Alta Terra di Lavoro

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L’Inno borbonico scritto da Giuseppe Verdi

Posted by on Mar 7, 2019

L’Inno borbonico scritto da Giuseppe Verdi

“Padania” e Regno delle Due Sicilie hanno solo una cosa in comune: l’autore dell’inno nazionale.
Certo, è una battuta provocatoria. Ma le cose diventano ancora più paradossali se si pensa che l’autore delle musiche in questione è Giuseppe Verdi, uno dei padri dell’Unità d’Italia.

Chissà cosa direbbero i nostalgici della Lega Lombarda se sapessero che proprio Verdi, nel 1848, scrisse un inno chiamato “La Patria – dedicato a Ferdinando II di Borbone“: avrebbe dovuto sostituire lo storico inno di Giovanni aisiello.

Re Ferdinando è salutato come padre della patria ed il testo finisce con un coro di “Viva il Re!“.

Bisogna contestualizzare la situazione storica: l’inno fu scritto dopo le rivolte del 1848, quando tutta Europa si sollevò contro le monarchie. Anche a Napoli ci furono numerose manifestazioni contro Ferdinando II, tanto da costringerlo ad emanare una costituzione (che poi fu revocata l’anno dopo).

In tempi di rinnovamento, probabilmente, si pensò che anche l’inno storico scritto sotto Ferdinando IV dovesse essere cambiato.
Ed ecco che quindi le musiche dell’Ernani, un’opera composta pochi anni prima da Verdi, furono arricchite con le parole di Michele Cucciniello:

Bella Patria del sangue versato
se fumanti rosseggian le
impronte

non più spine ti strazian la
fronte
il martirio la palma fruttò
Viva il Re!
Viva il Re!
Viva il Re!

L’inno fu però presto dimenticato in quanto, per tradizione, rimase ufficiale la musica di Paisiello. Il lavoro di Verdi fu ritrovato solo nel 1973, più di cento anni dopo dalla caduta del Regno, per mano del maestro Roberto de Simone, che scavò negli immensi archivi del Conservatorio di San Pietro a Majella e studiò le origini di questa storia, che altrimenti avremmo dimenticato.

Verdi era borbonico?

I conti non tornano: Verdi fu uno dei più appassionati sostenitori dell’Unità d’Italia, oggi sono dedicate a lui piazze, strade e monumenti. Com’è possibile che vent’anni prima dell’unità sosteneva la monarchia di Napoli?

Alcuni autorevoli studiosi, fra cui l’istituto di Studi Verdiani, credono che l’inno “La Patria” sia un plagio clandestino di un testo mai autorizzato. È effettivamente strano che Verdi, forte sostenitore di Mazzini, abbia appoggiato la politica borbonica. Oltretutto il compositore si trovava a Parigi nel 1848.

Michele Coccia, invece, affermò di aver trovato anche le carte in cui si poteva leggere chiaramente il consenso del compositore per la diffusione della sua opera, di fatto riconoscendola come originale. E se anche non ci fossero stati riconoscimenti, l’inno di Verdi era sicuramente molto conosciuto a Napoli.
Oltretutto, quando il compositore di Busseto diventò senatore, si batté molto per promuovere leggi sul diritto d’autore e per tutelarsi dai numerosissimi plagi che aveva subito nella sua carriera. Se anche l’inno borbonico fosse stato fra questi, probabilmente, Verdi ne avrebbe in qualche modo parlato.

Ci sono anche quelli che, come lo storico Pasquale Galasso ed il maestro De Simone, vedono in Verdi un “opportunismo”: l’Italia stava per cominciare il suo processo di unificazione e tutti gli intellettuali del paese si sarebbero affidati a qualunque monarca disposto a compiere l’impresa. E Verdi provò ad ingraziarsi anche il re di Napoli.
In effetti, ancor prima che cominciasse il processo unitario, a Ferdinando II fu proposto di unificare l’Italia, ma il monarca non prese mai in considerazione questa ipotesi per evitare conflitti con Roma.

E così, in un duello fra immaginazione e storia, Lega Nord e Regno di Napoli hanno avuto in comune l’autore dei propri inni.
Per l’immaginaria Padania, ovviamente, il discorso è un po’ diverso: l’aria del “Va, pensiero” fu adottata da Bossi quando il buon Giuseppe Verdi era morto da ben ottant’anni.

Federico Quagliuolo

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L’Inghilterra, il Regno delle due Sicilie e l’unità d’Italia: come provare a creare uno stato satellite

Posted by on Mar 4, 2019

L’Inghilterra, il Regno delle due Sicilie e l’unità d’Italia: come provare a creare uno stato satellite

Secondo la «logica della scacchiera», un’Italia unita faceva comodo a Londra come contraltare a Parigi. Ma prima occorreva demolire il Regno delle Due Sicilie, non disposto a fare «l’ascaro» di Sua Maestà Britannica. Protesa nel Mediterraneo, con migliaia di chilometri di coste da difendere, l’Italia unita voluta e sostenuta da Londra sarebbe stata sempre sotto ricatto della potente flotta inglese. Un progetto che non andò però sempre per il verso giusto (per gli inglesi). Questa è l’immagine che emerge dal colloquio di Eugenio Di Rienzo, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma «La Sapienza» e direttore della «Nuova Rivista Storica». Di Rienzo si è occupato dei problemi relativi ai rapporti fra le potenze europee e lo Stato italiano pre-unitario dalla posizione più strategica: il Regno delle Due Sicilie. Per questo con lui verranno esaminati in questa intervista argomenti che sono più ampiamente trattati nel suo volume Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee, 1830-1861, d’imminente pubblicazione per i tipi di Rubbettino.

Durante il XVI e il XVII secolo l’Italia esercita un grande fascino sull’Inghilterra. Questa fascinazione continua nei secoli successivi e si estende anche al Mezzogiorno. Per tutti i viaggiatori inglesi, l’Italia del Sud appare come un museo a cielo aperto abitato, però, da popolazioni incivili. Nasce allora un pregiudizio anti-italiano e in particolare anti-meridionale? Un pregiudizio fondato?

«Anche se l’espressione un “paradiso abitato da diavoli” riferita a Napoli e alla Campania fu coniata, come ricordava Benedetto Croce, da Daniele Omeis, professore di morale presso l’Università di Altdorf in Germania che, nel 1707, pronunciò una prolusione accademica, intitolata appunto “Regnun Neapolitaum Paradisus est, sed a Diabolis habitatus”, questo giudizio ritorna come un motivo ricorrente nei diari e nelle corrispondenze dei gentlemen inglesi. Lo spettacolo delle meraviglie artistiche e naturali del Mezzogiorno era, infatti, oscurato dall’arretratezza, dalla povertà, dal degrado morale delle popolazioni e dall’inadeguatezza delle classi dirigenti. Se nel passato quelle regioni erano state la culla della civiltà classica, ora, esse apparivano il terreno di coltura di una plebe indocile, ignorante, superstiziosa, tendenzialmente delinquente: i lazzaroni di Napoli e i briganti della Calabria. Ricordiamo, però, che questo giudizio, pur basato su dati di fatto, era potentemente rafforzato da un pregiudizio religioso e anti-cattolico. Il culto di San Gennaro a Napoli e la fastosa e paganeggiante processione in onore di Santa Rosalia a Palermo apparivano, infatti, la testimonianza vivente di come il Papato e il clero avessero mantenuto volutamente le masse del Sud in una situazione di soggezione e di subalternità, utilizzando nel modo più spregiudicato, il precetto di Machiavelli, soprannominato dagli inglesi Old Nick (Vecchio Diavolo), secondo il quale la religione doveva essere instrumentum regni. Aggiungiamo, però, che i rapporti tra Regno di Napoli e Gran Bretagna non si limitarono a questi aspetti. Nel 1842, come illustrava un denso articolo, pubblicato sull’autorevolissimo “Journal of the Statistical Society of London”, una quota rilevante della bilancia commerciale britannica era rappresentata dall’importazione di materie prime provenienti dalla Sicilia. L’ingente traffico era costituito da vino, olio d’oliva, agrumi, mandorle, nocciole, sommacco, barilla e soprattutto dallo zolfo (utilizzato per la preparazione della soda artificiale, dell’acido solforico e della polvere da sparo), che copriva il 90% della richiesta mondiale e di cui venti ditte inglesi avevano ottenuto, di fatto, la prerogativa esclusiva, per l’estrazione e lo sfruttamento, grazie al pagamento di un modico compenso».

Quando i Borbone furono ridotti al possesso della sola Sicilia dall’invasione napoleonica (1805) si trovarono sotto una pesante tutela inglese. Quanto durò l’influenza britannica su Napoli dopo il Congresso di Vienna, e come si manifestò?

«Dopo il 1815, Londra non prese in considerazione la possibilità di un intervento indirizzato a guadagnarle una presenza politico-militare nella Penisola. Il principio della non ingerenza negli affari italiani registrò, tuttavia, una clamorosa eccezione per quello che riguardava il crescente interesse inglese a rafforzare la sua egemonia nel Mediterraneo e quindi a riguadagnare quella posizione di vantaggio, acquisita nel 1806 e ulteriormente incrementatasi poi, tra 1811 e 1815, grazie al protettorato politico-militare instaurato da William Bentick in Sicilia. Protettorato che aveva portato ad ampliare la colonizzazione economica dell’isola già avviata dalla fine del XVIII secolo, poi destinata a irrobustirsi nei decenni seguenti grazie all’attività delle grandi dinastie commerciali dei Woodhouse, degli Ingham, dei Whitaker e di altri mercanti-imprenditori angloamericani. Molto indicativa, a questo riguardo era la presa di posizione del primo ministro, Visconte Castlereagh che, il 21 giugno 1821, aveva ricordato che il dominio diretto o indiretto della Sicilia costituiva, ora come nel passato, un “indispensabile punto d’appoggio” per rendere possibile il controllo dell’Inghilterra sull’Europa meridionale e l’Africa settentrionale. Come, infatti, avrebbe sostenuto Giovanni Aceto, nel volume del 1827, “De la Sicile et de ses rapports avec l’Angleterre”, “quest’isola non rappresenta per l’Inghilterra soltanto un importante avamposto strategico, da preservare, ad ogni costo, da una possibile occupazione della Francia che la minaccia dalle sue coste, ma costituisce anche il centro di tutte le operazioni militari e politiche che il Regno Unito intende intraprendere nell’Italia e nel Mediterraneo”».

Il controllo del Mediterraneo centrale fu tra i principali motivi di conflitto tra Napoli e Londra: prima l’occupazione britannica di Malta, strappata a Napoleone (che a sua volta l’aveva tolta ai Cavalieri di San Giovanni, che riconoscevano la sovranità siciliana sull’isola) ma mai restituita ai Borbone, poi l’incidente dell’Isola Ferdinandea, infine la questione degli «Zolfi». Furono solo questioni geopolitiche o contarono anche altre considerazioni?

«Sicuramente interessi strategici e geopolitici dominarono la politica della Corte di San Giacomo verso le Due Sicilie dalla metà dell’Ottocento al 1860. Nel 1840, Palmerston usò tutta la forza della gunboat diplomacy per mantenere il monopolio inglese sugli zolfi siciliani, ordinando alla Mediterranean Fleet di catturare il naviglio napoletano e di condurlo nelle basi di Malta e di Corfù con un vero e proprio atto di pirateria. Nel 1849, sempre Palmerston, sostenne la rivoluzione separatista siciliana con l’obiettivo di fare dell’isola uno Stato autonomo retto da un principe di Casa Savoia. Nel corso della Guerra di Crimea, ancora Palmerston, propose più volte agli Alleati di effettuare azioni intimidatorie contro il Regno di Ferdinando II, il quale aveva mantenuto una neutralità indulgente e più che benevola verso la Russia. Soltanto l’opposizione della Regina Vittoria impedì nel settembre del 1855 una “naval demonstration” nel golfo di Napoli che, nelle intenzioni del primo ministro, avrebbe dovuto favorire un’insurrezione destinata a rovesciare i Borbone. Il ricorso alla politica delle cannoniere, per ridurre o azzerare la sovranità delle Due Sicilie, trovò, invece, il pieno consenso dell’opinione pubblica del Regno Unito. Un editoriale del “Times” sostenne, infatti, che la visita della flotta britannica doveva ottenere gli stessi risultati delle missioni in Giappone guidate dal Commodoro Matthew Calbraith Perry, nella baia di Edo, tra 1853 e 1854, per ridurre a ragione la resistenza dello shogun, Ieyoshi Tokugawa, che si era opposto alla penetrazione commerciale statunitense. Così come gli Stati Uniti in Estremo Oriente, terminava l’articolo, anche la Gran Bretagna non poteva tollerare l’esistenza di “un Giappone mediterraneo posto a poche miglia da Malta e non eccessivamente distante da Marsiglia”. Naturalmente l’ingerenza inglese si ammantava di pretesti umanitari: la volontà di smantellare il regime dispotico di Ferdinando II e di sostituirlo con un sistema costituzionale e liberale nel quale fossero garantiti i diritti politici e civili. Prendendo a pretesto la denuncia di Gladstone che, nelle “Two Lettersto the Earl of Lord Aberdeen” del 1851, aveva definito il regime di Ferdinando II “la negazione di Dio”, Palmerston si servì di fondi riservati del Tesoro britannico, per finanziare una spedizione destinata a liberare Luigi Settembrini (autore, nel 1847, della virulenta “Protesta del popolo delle due Sicilie”), Silvio Spaventa e Filippo Agresti condannati a morte nel 1849, la cui pena era stata commutata nel carcere a vita da scontare nell’ergastolo dell’isolotto di Santo Stefano. L’operazione, progettata per la tarda estate del 1855, non arrivò a compimento ma il Secret Service Fund sarebbe stato utilizzato negli anni successivi e fino al 1860 per destabilizzare  il Regno delle Due Sicilie».

Quale ruolo ebbe l’Inghilterra nella caduta del Regno di Napoli?

«Rosario Romeo nella sua biografia di Cavour definì l’azione inglese di sostegno allo sbarco dei Mille e alla campagna di Garibaldi come una “leggenda risorgimentale”. Si tratta però di un’interpretazione sbagliata. Il supporto militare, economico, diplomatico del Regno Unito fu, invece, indispensabile alla cosiddetta “liberazione del Mezzogiorno”. Come rivelò il dibattito, svoltosi nella Camera dei Comuni, il 17 maggio 1860, la presenza delle fregate inglesi nella rada di Marsala, che impedì la reazione della squadra borbonica, non fu una semplice coincidenza ma un atto deliberato deciso con piena cognizione di causa dal gabinetto britannico. Il sostegno di Londra non si esaurì in questo episodio. In aperta violazione al Foreign Enlistment Act del 1819, che proibiva appunto il reclutamento di sudditi inglesi in eserciti stranieri, Palmerston e il ministro degli Esteri Russell tollerarono e  incoraggiarono  “the subscription for the insurrectionists in Sicily” promossa dal pubblicista italiano Alberto Mario, alla quale aderirono esponenti del partito whig e alcuni ministri tutti egualmente disposti a elargire “ingenti somme da utilizzare nella guerra contro il Regno delle Due Sicilie” e quindi a sostenere economicamente una campagna di arruolamento destinata a ingrossare le fila dei ribelli in camicia rossa. Inoltre la flotta inglese collaborò tacitamente con quella piemontese nella protezione dei convogli che trasportarono rinforzi di uomini e materiali destinati a raggiungere Garibaldi. E non basta! Dalla corrispondenza tra Cavour e l’ammiraglio Persano dei primi del luglio 1860, apprendiamo, infatti, che alla preparazione del “pronunciamento” contro Francesco II, che sarebbe dovuto scoppiare a Napoli per prevenire un’insurrezione mazziniana, doveva fornire un apporto fondamentale “il signor Devicenzi, amico di Lord Russell e di Lord Palmerston, che avrà mezzo d’influire sull’ambasciatore di Sua Maestà britannica Elliot e l’ammiraglio comandante della squadra inglese”. Fu solo, poi, grazie al veto posto da Londra che Napoleone III rinunciò ad attuare un blocco navale nello stretto di Messina che avrebbe potuto impedire a Garibaldi di raggiungere le coste calabre. Non si trattava evidentemente di favori disinteressati. Alla fine di settembre del 1860, Palmerston avrebbe ricordato, infatti, all’esule italiano Antonio Panizzi (divenuto direttore della biblioteca del British Museum) che “se Garibaldi aveva potuto occupare Napoli ed esser causa che il Re scappasse a Gaeta, ciò fu dovuto all’Inghilterra che, invitata dalla Francia a impedire che dalla Sicilia si venisse ad attaccare gli Stati di terraferma, vi si rifiutò”, aggiungendo che “l’aiuto morale e l’influenza britannica non furono meno utili all’Italia delle armi francesi e che sarebbe stata mera ingratitudine per parte dell’Italia lo scordarselo”».

E’ possibile dire, quindi, che con l’unità il Regno d’Italia eredita sostanzialmente la stessa posizione di debolezza geopolitica delle Due Sicilie e che Londra acquista, dopo il 1861, una sorta di protettorato sulla politica mediterranea del nostro Paese?

«Sicuramente sì. Anche se forse il termine “protettorato” rappresenta un’espressione troppo forte, non si può non riconoscere che gli argomenti con i quali Palmerston giustificava l’azione inglese a favore della conquista piemontese delle Due Sicilie miravano proprio a quest’obiettivo. E credo che valga la pena di ricordarli alla fine di questa intervista. Nella lettera inviata alla Regina Vittoria, il 10 gennaio 1861, Palmerston sosteneva che, considerando “la generale bilancia dei poteri in Europa”, uno Stato italiano esteso da Torino a Palermo, posto sotto l’influenza della Gran Bretagna ed esposto al ricatto della sua superiorità navale, risultava “il miglior adattamento possibile” perché “l’Italia non parteggerà mai con la Francia contro di noi, e più forte diventerà questa nazione più sarà in grado di resistere alle imposizioni di qualsiasi Potenza che si dimostrerà ostile al Vostro Regno”. Parole profetiche che, se si esclude l’intervallo della politica estera fascista, la Storia, fino ai nostri giorni, non ha mai completamente smentito. Il Trattato d’alleanza con gli Imperi Centrali, firmato dal governo italiano nel maggio del 1882, non modificò a nostro favore lo status quo mediterraneo che si era venuto creando con l’insediamento francese in Tunisia e di conseguenza rafforzò la nostra situazione di dipendenza dal Regno Unito. Considerato che, nei problemi mediterranei, Germania e Austria non si ritenevano impegnati ad alcuna solidarietà con il suo alleato, l’Italia, per arginare l’espansionismo di Parigi, si trovò obbligata ad orbitare nella sfera d’influenza di Londra, la quale si mostrava desiderosa di stringere un patto di collaborazione con il nostro Paese che le avrebbe consentito, ad un tempo, di mettere in minoranza le forze francesi e di impedire una possibile intesa franco-italiana, il cui effetto avrebbe potuto rendere difficili le comunicazioni tra Gibilterra, Malta e l’Egitto. Il 12 febbraio del 1887 veniva firmato così un accordo con il quale il governo britannico e quello italiano s’impegnavano a “mantenere l’equilibrio mediterraneo e a impedire ogni cambiamento che, sotto forma di annessione, occupazione, protettorato, modifichi la situazione attuale con detrimento delle due Potenze segnatarie”. Con questa convenzione, se l’Italia s’impegnava ad appoggiare la penetrazione inglese in Egitto, la Gran Bretagna si dichiarava disposta “a sostenere, in caso d’ingerenza di una terzo Stato, l’azione italiana su qualunque punto del litorale settentrionale africano e particolarmente in Tripolitania e Cirenaica”. Rinnovato, nel 1902, questo accordo ci avrebbe consentito di portare a termine l’impresa libica nel 1911. Anche dopo questo successo, l’Italia rimase, comunque, per Londra un “volenteroso secondo”, destinato a svolgere un ruolo di sostegno al suo sistema marittimo, ma al quale non poteva essere consentito una più ampia espansione nell’area mediterranea. Che questo fosse il ruolo riservato alla nostra Nazione lo dimostrava, in tutta evidenza, nel 1913, la ferma di presa posizione del Regno Unito che escludeva in linea di principio “la possibilità della conservazione delle isole dell’Egeo, già appartenenti ai domini turchi, da parte del governo di Roma, perché una simile soluzione minaccerebbe di rompere l’equilibrio politico nella parte orientale del Mediterraneo”. Una dichiarazione, questa, che conteneva in nuce le linee maestre della politica inglese successive alla fine della Prima guerra mondiale, quando Londra, d’intesa con Parigi, operò instancabilmente per impedire la realizzazione integrale delle aspirazione italiane sull’Adriatico, appoggiando e fomentando le ambizioni della Iugoslavia, dellAlbania e della Grecia in questo cruciale settore strategico».

Emanuele Mastrangelo

fonte http://www.nuovarivistastorica.it/?p=3211

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Il Colonnello FERDINANDO BENEVENTANO del BOSCO

Posted by on Feb 28, 2019

Il Colonnello FERDINANDO BENEVENTANO del BOSCO

Un fiero avversario di Garibaldi in Sicilia

di Fernando Mainenti

Con Alfieri irrompe nel pensiero dei primi anni dell’Ottocento, una forte tensione spirituale che si traduce in un irriducibile amore per la libertà dell’uomo sempre in lotta per la propria affermazione, al di fuori di ogni possibile compromesso.

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BRIGANTI e GARIBALDINI SORA CAPOLUOGO 1900

Posted by on Feb 28, 2019

BRIGANTI e GARIBALDINI SORA CAPOLUOGO 1900

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L’ultimo Duca di Sora Antonio II si è spento a Roma nel Palazzo”SORA”, il 26 aprile 1805. I successori “Nominali” son stati il XVI Duca di Sora, Luigi Maria di Antonio 11 (1767-1841), il XVII Duca, Antonio III di Luigi (1808-1883) ed il XVIII Duca, Rodolfo Boncompagni Ludovisi di Antonio III, nato nel 1832. Il 10 agosto 1802 il vescovo Agostino Colaianni ha traslato le spoglie di San Giuliano Martire dalla Chiesa di Santo Spirito alla Cattedrale di Santa Maria, ove riposano nella seconda cappella della navata destra.

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Storia di un Re Vittorio Emanuele II di un Generale La Marmora.. di un inganno…

Posted by on Feb 24, 2019

Storia di un Re Vittorio Emanuele II di un Generale La Marmora.. di un inganno…

“La statua equestre di Vittorio Emanuele II”.poco regale e di un vergognoso monumento.

Nel 1815 in seguito al Congresso di Vienna finalmente i piemontesi riescono a mettere le mani sulla nostra città, di fatto comprata dagli inglesi, i quali a loro volta, l’avevano tolta a Napoleone.

I sabaudi si dimostrano presuntuosi e ostili ma, soprattutto, secondo i genovesi, completamente inetti alla gestione del porto, dei commerci e delle questioni marittime.

Così che, quando nel 1849 i Savoia sono costretti all’armistizio con gli austriaci, stufi dei soprusi subiti, i Genovesi insorgono e restituiscono la libertà alla Repubblica.

Il re Vittorio Emanuele II ordina al generale Alfonso La Marmora di sedare la rivolta: mentre una nave britannica inizia a cannoneggiare la Darsena il generale, fingendo di trattare con i ribelli, scaglia loro contro venticinquemila bersaglieri. L’assedio dura sei giorni e, nonostante la coraggiosa resistenza della Guardia Civica, forte di circa diecimila effettivi, comandata dal Pareto e dal De Stefanis, Genova è riconquistata, violentate le sue donne, uccisi i suoi figli, violate le sue dimore e chiese, nemmeno gli infermi e gli anziani ricoverati in ospedale vengono risparmiati, in tutto si contano circa novemila morti, la maggior parte fra la popolazione inerme. Nel testo in francese di congratulazioni inviato all’alto ufficiale per l’esito della repressione il re non esita a definire i nostri avi “gente vile, razza infetta di canaglie” o ancora “i Genovesi son tutti Balilla, non meritano compassione, dobbiamo ucciderli tutti”. Al generale dei Bersaglieri, per questa mirabile impresa, viene conferita da un re raggiante la Medaglia d’oro al valor militare.

Capite bene come il monumento che raffigura il re in mezzo a Piazza Corvetto sia una vergogna e un insulto alla città. E’ come se a NY, nei pressi delle Torri Gemelle, venisse eretta una statua dedicata a Bin Laden trionfante.

Per queste ragioni fino al 1994, anno della riconciliazione con il Corpo con la tesa rotonda e le piume di gallo, ospite a Genova in occasione del proprio raduno nazionale, la Superba si è poi sempre rifiutata di arruolarvi i propri figli.

I Genovesi, “obtorto collo” furono costretti ad erigere la scultura bronzea in onore del primo re d’Italia incaricando nel 1886 l’artista milanese F. Barzaghi proprio, ironia della sorte, in Piazza Corvetto poco distante dal suo acerrimo nemico politico di sempre, Giuseppe Mazzini.

In realtà la statua del grande genovese, ritratto in un atteggiamento pensieroso, era già presente dal 1882 vicina a quella di Maria Drago, l’intrepida madre sostenitrice.

Il re, rappresentato a cavallo, è immortalato nell’atto di togliersi il cappello in segno di saluto.

Per alcuni il significato che la scena sottintende è un bonario segno di scuse, un gesto di riconciliazione.

Per altri, ed io condivido, invece i genovesi in una sorta di rivincita morale, lo hanno voluto raffigurare in un gesto di ossequio rivolto al vero padre della patria e alla sua genitrice, nonché alla Torre Grimaldina, simbolo del potere repubblicano cittadino (in effetti il sovrano si leva il cappello in quella direzione).

Bisognerebbe chiedere l’opinione delle novemila vittime sacrificate all’altare delle ambizioni sabaude.

Dal 2008 per volontà della comunità e del Movimento Indipendentista Ligure sul basamento è stata posta una targa che rammenta il “vergognoso sacco di Genova”.

La Liguria non ha mai partecipato ad alcun plebiscito di annessione né al Regno di Sardegna né di quello d’Italia quindi, formalmente la gloriosa e mai doma Repubblica, nonostante proprio a Genova siano nati sia il concetto d’Italia che l’unità del Paese, non si è mai sciolta.

fonte http://www.amezena.net/tag/vittorio-emanuele-ii/


Targa commemorativa


Mazzini


Maria Drago madre di Mazzini
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“Studi Storici” sulle insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica

Posted by on Feb 24, 2019

“Studi Storici” sulle insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica

1. Premessa

Il numero di aprile-giugno del 1998 di Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, di Roma, è interamente dedicato a Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica (1).

Il fascicolo, che si apre con il saggio Introduzione. La questione delle insorgenze italiane (pp. 325-348) di Anna Maria Rao — professore ordinario di Storia Moderna nell’università di Napoli Federico II, membro del comitato di direzione della rivista e coordinatrice dell’iniziativa —, presenta un insieme di monografie di studiosi di varia estrazione — anche se di comune orientamento —, dedicate a episodi e a momenti particolarmente significativi delle insorgenze popolari, verificatesi in Italia nel periodo del dominio napoleonico, fra il 1796 e il 1815.

L’ordine di presentazione è quello geografico. S’inizia infatti con uno studio sulle insorgenze delle province lombarde già sotto dominio veneto, per proseguire con un saggio volto a individuare tratti comuni fra l’insorgenza veronese del 1797 — le cosiddette Pasque Veronesi — e fenomeni coevi simili, a sfondo sociale, verificatisi nel Regno di Sardegna. Seguono uno studio sui moti agrari del Piemonte Meridionale nel 1797 e due saggi rispettivamente dedicati all’insorgenza ligure del 1797 e a quella romagnola del 1796-1797. La rassegna include poi l’analisi di alcuni aspetti di quelle che possono essere considerate le manifestazioni più significative e complesse della resistenza italiana contro la Rivoluzione francese, ovvero il movimento del Viva Maria! in Toscana, l’insorgenza del Lazio — comprendente anche un esame della politica di Papa Pio VII (1799-1821) nei confronti degl’insorgenti dopo la fine della Repubblica Romana e il ritorno del Pontefice a Roma — e la grande rivolta sanfedista nel Regno di Napoli, tutte del 1799.

2. Esposizione

Nello studio introduttivo la Rao mette anzitutto in rilievo l’ampiezza delle “resistenze e insurrezioni contro la rivoluzione e la repubblicanizzazione della penisola” (p. 330), individuandone le cause in motivazioni di medio e di lungo periodo — la crisi economico-sociale della seconda metà del secolo XVIII, la limitazione delle proprietà ecclesiastiche e le conseguenti ripercussioni sulle tradizionali forme d’assistenza, la riduzione delle autonomie locali, l’attaccamento alle tradizioni religiose, minacciate dal riformismo illuministico e dalla Rivoluzione — e in motivi più immediati, legati alle circostanze dell’invasione e dell’occupazione francesi. Si sofferma quindi su due elementi — “la diffusione delle insorgenze sull’insieme del territorio nazionale” (p. 331) e l’assenza di una conflittualità di classe fra contadini “sanfedisti” e borghesia “giacobina” — che ribaltano alcuni luoghi comuni della storiografia, per concludere che […] dai saggi che si presentano l’insorgenza emerge in tutta la sua irriducibile complessità di fenomeno fortemente differenziato nello spazio e nel tempo” (p. 341).

Lo studioso vicentino Paolo Preto — professore ordinario di Storia Moderna nell’università di Padova — ricostruisce in Le valli bergamasche e bresciane fra democratizzazione e rivolta antigiacobina (pp. 349-365) gli avvenimenti del 1797 nelle province venete più occidentali, dalla dichiarazione di neutralità del governo veneziano e dalla sollevazione di nuclei giacobini prima a Bergamo e poi a Brescia — entrambe “democratizzate” con la forza — all’invasione francese del territorio della Repubblica di Venezia, ai soprusi dell’occupazione e alla forzata inerzia delle truppe di San Marco, alla montante collera dei contadini, che esplode nel marzo del 1797. In quel mese le valli bergamasche — Seriana, Cavallina, Gandino e altre — e quelle bresciane — Camonica, Trompia e Sabbia —, unitamente alle popolazioni della riviera gardesana occidentale — in particolare della zona di Salò, un tempo indipendente —, dopo solenni giuramenti formulati nel corso delle tradizionali assemblee comunitarie, si sollevano coralmente contro le città “rivoluzionate” fino a scontrarsi con le neonate milizie “italiche” e con i francesi, dopo aver coltivato inizialmente l’illusione di regolare i conti con i giacobini nella neutralità dell’esercito occupante. Fa parte del quadro anche la cruda repressione perpetrata dalle truppe franco-bresciane — rinforzate da volontari accorsi da altre città italiane, come per esempio Pavia, di recente “democratizzate” — contro i contadini insorti: oltre al cannoneggiamento di Salò dalla parte del lago, vi sono, come rappresaglia, il saccheggio e l’incendio di diversi borghi della montagna bresciana, quali Nozza, Vestone, Barghe e Lavenone. Nel saggio, corredato da una ricca bibliografia, rimangono in ombra i moventi religiosi dell’insurrezione, mentre, fra le cause, viene dato il massimo risalto al legittimismo e alla difesa degli statuti locali da parte delle comunità rurali, preoccupate di perdere autonomia di fronte al nuovo regime a prevalente base cittadina. Nella parte finale dello studio Preto, ampliando la visuale all’insieme dei territori veneti, ritiene di diluire ulteriormente la caratterizzazione ideologica dell’insorgenza esaminata, ponendo l’accento sulla cronicità dei tumulti a sfondo annonario, antifeudali e contro il governo, verificatisi nelle province venete durante il Settecento, ma non sottovaluta il carattere politico dei moti del 1797: le popolazioni — scrive — […] questa volta non tumultuano per la fame ma per difendere le loro autonomie” (p. 365), ovvero l’antico regime nel quale hanno vissuto per secoli.

L’accento sul tema economico-agrario è posto anche da Gian Paolo Romagnani — ricercatore all’università di Verona, docente di Storia della Storiografia — in un saggio che, nonostante il titolo — Dalle “Pasque veronesi” ai moti agrari del Piemonte (pp. 367-399) —, è dedicato esclusivamente ai moti veronesi del 1797 e solo nelle conclusioni ipotizza — riferendosi però ad altri studi — un’unica matrice per le insorgenze dell’Italia Settentrionale durante il Triennio. Dopo una sintesi delle linee storiche e politiche dell’invasione francese dell’Alta Italia, il saggio traccia un profilo — includente anche una rassegna della storiografia sulla vicenda dall’Ottocento a oggi (2) — dell’insurrezione veronese, ricondotta alla crisi agricola che caratterizza il Veneto alla fine del Settecento e alle tensioni sociali che ne derivano, acuite entrambe dalla rapace presenza delle armate francesi. La tesi di fondo è l’esistenza di cause di un disagio economico-sociale generale, che si esprime in moti antifrancesi dove sono presenti le armi straniere e si scaglia invece contro le autorità tradizionali, la monarchia e i feudatari, dove i francesi sono assenti — o solo parzialmente presenti, a presidio di città sedi di fortezze —, come nel caso del Piemonte dopo l’armistizio di Cherasco dell’aprile del 1796. Romagnani ammette peraltro che una lettura politica dei moti piemontesi sarebbe fuorviante, essendo prodotto di una pluralità di fattori, e che in Italia[…] i moti agrari sono una conseguenza diretta della guerra” (p. 398), ovvero dei contraccolpi arrecati dalla stessa a una situazione economico-sociale già critica. Con ciò ricollega quindi le insorgenze piemontesi del 1797 ai drammatici mutamenti indotti non da riforme di struttura, ancora da realizzare, ma dalla guerra rivoluzionaria condotta dall’armata francese, con le sue sfrenate requisizioni militari e con il suo inaudito drenaggio di risorse finanziarie, oltre che artistiche e religiose. Il ventaglio delle cause viene ampliato, considerando pure che “caratteristica del caso italiano è […] l’insofferenza di molti centri minori nei confronti dei centri maggiori” (ibidem) e che “non va infine trascurato il fattore psicologico […] nel determinare il comportamento delle masse” (p. 399). Lo studio contiene anche un parallelo fra la Vandea francese e l’Insorgenza italiana, attribuito soprattutto agli ambienti che hanno celebrato il bicentenario della seconda; ma parallelo alquanto avventato, perché riconosce alla Vandea connotati di rivolta sociale e all’Insorgenza italiana una minore rilevanza rispetto alla prima.

Al Piemonte è dedicato anche l’ampio saggio di Blythe Alice Raviola — dottoranda in Storia della Società Europea all’università di Torino —, Le rivolte del luglio 1797 nel Piemonte meridionale (pp. 401-447), che, partendo dagli studi di Giuseppe Ricuperati (3) e grazie a un’accurata ricerca d’archivio, ricostruisce capillarmente i tumulti e i veri e propri moti che, a causa del rincaro dei prezzi dei generi alimentari di base, oppone le comunità di villaggio del Piemonte Meridionale — il Cuneese e l’Astigiano, con propaggini nell’Alessandrino e nel Monferrato — alle autorità sabaude e ai feudatari locali. Lo studio rivela episodi e aspetti poco noti della vicenda e si situa su una linea interpretativa decisamente socio-economica, che però tiene equilibratamente conto dell’autentica portata dei moti, nonché della difficoltà dell’”innesto” delle avanguardie giacobine piemontesi sulle popolazioni insorgenti, la cui ricezione delle parole d’ordine rivoluzionarie è limitata e che conservano una sostanziale fedeltà alla monarchia e al regime signorile.

Sulle rivolte di Genova e delle valli liguri orientali — Bisagno, Sturla, Aveto, Fontanabuona, Vara e Magra, con propaggini in Val Trebbia e nei feudi imperiali verso la Val Scrivia e l’Alessandrino —, che si manifestano a due riprese, rispettivamente nel maggio-giugno e nell’agosto-settembre del 1797, verte il saggio di Giovanni Assereto — professore associato di Storia Moderna nell’università di Genova — I “Viva Maria” nella Repubblica ligure (pp. 449-471). Più che a descrivere i fatti il saggio sembra inteso a evidenziare e ad affrontare le questioni suscitate dalla reazione della popolazione ligure, mettendo in luce la diversità fra la prima fase dei moti e quella, più intensa e significativa, che segue alla promulgazione della costituzione democratica. L’ipotesi della sobillazione nobiliare e clericale non viene esclusa, ma viene ridimensionata rispetto alla forza con cui tale ipotesi fu avanzata dai francesi e poi da numerosi storici “progressisti”, dimostrando come i processi susseguenti alla repressione non individuino né puniscano alcun nobile o prelato, benché i giacobini tornati al potere instaurino un “clima da caccia alle streghe” (p. 465) e ne abbiano i mezzi e l’intenzione. Viene anche discusso il legame, ipotizzato da alcuni studiosi, con la rivolta antiaustriaca del 1746 — quella di Giovanni Battista Perasso (1729-1781), detto “Balilla” —, nonché il carattere collettivo e corale — le autorità locali si pongono alla testa delle colonne di insorgenti — messo in evidenza dalle rivolte delle valli. Altri nodi affrontati sono il differente atteggiamento fra Levante e Ponente — quest’ultimo tanto fedele alla Repubblica ligure da proporre d’inviare proprie milizie per reprimere l’Insorgenza nel Levante —; la sostanziale refrattarietà popolare all’ideologia rivoluzionaria francese e la violenta avversione al giansenismo — particolarmente accentuata nella zona di Sarzana —, dopo la breve esperienza delle riforme religiose ispirate a mons. Scipione de Ricci (1741-1809), vescovo di Pistoia e di Prato; infine, la breve durata del moto e lo stato di endemica agitazione nelle campagne, che si protrae fino agli anni del Regno napoleonico. Esemplare è il caso di Val Fontanabuona, nell’entroterra di Chiavari, che verrà definita dai francesi la Vandea ligure. Il saggio di Assereto è d’intonazione senz’altro diversa rispetto ai primi della raccolta, perché vi sembrano meno operanti pregiudiziali teoriche. La sua condivisibile conclusione è che l’insorgenza ligure sarebbe stata una reazione difensiva, scatenata dall’intera gamma di realtà raccolte comunemente sotto il nome di Antico Regime — che nella Repubblica di Genova era rimasto sostanzialmente immune da riforme “illuminate” —, di fronte a un tentativo di modernizzazione troppo rapido e dalle modalità disorientanti, come nel caso della missione dei preti “patriottici” giansenisti nelle valli.

Il quadro che Valentino Sani — dottorando in Storia della Società Europea nell’università statale di Milano — in Le rivolte antifrancesi nel Ferrarese (pp. 473-494) traccia degli accadimenti nel Ferrarese e nella Bassa Romagna ha il pregio di spingersi fino agli anni del Regno napoleonico e ai fatti del 1809. Mentre emerge chiaramente che, dal momento dell’invasione fino alla caduta della dominazione francese, la zona non conosce soste nell’agitazione popolare, di essa si possono individuare quattro fasi ad “alta temperatura”: le insorgenze dell’estate del 1796, la più nota e sanguinosa delle quali è quella di Lugo, che coinvolge anche Argenta e Cento; la sollevazione generale del 1799, al momento della temporanea espulsione dei francesi dall’Italia a opera delle truppe imperiali e russe, che vede la partecipazione di milizie d’insorgenti all’assedio di Ferrara e la conquista di Pontelagoscuro, importante emporio padano; le rivolte contro la coscrizione obbligatoria del 1802-1803 e del 1805, quest’ultima culminata nella sommossa del borgo padano di Crespino, che Napoleone Bonaparte (1769-1821) reprime in modo particolarmente pesante; e, infine, i moti nelle campagne conseguenti alla grande insorgenza tirolese del 1809, che interessano ampie aree della Valle Padana. La repressione in quest’ultima è assai sanguinosa, con 63 condanne a morte per “brigantaggio”. L’ampio apparato critico comprende anche riferimenti a non pochi documenti d’archivio. Per Sani, il Leitmotiv delle insorgenze ferraresi — peraltro “fenomeno [non] valutabile in maniera univoca e omogenea” (p. 476) — sarebbero le croniche rivalità fra i municipi e la rivendicazione di privilegi e di autonomie locali, aggravate da disagi e da conflitti sociali originati da problemi economici.

All’insorgenza toscana del Viva Maria!, del 1799-1800, è dedicata la ricerca condotta da Claudio Tosi Il marchese Albergotti colonnello delle bande aretine del 1799 (pp. 495-531). Dopo una breve ma utile rassegna della storiografia in argomento — senz’altro fra le meno esigue, confrontabile solo con quella relativa alla Santa Fede nel Regno di Napoli —, Tosi sostiene che non ci si debba concentrare oltre misura sugli aspetti economici e sociali dell’Insorgenza toscana, ma piuttosto, come le più recenti tendenze storiografiche sembrerebbero confermare, dare — o ridare — spazio all’analisi di tematiche meno “tangibili”, come la sfera della psicologia e delle credenze religiose, il sentimento d’identità collettiva, la mentalità e la sensibilità delle diverse e riccamente differenziate componenti della società d’Antico Regime, come pure vanno approfondite le cause politiche, nel duplice aspetto strategico-internazionale e tattico-locale. In particolare andrebbe intensificata l’indagine sul ceto dirigente di un’insorgenza che presenta caratteri — per la durata e l’estensione, nonché per la presenza di un’élite dirigente non improvvisata — nettamente diversi da quelli di altri movimenti. In questa prospettiva si situa la ricerca condotta da Tosi sulla figura del marchese Giovan Battista Albergotti (1761-1816), leader del moto aretino. Attraverso la ricostruzione della biografia del marchese e di alcuni membri della sua antichissima famiglia — quasi completamente schierata in quegli anni contro la Rivoluzione: solo un membro sceglie infatti la militanza giacobina —, come il fratello Agostino (1755-1825), divenuto poi vescovo della sua città, lo storico si propone d’inquadrare il comportamento della classe dirigente del Viva Maria!, nonché gli eventi di cui essa fu protagonista e le ragioni delle diverse scelte politiche e militari che dovette fare, rilevandone aspetti sicuramente sconosciuti, che arricchiscono e illuminano l’intera vicenda dell’Insorgenza. Emergono così, fra l’altro, l’accortezza politica e l’abilità militare del nobile toscano, nonché le doti umane e cristiane che conducono il governo provvisorio aretino, e poi toscano, da lui presieduto a instaurare rapporti da tempo sconosciuti fra potere e popolo, fra autorità sociali e ceti umili. Lo studio è munito di un nutrito apparato di note, che fanno riferimento a una varietà di fonti, fra cui l’archivio della famiglia Albergotti.

Le premesse, le origini e le vicende delle insorgenze a Roma e nello Stato Pontificio negli anni 1798-1799 costituiscono l’oggetto del saggio di Massimo Cattaneo — dottore di ricerca presso l’università di Napoli Federico II — L’opposizione popolare al “giacobinismo” a Roma e nello Stato pontificio (pp. 533-568). In un rapido schizzo viene descritta in esordio la “battaglia delle idee” combattuta dagli ambienti pontifici ed ecclesiastici romani contro la Rivoluzione francese, anche se di questa propaganda si esagera alquanto la finalità, definita “terroristica”, e sopravvalutata forse la portata, soprattutto se si pensa alla massiccia e pluridecennale operazione di propaganda messa in campo dall’avversario. L’efficacia della “profilassi” poliziesca, attuata dal governo di Papa Pio VI (1775-1799), contro le infiltrazioni giacobine fomentate dagli agenti diplomatici francesi in vista di un rivolgimento autoctono e in preparazione a una possibile invasione francese, si vede però nel fatto che i nuclei giacobini a Roma ammettono[…] nel 1797 di poter contare in città su non più di settecento simpatizzanti, di cui solo sessantotto pronti a rischiare personalmente in un eventuale tentativo rivoluzionario” (p. 538). Particolarmente interessante è la descrizione — anche attraverso la poesia popolare, utilizzata per veicolare princìpi contro-rivoluzionari — della mentalità e dei costumi religiosi della popolazione del rione Trastevere, che sarà l’epicentro del moto del 25 febbraio 1798. Lo svolgimento di questo viene ripercorso tanto nella dinamica dei fatti quanto nelle cause immediate, quanto, infine, nelle modalità di soffocamento e di punizione adottate dai francesi e sfociate in decine di fucilazioni, non tutte comminate da tribunali e per di più eseguite con modalità nuove, cioè senza cornice religiosa, che contribuiscono a sconcertare e a irritare ulteriormente il popolo romano. Il saggio contiene una rassegna della storiografia sull’Insorgenza nei territori pontifici, che ha inizio nel Montefeltro e nelle Marche addirittura al principio del 1797, al momento del primo impatto bellico fra la Repubblica Francese e lo Stato della Chiesa, e massimo sviluppo nel 1799, anno in cui l’Insorgenza nel Basso Lazio si collega, anche se non organicamente, al Viva Maria!, a quella nell’Umbria e al sanfedismo napoletano.

Marina Caffiero — professore associato di Storia Moderna nell’università di Roma La Sapienza — in Perdòno per i giacobini, severità per gli insorgenti: la prima Restaurazione pontificia (pp. 569-602) riporta alla luce aspetti poco noti del periodo rivoluzionario e napoleonico nei domini pontifici. Lo studio — documentato anche con reperti d’archivio — tratta infatti della politica attuata dal governo romano, dopo la restaurazione pontificia del 1800, nei confronti dei partecipanti alla vicenda della Repubblica Romana del 1798-1799 e dell’atteggiamento tenuto dal medesimo verso i conati d’insorgenza che caratterizzano gli Stati del Papa fra l’inizio del secolo e il momento della nuova conquista francese, fra il 1807 e il 1808. Nel primo caso, si palesa un atteggiamento di clemenza che, nonostante gli ammonimenti dei contro-rivoluzionari non occasionali, sfocia in una serie di misure che si spingono fino a reintegrare non solo nei diritti civili ma anche negli uffici o, addirittura, a promuovere a incarichi di responsabilità i protagonisti e i leader giacobini degli anni della repubblica e della guerra civile del 1798-1799. Misure tanto impegnative e indiscriminate che vengono lette come espressione di una condizione di debolezza, peraltro reale a causa della situazione internazionale, caratterizzata dalla forte pressione francese sullo Stato della Chiesa dopo il riaprirsi del conflitto con il confinante Regno borbonico. Nella prospettiva di ristabilire la pace sociale e di stornare da Roma una seconda invasione — poi comunque subita — il vertice romano preferisce mostrarsi acquiescente e collaborativo oltre misura con i francesi e allearsi con gli ex giacobini contro quanti mettevano a repentaglio la sopravvivenza dello status quo, ovvero, da un lato — in accordo con la politica di Parigi —, reprimendo gli elementi più enragés o anarchistes fra i rivoluzionari italiani, dall’altro lato combattendo gl’insorgenti dei vari dipartimenti e le formazioni del ribellismo endemico — il cosiddetto “brigantaggio” —, venutesi a costituire nello scenario di disordine e d’instabilità sociale degli anni napoleonici. Dopo un prodromo in provincia di Frosinone nel 1801, le insorgenze popolari riprendono e si moltiplicano nel 1806 in sintonia e in prossimità della seconda insorgenza generale del Regno di Napoli, riesplosa in grande stile dopo l’occupazione napoleonica. Il governo pontificio giunge a istituire una congregazione speciale con compiti di controllo e di repressione dei movimenti popolari: di essa fanno parte sia elementi antigiacobini sia, significativamente, i maggiori e più noti esponenti del giacobinismo laziale, che si trovano così a giudicare talvolta persone già schierate sul fronte loro opposto nei moti di otto anni prima. L’esame degli atti di questa commissione getta luce su aspetti poco noti della vicenda, sui moventi e sull’appartenenza sociale degl’insorgenti. Tutti questi dati rafforzerebbero la tesi della studiosa secondo cui l’insorgenza laziale, più che esser letta come conflitto a sfondo religioso o puramente economico, andrebbe collocata nel quadro di cronico scontro municipalistico e campanilistico, clientelare e parentale, che caratterizza l’Italia e gli Stati pontifici e che si riacutizza a causa dei problemi indotti dall’occupazione francese.

La panoramica dell’Insorgenza italiana termina con Rivolte popolari e controrivoluzione nel Mezzogiorno continentale (pp. 603-622), una sintesi della reazione popolare nel Regno borbonico tracciata da John A. Davis, del Dipartimento di Storia dell’università del Connecticut. Già noto per altri studi sul medesimo soggetto e buon conoscitore delle fonti storiografiche italiane, anch’egli propende per un’interpretazione dell’Insorgenza meridionale che vada oltre le pure ragioni di ordine economico, spostando il fuoco della ricerca sul mutamento indotto, sovente a forza, nella società di Antico Regime e tenendo conto della grave crisi della monarchia napoletana, che sarebbe all’origine anche dell’opzione di alcuni maggiorenti per la Rivoluzione, allo scopo di garantire comunque l’ordine civile. Attenzione particolare andrebbe riservata alle vicende micro-sociali, perché sarebbero i municipi — con le loro storie e con i retaggi infiniti di rivalità e di conflitti, che trovano nuovo alimento nella situazione di “rottura” di un equilibrio negli anni napoleonici — a sostanziare, più delle macro-strutture istituzionali, l’Insorgenza meridionale. Davis ritrova questa serie di problemi nelle scelte operate dal leader della Santa Fede, il cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827), analizzandone accuratamente la condotta durante e dopo l’insorgenza.

3. Qualche considerazione

Il fascicolo di Studi Storici fornisce contributi sostanziosi e sufficientemente obiettivi, e sembra rappresentare un promettente inizio di riflessione sul fenomeno dell’Insorgenza italiana, ma evidenzia anche un atteggiamento di fondo che si presta a non pochi rilievi.

La principale osservazione è che un po’ tutti i contributi tendano a persuadere il lettore dell’esistenza di una ricerca — e di non trascurabile spessore — sull’Insorgenza stessa, che viene data addirittura per scontata; anzi, si lascia intendere che, al suo interno, vi sarebbero articolazioni, correnti e scuole diverse, su cui peraltro s’innesterebbe al presente un tanto vigoroso quanto esecrato “revisionismo” — i cui contributi sarebbero per lo più scadenti sotto il profilo scientifico —, promosso strumentalmente da ambienti ideologizzati in senso nostalgico-reazionario e mirante a inquinare il ricupero d’identità in corso nel mondo culturale e politico italiano.

Già nel 1995 Giuseppe Galasso, uno dei maggiori storici italiani contemporanei, ha sostenuto sulle colonne della rubrica culturale del più autorevole quotidiano nazionale (4) esser “sciocchezze” le pretese di quanti lamentano che le insorgenze siano state sottoposte all’“oblio e al disconoscimento [da parte di] una gretta storiografia nazionale, liberale, democratica” (5). Al contrario — sosteneva il professore napoletano — […] i movimenti controrivoluzionari sono stati in Italia largamente studiati in opere e saggi dovuti spesso ad autori anche illustri” (6); e poi, […] nessuno ha mai disconosciuto l’”eroismo” di quelle Vandee italiane” (7). Vien da dire: altro che “sferzante giudizio” sul “revisionismo”, quale lo reputa, citandolo, Cattaneo (p. 568, nota 94)! Si tratta invece di affermazioni che, nella più benevola delle ipotesi, suonano superficiali, quando non mistificanti. Le cose stanno in realtà assai diversamente e non riesco a persuadermi che lo ignori il curatore di una delle più prestigiose collane di storia d’Italia.

L’Insorgenza non è stata per nulla “largamente” studiata. Mancano di essa tuttora quattro dimensioni essenziali. In primo luogo la ricerca e l’analisi delle fonti primarie — anzitutto documenti degli archivi civili e religiosi —, capillarmente estesa al territorio italiano, come richiede lo studio di una realtà così disaggregata e legata a fattori locali. Poi è del tutto assente un’elaborazione a livello generale delle fonti e, dunque, una storiografia di respiro nazionale sul tema. Quindi non si può nemmeno parlare di una tradizione o di una scuola storiografica, neanche di esiguo spessore, sulla quale potersi innestare. Infine — per tacere dell’informazione culturale, ossia dei mezzi di comunicazione sociale — manca il necessario “travaso” delle acquisizioni storiografiche sul piano della formazione culturale del cittadino medio, ovvero nei programmi scolastici. Non è solo in questione la mancanza di “un aggiornato quadro d’insieme”, come rileva la Rao nel saggio d’apertura (p. 326) — che non è solo colpa “della frammentazione e dispersione delle fonti documentarie degli Stati preunitari” (p. 325) —: è in questione la conoscenza tout court del fenomeno, che dipende in buona sostanza dalla non volontà di dar rilievo, nei fatti e nelle interpretazioni, a questa pagina non secondaria della biografia della nazione italiana. Forse solo per il Mezzogiorno — e concordo qui in parte con la studiosa lucana — si può parlare di una storiografia di una qualche portata: ma l’Insorgenza nell’Italia Meridionale ha avuto tratti talmente macroscopici da rendere impossibile ignorarne o affievolirne la memoria. Anche in questo caso la ricerca scientifica si è mostrata finora carente e stereotipata, almeno nelle interpretazioni, benché forse si profilino segnali di cambiamento: la prospettiva accennata nel saggio di Davis — il legame fra Insorgenza e crisi generale della monarchia borbonica — costituisce per esempio una pista di ricerca innovativa e promettente.

E prova di tale condizione è proprio il fatto che gli studiosi della rassegna, invece di limitarsi a “glossare” criticamente studi già esistenti, hanno dovuto “scavare” in archivi assai poco “battuti” e in neglette storie locali, per lo più datate, per raccogliere le informazioni offerte al lettore. Si potrebbe chiedere: dove sono gli autori, l’equivalente dei Saitta, dei Vaccarino, degli Zaghi? dove sono i testi? dove sono gli schemi esplicativi da rimettere in discussione? dov’è la “scolastica” accademica in questo àmbito? Posso personalmente testimoniare che nel 1973, quando iniziai a elaborare la mia tesi di laurea sul tema delle insorgenze nella Lombardia del 1796, al primo accostamento alla materia non riuscii a mettere insieme più di due opere di sintesi, quella di Lumbroso — del 1932, che è parziale e copre il solo Triennio Giacobino (8) — e il volume di Jacques Godechot (1907-1994) La Contre-révolution, doctrine et action (1789-1804), del 1962 — che si ferma al 1804 e che è stato tradotto in italiano solo nel 1988 (9).

Quanto non si vuole ammettere è che siamo in realtà di fronte a una oggettiva rimozione, di origine non recente e tenacemente reiterata — e rafforzata dalla gramsciana conquista dell’egemonia culturale —, di un evento che non è un banale accadimento sporadico, ma, come riconosce ancora — ma perché solo adesso? — la Rao, autrice di molteplici studi sul periodo rivoluzionario in Italia, un fenomeno che […] ebbe un ruolo centrale nella vita politica italiana alla svolta fra Sette e Ottocento, non solo, ma anche negli orientamenti dei repubblicani del triennio 1796-1799 e nella politica napoleonica, e ancor più nell’immaginario e nella riflessione storiografica dell’Ottocento. Basti ricordare il peso che avrebbe esercitato nel pensiero e nell’azione degli uomini del Risorgimento, da Mazzini a Pisacane, nel dibattito sulle vie da seguire per realizzare l’indipendenza e l’unificazione politica italiane” (p. 327) (10). Una realtà, fra l’altro, costata agli italiani, secondo una stima per difetto, in quanto limitata all’inizio del 1799 — che la studiosa del Mezzogiorno suppongo conosca, in quanto fornita da uno dei protagonisti delle vicende della Repubblica Napoletana, il generale francese Paul-Charles Thiébault — almeno sessantamila vittime (11), un dato ancora più impressionante se lo si confronta percentualmente con la popolazione dell’epoca (12) e se si pone mente che non è dovuto a qualche malaugurato evento naturale — un terremoto o un’inondazione —, ma è il prodotto di una volontà umana.

Di fronte a questa obiettiva carenza storica non mi sembra lecito, oltre tutto, squalificare i tentativi — magari anche ideologicamente orientati — di chi, con i mezzi di cui ha potuto avvalersi, non certo comparabili con quelli di cui dispone la storiografia istituzionale, ha cercato di ricostruire la fisionomia di un momento della storia italiana che, come confermano i lavori ospitati da Studi Storici, rivela sempre più nitidamente la sua portata nei fatti e nelle conseguenze.

Non si sa davvero che cosa pensare davanti a un simile “peccato” di omissione riguardo a un fenomeno sul quale non può, come minimo, non “inciampare” qualunque percorso di ricerca serio, né si vede dove possa condurre questo modo di fare storia. Che “magistero” può esercitare? Che futuro può aiutare a costruire? Quale contributo può fornire un atteggiamento scientifico non solo viziato dall’ideologia, ma tendenzialmente ostruzionistico, in un frangente nel quale l’Italia ha bisogno di ogni sforzo volto a farle ricuperare integralmente la propria memoria storica, civile e religiosa per poter così meglio ridefinire la propria identità e per formulare nuove regole con cui perseguire il “bene comune”?

Ma vi sono altri rilievi di merito, che riguardano i giudizi espressi sull’interpretazione generale dell’Insorgenza e sui contributi finora forniti dagli ambienti cosiddetti del “cattolicesimo reazionario e intransigente” (p. 326). La prospettiva delineata da Cattaneo — ovvero il “progetto di incidere nel processo di formazione di un nuovo paradigma repubblicano elaborando una nuova memoria storica nazionale, anche a partire dal recupero di ogni forma di “sanfedismo”, in quanto testimonianza di una rimpianta unità tra valori religiosi e valori pubblici, di una società organicamente “ordinata”, tradizionalista e impermeabile alle detestate ideologie liberali e di sinistra” (p. 568), che trova accoglienza da parte di testate di forze politiche conservatrici, nella fattispecie il Secolo d’Italia, e i cui prodotti confluiscono in “dizionari del pensiero forte” — sembra correttamente ricostruita e, anche se evocata in chiave tendenzialmente polemica, non si vede che cosa vi sia d’illegittimo nel “tentare di incidere” “da destra” nell’elaborazione culturale che prelude alla formulazione di un nuovo assetto repubblicano. Né che cosa vi sia d’ignobile nel rifarsi ai valori evocati, non espungendo dal curriculum del nostro Paese neppure il “sanfedismo” — forse emblema dell’omissione e della contraffazione perpetrate nei confronti dell’Insorgenza —, che certamente va valutato criticamente — e severamente, anche nei suoi aspetti meno “rosei” —, ma riguardo al quale va rifiutata la vera e propria “leggenda nera” — mostrante ogni giorno di più la corda — che è gli è stata costruita addosso nel tempo, sì che l’aggettivo “sanfedista” viene utilizzato ancor oggi più come “clava” ideologica che per designare una posizione ideale.

Riguardo invece al “revisionismo” che affliggerebbe la storiografia sviluppata nella prospettiva predetta — tendente a “sollecitare una totale riscrittura della storia italiana ed europea dal XVIII al XX secolo “dal punto di vista degli sconfitti”” (p. 367) e che viene evocata a più riprese nei vari saggi, ancora in veste di giudizio di merito e con intenti non del tutto benevoli —, occorre subito premettere che anche in questo caso una definizione comunemente accettata di questo termine non esiste. Proprio nel 1998 Ernst Nolte, il “padre” del revisionismo contemporaneo, ne ha fornito una definizione a mio avviso “aurea”, scrivendo: […] considero tratti distintivi di ogni revisionismo serio e perlomeno orientato in una direzione scientifica la critica documentata all’unilateralità e alle lacune della veduta “ufficiale” e la volontà di attenersi ad una maggiore obiettività” (13).

Se tale è il “revisionismo”, muoversi in tal senso sarebbe non solo lecito, ma doveroso. Anzi esso dovrebbe assumere quell’atteggiamento “militante”, che viene lamentato ancora da Cattaneo nei confronti dello storico cattolico maceratese Sandro Petrucci (14) — pur da lui apprezzato dal punto di vista “tecnico” —, perché renderebbe “opaco sul piano interpretativo” (p. 561, nota 82) il lavoro di ricerca. Ma non si può non domandarsi a che cosa si dovrebbe applicare nella fattispecie dell’Insorgenza la “revisione” denunciata, ovvero quali paradigmi scientifici unilateralmente invalsi si dovrebbero sottoporre a “revisione”, dato che essi non vi sono. Non che manchino “vedute ufficiali” — che affiorano per esempio quando si rompe il silenzio —, ma esse sono costituite per la gran parte da giudizi non approfonditi, derivati da orientamenti ideologici pregiudizialmente contrari, senza riscontri fattuali, resi superflui dalla maramaldesca consapevolezza che chi ne è oggetto è uno “sconfitto”, sia storico che nella “battaglia delle idee”.

Non sembra, ancora, accettabile ricondurre, come fa lo stesso studioso con un’intentio palesemente squalificante, il “revisionismo” sull’Insorgenza alle prospettive “cattolico-integralista, neo e postfascista, monarchico legittimista” (p. 567), senza fornire definizione di tali realtà. Il cosiddetto revisionismo nasce invece da un atteggiamento di domanda di verità e di obiettività e come spontanea e costruttiva reazione alla percezione di una monumentale ingiustizia inferta a uomini, nostri antenati, le cui scelte vanno giudicate e anche — se necessario — condannate, ma la cui memoria ci appartiene e che dobbiamo riscoprire e recepire con atteggiamento di profonda e amorosa pietas.

Venendo infine alla tesi secondo cui gli storici “revisionisti”, ergo “di destra”, “revisionano” tutto, ma salvano sempre e solo l’opera dello storico nazionalista e fascista Lumbroso (15), viene spontaneo domandarsi a che cosa si poteva riallacciare fattualmente chi volesse conoscere, anche solo ieri, qualcosa della reazione delle popolazioni contro la Rivoluzione francese in Italia, dato che null’altro di fatto esisteva a un primo accostamento, se non l’opera dello storico fiorentino. Ho già avuto modo di mettere in luce questo aspetto nell’introduzione alla riedizione del suo “vecchio e ben noto — ma a quanti? — studio” (p. 325) apparsa nel 1997. In tale sede mi sono altresì sforzato di non operare il minimo “ricupero” né delle prospettive storiografiche — che giudico oggettivamente insufficienti e forzate sotto il profilo ermeneutico, anche se vanno lette nel clima culturale italiano fra le due guerre mondiali — né tanto meno delle prospettive dottrinali di Lumbroso, ma di effettuare solo un’operazione di ricupero documentale. Vedo però purtroppo che il punto è stato frainteso, se Preto sostiene che la mia nota biografica e la mia prefazione al volume […] ribadiscono la prospettiva storico-politica nazionalista (risalente a Niccolò Rodolico [1873-1969])” (p. 350).

Tentando un giudizio d’insieme sui contenuti del fascicolo monografico di Studi Storici, si può osservare che, dal punto di vista delle interpretazioni i diversi studiosi sembrano essere accomunati, oltre che dal rigetto delle forzature nazionalistiche dei primi decenni del secolo, dall’esigenza di guardare al fenomeno con una visuale sempre più ampia e spregiudicata, abbandonando interpretazioni più o meno rigidamente monocausali a sfondo “infrastrutturale” — di cui potrebbe essere modello, nel caso della storia contemporanea, il gramsciano Giorgio Candeloro (1909-1988) — e muovendosi verso una visione maggiormente interdisciplinare, esigita peraltro da una realtà così complessa e disomogenea qual è l’Insorgenza. Se questo cambiamento sia un semplice tentativo di “noyer le poisson” — “annegare il pesce”, ovvero di diluire al massimo una realtà, facendole perdere sostanza —, come sembra stia accadendo riguardo ad altre tematiche (16); sia cioè frutto del prevalere di una visione “debole”, tendenzialmente portata a frammentare e a relativizzare l’interpretazione generale dell’Insorgenza, oppure segno di un progresso salutare, al momento non è possibile affermarlo. Certo, l’assenza di una sintesi di qualche spessore fra i saggi della raccolta, come pure il fatto che l’orizzonte spaziale e temporale evidenziato dagli studiosi sia sempre piuttosto ristretto, sembrerebbero far propendere per la prima ipotesi. Su tale atteggiamento maggiormente “aperto” la convergenza di studiosi di altra origine e collocazione anche militante può già fin da ora essere più ampia, soprattutto da parte di quegli studiosi che, partendo da diverse ipotesi di lavoro e rifacendosi a certa storiografia francese degli ultimi anni — per esempio a Jean Dumont, a Reynald Secher e a Jean Meyer (17) —, ritengono che l’Insorgenza vada letta all’interno della logica del processo di genesi e d’affermazione della modernità in Occidente. Uno schema esplicativo tendenzialmente portato a leggere l’Insorgenza come categoria, piuttosto che come puro fenomeno, e fondamentalmente “forte” — di qui il suo legame con il “pensiero forte” —, apparentemente monocausale, ma in realtà ampiamente sfaccettata. Una visione sufficientemente flessibile per accogliere contributi diversi e più idonea a cogliere la verità di un fenomeno storico multiforme, che, servata distantia, presenta analogie con una realtà di un’altra epoca, il comune medievale, il quale si origina spesso per ragioni le più diverse, non in maniera sincrona nello spazio, ma si afferma più o meno nella stessa epoca in tutto il continente europeo.

Nella massa dei dati proposti è possibile cogliere anche spunti e stimoli meritevoli di ulteriori approfondimenti. Per esempio, la ricerca di Tosi sul Viva Maria! fa scoprire che, anche fra i contro-rivoluzionari, non erano assenti prospettive di mutamento dello status quo e di ricongiunzione alle forme socio-politiche precedenti le riforme illuministiche dei prìncipi settecenteschi. Ancora, lo stesso studio, forse nell’ottica di superare la visione delle “masse” contadine come soggetto indistinto e monolitico, contiene un primo tentativo di biografia di un leader contro-rivoluzionario — quella del marchese Albergotti —, che può costituire un valido esempio per analoghe ricerche.

La rassegna edita dall’Istituto Gramsci presenta anche contenuti, espliciti o impliciti, meno felici.

In primo luogo si rileva in pressoché tutti gli studi una pregiudiziale aprioristicamente negativa verso la componente religiosa nella genesi e nello svolgimento dei vari episodi d’insorgenza, che si traduce nella sua pratica espunzione oppure nella sua “riduzione” o nel suo appiattimento sociologico. Se è vero che il fattore religioso non è stato sempre l’unico movente delle reazioni popolari, è altresì indubbio che esso è sempre e ovunque presente e trascurarlo, oppure posporlo a realtà apparentemente “più profonde”, significa non tener conto dell’assoluta primarietà delle credenze e dei riti nella cultura ancora omogeneamente cristiana delle popolazioni della Penisola alla fine del Settecento, elaborando così interpretazioni quanto meno inadeguate.

Dalla lettura dei diversi saggi, ma soprattutto di quello introduttivo, non emerge poi un aspetto importante dell’Insorgenza italiana, ovvero la sua appartenenza a un quadro europeo. Nel periodo napoleonico la resistenza popolare contro i francesi in difesa delle tradizioni religiose e civili si manifesta in tutte le nazioni cattoliche, all’improvviso esposte a un processo di modernizzazione e di secolarizzazione ad alta intensità, non “preparato”, come altrove, dalla Riforma. Dal Belgio alla Spagna, alla Svizzera, fino all’isola di Malta, ovunque la Rivoluzione francese avanza dietro le armi napoleoniche, le popolazioni, i ceti umili, si sollevano, rialzano i simboli religiosi e le insegne delle “piccole patrie”, dando vita a sollevazioni, come quella spagnola, di vasta portata. Non dare sufficiente rilievo a questa dimensione transnazionale, trascurando gli studi — unici a tracciarne il profilo, anche se in maniera incompleta — di Godechot, significa menomare la possibilità di comprendere adeguatamente l’Insorgenza italiana, rischiando di ridurla a una ripresa di “beghe” fra municipi in perenne e atavico conflitto. A questo riguardo, mentre va osservato che le lotte campanilistiche trovano nuovo vigore — come ha messo in rilievo Petrucci (18) — proprio in conseguenza dello sconvolgimento di equilibri plurisecolari a opera della “totale organizzazione” (19) della società del tempo attuata dalle repubbliche giacobine — nella fattispecie dalla Repubblica Romana —, non si può non ricordare come, almeno per l’Insorgenza nell’Italia Centrale del 1798-1799, non ci si trovi affatto di fronte a episodi — anche numerosi, ma del tutto particolaristici e scoordinati fra loro — di difesa della “piccola patria”, ma si manifesti invece una embrionale unità d’intenti e di lotta fra gl’insorgenti.

Tralascio ogni considerazione sulla liceità — che non viene mai posta in dubbio nella raccolta — da parte della Repubblica Francese di aggredire, di spogliare e di “democratizzare”, violando diritti costituiti plurisecolari, Stati neutrali e pacifici, come pure dell’esproprio di risorse finanziarie e di tesori artistici, cui i francesi sottopongono nel Triennio i popoli italiani. Osservo invece che, mentre nel panorama delineato affiora in più punti la denuncia della “bestiale ferocia” degl’insorgenti — che non è assolutamente né ordinaria, né generalizzata: se ad Arezzo nel 1799 vengono uccisi e bruciati tredici ebrei, nell’insurrezione di Pavia del 1796 i cinquemila contadini insorti non provocano una sola vittima, né fra i giacobini, né fra i francesi —, non emerge sufficientemente, o forse non emerge affatto, quanto brutale siano state la repressione e le rappresaglie perpetrate dai francesi — ma anche dalle milizie cisalpine e “italiche”, evocando immagini di diversi e più recenti collaborazionismi — contro una popolazione il più delle volte inerme. Le loro vittime sono forse da considerare ovvi e dovuti “contributi” al “riscatto” delle popolazioni italiane? Che cosa pensare dell’assordante silenzio sulle sofferenze dei tanti minores — perché privi della cultura riflessa e dei mezzi per far conoscere le proprie ragioni — e il rilievo tributato ad avvenimenti oggettivamente insignificanti, ma di diverso segno “politico”? Si tace delle migliaia di morti dell’Insorgenza a Milano, a Pavia, a Verona, a Lugo di Romagna, a Firenze, a Roma, a Napoli, in Abruzzo, nelle Calabrie e si assorda invece il cittadino con quelle, pur reali, ma incomparabilmente più lievi, per far un esempio, dei “quattro” “martiri dello Spielberg”. Eppure la fase finale dell’Insorgenza precede solo di pochi anni quest’ultima vicenda.

In conclusione, se il numero monografico di Studi Storici rappresenta, com’è lecito credere, una “galleria” delle ultime tendenze della ricerca — almeno di una certa “scuola”, ma non poco significativa — in merito alle insorgenze popolari nel periodo napoleonico, se ne trae l’impressione e l’auspicio che la storiografia sul tema esca finalmente dalla minorità e si avvii verso una maggiore consapevolezza. Soprattutto pare che l’Insorgenza abbia trovato spiragli d’interesse in una parte del mondo accademico. È questa, se non l’unica, almeno la via decisiva per giungere a una conoscenza adeguata del fenomeno. L’importante è che questo interesse non venga inquinato e fuorviato dalle sopravvivenze ideologiche — magari travestite da pensiero “debole” —, e che iniziative private o non istituzionali, invece di essere declassate o combattute, trovino incremento e sostegno da parte di chi è istituzionalmente preposto a “fare storia” e a promuovere la cultura. La prossimità della ricorrenza del secondo centenario della fase clou dell’Insorgenza italiana e della sua, anche se temporanea, vittoria, il 1799 — in vista della quale va senz’altro collocata l’iniziativa realizzata da Studi Storici —, può essere un’opportunità da non perdere.

Oscar Sanguinetti

***

(1) Cfr. Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, numero monografico di Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, anno 39, n. 2, aprile-giugno 1998, pp. 325-622, Dedalo, Bari 1998. Tutti i riferimenti senza rimando sono tratti da questo volume e la paginazione è indicata fra parentesi.

(2) La rassegna contiene alcune affermazioni inesatte sullo storico Giacomo Lumbroso (1897-1944), che viene detto attivo “agli inizi di questo secolo” (p. 376), il che pare difficile, essendo egli nato nel 1897, e definito […] un intelligente conservatore di matrice positivista che ci ha lasciato alcune ricerche assai ben documentate sulle insorgenze antinapoleoniche nella pianura padana” (ibidem). A riguardo, mentre è condivisibile il giudizio relativo all’“intelligente conservatore”, non è evidente da dove si possa dedurre una matrice positivista in Lumbroso; né sono note ricerche “assai ben documentate” dello stesso sulla pianura padana, avendo egli trattato tale argomento nel quadro della sua — peraltro unica — opera di sintesi I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800) (2a ed. rivista, a cura di Oscar Sanguinetti, Minchella, Milano 1997; 1a ed., Le Monnier, Firenze 1932; cfr. la recensione di Paolo Martinucci, in Cristianità, anno XXVI, n. 277, maggio 1998, pp. 24-26), dedicata alle insurrezioni dell’intera Penisola, nella quale dà invece più spazio, come doveroso, all’Insorgenza nell’Italia Centrale e nel Regno di Napoli.

(3) Cfr. Giuseppe Ricuperati, Il Settecento, in Pierpaolo Merlin, Claudio Rosso, Geoffrey Symcox e Giuseppe Ricuperati, Il Piemonte sabaudo. Stato e territori in età moderna, in Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, UTET, Torino 1994, vol. VIII*, pp. 441-834.

(4) Cfr. G. Galasso, Un’eroica Vandea non si nega a nessuno, in Corriere della Sera, 13-9-1995; cfr. anche ISIN. Istituto per la Storia delle Insorgenze, Perché l’attenzione all’Insorgenza, comunicato del 2-12-1996, in Cristianità, anno XXIV, n. 260, dicembre 1996, p. 6.

(5) G. Galasso, art. cit.

(6) Ibidem.

(7) Ibidem.

(8) Cfr. G. Lumbroso, op. cit.; tale tesi è all’origine del mio Le insorgenze contro-rivoluzionarie in Lombardia nel primo anno della dominazione napoleonica. 1796, con una prefazione di Marco Tangheroni, Cristianità, Piacenza 1996; cfr. recensione di Marco Invernizzi, in Cristianità, anno XXV, n. 261-262, gennaio-febbraio 1997, pp. 26 e 30.

(9) Jacques Godechot, La contre-révolution, doctrine et action (1789-1804), PUF, Parigi 1961, trad. it. sulla 2a ed. francese, La controrivoluzione. Dottrina e azione (1789-1804), Mursia, Milano 1988.

(10) Viene irresistibile chiedere: ma in quale liceo o aula accademica s’insegna, non solo che Giuseppe Mazzini (1805-1872) si sia posto il problema delle insorgenze del periodo napoleonico nel quadro della sua elaborazione teorica, ma che esse siano esistite tout court? La stessa Rao, in un precedente studio — Mezzogiorno e rivoluzione: trent’anni di storiografia, in Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, anno 37, n. 4, ottobre-dicembre 1996, pp. 981-1041 —, ha avuto modo di farsi portavoce della tesi di Galasso nel contesto della valutazione — peraltro incidentale — di un breve profilo delle Insorgenze contro-rivoluzionarie da me tracciato e comparso nel volume collettaneo Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 1994, pp. 373-407). E la valutazione risulta del seguente tenore: mentre le mie poche righe vengono rubricate sotto la voce […] impudenti ricorrenti recriminazioni dei reazionari di turno prontamente recepite e amplificate dai mezzi di comunicazione su un’insorgenza negletta e incompresa” (ibid., p. 1010), a carico di chi scrive viene detto che […] solo l’incoscienza può spingere a spaziare in poco più di trenta pagine dalla Vandea del 1793 al Messico del 1926, e solo l’ignoranza può sorreggere nell’affermazione che il fenomeno delle insorgenze popolari controrivoluzionarie sia stato fino a non molti anni fa […] poco esplorato in ambiente di ricerca” (ibid., nota 108). A riguardo mi limito solo a rilevare il tono alquanto scomposto della reazione della docente mentre, sotto il profilo sostanziale, mi permetto di osservare che esistono sintesi di poche pagine riguardo a periodi e a fenomeni storici ben più ampi. Come ben sa, il “taglio” del contributo dipende dal contesto in cui deve situarsi e non sempre l’autore può sceglierlo; anzi, ritengo che le sintesi, per di più del respiro di un articolo di rivista, siano fra le modalità espressive più difficili. O forse il mio contributo, così esiguo, ha acutizzato, traducendolo in un improvviso e violento accesso, l’idiosincrasia per le interpretazioni “unitarie” dell’Insorgenza da cui la professoressa Rao sembra essere affetta? Mi sfugge invece totalmente come la studiosa abbia potuto riscontrare che le tesi dei “reazionari” vengano prontamente recepite e amplificate dai mezzi di comunicazione: a me pare, al contrario, che le poche volte in cui viene rotto il silenzio da parte dei mass media sui “reazionari” — e si veda proprio la sortita di Galasso sopra ricordata e peraltro reiterata in successiva occasione — è quando occorre parlarne per “batterne in breccia”, facendo sparare magari “cannoni” di grosso calibro, le argomentazioni e le azioni. Last but not least, non rilevo fra quelli addotti dalla studiosa alcun elemento che imponga di rivedere la mia asserzione, e devo quindi ribadirla, soprattutto alla luce dei primi risultati di ricerche che l’ISIN, l’Istituto per la Storia dele Insorgenze, ha promosso relativamente all’Italia Settentrionale. Anzi, il dotto e nutritissimo studio bibliografico della Rao sulla Rivoluzione nel Mezzogiorno d’Italia rafforza ulteriormente la mia convinzione, quando confronto l’esiguità dei riferimenti a opere dedicate alla maggiore delle insorgenze della Penisola, quella del Regno di Napoli — mentre si afferma contraddittoriamente che occorre […] comprendere […] come mai tanto ampie e diffuse furono le resistenze e le reazioni popolari contro i francesi e i loro sostenitori “giacobini”” (ibid., p. 997) —, con la dovizia dei titoli relativi alla Rivoluzione.

(11) Cfr. Generale Paul-Charles Thiébault, Mémoires du Général Baron Thiébault publiées sous les auspices de sa fille M.lle Claire Thiébault d’après le manuscript original par Fernand Calmettes, Parigi 1893-1895, vol. II, p. 325.

(12) Cfr. Athos Bellettini (1921-1983), La popolazione italiana. Un profilo storico, a cura di Franco Tassinari, con un’introduzione di Marino Berengo, Einaudi, Torino 1987, che valuta la popolazione a circa 15,5 milioni nel 1750 e a circa 18 milioni nel 1800 (cfr. tabella I, p. 14).

(13) Ernst Nolte, Verità e leggenda del revisionismo, in nuova Storia Contemporanea. Bimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea, anno II, n. 5, settembre-ottobre 1998, Luni, Milano 1998, p. 11.

(14) Il riferimento è a Sandro Petrucci, Insorgenti marchigiani. Il Trattato di Tolentino e i moti antifrancesi del 1797, con una prefazione di M. Tangheroni, SICO, Macerata 1996; cfr. la recensione di Francesco Pappalardo, in Cristianità, anno XXIV, n. 259, novembre 1996, pp. 25-26.

(15) Cfr. alcune notizie sulla vita e l’opera di Lumbroso in O. Sanguinetti, saggio introduttivo a G. Lumbroso, op. cit.

(16) Cfr., a riguardo, Alberto Indelicato — cui per inciso debbo l’efficace espressione “noyer le poisson” —, Revisionismo e giustificazionismo, in nuova Storia Contemporanea. Bimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea, cit., pp. 143-150.

(17) Cfr. Jean Dumont, I falsi miti della Rivoluzione francese, con una prefazione di Giovanni Cantoni, trad. it., Effedieffe, Milano 1989; Reynald Secher, Il genocidio vandeano, con una prefazione di Jean Meyer e una presentazione di Pierre Chaunu, Effedieffe, Milano 1989; e Jean Meyer, La Cristiada, 4a ed. riveduta, 3 voll., Siglo Ventuno, Mexico-Madrid-Buenos Aires 1976.

(18) Cfr. S. Petrucci, L’insorgenza nell’Italia Centrale negli anni 1797-1798, in Nota informativa (dell’Istituto per la Storia delle Insorgenze di Milano), anno II, n. 8, gennaio-aprile 1998, pp. 7-24.

(19 ) Ibid., p. 13: l’espressione è tratta da un documento “romano” dell’epoca.

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1. Premessa

Il numero di aprile-giugno del 1998 di Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, di Roma, è interamente dedicato a Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica (1).

Il fascicolo, che si apre con il saggio Introduzione. La questione delle insorgenze italiane (pp. 325-348) di Anna Maria Rao — professore ordinario di Storia Moderna nell’università di Napoli Federico II, membro del comitato di direzione della rivista e coordinatrice dell’iniziativa —, presenta un insieme di monografie di studiosi di varia estrazione — anche se di comune orientamento —, dedicate a episodi e a momenti particolarmente significativi delle insorgenze popolari, verificatesi in Italia nel periodo del dominio napoleonico, fra il 1796 e il 1815.

L’ordine di presentazione è quello geografico. S’inizia infatti con uno studio sulle insorgenze delle province lombarde già sotto dominio veneto, per proseguire con un saggio volto a individuare tratti comuni fra l’insorgenza veronese del 1797 — le cosiddette Pasque Veronesi — e fenomeni coevi simili, a sfondo sociale, verificatisi nel Regno di Sardegna. Seguono uno studio sui moti agrari del Piemonte Meridionale nel 1797 e due saggi rispettivamente dedicati all’insorgenza ligure del 1797 e a quella romagnola del 1796-1797. La rassegna include poi l’analisi di alcuni aspetti di quelle che possono essere considerate le manifestazioni più significative e complesse della resistenza italiana contro la Rivoluzione francese, ovvero il movimento del Viva Maria! in Toscana, l’insorgenza del Lazio — comprendente anche un esame della politica di Papa Pio VII (1799-1821) nei confronti degl’insorgenti dopo la fine della Repubblica Romana e il ritorno del Pontefice a Roma — e la grande rivolta sanfedista nel Regno di Napoli, tutte del 1799.

2. Esposizione

Nello studio introduttivo la Rao mette anzitutto in rilievo l’ampiezza delle “resistenze e insurrezioni contro la rivoluzione e la repubblicanizzazione della penisola” (p. 330), individuandone le cause in motivazioni di medio e di lungo periodo — la crisi economico-sociale della seconda metà del secolo XVIII, la limitazione delle proprietà ecclesiastiche e le conseguenti ripercussioni sulle tradizionali forme d’assistenza, la riduzione delle autonomie locali, l’attaccamento alle tradizioni religiose, minacciate dal riformismo illuministico e dalla Rivoluzione — e in motivi più immediati, legati alle circostanze dell’invasione e dell’occupazione francesi. Si sofferma quindi su due elementi — “la diffusione delle insorgenze sull’insieme del territorio nazionale” (p. 331) e l’assenza di una conflittualità di classe fra contadini “sanfedisti” e borghesia “giacobina” — che ribaltano alcuni luoghi comuni della storiografia, per concludere che […] dai saggi che si presentano l’insorgenza emerge in tutta la sua irriducibile complessità di fenomeno fortemente differenziato nello spazio e nel tempo” (p. 341).

Lo studioso vicentino Paolo Preto — professore ordinario di Storia Moderna nell’università di Padova — ricostruisce in Le valli bergamasche e bresciane fra democratizzazione e rivolta antigiacobina (pp. 349-365) gli avvenimenti del 1797 nelle province venete più occidentali, dalla dichiarazione di neutralità del governo veneziano e dalla sollevazione di nuclei giacobini prima a Bergamo e poi a Brescia — entrambe “democratizzate” con la forza — all’invasione francese del territorio della Repubblica di Venezia, ai soprusi dell’occupazione e alla forzata inerzia delle truppe di San Marco, alla montante collera dei contadini, che esplode nel marzo del 1797. In quel mese le valli bergamasche — Seriana, Cavallina, Gandino e altre — e quelle bresciane — Camonica, Trompia e Sabbia —, unitamente alle popolazioni della riviera gardesana occidentale — in particolare della zona di Salò, un tempo indipendente —, dopo solenni giuramenti formulati nel corso delle tradizionali assemblee comunitarie, si sollevano coralmente contro le città “rivoluzionate” fino a scontrarsi con le neonate milizie “italiche” e con i francesi, dopo aver coltivato inizialmente l’illusione di regolare i conti con i giacobini nella neutralità dell’esercito occupante. Fa parte del quadro anche la cruda repressione perpetrata dalle truppe franco-bresciane — rinforzate da volontari accorsi da altre città italiane, come per esempio Pavia, di recente “democratizzate” — contro i contadini insorti: oltre al cannoneggiamento di Salò dalla parte del lago, vi sono, come rappresaglia, il saccheggio e l’incendio di diversi borghi della montagna bresciana, quali Nozza, Vestone, Barghe e Lavenone. Nel saggio, corredato da una ricca bibliografia, rimangono in ombra i moventi religiosi dell’insurrezione, mentre, fra le cause, viene dato il massimo risalto al legittimismo e alla difesa degli statuti locali da parte delle comunità rurali, preoccupate di perdere autonomia di fronte al nuovo regime a prevalente base cittadina. Nella parte finale dello studio Preto, ampliando la visuale all’insieme dei territori veneti, ritiene di diluire ulteriormente la caratterizzazione ideologica dell’insorgenza esaminata, ponendo l’accento sulla cronicità dei tumulti a sfondo annonario, antifeudali e contro il governo, verificatisi nelle province venete durante il Settecento, ma non sottovaluta il carattere politico dei moti del 1797: le popolazioni — scrive — […] questa volta non tumultuano per la fame ma per difendere le loro autonomie” (p. 365), ovvero l’antico regime nel quale hanno vissuto per secoli.

L’accento sul tema economico-agrario è posto anche da Gian Paolo Romagnani — ricercatore all’università di Verona, docente di Storia della Storiografia — in un saggio che, nonostante il titolo — Dalle “Pasque veronesi” ai moti agrari del Piemonte (pp. 367-399) —, è dedicato esclusivamente ai moti veronesi del 1797 e solo nelle conclusioni ipotizza — riferendosi però ad altri studi — un’unica matrice per le insorgenze dell’Italia Settentrionale durante il Triennio. Dopo una sintesi delle linee storiche e politiche dell’invasione francese dell’Alta Italia, il saggio traccia un profilo — includente anche una rassegna della storiografia sulla vicenda dall’Ottocento a oggi (2) — dell’insurrezione veronese, ricondotta alla crisi agricola che caratterizza il Veneto alla fine del Settecento e alle tensioni sociali che ne derivano, acuite entrambe dalla rapace presenza delle armate francesi. La tesi di fondo è l’esistenza di cause di un disagio economico-sociale generale, che si esprime in moti antifrancesi dove sono presenti le armi straniere e si scaglia invece contro le autorità tradizionali, la monarchia e i feudatari, dove i francesi sono assenti — o solo parzialmente presenti, a presidio di città sedi di fortezze —, come nel caso del Piemonte dopo l’armistizio di Cherasco dell’aprile del 1796. Romagnani ammette peraltro che una lettura politica dei moti piemontesi sarebbe fuorviante, essendo prodotto di una pluralità di fattori, e che in Italia[…] i moti agrari sono una conseguenza diretta della guerra” (p. 398), ovvero dei contraccolpi arrecati dalla stessa a una situazione economico-sociale già critica. Con ciò ricollega quindi le insorgenze piemontesi del 1797 ai drammatici mutamenti indotti non da riforme di struttura, ancora da realizzare, ma dalla guerra rivoluzionaria condotta dall’armata francese, con le sue sfrenate requisizioni militari e con il suo inaudito drenaggio di risorse finanziarie, oltre che artistiche e religiose. Il ventaglio delle cause viene ampliato, considerando pure che “caratteristica del caso italiano è […] l’insofferenza di molti centri minori nei confronti dei centri maggiori” (ibidem) e che “non va infine trascurato il fattore psicologico […] nel determinare il comportamento delle masse” (p. 399). Lo studio contiene anche un parallelo fra la Vandea francese e l’Insorgenza italiana, attribuito soprattutto agli ambienti che hanno celebrato il bicentenario della seconda; ma parallelo alquanto avventato, perché riconosce alla Vandea connotati di rivolta sociale e all’Insorgenza italiana una minore rilevanza rispetto alla prima.

Al Piemonte è dedicato anche l’ampio saggio di Blythe Alice Raviola — dottoranda in Storia della Società Europea all’università di Torino —, Le rivolte del luglio 1797 nel Piemonte meridionale (pp. 401-447), che, partendo dagli studi di Giuseppe Ricuperati (3) e grazie a un’accurata ricerca d’archivio, ricostruisce capillarmente i tumulti e i veri e propri moti che, a causa del rincaro dei prezzi dei generi alimentari di base, oppone le comunità di villaggio del Piemonte Meridionale — il Cuneese e l’Astigiano, con propaggini nell’Alessandrino e nel Monferrato — alle autorità sabaude e ai feudatari locali. Lo studio rivela episodi e aspetti poco noti della vicenda e si situa su una linea interpretativa decisamente socio-economica, che però tiene equilibratamente conto dell’autentica portata dei moti, nonché della difficoltà dell’”innesto” delle avanguardie giacobine piemontesi sulle popolazioni insorgenti, la cui ricezione delle parole d’ordine rivoluzionarie è limitata e che conservano una sostanziale fedeltà alla monarchia e al regime signorile.

Sulle rivolte di Genova e delle valli liguri orientali — Bisagno, Sturla, Aveto, Fontanabuona, Vara e Magra, con propaggini in Val Trebbia e nei feudi imperiali verso la Val Scrivia e l’Alessandrino —, che si manifestano a due riprese, rispettivamente nel maggio-giugno e nell’agosto-settembre del 1797, verte il saggio di Giovanni Assereto — professore associato di Storia Moderna nell’università di Genova — I “Viva Maria” nella Repubblica ligure (pp. 449-471). Più che a descrivere i fatti il saggio sembra inteso a evidenziare e ad affrontare le questioni suscitate dalla reazione della popolazione ligure, mettendo in luce la diversità fra la prima fase dei moti e quella, più intensa e significativa, che segue alla promulgazione della costituzione democratica. L’ipotesi della sobillazione nobiliare e clericale non viene esclusa, ma viene ridimensionata rispetto alla forza con cui tale ipotesi fu avanzata dai francesi e poi da numerosi storici “progressisti”, dimostrando come i processi susseguenti alla repressione non individuino né puniscano alcun nobile o prelato, benché i giacobini tornati al potere instaurino un “clima da caccia alle streghe” (p. 465) e ne abbiano i mezzi e l’intenzione. Viene anche discusso il legame, ipotizzato da alcuni studiosi, con la rivolta antiaustriaca del 1746 — quella di Giovanni Battista Perasso (1729-1781), detto “Balilla” —, nonché il carattere collettivo e corale — le autorità locali si pongono alla testa delle colonne di insorgenti — messo in evidenza dalle rivolte delle valli. Altri nodi affrontati sono il differente atteggiamento fra Levante e Ponente — quest’ultimo tanto fedele alla Repubblica ligure da proporre d’inviare proprie milizie per reprimere l’Insorgenza nel Levante —; la sostanziale refrattarietà popolare all’ideologia rivoluzionaria francese e la violenta avversione al giansenismo — particolarmente accentuata nella zona di Sarzana —, dopo la breve esperienza delle riforme religiose ispirate a mons. Scipione de Ricci (1741-1809), vescovo di Pistoia e di Prato; infine, la breve durata del moto e lo stato di endemica agitazione nelle campagne, che si protrae fino agli anni del Regno napoleonico. Esemplare è il caso di Val Fontanabuona, nell’entroterra di Chiavari, che verrà definita dai francesi la Vandea ligure. Il saggio di Assereto è d’intonazione senz’altro diversa rispetto ai primi della raccolta, perché vi sembrano meno operanti pregiudiziali teoriche. La sua condivisibile conclusione è che l’insorgenza ligure sarebbe stata una reazione difensiva, scatenata dall’intera gamma di realtà raccolte comunemente sotto il nome di Antico Regime — che nella Repubblica di Genova era rimasto sostanzialmente immune da riforme “illuminate” —, di fronte a un tentativo di modernizzazione troppo rapido e dalle modalità disorientanti, come nel caso della missione dei preti “patriottici” giansenisti nelle valli.

Il quadro che Valentino Sani — dottorando in Storia della Società Europea nell’università statale di Milano — in Le rivolte antifrancesi nel Ferrarese (pp. 473-494) traccia degli accadimenti nel Ferrarese e nella Bassa Romagna ha il pregio di spingersi fino agli anni del Regno napoleonico e ai fatti del 1809. Mentre emerge chiaramente che, dal momento dell’invasione fino alla caduta della dominazione francese, la zona non conosce soste nell’agitazione popolare, di essa si possono individuare quattro fasi ad “alta temperatura”: le insorgenze dell’estate del 1796, la più nota e sanguinosa delle quali è quella di Lugo, che coinvolge anche Argenta e Cento; la sollevazione generale del 1799, al momento della temporanea espulsione dei francesi dall’Italia a opera delle truppe imperiali e russe, che vede la partecipazione di milizie d’insorgenti all’assedio di Ferrara e la conquista di Pontelagoscuro, importante emporio padano; le rivolte contro la coscrizione obbligatoria del 1802-1803 e del 1805, quest’ultima culminata nella sommossa del borgo padano di Crespino, che Napoleone Bonaparte (1769-1821) reprime in modo particolarmente pesante; e, infine, i moti nelle campagne conseguenti alla grande insorgenza tirolese del 1809, che interessano ampie aree della Valle Padana. La repressione in quest’ultima è assai sanguinosa, con 63 condanne a morte per “brigantaggio”. L’ampio apparato critico comprende anche riferimenti a non pochi documenti d’archivio. Per Sani, il Leitmotiv delle insorgenze ferraresi — peraltro “fenomeno [non] valutabile in maniera univoca e omogenea” (p. 476) — sarebbero le croniche rivalità fra i municipi e la rivendicazione di privilegi e di autonomie locali, aggravate da disagi e da conflitti sociali originati da problemi economici.

All’insorgenza toscana del Viva Maria!, del 1799-1800, è dedicata la ricerca condotta da Claudio Tosi Il marchese Albergotti colonnello delle bande aretine del 1799 (pp. 495-531). Dopo una breve ma utile rassegna della storiografia in argomento — senz’altro fra le meno esigue, confrontabile solo con quella relativa alla Santa Fede nel Regno di Napoli —, Tosi sostiene che non ci si debba concentrare oltre misura sugli aspetti economici e sociali dell’Insorgenza toscana, ma piuttosto, come le più recenti tendenze storiografiche sembrerebbero confermare, dare — o ridare — spazio all’analisi di tematiche meno “tangibili”, come la sfera della psicologia e delle credenze religiose, il sentimento d’identità collettiva, la mentalità e la sensibilità delle diverse e riccamente differenziate componenti della società d’Antico Regime, come pure vanno approfondite le cause politiche, nel duplice aspetto strategico-internazionale e tattico-locale. In particolare andrebbe intensificata l’indagine sul ceto dirigente di un’insorgenza che presenta caratteri — per la durata e l’estensione, nonché per la presenza di un’élite dirigente non improvvisata — nettamente diversi da quelli di altri movimenti. In questa prospettiva si situa la ricerca condotta da Tosi sulla figura del marchese Giovan Battista Albergotti (1761-1816), leader del moto aretino. Attraverso la ricostruzione della biografia del marchese e di alcuni membri della sua antichissima famiglia — quasi completamente schierata in quegli anni contro la Rivoluzione: solo un membro sceglie infatti la militanza giacobina —, come il fratello Agostino (1755-1825), divenuto poi vescovo della sua città, lo storico si propone d’inquadrare il comportamento della classe dirigente del Viva Maria!, nonché gli eventi di cui essa fu protagonista e le ragioni delle diverse scelte politiche e militari che dovette fare, rilevandone aspetti sicuramente sconosciuti, che arricchiscono e illuminano l’intera vicenda dell’Insorgenza. Emergono così, fra l’altro, l’accortezza politica e l’abilità militare del nobile toscano, nonché le doti umane e cristiane che conducono il governo provvisorio aretino, e poi toscano, da lui presieduto a instaurare rapporti da tempo sconosciuti fra potere e popolo, fra autorità sociali e ceti umili. Lo studio è munito di un nutrito apparato di note, che fanno riferimento a una varietà di fonti, fra cui l’archivio della famiglia Albergotti.

Le premesse, le origini e le vicende delle insorgenze a Roma e nello Stato Pontificio negli anni 1798-1799 costituiscono l’oggetto del saggio di Massimo Cattaneo — dottore di ricerca presso l’università di Napoli Federico II — L’opposizione popolare al “giacobinismo” a Roma e nello Stato pontificio (pp. 533-568). In un rapido schizzo viene descritta in esordio la “battaglia delle idee” combattuta dagli ambienti pontifici ed ecclesiastici romani contro la Rivoluzione francese, anche se di questa propaganda si esagera alquanto la finalità, definita “terroristica”, e sopravvalutata forse la portata, soprattutto se si pensa alla massiccia e pluridecennale operazione di propaganda messa in campo dall’avversario. L’efficacia della “profilassi” poliziesca, attuata dal governo di Papa Pio VI (1775-1799), contro le infiltrazioni giacobine fomentate dagli agenti diplomatici francesi in vista di un rivolgimento autoctono e in preparazione a una possibile invasione francese, si vede però nel fatto che i nuclei giacobini a Roma ammettono[…] nel 1797 di poter contare in città su non più di settecento simpatizzanti, di cui solo sessantotto pronti a rischiare personalmente in un eventuale tentativo rivoluzionario” (p. 538). Particolarmente interessante è la descrizione — anche attraverso la poesia popolare, utilizzata per veicolare princìpi contro-rivoluzionari — della mentalità e dei costumi religiosi della popolazione del rione Trastevere, che sarà l’epicentro del moto del 25 febbraio 1798. Lo svolgimento di questo viene ripercorso tanto nella dinamica dei fatti quanto nelle cause immediate, quanto, infine, nelle modalità di soffocamento e di punizione adottate dai francesi e sfociate in decine di fucilazioni, non tutte comminate da tribunali e per di più eseguite con modalità nuove, cioè senza cornice religiosa, che contribuiscono a sconcertare e a irritare ulteriormente il popolo romano. Il saggio contiene una rassegna della storiografia sull’Insorgenza nei territori pontifici, che ha inizio nel Montefeltro e nelle Marche addirittura al principio del 1797, al momento del primo impatto bellico fra la Repubblica Francese e lo Stato della Chiesa, e massimo sviluppo nel 1799, anno in cui l’Insorgenza nel Basso Lazio si collega, anche se non organicamente, al Viva Maria!, a quella nell’Umbria e al sanfedismo napoletano.

Marina Caffiero — professore associato di Storia Moderna nell’università di Roma La Sapienza — in Perdòno per i giacobini, severità per gli insorgenti: la prima Restaurazione pontificia (pp. 569-602) riporta alla luce aspetti poco noti del periodo rivoluzionario e napoleonico nei domini pontifici. Lo studio — documentato anche con reperti d’archivio — tratta infatti della politica attuata dal governo romano, dopo la restaurazione pontificia del 1800, nei confronti dei partecipanti alla vicenda della Repubblica Romana del 1798-1799 e dell’atteggiamento tenuto dal medesimo verso i conati d’insorgenza che caratterizzano gli Stati del Papa fra l’inizio del secolo e il momento della nuova conquista francese, fra il 1807 e il 1808. Nel primo caso, si palesa un atteggiamento di clemenza che, nonostante gli ammonimenti dei contro-rivoluzionari non occasionali, sfocia in una serie di misure che si spingono fino a reintegrare non solo nei diritti civili ma anche negli uffici o, addirittura, a promuovere a incarichi di responsabilità i protagonisti e i leader giacobini degli anni della repubblica e della guerra civile del 1798-1799. Misure tanto impegnative e indiscriminate che vengono lette come espressione di una condizione di debolezza, peraltro reale a causa della situazione internazionale, caratterizzata dalla forte pressione francese sullo Stato della Chiesa dopo il riaprirsi del conflitto con il confinante Regno borbonico. Nella prospettiva di ristabilire la pace sociale e di stornare da Roma una seconda invasione — poi comunque subita — il vertice romano preferisce mostrarsi acquiescente e collaborativo oltre misura con i francesi e allearsi con gli ex giacobini contro quanti mettevano a repentaglio la sopravvivenza dello status quo, ovvero, da un lato — in accordo con la politica di Parigi —, reprimendo gli elementi più enragés o anarchistes fra i rivoluzionari italiani, dall’altro lato combattendo gl’insorgenti dei vari dipartimenti e le formazioni del ribellismo endemico — il cosiddetto “brigantaggio” —, venutesi a costituire nello scenario di disordine e d’instabilità sociale degli anni napoleonici. Dopo un prodromo in provincia di Frosinone nel 1801, le insorgenze popolari riprendono e si moltiplicano nel 1806 in sintonia e in prossimità della seconda insorgenza generale del Regno di Napoli, riesplosa in grande stile dopo l’occupazione napoleonica. Il governo pontificio giunge a istituire una congregazione speciale con compiti di controllo e di repressione dei movimenti popolari: di essa fanno parte sia elementi antigiacobini sia, significativamente, i maggiori e più noti esponenti del giacobinismo laziale, che si trovano così a giudicare talvolta persone già schierate sul fronte loro opposto nei moti di otto anni prima. L’esame degli atti di questa commissione getta luce su aspetti poco noti della vicenda, sui moventi e sull’appartenenza sociale degl’insorgenti. Tutti questi dati rafforzerebbero la tesi della studiosa secondo cui l’insorgenza laziale, più che esser letta come conflitto a sfondo religioso o puramente economico, andrebbe collocata nel quadro di cronico scontro municipalistico e campanilistico, clientelare e parentale, che caratterizza l’Italia e gli Stati pontifici e che si riacutizza a causa dei problemi indotti dall’occupazione francese.

La panoramica dell’Insorgenza italiana termina con Rivolte popolari e controrivoluzione nel Mezzogiorno continentale (pp. 603-622), una sintesi della reazione popolare nel Regno borbonico tracciata da John A. Davis, del Dipartimento di Storia dell’università del Connecticut. Già noto per altri studi sul medesimo soggetto e buon conoscitore delle fonti storiografiche italiane, anch’egli propende per un’interpretazione dell’Insorgenza meridionale che vada oltre le pure ragioni di ordine economico, spostando il fuoco della ricerca sul mutamento indotto, sovente a forza, nella società di Antico Regime e tenendo conto della grave crisi della monarchia napoletana, che sarebbe all’origine anche dell’opzione di alcuni maggiorenti per la Rivoluzione, allo scopo di garantire comunque l’ordine civile. Attenzione particolare andrebbe riservata alle vicende micro-sociali, perché sarebbero i municipi — con le loro storie e con i retaggi infiniti di rivalità e di conflitti, che trovano nuovo alimento nella situazione di “rottura” di un equilibrio negli anni napoleonici — a sostanziare, più delle macro-strutture istituzionali, l’Insorgenza meridionale. Davis ritrova questa serie di problemi nelle scelte operate dal leader della Santa Fede, il cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827), analizzandone accuratamente la condotta durante e dopo l’insorgenza.

3. Qualche considerazione

Il fascicolo di Studi Storici fornisce contributi sostanziosi e sufficientemente obiettivi, e sembra rappresentare un promettente inizio di riflessione sul fenomeno dell’Insorgenza italiana, ma evidenzia anche un atteggiamento di fondo che si presta a non pochi rilievi.

La principale osservazione è che un po’ tutti i contributi tendano a persuadere il lettore dell’esistenza di una ricerca — e di non trascurabile spessore — sull’Insorgenza stessa, che viene data addirittura per scontata; anzi, si lascia intendere che, al suo interno, vi sarebbero articolazioni, correnti e scuole diverse, su cui peraltro s’innesterebbe al presente un tanto vigoroso quanto esecrato “revisionismo” — i cui contributi sarebbero per lo più scadenti sotto il profilo scientifico —, promosso strumentalmente da ambienti ideologizzati in senso nostalgico-reazionario e mirante a inquinare il ricupero d’identità in corso nel mondo culturale e politico italiano.

Già nel 1995 Giuseppe Galasso, uno dei maggiori storici italiani contemporanei, ha sostenuto sulle colonne della rubrica culturale del più autorevole quotidiano nazionale (4) esser “sciocchezze” le pretese di quanti lamentano che le insorgenze siano state sottoposte all’“oblio e al disconoscimento [da parte di] una gretta storiografia nazionale, liberale, democratica” (5). Al contrario — sosteneva il professore napoletano — […] i movimenti controrivoluzionari sono stati in Italia largamente studiati in opere e saggi dovuti spesso ad autori anche illustri” (6); e poi, […] nessuno ha mai disconosciuto l’”eroismo” di quelle Vandee italiane” (7). Vien da dire: altro che “sferzante giudizio” sul “revisionismo”, quale lo reputa, citandolo, Cattaneo (p. 568, nota 94)! Si tratta invece di affermazioni che, nella più benevola delle ipotesi, suonano superficiali, quando non mistificanti. Le cose stanno in realtà assai diversamente e non riesco a persuadermi che lo ignori il curatore di una delle più prestigiose collane di storia d’Italia.

L’Insorgenza non è stata per nulla “largamente” studiata. Mancano di essa tuttora quattro dimensioni essenziali. In primo luogo la ricerca e l’analisi delle fonti primarie — anzitutto documenti degli archivi civili e religiosi —, capillarmente estesa al territorio italiano, come richiede lo studio di una realtà così disaggregata e legata a fattori locali. Poi è del tutto assente un’elaborazione a livello generale delle fonti e, dunque, una storiografia di respiro nazionale sul tema. Quindi non si può nemmeno parlare di una tradizione o di una scuola storiografica, neanche di esiguo spessore, sulla quale potersi innestare. Infine — per tacere dell’informazione culturale, ossia dei mezzi di comunicazione sociale — manca il necessario “travaso” delle acquisizioni storiografiche sul piano della formazione culturale del cittadino medio, ovvero nei programmi scolastici. Non è solo in questione la mancanza di “un aggiornato quadro d’insieme”, come rileva la Rao nel saggio d’apertura (p. 326) — che non è solo colpa “della frammentazione e dispersione delle fonti documentarie degli Stati preunitari” (p. 325) —: è in questione la conoscenza tout court del fenomeno, che dipende in buona sostanza dalla non volontà di dar rilievo, nei fatti e nelle interpretazioni, a questa pagina non secondaria della biografia della nazione italiana. Forse solo per il Mezzogiorno — e concordo qui in parte con la studiosa lucana — si può parlare di una storiografia di una qualche portata: ma l’Insorgenza nell’Italia Meridionale ha avuto tratti talmente macroscopici da rendere impossibile ignorarne o affievolirne la memoria. Anche in questo caso la ricerca scientifica si è mostrata finora carente e stereotipata, almeno nelle interpretazioni, benché forse si profilino segnali di cambiamento: la prospettiva accennata nel saggio di Davis — il legame fra Insorgenza e crisi generale della monarchia borbonica — costituisce per esempio una pista di ricerca innovativa e promettente.

E prova di tale condizione è proprio il fatto che gli studiosi della rassegna, invece di limitarsi a “glossare” criticamente studi già esistenti, hanno dovuto “scavare” in archivi assai poco “battuti” e in neglette storie locali, per lo più datate, per raccogliere le informazioni offerte al lettore. Si potrebbe chiedere: dove sono gli autori, l’equivalente dei Saitta, dei Vaccarino, degli Zaghi? dove sono i testi? dove sono gli schemi esplicativi da rimettere in discussione? dov’è la “scolastica” accademica in questo àmbito? Posso personalmente testimoniare che nel 1973, quando iniziai a elaborare la mia tesi di laurea sul tema delle insorgenze nella Lombardia del 1796, al primo accostamento alla materia non riuscii a mettere insieme più di due opere di sintesi, quella di Lumbroso — del 1932, che è parziale e copre il solo Triennio Giacobino (8) — e il volume di Jacques Godechot (1907-1994) La Contre-révolution, doctrine et action (1789-1804), del 1962 — che si ferma al 1804 e che è stato tradotto in italiano solo nel 1988 (9).

Quanto non si vuole ammettere è che siamo in realtà di fronte a una oggettiva rimozione, di origine non recente e tenacemente reiterata — e rafforzata dalla gramsciana conquista dell’egemonia culturale —, di un evento che non è un banale accadimento sporadico, ma, come riconosce ancora — ma perché solo adesso? — la Rao, autrice di molteplici studi sul periodo rivoluzionario in Italia, un fenomeno che […] ebbe un ruolo centrale nella vita politica italiana alla svolta fra Sette e Ottocento, non solo, ma anche negli orientamenti dei repubblicani del triennio 1796-1799 e nella politica napoleonica, e ancor più nell’immaginario e nella riflessione storiografica dell’Ottocento. Basti ricordare il peso che avrebbe esercitato nel pensiero e nell’azione degli uomini del Risorgimento, da Mazzini a Pisacane, nel dibattito sulle vie da seguire per realizzare l’indipendenza e l’unificazione politica italiane” (p. 327) (10). Una realtà, fra l’altro, costata agli italiani, secondo una stima per difetto, in quanto limitata all’inizio del 1799 — che la studiosa del Mezzogiorno suppongo conosca, in quanto fornita da uno dei protagonisti delle vicende della Repubblica Napoletana, il generale francese Paul-Charles Thiébault — almeno sessantamila vittime (11), un dato ancora più impressionante se lo si confronta percentualmente con la popolazione dell’epoca (12) e se si pone mente che non è dovuto a qualche malaugurato evento naturale — un terremoto o un’inondazione —, ma è il prodotto di una volontà umana.

Di fronte a questa obiettiva carenza storica non mi sembra lecito, oltre tutto, squalificare i tentativi — magari anche ideologicamente orientati — di chi, con i mezzi di cui ha potuto avvalersi, non certo comparabili con quelli di cui dispone la storiografia istituzionale, ha cercato di ricostruire la fisionomia di un momento della storia italiana che, come confermano i lavori ospitati da Studi Storici, rivela sempre più nitidamente la sua portata nei fatti e nelle conseguenze.

Non si sa davvero che cosa pensare davanti a un simile “peccato” di omissione riguardo a un fenomeno sul quale non può, come minimo, non “inciampare” qualunque percorso di ricerca serio, né si vede dove possa condurre questo modo di fare storia. Che “magistero” può esercitare? Che futuro può aiutare a costruire? Quale contributo può fornire un atteggiamento scientifico non solo viziato dall’ideologia, ma tendenzialmente ostruzionistico, in un frangente nel quale l’Italia ha bisogno di ogni sforzo volto a farle ricuperare integralmente la propria memoria storica, civile e religiosa per poter così meglio ridefinire la propria identità e per formulare nuove regole con cui perseguire il “bene comune”?

Ma vi sono altri rilievi di merito, che riguardano i giudizi espressi sull’interpretazione generale dell’Insorgenza e sui contributi finora forniti dagli ambienti cosiddetti del “cattolicesimo reazionario e intransigente” (p. 326). La prospettiva delineata da Cattaneo — ovvero il “progetto di incidere nel processo di formazione di un nuovo paradigma repubblicano elaborando una nuova memoria storica nazionale, anche a partire dal recupero di ogni forma di “sanfedismo”, in quanto testimonianza di una rimpianta unità tra valori religiosi e valori pubblici, di una società organicamente “ordinata”, tradizionalista e impermeabile alle detestate ideologie liberali e di sinistra” (p. 568), che trova accoglienza da parte di testate di forze politiche conservatrici, nella fattispecie il Secolo d’Italia, e i cui prodotti confluiscono in “dizionari del pensiero forte” — sembra correttamente ricostruita e, anche se evocata in chiave tendenzialmente polemica, non si vede che cosa vi sia d’illegittimo nel “tentare di incidere” “da destra” nell’elaborazione culturale che prelude alla formulazione di un nuovo assetto repubblicano. Né che cosa vi sia d’ignobile nel rifarsi ai valori evocati, non espungendo dal curriculum del nostro Paese neppure il “sanfedismo” — forse emblema dell’omissione e della contraffazione perpetrate nei confronti dell’Insorgenza —, che certamente va valutato criticamente — e severamente, anche nei suoi aspetti meno “rosei” —, ma riguardo al quale va rifiutata la vera e propria “leggenda nera” — mostrante ogni giorno di più la corda — che è gli è stata costruita addosso nel tempo, sì che l’aggettivo “sanfedista” viene utilizzato ancor oggi più come “clava” ideologica che per designare una posizione ideale.

Riguardo invece al “revisionismo” che affliggerebbe la storiografia sviluppata nella prospettiva predetta — tendente a “sollecitare una totale riscrittura della storia italiana ed europea dal XVIII al XX secolo “dal punto di vista degli sconfitti”” (p. 367) e che viene evocata a più riprese nei vari saggi, ancora in veste di giudizio di merito e con intenti non del tutto benevoli —, occorre subito premettere che anche in questo caso una definizione comunemente accettata di questo termine non esiste. Proprio nel 1998 Ernst Nolte, il “padre” del revisionismo contemporaneo, ne ha fornito una definizione a mio avviso “aurea”, scrivendo: […] considero tratti distintivi di ogni revisionismo serio e perlomeno orientato in una direzione scientifica la critica documentata all’unilateralità e alle lacune della veduta “ufficiale” e la volontà di attenersi ad una maggiore obiettività” (13).

Se tale è il “revisionismo”, muoversi in tal senso sarebbe non solo lecito, ma doveroso. Anzi esso dovrebbe assumere quell’atteggiamento “militante”, che viene lamentato ancora da Cattaneo nei confronti dello storico cattolico maceratese Sandro Petrucci (14) — pur da lui apprezzato dal punto di vista “tecnico” —, perché renderebbe “opaco sul piano interpretativo” (p. 561, nota 82) il lavoro di ricerca. Ma non si può non domandarsi a che cosa si dovrebbe applicare nella fattispecie dell’Insorgenza la “revisione” denunciata, ovvero quali paradigmi scientifici unilateralmente invalsi si dovrebbero sottoporre a “revisione”, dato che essi non vi sono. Non che manchino “vedute ufficiali” — che affiorano per esempio quando si rompe il silenzio —, ma esse sono costituite per la gran parte da giudizi non approfonditi, derivati da orientamenti ideologici pregiudizialmente contrari, senza riscontri fattuali, resi superflui dalla maramaldesca consapevolezza che chi ne è oggetto è uno “sconfitto”, sia storico che nella “battaglia delle idee”.

Non sembra, ancora, accettabile ricondurre, come fa lo stesso studioso con un’intentio palesemente squalificante, il “revisionismo” sull’Insorgenza alle prospettive “cattolico-integralista, neo e postfascista, monarchico legittimista” (p. 567), senza fornire definizione di tali realtà. Il cosiddetto revisionismo nasce invece da un atteggiamento di domanda di verità e di obiettività e come spontanea e costruttiva reazione alla percezione di una monumentale ingiustizia inferta a uomini, nostri antenati, le cui scelte vanno giudicate e anche — se necessario — condannate, ma la cui memoria ci appartiene e che dobbiamo riscoprire e recepire con atteggiamento di profonda e amorosa pietas.

Venendo infine alla tesi secondo cui gli storici “revisionisti”, ergo “di destra”, “revisionano” tutto, ma salvano sempre e solo l’opera dello storico nazionalista e fascista Lumbroso (15), viene spontaneo domandarsi a che cosa si poteva riallacciare fattualmente chi volesse conoscere, anche solo ieri, qualcosa della reazione delle popolazioni contro la Rivoluzione francese in Italia, dato che null’altro di fatto esisteva a un primo accostamento, se non l’opera dello storico fiorentino. Ho già avuto modo di mettere in luce questo aspetto nell’introduzione alla riedizione del suo “vecchio e ben noto — ma a quanti? — studio” (p. 325) apparsa nel 1997. In tale sede mi sono altresì sforzato di non operare il minimo “ricupero” né delle prospettive storiografiche — che giudico oggettivamente insufficienti e forzate sotto il profilo ermeneutico, anche se vanno lette nel clima culturale italiano fra le due guerre mondiali — né tanto meno delle prospettive dottrinali di Lumbroso, ma di effettuare solo un’operazione di ricupero documentale. Vedo però purtroppo che il punto è stato frainteso, se Preto sostiene che la mia nota biografica e la mia prefazione al volume […] ribadiscono la prospettiva storico-politica nazionalista (risalente a Niccolò Rodolico [1873-1969])” (p. 350).

Tentando un giudizio d’insieme sui contenuti del fascicolo monografico di Studi Storici, si può osservare che, dal punto di vista delle interpretazioni i diversi studiosi sembrano essere accomunati, oltre che dal rigetto delle forzature nazionalistiche dei primi decenni del secolo, dall’esigenza di guardare al fenomeno con una visuale sempre più ampia e spregiudicata, abbandonando interpretazioni più o meno rigidamente monocausali a sfondo “infrastrutturale” — di cui potrebbe essere modello, nel caso della storia contemporanea, il gramsciano Giorgio Candeloro (1909-1988) — e muovendosi verso una visione maggiormente interdisciplinare, esigita peraltro da una realtà così complessa e disomogenea qual è l’Insorgenza. Se questo cambiamento sia un semplice tentativo di “noyer le poisson” — “annegare il pesce”, ovvero di diluire al massimo una realtà, facendole perdere sostanza —, come sembra stia accadendo riguardo ad altre tematiche (16); sia cioè frutto del prevalere di una visione “debole”, tendenzialmente portata a frammentare e a relativizzare l’interpretazione generale dell’Insorgenza, oppure segno di un progresso salutare, al momento non è possibile affermarlo. Certo, l’assenza di una sintesi di qualche spessore fra i saggi della raccolta, come pure il fatto che l’orizzonte spaziale e temporale evidenziato dagli studiosi sia sempre piuttosto ristretto, sembrerebbero far propendere per la prima ipotesi. Su tale atteggiamento maggiormente “aperto” la convergenza di studiosi di altra origine e collocazione anche militante può già fin da ora essere più ampia, soprattutto da parte di quegli studiosi che, partendo da diverse ipotesi di lavoro e rifacendosi a certa storiografia francese degli ultimi anni — per esempio a Jean Dumont, a Reynald Secher e a Jean Meyer (17) —, ritengono che l’Insorgenza vada letta all’interno della logica del processo di genesi e d’affermazione della modernità in Occidente. Uno schema esplicativo tendenzialmente portato a leggere l’Insorgenza come categoria, piuttosto che come puro fenomeno, e fondamentalmente “forte” — di qui il suo legame con il “pensiero forte” —, apparentemente monocausale, ma in realtà ampiamente sfaccettata. Una visione sufficientemente flessibile per accogliere contributi diversi e più idonea a cogliere la verità di un fenomeno storico multiforme, che, servata distantia, presenta analogie con una realtà di un’altra epoca, il comune medievale, il quale si origina spesso per ragioni le più diverse, non in maniera sincrona nello spazio, ma si afferma più o meno nella stessa epoca in tutto il continente europeo.

Nella massa dei dati proposti è possibile cogliere anche spunti e stimoli meritevoli di ulteriori approfondimenti. Per esempio, la ricerca di Tosi sul Viva Maria! fa scoprire che, anche fra i contro-rivoluzionari, non erano assenti prospettive di mutamento dello status quo e di ricongiunzione alle forme socio-politiche precedenti le riforme illuministiche dei prìncipi settecenteschi. Ancora, lo stesso studio, forse nell’ottica di superare la visione delle “masse” contadine come soggetto indistinto e monolitico, contiene un primo tentativo di biografia di un leader contro-rivoluzionario — quella del marchese Albergotti —, che può costituire un valido esempio per analoghe ricerche.

La rassegna edita dall’Istituto Gramsci presenta anche contenuti, espliciti o impliciti, meno felici.

In primo luogo si rileva in pressoché tutti gli studi una pregiudiziale aprioristicamente negativa verso la componente religiosa nella genesi e nello svolgimento dei vari episodi d’insorgenza, che si traduce nella sua pratica espunzione oppure nella sua “riduzione” o nel suo appiattimento sociologico. Se è vero che il fattore religioso non è stato sempre l’unico movente delle reazioni popolari, è altresì indubbio che esso è sempre e ovunque presente e trascurarlo, oppure posporlo a realtà apparentemente “più profonde”, significa non tener conto dell’assoluta primarietà delle credenze e dei riti nella cultura ancora omogeneamente cristiana delle popolazioni della Penisola alla fine del Settecento, elaborando così interpretazioni quanto meno inadeguate.

Dalla lettura dei diversi saggi, ma soprattutto di quello introduttivo, non emerge poi un aspetto importante dell’Insorgenza italiana, ovvero la sua appartenenza a un quadro europeo. Nel periodo napoleonico la resistenza popolare contro i francesi in difesa delle tradizioni religiose e civili si manifesta in tutte le nazioni cattoliche, all’improvviso esposte a un processo di modernizzazione e di secolarizzazione ad alta intensità, non “preparato”, come altrove, dalla Riforma. Dal Belgio alla Spagna, alla Svizzera, fino all’isola di Malta, ovunque la Rivoluzione francese avanza dietro le armi napoleoniche, le popolazioni, i ceti umili, si sollevano, rialzano i simboli religiosi e le insegne delle “piccole patrie”, dando vita a sollevazioni, come quella spagnola, di vasta portata. Non dare sufficiente rilievo a questa dimensione transnazionale, trascurando gli studi — unici a tracciarne il profilo, anche se in maniera incompleta — di Godechot, significa menomare la possibilità di comprendere adeguatamente l’Insorgenza italiana, rischiando di ridurla a una ripresa di “beghe” fra municipi in perenne e atavico conflitto. A questo riguardo, mentre va osservato che le lotte campanilistiche trovano nuovo vigore — come ha messo in rilievo Petrucci (18) — proprio in conseguenza dello sconvolgimento di equilibri plurisecolari a opera della “totale organizzazione” (19) della società del tempo attuata dalle repubbliche giacobine — nella fattispecie dalla Repubblica Romana —, non si può non ricordare come, almeno per l’Insorgenza nell’Italia Centrale del 1798-1799, non ci si trovi affatto di fronte a episodi — anche numerosi, ma del tutto particolaristici e scoordinati fra loro — di difesa della “piccola patria”, ma si manifesti invece una embrionale unità d’intenti e di lotta fra gl’insorgenti.

Tralascio ogni considerazione sulla liceità — che non viene mai posta in dubbio nella raccolta — da parte della Repubblica Francese di aggredire, di spogliare e di “democratizzare”, violando diritti costituiti plurisecolari, Stati neutrali e pacifici, come pure dell’esproprio di risorse finanziarie e di tesori artistici, cui i francesi sottopongono nel Triennio i popoli italiani. Osservo invece che, mentre nel panorama delineato affiora in più punti la denuncia della “bestiale ferocia” degl’insorgenti — che non è assolutamente né ordinaria, né generalizzata: se ad Arezzo nel 1799 vengono uccisi e bruciati tredici ebrei, nell’insurrezione di Pavia del 1796 i cinquemila contadini insorti non provocano una sola vittima, né fra i giacobini, né fra i francesi —, non emerge sufficientemente, o forse non emerge affatto, quanto brutale siano state la repressione e le rappresaglie perpetrate dai francesi — ma anche dalle milizie cisalpine e “italiche”, evocando immagini di diversi e più recenti collaborazionismi — contro una popolazione il più delle volte inerme. Le loro vittime sono forse da considerare ovvi e dovuti “contributi” al “riscatto” delle popolazioni italiane? Che cosa pensare dell’assordante silenzio sulle sofferenze dei tanti minores — perché privi della cultura riflessa e dei mezzi per far conoscere le proprie ragioni — e il rilievo tributato ad avvenimenti oggettivamente insignificanti, ma di diverso segno “politico”? Si tace delle migliaia di morti dell’Insorgenza a Milano, a Pavia, a Verona, a Lugo di Romagna, a Firenze, a Roma, a Napoli, in Abruzzo, nelle Calabrie e si assorda invece il cittadino con quelle, pur reali, ma incomparabilmente più lievi, per far un esempio, dei “quattro” “martiri dello Spielberg”. Eppure la fase finale dell’Insorgenza precede solo di pochi anni quest’ultima vicenda.

In conclusione, se il numero monografico di Studi Storici rappresenta, com’è lecito credere, una “galleria” delle ultime tendenze della ricerca — almeno di una certa “scuola”, ma non poco significativa — in merito alle insorgenze popolari nel periodo napoleonico, se ne trae l’impressione e l’auspicio che la storiografia sul tema esca finalmente dalla minorità e si avvii verso una maggiore consapevolezza. Soprattutto pare che l’Insorgenza abbia trovato spiragli d’interesse in una parte del mondo accademico. È questa, se non l’unica, almeno la via decisiva per giungere a una conoscenza adeguata del fenomeno. L’importante è che questo interesse non venga inquinato e fuorviato dalle sopravvivenze ideologiche — magari travestite da pensiero “debole” —, e che iniziative private o non istituzionali, invece di essere declassate o combattute, trovino incremento e sostegno da parte di chi è istituzionalmente preposto a “fare storia” e a promuovere la cultura. La prossimità della ricorrenza del secondo centenario della fase clou dell’Insorgenza italiana e della sua, anche se temporanea, vittoria, il 1799 — in vista della quale va senz’altro collocata l’iniziativa realizzata da Studi Storici —, può essere un’opportunità da non perdere.

Oscar Sanguinetti

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(1) Cfr. Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, numero monografico di Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, anno 39, n. 2, aprile-giugno 1998, pp. 325-622, Dedalo, Bari 1998. Tutti i riferimenti senza rimando sono tratti da questo volume e la paginazione è indicata fra parentesi.

(2) La rassegna contiene alcune affermazioni inesatte sullo storico Giacomo Lumbroso (1897-1944), che viene detto attivo “agli inizi di questo secolo” (p. 376), il che pare difficile, essendo egli nato nel 1897, e definito […] un intelligente conservatore di matrice positivista che ci ha lasciato alcune ricerche assai ben documentate sulle insorgenze antinapoleoniche nella pianura padana” (ibidem). A riguardo, mentre è condivisibile il giudizio relativo all’“intelligente conservatore”, non è evidente da dove si possa dedurre una matrice positivista in Lumbroso; né sono note ricerche “assai ben documentate” dello stesso sulla pianura padana, avendo egli trattato tale argomento nel quadro della sua — peraltro unica — opera di sintesi I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800) (2a ed. rivista, a cura di Oscar Sanguinetti, Minchella, Milano 1997; 1a ed., Le Monnier, Firenze 1932; cfr. la recensione di Paolo Martinucci, in Cristianità, anno XXVI, n. 277, maggio 1998, pp. 24-26), dedicata alle insurrezioni dell’intera Penisola, nella quale dà invece più spazio, come doveroso, all’Insorgenza nell’Italia Centrale e nel Regno di Napoli.

(3) Cfr. Giuseppe Ricuperati, Il Settecento, in Pierpaolo Merlin, Claudio Rosso, Geoffrey Symcox e Giuseppe Ricuperati, Il Piemonte sabaudo. Stato e territori in età moderna, in Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, UTET, Torino 1994, vol. VIII*, pp. 441-834.

(4) Cfr. G. Galasso, Un’eroica Vandea non si nega a nessuno, in Corriere della Sera, 13-9-1995; cfr. anche ISIN. Istituto per la Storia delle Insorgenze, Perché l’attenzione all’Insorgenza, comunicato del 2-12-1996, in Cristianità, anno XXIV, n. 260, dicembre 1996, p. 6.

(5) G. Galasso, art. cit.

(6) Ibidem.

(7) Ibidem.

(8) Cfr. G. Lumbroso, op. cit.; tale tesi è all’origine del mio Le insorgenze contro-rivoluzionarie in Lombardia nel primo anno della dominazione napoleonica. 1796, con una prefazione di Marco Tangheroni, Cristianità, Piacenza 1996; cfr. recensione di Marco Invernizzi, in Cristianità, anno XXV, n. 261-262, gennaio-febbraio 1997, pp. 26 e 30.

(9) Jacques Godechot, La contre-révolution, doctrine et action (1789-1804), PUF, Parigi 1961, trad. it. sulla 2a ed. francese, La controrivoluzione. Dottrina e azione (1789-1804), Mursia, Milano 1988.

(10) Viene irresistibile chiedere: ma in quale liceo o aula accademica s’insegna, non solo che Giuseppe Mazzini (1805-1872) si sia posto il problema delle insorgenze del periodo napoleonico nel quadro della sua elaborazione teorica, ma che esse siano esistite tout court? La stessa Rao, in un precedente studio — Mezzogiorno e rivoluzione: trent’anni di storiografia, in Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, anno 37, n. 4, ottobre-dicembre 1996, pp. 981-1041 —, ha avuto modo di farsi portavoce della tesi di Galasso nel contesto della valutazione — peraltro incidentale — di un breve profilo delle Insorgenze contro-rivoluzionarie da me tracciato e comparso nel volume collettaneo Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 1994, pp. 373-407). E la valutazione risulta del seguente tenore: mentre le mie poche righe vengono rubricate sotto la voce […] impudenti ricorrenti recriminazioni dei reazionari di turno prontamente recepite e amplificate dai mezzi di comunicazione su un’insorgenza negletta e incompresa” (ibid., p. 1010), a carico di chi scrive viene detto che […] solo l’incoscienza può spingere a spaziare in poco più di trenta pagine dalla Vandea del 1793 al Messico del 1926, e solo l’ignoranza può sorreggere nell’affermazione che il fenomeno delle insorgenze popolari controrivoluzionarie sia stato fino a non molti anni fa […] poco esplorato in ambiente di ricerca” (ibid., nota 108). A riguardo mi limito solo a rilevare il tono alquanto scomposto della reazione della docente mentre, sotto il profilo sostanziale, mi permetto di osservare che esistono sintesi di poche pagine riguardo a periodi e a fenomeni storici ben più ampi. Come ben sa, il “taglio” del contributo dipende dal contesto in cui deve situarsi e non sempre l’autore può sceglierlo; anzi, ritengo che le sintesi, per di più del respiro di un articolo di rivista, siano fra le modalità espressive più difficili. O forse il mio contributo, così esiguo, ha acutizzato, traducendolo in un improvviso e violento accesso, l’idiosincrasia per le interpretazioni “unitarie” dell’Insorgenza da cui la professoressa Rao sembra essere affetta? Mi sfugge invece totalmente come la studiosa abbia potuto riscontrare che le tesi dei “reazionari” vengano prontamente recepite e amplificate dai mezzi di comunicazione: a me pare, al contrario, che le poche volte in cui viene rotto il silenzio da parte dei mass media sui “reazionari” — e si veda proprio la sortita di Galasso sopra ricordata e peraltro reiterata in successiva occasione — è quando occorre parlarne per “batterne in breccia”, facendo sparare magari “cannoni” di grosso calibro, le argomentazioni e le azioni. Last but not least, non rilevo fra quelli addotti dalla studiosa alcun elemento che imponga di rivedere la mia asserzione, e devo quindi ribadirla, soprattutto alla luce dei primi risultati di ricerche che l’ISIN, l’Istituto per la Storia dele Insorgenze, ha promosso relativamente all’Italia Settentrionale. Anzi, il dotto e nutritissimo studio bibliografico della Rao sulla Rivoluzione nel Mezzogiorno d’Italia rafforza ulteriormente la mia convinzione, quando confronto l’esiguità dei riferimenti a opere dedicate alla maggiore delle insorgenze della Penisola, quella del Regno di Napoli — mentre si afferma contraddittoriamente che occorre […] comprendere […] come mai tanto ampie e diffuse furono le resistenze e le reazioni popolari contro i francesi e i loro sostenitori “giacobini”” (ibid., p. 997) —, con la dovizia dei titoli relativi alla Rivoluzione.

(11) Cfr. Generale Paul-Charles Thiébault, Mémoires du Général Baron Thiébault publiées sous les auspices de sa fille M.lle Claire Thiébault d’après le manuscript original par Fernand Calmettes, Parigi 1893-1895, vol. II, p. 325.

(12) Cfr. Athos Bellettini (1921-1983), La popolazione italiana. Un profilo storico, a cura di Franco Tassinari, con un’introduzione di Marino Berengo, Einaudi, Torino 1987, che valuta la popolazione a circa 15,5 milioni nel 1750 e a circa 18 milioni nel 1800 (cfr. tabella I, p. 14).

(13) Ernst Nolte, Verità e leggenda del revisionismo, in nuova Storia Contemporanea. Bimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea, anno II, n. 5, settembre-ottobre 1998, Luni, Milano 1998, p. 11.

(14) Il riferimento è a Sandro Petrucci, Insorgenti marchigiani. Il Trattato di Tolentino e i moti antifrancesi del 1797, con una prefazione di M. Tangheroni, SICO, Macerata 1996; cfr. la recensione di Francesco Pappalardo, in Cristianità, anno XXIV, n. 259, novembre 1996, pp. 25-26.

(15) Cfr. alcune notizie sulla vita e l’opera di Lumbroso in O. Sanguinetti, saggio introduttivo a G. Lumbroso, op. cit.

(16) Cfr., a riguardo, Alberto Indelicato — cui per inciso debbo l’efficace espressione “noyer le poisson” —, Revisionismo e giustificazionismo, in nuova Storia Contemporanea. Bimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea, cit., pp. 143-150.

(17) Cfr. Jean Dumont, I falsi miti della Rivoluzione francese, con una prefazione di Giovanni Cantoni, trad. it., Effedieffe, Milano 1989; Reynald Secher, Il genocidio vandeano, con una prefazione di Jean Meyer e una presentazione di Pierre Chaunu, Effedieffe, Milano 1989; e Jean Meyer, La Cristiada, 4a ed. riveduta, 3 voll., Siglo Ventuno, Mexico-Madrid-Buenos Aires 1976.

(18) Cfr. S. Petrucci, L’insorgenza nell’Italia Centrale negli anni 1797-1798, in Nota informativa (dell’Istituto per la Storia delle Insorgenze di Milano), anno II, n. 8, gennaio-aprile 1998, pp. 7-24.

(19 ) Ibid., p. 13: l’espressione è tratta da un documento “romano” dell’epoca.

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