcuni repubblicani intransigenti, indignati (pochissimi, per la verità),
avrebbero successivamente tagliato la corda e se ne sarebbero andati. Altri,
ben sistemati nella macchina unitaria, sarebbero rimasti.
Per Garibaldi il problema non esisteva. Fra l’altro il Nizzardo era
legato, oltre che dalle tante affinità culturali e morali, anche da sincero
affetto a Vittorio Emanuele II. Con questi aveva addirittura un filo diretto di
costante intesa e di reciproca complicità. Senza però escludere qualche
rivalità per il ruolo di prima donna del Risorgimento. Rivalità che però non
riusciva a scalfire l’amicizia né i vincoli di consorteria… se non per brevi
periodi.
ANCHE I REPUBBLICANI SUL LIBRO PAGA DEI BRITANNICI – Luigi Russo così
scrive: «Il proclama fondeva in una sola unità i Mille ed i Volontari della
campagna alpina dell’estate precedente; ma non tutti furono contenti delle
parole del Generale. Il motto “Italia e Vittorio Emanuele!” garbò poco ai
mazziniani, i quali avevano sperato che in Garibaldi, una volta in mare e con
la camicia rossa, risorgesse la fede e l’istinto repubblicano.» […] (5)
E lo stesso Abba, giudicando quell’episodio a distanza di anni, così lo
racconta con la sua consueta benigna equanimità:
«Molti non si sapevano liberare da certo scontento che aveva la- sciato loro il
motto monarchico; ma la disciplina volontaria era forte. Difatti si staccarono
poi dalla spedizione e se ne tornarono di là, alle loro case, soltanto sei o
sette giovani cari. Seguivano il sardo Bruno Onnis che del motto “Italia e
Vittorio Emanuele!” era rimasto quasi offeso. Repubblicano inflessibile, si era
imbarcato a Genova sperando forse che Garibaldi, una volta in mare, si
ricordasse d’essere anche egli repubblicano; ma deluso, ora se ne andava e se
ne andavano con lui quei pochi, però senza che fosse fatto a loro nessun
rinfaccio. Rinunciavano per la loro idea ad una delle più grandi soddisfazioni
che cuor di allora potesse avere, e il sacrificio meritava rispetto».(6)
Quello che i memorialisti omettono, talvolta, di puntualizzare è che non pochi
repubblicani, taluni diventati poi Padri della Patria, erano (pure loro!), nel
libro paga del Governo Britannico già da tempo. Non si possono più dissociare,
quindi, dal grande progetto unitario, proprio nel momento in cui questo sta per
essere realizzato.
E sono costretti a fare buon viso a cattiva sorte…(Fine seconda
puntata/continua)
Foto tratta da felicitapubblica.it
(1) Nino Bixio (nato a Genova nel 1821 e morto a
Sumatra nel 1873) era di fatto il numero due della spedizione dei Mille,
Luogotenente e uomo di fiducia di Garibaldi. Personaggio molto discusso. Diventò
decisamente impopolare in Sicilia, soprattutto per la fucilazione, ordinata a
Bronte il 10 agosto del 1860, di cinque cittadini (fra cui l’avvocato Nicolò
Lombardo) sospettati di essere coinvolti nella sanguinosa sommossa di qualche
giorno prima. Il tutto senza prove e per compiacersi gli Inglesi che avevano
tanto aiutato l’impresa garibaldina. Sia durante la spedizione garibaldina del
1860, sia nella sua attività politica successiva, Bixio usò sempre toni
sprezzanti verso i Siciliani
(2) Giuseppe Guerzoni,
Vita di Bixio, pag. 158, Barbera, 1875. Testimonianza, questa, ripresa da
Lorenzo Bianchi nel commento all’edizione del 1955 del testo Da Quarto al
Volturno, di Giuseppe Cesare Abba, pagg. 28-29, Zanichelli.
(3) G. C. Abba, op. cit., pag. 18.
(4) Lo stesso proclama sarà letto, come vedremo,
da Garibaldi in persona, dopo lo sbarco a Talamone, di fronte a tutto
l’esercito garibaldino schierato. Peccato che in Sicilia troppi intellettuali e
troppi scrittori continuino a parlare di un Garibaldi uomo sincero ed in
perfetta buona fede, democratico, repubblicano e persino autonomista.
Ingannato, però, da altri… La verità è che nel 1860 furono traditi ed ingannati
soltanto i Siciliani.
(5) Luigi Russo, nelle note al libro Da Quarto al
Volturno, di G. Cesare Abba, pag. 118, Sellerio, 2010.
L’italia? L’italia non esiste, non può esistere una nazione inventata, un popolo creato apposta dalla mente di un uomo, uno stato fasullo, di second’ordine. Italiani? Italici come abitanti della penisola italica, ma non come cittadini di uno stato, colonia angloamericana e protettorato del liberismo. Gli italiani sono figli di albert Pike.
Nel 1861 il Piemonte faceva capo alla gran Massoneria
di Mister Albert Pike ed oggi alla Trilateral Commission.
Il 12 marzo 1849 sul “Globe”, quotidiano inglese,
portavoce dell’alto iniziato Palmerston, ministro della regina Vittoria,
apparve un articolo che era praticamente un vero libro profetico e possiamo
dire, senza enfasi, che era stato preparato segretamente nel Sacro Tempio della
massoneria londinese:
“…E’ da ritenere che gli accadimenti dell’anno scorso
non siano stati che la prima scena di un dramma fecondo di risultati piu’ vasti
e piu’ pacifici. L’edificio innalzato dal Congresso d Vienna era così arbitrario
e artificioso che ciascun uomo di stato liberale vedeva chiaramente che non
avrebbe sopportato il primo urto dell’Europa. L’intero sistema stabilito dal
Congresso di Vienna stava dissolvendosi e Lord Palmerston ha agito saggiamente
allorchè ha rifiutato il proprio concorso a opporre una diga all’onda
dilagante. Il piano che egli ha concepito è quello di una nuova configurazione
dell’Europa attraverso la costituzione di un forte regno tedesco che possa
costituire un muro di separazione fra Francia e Russia, la creazione di un
regno polacco-magiaro destinato a completare l’opera contro il gigante del
nord, infine un reame d’Italia superiore guidato dalla casa Savoia. Si è spesso
rimproverato a Palmerston di avere trascurato l’alleanza con l’Austria, ma qui
gli accusatori devono ancora rendergli giustizia. L’alleanza dell’Inghilterra e
dell’Austria non si è mai fondata su una comunanza di princìpi: essa esiste
semplicemente in quanto l’Austria era la principale rappresentante e come
l’incarnazione della nazione tedesca.
Dopo la pace di Westfalia fino a quella di Aix-Le
Chapelle (1648, 1748) l’Austria s’è trovata ad essere il centro della nazione
tedesca. Ma allorchè la spada di Federico fece dilatare i confini del suo reame
prima limitati all’elettorato del Brandeburgo, allorchè i veri tedeschi
riconobbero in questo guerriero il reale rappresentante della loro forza e
della loro nazionalità, la Prussia divenne l’alleata naturale dell’Inghilterra
sul continente. Ciò che l’Austria fin dall’inizio del secolo scorso, ciò che la
Prussia divenne piu’ tardi, la Germania può esserlo ugualmente che la capitale
sia a Berlino o Francoforte…”
Il disegno era chiaro, doveva essere attuata la
profezia di Comenius espressa in “Lux in Tenebris” secondo la quale sarebbe
dovuta sorgere dalle tenebre come fonte di luce una Super -chiesa che
integrasse ogni religione attraverso i Concistori nazionali, le Chiese
Nazionali, onde giungere in nome di un umanesimo unitivo ed a carattere
filantropico e tollerante, a proclamare l’uguaglianza e la pari dignità di
tutte le religioni.
Questo progetto si scontrava con un ostacolo
formidabile: la chiesa cattolica con la sua gerarchia, la casa Asburgo
d’Austria, cattolicissima, la Santa Russia degli zar ed il Regno delle Due
Sicilie, primo stato al mondo, quest’ultimo che aveva saputo integrare il dogma
cattolico con il verbo del Vangelo tradotto in pratica da leggi che non
disdegnavano le novità della rivoluzione francese o quelle comuniste del
Campanella e di Marx.
La Santa Russia, l’Impero Asburgico e il Regno delle
Due Sicilie dovevano lasciare il posto al nuovo ordine massonico, ma il
popolino queste cose non le sapeva, nè le conosce oggi, in quanto la storia
ufficiale viene scritta dai vincitori ed è sempre artefatta.
Questo nuovo ordine doveva portare sconvolgimenti
politici e morali di inaudita violenza.
In Italia il compito di capovolgere detto ordine, come
abbiamo visto nell’articolo del “Globe”, fu assegnato al Piemonte e a casa
Savoia, votata alla Gran Consorteria. Gli altri sovrani infatti erano tutti
devotissimi alla Chiesa di Roma. Lo stato piu’ retrivo d’Italia avrebbe dovuto
dar luce allo stivale! Al suo servizio la massoneria londinese mise uomini,
denaro e mezzi; soprattutto denaro e oro. I massoni sapevano che ad unità
compiuta sarebbero stati “elargiti” per secoli.
Casa Savoia doveva eseguire spietatamente gli ordini
di Londra dopo decenni di preparazione al liberismo.
Londra mandò Lord Gladstone a Napoli e Lord Mintho ed
altri emissari nelle varie province italiane a preparare la “rivoluzione
liberale” agli ordini di Giuseppe Mazzini, capo della Carboneria Italiana, il
cui scopo finale, secondo il suo fondatore genovese Antonio Maghella, era
“…quello di Voltaire e della rivoluzione francese: il completo annientamento
del cattolicesimo ed infine del cristianesimo”.
Questo signore nel 1809 era prefetto e ministro della
polizia del Regno di Napoli ed ebbe modo di iniziare alla setta migliaia di
persone e di infilarle in posti chiave.
La Carboneria era organizzata in “vendite”. Il vertice
era chiamato “alta vendita” ed era composto da 40 membri ed operava in stretto
contatto coi “supremi consigli” di 33 gr. del “rito scozzese”. Mazzini era un
esponente di punta dell’ala oltranzista. Nel 1847, durante un convegno
internazionale della massoneria a Strasburgo, venne approntato un piano di
confederazione europea allargata ai popoli germanici, latini e slavi da
conseguire attraverso una serie di rivoluzioni ben orchestrate.
Il Primo Ministro inglese Palmerston sparge per tutta
l’Europa emissari per la sollevazione; Lord Mintho visita Torino, Roma e
Napoli.
Nel 1848 le rivoluzioni scoppiano in ordinata
sequenza:
il 22 febbraio a parigi, il 13 marzo a Vienna, il 17
marzo a Berlino e a Venezia, il 18 marzo a Milano, il 30 marzo a Napoli, in
Toscana, a Roma, a Praga ed in Croazia, lasciando esenti i soli paesi laicisti.
Il risorgimento italiano, nei riguardi del Regno delle
due Sicilie, è stato ed è un grande falso storico oltre che un grandissimo
crimine.
(Era di Maggio. La storia stracciata. – di Giuseppe Maresca, pag. 169-171)
In sostanza la massoneria, nella sua interminabile
battaglia contro la chiesa, decise di togliere acqua al mulino papale, di
eliminare consensi e sottomissione cattolica delle case reali europee. A ciò è
dovuto prima l’appoggio all’Inghilterra nel sopraffare la grandiosa potenza
cattolica spagnola nel 1568, in quella che fù definita la “Guerra degli
ottant’anni”. Infatti il re di Spagna Filippo II ideò l’invasione
dell’Inghilterra eliminando l’odiata Elisabetta e gli eretici protestanti. A
tal proposito mise insieme l’Invincibile Armada, una grandiosa flotta composta
da 130 grandi vascelli e 24.000 uomini, ma la ribellione alla Spagna da parte
della nascente Repubblica delle sette province (l’Olanda) sconvolse i piani. L’Invincibile
armada venne distrutta dagli inglesi l’8 agosto del 1588 grazie alla tattica di
sir Francis Drake e la guerra si concluse nel 1648 con la ridimensionata Spagna
e la sempre più forte potenza inglese, a parte la nascente Olanda. La sconfitta
dei cattolici nel nord Europa da parte dei protestanti fu completa. Nel 1694
nasce la Banca d’Inghilterra, l’inizio del capitalismo che ha insegnato il
mondo a corrompere il genere umano.
Conseguentemente dall’Inghilterra fu finanziata la
rivoluzione francese, e la massoneria con Napoleone Buonaparte destabilizzò
l’Europa degli imperi cattolici, Impero Russo e Impero Austro-Ungarico. Con la
sconfitta definitiva di Napoleone bisognava distruggere una volta per sempre lo
Stato della Chiesa eliminando i Borbone di Napoli, sovrani di uno stato
cattolico vassallo del papato e far nascere nella penisola italica un unico
stato da contrapporre a Francia e Austria e che fosse a guida britannica. I
moti del 1820, 1830 e 1848 portarono scompiglio in Europa, così si aiutò la
formazione della Germania e dell’italia mentre l’Inghilterra ingrandiva
il suo impero nel mondo, organizzando la fine degli imperi cattolici e
preparandosi come potenza vincente della prima guerra mondiale nel 1914-1918.
L’italia? L’italia non esiste, non può esistere una
nazione inventata, un popolo creato apposta dalla mente di un uomo, uno stato
fasullo, di second’ordine. Italiani? Italici come abitanti della penisola
italica, ma non come cittadini di uno stato, colonia angloamericana e
protettorato del liberismo. Gli italiani sono figli di Albert Pike.
L’insurrezione in SAVOIA era fallita.Il piano ordito da MAZZINI ,che vedeva insorgere anche GENOVA grazie a G. ed i marinai convinti e coinvolti da quest’ultimo,era dunque,anch’esso fallito. La rivolta genovese, che doveva scoccare insieme all’invasione della SAVOIA, prevedeva di impadronirsi dell’arsenale militare ,di occupare la caserma dei CARABINIERI in Piazza SARZANO, e di requisire alcuni bastimenti ormeggiati nel porto. Come sappiamo il 3 febbraio 1834, mentre RAMORINO aspettava la riunione delle colonne di rivoltosi a SAINT-JULIEN, G.,che attendeva l’invasione della SAVOIA per insorgere, fu trasferito dalla nave EURIDICE alla Nave CONTE DES GENEYS che stava per togliere gli ormeggi. Fremente, il 4 febbraio, insieme all’amico MUTRU,riuscì a scendere a terra da questa,con la scusa che entrambi avevano bisogno di una visita medica per curarsi la loro malattia venerea. La verità e che dovevano capeggiare la rivolta. MUTRU e G. vagano per GENOVA convinti di trovare i rivoltosi già radunati e pronti alla tenzone. Ma di loro nessuna traccia. Corsero in Piazza S.GIORGIO ed in Piazza SARZANO ma non trovarono nessuno. Dopo ore ,in Piazza FONTANE MAROSE, invece, trovarono ,finalmente,centinaia di “rivoluzionari” rifugiatesi nelle taverne del luogo ,non con le armi in pugno ma con il bicchiere di vino in mano. Come si suol dire dalle parti nostre, questo atteso evento rivoluzionario che doveva scuotere uomini e coscienze ..” ERA FINITO A TARALLUCCI E VINO “. I mazziniani genovesi, ed i soldati sardi comprati da G. con i soldi della GIOVANE ITALIA, alla pugna avevano preferito salsicce e friarielli. G. capì subito che la rivolta era finita prima di cominciare.Decise subito di non tornare più sulla nave , temendo di essere arrestato, visto che ormai le voci di sommossa erano giunte alle orecchie della polizia Sabauda. Ritornò a Piazza SARZANO nella vana ed ultima speranza di trovare qualche sodale ma ,ivi giunto, trovò solo gendarmi piemontesi in armi. Per non farsi scorgere si nascose in un negozio di frutta e verdura di tal NATALINA POZZO ( su questo dato è sorto un giallo storico che poi sveleremo) ove ebbe ospitalità. Da qui ne esce di buon mattino ,vestendo i panni di contadino ,per mescolarsi tra la gente del porto nel tentativo di non farsi prendere sai Piemontesi. Ormai ,per la Marina Sarda era diventato un DISERTORE. Ed il disertore Garibaldi , non sapendo più cosa fare, si incammina sui monti di SESTRi per raggiungere la propria casa a NIZZA.( nella foto :Garibaldi in fuga verso Nizza sui monti di Sestri)
Si suole rilevare il fatto che Giuseppe Garibaldi fosse nizzardo e che, di solito, non comunicasse in italiano. Il fatto è che egli non avrebbe potuto nemmeno essere considerato europeo, avendo rinunciato nel 1851 alla cittadinanza savoiarda per assumere quella peruviana.
A differenza delle ex-colonie spagnole in America che, con la sola eccezione del Messico, si erano frantumate in decine di repubbliche più o meno liberali, i possedimenti portoghesi erano invece rimasti uniti sotto l’egida di Dom Pedro I, fondatore del gigantesco Impero brasiliano. Approfittando della minore età del suo successore, Dom Pedro II, nel 1835 scoppiò la cosiddetta “Guerra dos Farrapos” (Guerra degli stracci), una ribellione nella provincia di Rio Grande do Sul (capitale, Porto Alegre) di carattere repubblicano e separatista alla quale presero parte alcuni immigrati italiani, affiliati alla Carboneria. I suoi seguaci erano chiamati farroupilhas, straccioni.
Inizialmente vittoriosa — nel 1836 venne perfino proclamata un’effimera Repubblica Rio-Grandense — questa ribellione fu successivamente stroncata dalle truppe imperiali, in una guerra per terra e per mare. La Repubblica venne sciolta e la pace sancita nel 1845 dal Trattato di Poncho Verde. Bisogna registrare che questo conflitto ebbe anche carattere di guerra civile, poiché i monarchici riograndensi combatterono con gli imperiali.
Nel 1837, nella prigione Santa Cruz di Rio de Janeiro, Livio Zambeccari, massone aderente alla Giovine Italia nonché segretario della Repubblica riograndense, incontrò un giovane esiliato ligure chiamato Giuseppe Garibaldi desideroso di partecipare alla ribellione insieme ai “fratelli”. Presentandosi come esperto marinaio, Garibaldi chiese e ottenne subito una “patente di corsa”, cioè un’autorizzazione per dare la caccia e affondare le navi imperiali. In altre parole, per fare il pirata. Garibaldi ottenne il comando della lancia Mazzini, dando inizio alla sua avventura farroupilha, nella quale accumulò praticamente solo sconfitte di fronte alla Marina Imperiale.
Dopo la disfatta finale dei riograndensi, Garibaldi fuggì in Uruguay con alcuni sopravvissuti. Per strada sequestrarono un carico di stoffa rossa con cui confezionarono le camicie che poi contraddistinsero i suoi seguaci. In Uruguay era in corso una guerra civile che opponeva il governo costituzionale di Manuel Oribe a quello de facto di Fructuoso Rivera, appoggiato dall’Inghilterra.
Garibaldi si mise al servizio degli interessi britannici, ottenendo il comando di una flotta, ma venne sconfitto dall’ammiraglio Guillermo Brown nella battaglia del fiume Paraná. Finita prematuramente la sua carriera marinara, Garibaldi formò la “Legión Italiana”, tristemente nota per gli efferati saccheggi, dei quali lo stesso Garibaldi si vantava chiamando anzi i suoi mercenari “virtuosi saccheggiatori”. Si calcola che fu col frutto di questi saccheggi che egli comprò Caprera.
Nel corso di questa guerra Garibaldi riuscì anche a fare le “prove generali” dello sbarco a Marsala, prendendo d’assalto la città di Colonia nel 1845, con l’appoggio delle flotte britannica e francese.
È interessante notare che, mentre in Europa Garibaldi caldeggiava l’unificazione dell’Italia, in Sudamerica egli lottò invece per la frammentazione delle antiche colonie spagnole e portoghesi. Ciò solleva il sospetto che il suo disegno unitario non fosse tanto patriottico quanto strumentale alla diffusione del giacobinismo.
Don José Garibaldi
Esiliato ancora una volta dall’Italia, nel 1851 Garibaldi giunse in Perù proveniente dall’America Centrale. Prima di arrivare alla capitale Lima, egli fece scalo nel porto di Paita, dove incontrò Manuelita Sáenz, amante ormai appassita del “Libertador” Simón Bolívar. Tutti gli storici, tra cui Victor von Hagen («Las cuatro estaciones de Manuela», Sudamericana, 1989), coincidono nel sottolineare l’importanza di questo incontro. Garibaldi passò un’intera giornata ad ascoltare il racconto delle gesta di Bolívar, massone e giacobino come lui, da chi le aveva vissute in prima persona, si commosse fino alle lacrime e trasse dall’esperienza un rinnovato slancio nei suoi aneliti rivoluzionari.
In Perù v’era una fiorente colonia italiana. Dei centomila abitanti della capitale Lima, ben cinquemila erano italiani, e soprattutto liguri. Pullulavano cellule della Giovine Italia, della Carboneria e della Massoneria. Molti, infatti, vi si erano trasferiti, oltre che per tentare fortuna anche per gustare l’aria di libertà nella giovane repubblica peruviana. Arrivato a Lima, Garibaldi venne subito accolto in questo ambiente. Tramite un cugino di Mazzini, Manuel Solari, anch’esso immigrato in Perù, Garibaldi viene messo sotto la protezione del ricco, commerciante ligure Pietro Antonio Denegri Vasallo.
È curioso notare come sia una costante nella vita di Garibaldi la facilità con la quale, ovunque, trovasse gente disposta ad aiutarlo, a finanziarlo, a appoggiarlo e perfino a proteggerlo. Il ché scalfisce non poco la sua fama di “eroe”, visto che il vero eroe è colui che supera difficoltà apparentemente insormontabili, e non colui che trova davanti a sé strade sempre spianate. Questa gente, oltre all’appoggio, offriva anche consigli che orientavano la vita del rivoluzionario. Nella sua «Historia cronológica del Perú 1850-1878», lo storico peruviano Lázaro Costa Villavicencio racconta, per esempio, l’incontro di Garibaldi a Lima con lo studioso milanese Antonio Raimondi che gli disse con tono profetico: “Il destino vuole che Lei sia il liberatore dell’Italia”.
A Lima Garibaldi lasciò un’immagine di tipo violento e vendicativo, soprattutto quando era in ballo il suo smisurato ego. Il celebre scrittore peruviano Ricardo Palma racconta un tipico episodio di iracondia garibaldina, del quale fu testimone. Il giornalista Carlos Ledos, di “El Correo de Lima”, si era permesso di criticare Garibaldi. Cieco di rabbia, questi si presentò nella redazione del giornale e prese Ledos a bastonate, lasciandolo sanguinante e tramortito. Portato in carcere con l’accusa di lesioni aggravate, egli se la cavò solo grazie alla puntuale intercessione del Console di Sardegna Giuseppe Canevaro, un noto monarchico.
Questo episodio fece riflettere Garibaldi, aiutandolo a convincersi che doveva fare un patto con la monarchia sabauda, per portare avanti i suoi disegni rivoluzionari. Più tardi, nel 1854, egli inviò una lettera a Mazzini cercando di convincerlo di accantonare, almeno per il momento, gli aneliti repubblicani, e di appoggiare invece la politica di Vittorio Emanuele II. Pietro Denegri aveva una piccola flotta con la quale commerciava con l’Oriente. Egli offrì a Garibaldi il comando della “Carmen”, di 400 tonnellate. A tal fine, Garibaldi dovette però rinunciare alla sua cittadinanza savoiarda per assumere quella peruviana. Appena quindici giorni dopo il suo arrivo a Lima — la burocrazia si faceva veramente in quattro per questo nizzardo! — il capitano Manuel de la Haza (massone affiliato alla Loggia “Concordia Universal 2” del Callao) — rilasciava la patente di capitano a “Don José Garibaldi, natural de Génova (sic) y ciudadano peruano”.
Garibaldi trafficante di “semi-schiavi”
Fioriva in Perù il commercio del guano, prodotto dalle deiezioni degli uccelli marini sulle isole e allora molto pregiato come fertilizzante. Il lavoro era durissimo e le condizioni igieniche pessime. Gli imprenditori, per lo più stranieri, erano costretti a utilizzare lavoro schiavile. Fu così che, dal 1849, cominciò a svilupparsi l’importazione di contadini cinesi, chiamati coolie, destinati alle isole. Un articolo dell’“Illustrated Times” di Londra, del 5 marzo 1859, racconta di condizioni così inumane che i coolie si suicidavano in massa. La minima mancanza di disciplina era castigata con 24 colpi di frusta. Il già menzionato Ricardo Palma, testimone oculare, racconta che i coolie avevano le spalle lacerate: non appena le ferite di un castigo cominciavano a rimarginarsi, erano di nuovo flagellati.
Nell’ottobre 1851, Pietro Denegri affidò a Garibaldi un carico di guano per l’Oriente. Dopo aver imbarcato la merce al sud, Garibaldi partì dal Callao il 10 gennaio 1852 con destinazione Manila e Canton, facendo ritorno il 28 gennaio 1853 con un carico di coolie per le aziende del guano.
I difensori di Garibaldi, specialmente le logge massoniche peruviane, cercarono di scagionare il loro “fratello” affermando trattarsi non di schiavi ma, in realtà, di “traffico di semi-schiavi destinati a essere venduti alle aziende” (“Un masón peruano llamado Garibaldi”, Gran Logia Occidental del Perú, 28 giugno 2008). A noi, francamente, ci sfugge la sfumatura…
Con grande sollievo dei limensi, sempre più turbati dall’irrequieto personaggio, Garibaldi rientrò in Italia nel 1854, dove ovviamente seppelì i suoi documenti peruviani. Il resto è storia.
Così, anche nella Penisola, nella prima metà dell’800,
a livello di ristrette e colte elites, borghesi ed intellettuali, divenne
sempre più presente e forte la convinzione dell’esistenza di un’unica Nazione
Italiana che si faceva ascendere da alcuni all’impero romano, da altri al
Medioevo; ad essa si facevano risalire i fasti del Rinascimento con il suo
primato culturale indiscusso (che coincideva, con apparente paradosso, col
punto più basso della rilevanza politica dell’Italia nel contesto europeo).
Giovani universitari, avvocati, medici, giornalisti, scrittori, avevano formato
il loro pensiero leggendo le opere di Foscolo, Berchet, Giusti, Giannone,
Manzoni, Poerio, Pellico, Cuoco, D’Azeglio, Balbo, Botta e Gioberti (solo per
citarne alcuni) e credettero fosse arrivato il momento di battersi per dare a
questa Nazione uno Stato unitario; erano una esigua minoranza anche perchè solo
pochissimi italiani sapevano leggere e scrivere (persino al momento dell’unità
il loro numero superava a malapena il 20%).
Questa aspirazione ad un’unione statale della Penisola
divenne il loro ideale da realizzarsi però tramite quattro progetti politici
molto diversi e in palese conflitto tra loro: quello repubblicano-centralistico
di Mazzini: repubblica e stato fortemente centralizzato; quello repubblicano-federale
di Cattaneo il quale affermava che “gli italiani senza federalismo saranno
sempre discordi, invidiosi, infelici”[1];
quello monarchico-federale a guida papale di Gioberti, il quale, in
antitesi al pensiero di Mazzini, faceva notare che “il popolo italiano“ non può
essere soggetto d’azione politica perché non è ancora altro che «un
desiderio e non un fatto, un presupposto e non una realtà, un nome e non una
cosa», per questo motivo la guida del risorgimento nazionale deve essere «monarchica
ed aristocratica, cioè risedente nei prìncipi e avvalorata dal concorso
degl’ingegni più eccellenti, che sono il patriziato naturale e perpetuo delle
nazioni»; infine, quello monarchico-centralistico, il “tutto mio”
dei Savoia. Alberto Banti, a proposito delle incompatibilità tra i quattro
progetti politici unitari, scrive [2]:“Le
fratture che correvano all’interno del movimento nazionale erano di un tipo
tale per cui chi avesse vinto la partita, avrebbe vinto tutto, e chi avesse
perso sarebbe rimasto con un pugno di mosche in mano, in posizione politica (e
spesso anche personale) del tutto marginale“. Anche per questo i massimi
esponenti delle varie correnti di pensiero, si detestavano a vicenda, ad
esempio Cavour affermava: ”Ciò che manca a Mazzini per essere un sommo
rivoluzionario è il coraggio morale, l’intrepidità a fronte dei pericoli, il
disprezzo della morte”, gli dava, insomma, del codardo, accusa peraltro
ribadita da molti che criticavano “l’agiatissimo esilio” del Genovese e
la sua contemporanea accesa retorica che spingeva altri soggetti a prendere le
armi in pugno e a morire; “infame cospiratore e autentico capo di assassini”
rincarava Cavour; di contro Mazzini gli rispondeva che “Io vi sapevo, da
lungo tempo, tenero alla monarchia piemontese più assai che della patria
comune; adoratore materialista del fatto più che di ogni santo, eterno
principio…perciò se io prima non vi amavo, ora vi sprezzo”. Garibaldi, a
sua volta, chiese a più riprese a Vittorio Emanuele II di liquidare Cavour il
quale affermava che “Garibaldi è il più fiero nemico che io abbia”.
Bisogna, inoltre, rimarcare il fatto che “L’ingombrante
presenza austriaca della penisola … poneva due ordini di problemi.
Innanzi tutto, creava uno squilibrio permanente nei rapporti tra Stati
italiani, dato che nessuno di essi aveva il peso ed il prestigio militare
sufficienti a bilanciare l’influenza asburgica. In secondo luogo, catalizzava
il problema italiano intorno alla parola d’ordine della cacciata dello
straniero, ricca di suggestioni emotive …tali da far passare in secondo piano,
come minimalista e inadeguato, qualunque programma volto a ottenere riforme
costituzionali o amministrative nell’ambito degli ordinamenti esistenti…questa
peculiarità italiana fece sì che la dimensione cospirativa di stampo settario (Mazzini)…avesse
un peso rilevante”[3]
anche perché i programmi federalisti del Gioberti e di Cattaneo,
rispettivamente monarchico e repubblicano, pur se rispettosi delle realtà
secolari degli stati italiani, sostanzialmente fallivano nella soluzione del
“problema Austria”.
Tutti questi progetti unitari “raccoglievano ostilità
e soprattutto indifferenza nel popolo italiano”[4],
nella prima metà dell’Ottocento, infatti, l’idea di un’Italia unita e
indipendente non si era formata, com’era del tutto assente una coscienza
nazionale; né sono da contrapporre a queste asserzioni le “spontanee
insurrezioni popolari unitarie“ che si manifestarono nei vari stati
italiani, esse erano notoriamente organizzate da agenti sabaudi, né tanto meno
i risultati dei “plebisciti“ confermativi le annessioni piemontesi, che
seguirono alla cacciata dei sovrani preunitari, e che nessuna mente intellettualmente
onesta può definire, guardando alle modalità del loro svolgimento, libera
espressione di volontà popolare.
Persino nel fervore delle guerre di indipendenza il
sentimento di appartenenza ad un’unica patria era molto labile: nella prima, del
1848, i soldati piemontesi non mostrarono nessuna aspirazione alla causa
unitaria e nazionale tanto che quando Gioberti e Brofferio (due importanti
esponenti liberali e unitaristi) si presentarono al loro cospetto e tentarono
di istruirli sul significato”risorgimentale” della guerra “le mille
imprecazioni dei nostri Ufficiali il fecero desistere dalla sua impresa.
[Brofferio] si fece accompagnare in vettura da tre Ufficiali per paura che per
strada lo ammazzassero. Gioberti gli toccò la stessa sorte e un soldato finì
per tirargli addosso un torsolo di cavolo”[5].
Nella seconda guerra (del 1859) “i soldati
dell’esercito sardo, quasi esclusivamente contadini e popolani … non erano
ancora ben persuasi che il Piemonte fosse in Italia, tanto è vero che ai
volontari provenienti dalle altre regioni d’Italia rivolgevano la domanda:
“Vieni dall’Italia?”[6].
Furono solo 10mila i volontari accorsi dalle altre regioni d’Italia (la
popolazione complessiva di queste regioni era di 20 milioni di abitanti),
un’ulteriore prova, se mai ce ne fosse bisogno, di quanto poco era sentita
l’istanza di una unione politica dell’Italia, questo fatto riempì
d’indignazione Cavour che si sfogò ripetutamente nella sua corrispondenza
privata, i volontari arruolati a Torino, provenienti dalle Due Sicilie, furono
20 [7].
Il conflitto si svolse tra l’avversione del popolo piemontese, oppresso
fiscalmente a causa della onerosissima politica estera governativa,
l’indifferenza dei lombardi (protagonisti nel marzo del 1848 delle Cinque
giornate di Milano) e l’ostilità dei veneti che si batterono valorosamente
nelle fila dell’esercito austriaco.
Durante la terza (1866) quando a Lissa il comandante
austriaco von Teghethoff annunciò agli equipaggi delle sue navi, composti quasi
integralmente da veneti, che la battaglia contro la marina del regno d’Italia
era stata vinta, essi lanciarono i berretti in aria in segno di giubilo e
gridarono “Viva San Marco” [simbolo di Venezia].
Questo stridente contrasto tra gli ideali di una
minoranza e le aspettative della grande maggioranza della popolazione fece
causticamente commentare che “Il liberalismo, che pretende di essere
l’interprete dei destini nazionali e della volontà popolare, è in realtà una
parte che pretende di stare per il tutto, una minoranza ideologica che si
autoconferisce l’identità di nazione…Italia fittizia che si sovrappone al Paese
reale senza rappresentarlo”[8]
.
Passando dagli idealisti senza secondi fini, alle
persone che invece avevano concreti interessi materiali, non vi è dubbio che
dietro l’ideale unitario si creò una alleanza tra la borghesia settentrionale e
i latifondisti meridionali; la prima, forte dell’appoggio politico del Piemonte,
vedeva nell’unità la possibilità di espandere gli affari a danno di quella
meridionale, la seconda patteggiò il sostegno ai Savoia in cambio della futura
vendita sotto costo delle terre demaniali ed ecclesiastiche, privando in questo
modo i contadini degli usi civici (cioè dell’uso gratuito delle terre dello
Stato per la semina e il pascolo). La classe che fu fortemente penalizzata dal
Risorgimento fu quella popolare la cui condizione economica peggiorò causando
il tragico fenomeno dell’emigrazione “il popolo minuto era per il resto del
tutto irrilevante ai fini del movimento nazionale, e ciò giova a spiegare come
nessun elemento dirigente di quest’ultimo si prendesse la briga di conquistarne
le simpatie”[9].
Solo Garibaldi lo fece, ma solo strumentalmente, all’inizio della spedizione
dei Mille: promise, con degli editti, le terre a chi lo avesse aiutato nella
lotta contro i Borbone, poi, una volta ottenuto l’appoggio dei contadini, egli
stesso ordinò la repressione di focolai di rivolte popolari, l’episodio più
grave fu quello del paese di Bronte, in Sicilia. Qui ci fu la resa dei conti
circa le promesse fatte: il 1° agosto 1860 i contadini, insorti contro i
proprietari terrieri; uccisero una decina di “galantuomini”; il
Nizzardo, sollecitato dal console inglese che gli intimava di far rispettare le
proprietà britanniche lì presenti, e spinto anche dal verificarsi di rivolte
contadine simili a Linguaglossa, Randazzo, Centuripe e Castiglione, inviò il 6
Agosto sei compagnie di soldati piemontesi e due battaglioni di cacciatori al
comando di Nino Bixio, “una forza atta a sopprimere li disordini che vi sono
in Bronte che minacciano le proprietà inglesi”[10].
Bixio, arrivato a Bronte, uccise subito a freddo un rivoltoso ed emise un
decreto con cui intimava la consegna delle armi, l’esautorazione
dell’amministrazione comunale e la condanna a morte dei responsabili più una
tassa di guerra per ogni ora trascorsa fino alla “pacificazione” della
cittadina; nei giorni successivi incriminò cinque persone, tra cui un insano di
mente, le quali dopo un processo farsa furono condannate a morte; gli accusati,
che erano innocenti (i responsabili erano scappati prima dell’arrivo di Bixio),
furono fucilati il 10 agosto e i loro cadaveri esposti al pubblico insepolti[11].
“Dopo Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi, ed altri villaggi
lo [Bixio] videro, sentirono la stretta della sua mano possente, gli
gridarono dietro: Belva! Ma niuno osò più muoversi….se no ecco quello che ha
scritto:“Con noi poche parole; o voi restate tranquilli, o noi, in nome della giustizia
e della patria nostra, vi struggiamo [distruggiamo] come nemici
dell’umanità “[12].
I “galantuomini” avevano vinto su
tutti i fronti e Garibaldi si dimostrò, quindi, come dice Denis Mack Smith, “il
più religioso sostegno della proprietà“; lo aveva capito, già all’inizio
della spedizione dei Mille, un frate siciliano, padre Carmelo, che declinò
l’invito del garibaldino Giuseppe Cesare Abba di unirsi alle camicie rosse
dicendogli:”Verrei, se sapessi che farete qualche cosa di grande davvero; ma
ho parlato con molti dei vostri, e non mi hanno saputo dir altro che volete
unire l’Italia…così è troppo poco.”[13]
Marcello Veneziani[14]
osserva, inoltre, che il Risorgimento provocò, per la sua preminente matrice
liberale ed anticlericale, anche ”la frattura con l’anima religiosa del
popolo italiano, la frattura con il mondo rurale e con i valori tipici di una
civiltà contadina, la frattura con il Meridione”.
Interessanti, a quest’ultimo proposito, le opinioni di
Denis Mack Smith e Paolo Mieli[15],
dice il primo: “Contrariamente alla versione raccontata sui libri della
storia ufficiale il popolo meridionale non partecipò al Risorgimento“ e
aggiunge il secondo: “La stagione risorgimentale e post-risorgimentale è
fatta di migliaia di morti, lotte, spari, massacri. Abbiamo vissuto una lunga
guerra civile, di reietti contro buoni. Il popolo, soprattutto dell’Italia
meridionale, è stato all’opposizione; lo era dai tempi delle invasioni
napoleoniche [le cosiddette “insorgenze” contro i francesi che causarono
decine di migliaia di vittime], c’erano stati moti molto forti, per
diciannove anni, sino al 1815. Il popolo rimase sordamente ostile, perché
legato all’autorità borbonica non percepita come nemica e alla Chiesa
cattolica, che era una delle fonti istituzionali alle quali abbeverarsi. Il
fenomeno ricordato nei nostri manuali come brigantaggio in realtà fu una guerra
civile che sconvolse l’intero Sud, gli sconfitti lasciarono le loro terre e
alimentarono la gigantesca emigrazione verso l’America “.
Nel giudizio storico sul distacco della popolazione
meridionale dagli ideali di lotta allo straniero e di unità nazionale bisogna,
al contrario di una superficiale e accusatoria storiografia ufficiale, mettere
in conto che, a parte la sparuta minoranza che aveva nell’animo l’ideale
unitario senza secondi fini utilitaristici, la massima parte dei meridionali,
dal sovrano al più umile dei sudditi erano consapevoli di essere indipendenti
da circa 800 anni, tanto contava il regno del Sud come età, e di avere, quindi,
già una Patria bella e formata da secoli, lo straniero (l’Austria) era molto
distante e non aveva più nessuna influenza, nè poteva minacciare le Due
Sicilie.
Ci voleva, quindi, un grosso sforzo di immaginazione
per pensare di poter mobilitare e soprattutto motivare uomini in armi
per un ideale assolutamente incomprensibile. Il fatto che poi questo ideale
unitario abbia prevalso nella realtà dei fatti, non vuol dire assolutamente che
fosse l’inevitabile conseguenza del “secolo delle nazionalità”, almeno nel modo
in cui si ottenne, tanto che anche molti accesi unitaristi affermarono che
l’unità d’Italia era stata, per lo svolgimento degli avvenimenti, come un
“terno a lotto” o un cosa che poteva riuscire una volta ogni cento anni…
Giuseppe Ressa
Note
[1] riportato da
Alessandro Vitale nel Supplemento al n.10 di “Liberal”, febbraio 2002
[4] Marcello
Veneziani, Processo all’Occidente, ed. Sugarco, 1990, pag.225
[5] Giacomo
Brachet Contol, “La formazione di Francesco Faà di Bruno”, citato da Francesco
Pappalardo “Il mito di Garibaldi”, Piemme, 2002, pag. 94
[6] Girolamo
Arnaldi, L’Italia e i suoi invasori, Laterza, 2003, pag. 179
[7] Gigi Di Fiore,
I vinti del Risorgimento, UTET 2004, pag. 264
[8] Civiltà
Cattolica serie IV, vol. 7 (30 agosto 1860), p.647 riportata da Giovanni Turco
in “Brigantaggio, legittima difesa del Sud”, Il Giglio editore, 2000, pag. XX
[9] Denis Mack
Smith, citato da Michele Topa, Così finirono i Borbone di Napoli, Fiorentino,
1990, pag.508
[10] Giuseppe
Garibaldi, lettera del 3-8-1860, in Epistolario, vol. V p. 197 citato da
Francesco Pappalardo, Il mito di Garibaldi, Piemme 2002, pag. 159
[11] in seguito fu
celebrato un nuovo processo presso la Corte di Assise di Catania che nel 1863
comminò altre 37 condanne, di cui molte a vita.
[12] Abba, Da
Quarto al Volturno, Oscar Mondadori, 1980, pagg.137-8
Il
processo di Unità di Italia ha visto come protagonisti una sfilza di uomini più
o meno celebri, i cosiddetti padri del
Risorgimento. Dal nord al sud Italia ogni piazza o via principale si fregia di
nomi illustri: Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele etc.
Il
popolo viene indottrinato fin dalla più tenera età a considerare costoro dei
veri eroi, gli artisti li raffigurano esaltando il loro valore in maniera da
rafforzare il mito che li circonda. Innumerevoli sono infatti le opere d’arte
che ritraggono l’eroe dei due Mondi ora a cavallo…ora in piedi che impugna alta
la sua spada, alcune volte indossa la celebre camicia rossa…altre volte si
regge su un paio di stampelle come un martire.
Tuttavia
un ritratto che di certo non vedremo mai vorrebbe il Gran Maestro massone,
Giuseppe Garibaldi, privo dei lobi delle orecchie. E dire che nessuna
raffigurazione potrebbe essere più realistica poiché al nostro falso eroe
furono davvero mozzate le orecchie, la mutilazione avvenne esattamente in Sud
America, dove l’intrepido Garibaldi fu punito per furto di bestiame, si
vocifera che fosse un ladro di cavalli. Naturalmente nessuna fonte ufficiale
racconta questa vicenda.
È dunque
lecito chiedersi quante altre accuse infanghino le gesta degli eroi
risorgimentali? Quante altre macchie vennero lavate a colpi d’inchiostro da una
storiografia corrotta e pilotata? Ma soprattutto quale fu il ruolo dei
banchieri Rothschild nel processo di Unità d’Italia?
La Banca Nazionale degli Stati Sardi
era sotto il controllo di Camillo Benso conte di Cavour, grazie alle cui
pressioni divenne una autentica Tesoreria di Stato. Difatti era l’unica banca
ad emettere una moneta fatta di semplice carta straccia.
Inizialmente la riserva aurea ammontava ad appena 20 milioni ma questa somma
ben presto sfumò perché reinvestita nella politica guerrafondaia dei Savoia. Il
Banco delle Due Sicilie, sotto il controllo dei Borbone, possedeva invece un
capitale enormemente più alto e costituito di solo oro e argento, una riserva
tale da poter emettere moneta per 1.200 milioni ed assumere così il controllo
dei mercati.
Cavour e
gli stessi Savoia avevano ormai messo in ginocchio l’economia piemontese, si
erano indebitati verso i Rothschild per svariati milioni e divennero in breve
due burattini nelle loro mani.
Fu così
che i Savoia presero di mira il bottino dei Borbone. La rinascita economica
piemontese avvenne mediante un operazione militare espansionistica a cui fu
dato il nome in codice di Unità d’Italia, un classico esempio di colonialismo
sotto mentite spoglie.
L’intero
progetto fu diretto dalla massoneria britannica, vero collante del
Risorgimento. Non a caso i suddetti eroi furono tutti rigorosamente massoni.
La
storia ufficiale racconta che i Mille guidati da Giuseppe Garibaldi, benché
disorganizzati e privi di alcuna esperienza in campo militare, avrebbero
prevalso su un esercito di settanta mila soldati ben addestrati e ben
equipaggiati quale era l’esercito borbonico. In realtà l’impresa di Garibaldi
riuscì solo grazie ai finanziamenti dei Rothschild, con i loro soldi i Savoia
corruppero gli alti ufficiali dell’esercito borbonico che alla vista dei Mille
batterono in ritirata, consentendo così la disfatta sul campo.
Dunque
non ci fu mai una vera battaglia, neppure la storiografia ufficiale ha potuto
insabbiare le prove del fatto che molti ufficiali dell’esercito borbonico
furono condannati per alto tradimento alla corona. Il sud fu presto invaso e
depredato di ogni ricchezza, l’oro dei Borbone scomparve per sempre.
Stupri,
esecuzioni di massa, crimini di guerra e violenze di ogni genere erano all’
ordine del giorno. L’unica alternativa alla morte fu l’emigrazione. Il popolo
cominciò a lasciare le campagne per trovare altrove una via di fuga.
Ben
presto il malcontento generale fomentò la ribellione dei sopravvissuti, si
trattava di poveri contadini e gente di fatica che la propaganda savoiarda
bollò con il dispregiativo di “briganti”, così da giustificarne la brutale
soppressione.
A 150 anni di distanza si parla
ancora di questione meridionale. Anche i più distratti scoveranno diverse
analogie con quella che oggi viene invece definita questione palestinese.
Stesse tecniche di disinformazione, stesse mire espansionistiche e soprattutto
stesse famiglie di banchieri.
Solo che un tempo gli oppressi erano chiamati briganti…oggi invece sono i
cattivi terroristi.