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IL PRINCIPE DI CANOSA UN ESEMPIO DI ONESTÀ PER LA DILAGANTE CORRUZIONE NELL’ATTUALE VITA PUBBLICA: ERA RICCO MA È MORTO POVERO.

Posted by on Feb 11, 2019

IL PRINCIPE DI CANOSA UN ESEMPIO DI ONESTÀ PER LA DILAGANTE CORRUZIONE NELL’ATTUALE VITA PUBBLICA: ERA RICCO MA È MORTO POVERO.

Sommario: 1. – La vita e l’attività pubblicistica. 2. – Condannato dai rivoluzionari repubblicani e dal tribunale del Re. 3. – La “leggenda nera”. 4. – La complessa personalità costellata da eminenti doti. 5. – Riflessioni conclusive.

1. – La vita e l’attività pubblicistica. – Antonio Luigi Capece Minutolo, Principe di Canosa, nasce a Napoli il 5 marzo 1768(1), terzogenito dei coniugi don Fabrizio e donna Rosalia de Sangro dei Principi di San Severo (è, perciò, nipote ex matre di Raimondo, grande genio del settecento); dalla sua fede di battesimo conservata nell’Archivio di Stato di Napoli apprendiamo anche il nome della “mammana” (ostetrica): Antonia Ferrara.

Appartiene ad una antica famiglia con signoria sul feudo di Canosa ed era ascritta al primo dei Sedili di Napoli, quello di Capuana.

Nel Duomo di Napoli fa bella mostra la cappella dei Capece Minutolo, ricordata anche da Boccaccio nella novella di Andreuccio da Perugia, dove i ritratti di tredici viceré, due cardinali e una schiera di guerrieri denotano la nobiltà e onorabilità della stirpe.

Compie i suoi studi nel collegio Nazzareno di Roma, sotto la guida dei Gesuiti; successivamente viene avviato alla professione forense, dove si distingue nella trattazione delle cause penali. 2. – Condannato dai rivoluzionari repubblicani e dal tribunale del Re. – Il Principe di Canosa ha avuto il triste privilegio di aver subito la condanna a morte dai repubblicani rivoluzionari, perché incolpato di essere monarchico, ed

ugualmente una sonora condanna dal Tribunale del Re, allorché venne restaurata la monarchia, perché ritenuto colpevole di essersi posto contro l’autorità regale, rappresentata dal suo Vicario.

All’inizio del 1799, invero, nelle torbide giornate della repubblica napoletana, i giacobini lo condannarono a morte per aver organizzato la plebe ed armato i lazzari(2) che, in nome del Re, si opponevano allo straniero invasore ed ai cittadini suoi fiancheggiatori. “I lazzaroni, questi uomini meravigliosi scampati dall’esercito che era fuggito avanti a noi, chiusi in Napoli, sono degli eroi. Si combatte in tutte le strade, il territorio è disputato palmo a palmo, i lazzaroni sono comandati da capi intrepidi, il forte di S. Elmo li fulmina, la terribile baionetta li atterra, essi ripiegano, in ordine, tornando alla carica”(3).

Fortunosamente scampato alla pena capitale, ebbe a subire dolorose traversie con il ritorno di re Ferdinando IV a Napoli e la restaurazione della monarchia: uscito dal carcere repubblicano l’11 luglio 1799, a seguito della capitolazione dei rivoluzionari asserragliati nel castello di Sant’Elmo, il 1° agosto successivo venne rinchiuso nelle regie carceri.

A suo carico pesava, infatti, la contestazione del potere del “Vicario” (Francesco Pignatelli di Strongoli), lasciato come alter ego dal re quando con la corte si era trasferito in Sicilia. Si sosteneva, in proposito, che, secondo antica tradizione, in assenza del sovrano, la potestà di governare la Nazione spettasse ai “Cavalieri della Città” ed ai componenti della “Deputazione straordinaria per il buon governo e per l’interna tranquillità”, che rappresentavano la città di Napoli(4); il Vicario, al più, avrebbe dovuto agire d’intesa con i “sedili”.

In questa situazione erano inevitabili dissidi ed incertezze nel governo della città, per cui lo stesso Vicario decise di rifugiarsi in Sicilia. Peraltro, una volta restaurata la monarchia e ritornato il Re nei suoi poteri, il Canosa venne nuovamente portato in carcere e sottoposto a giudizio per il suo comportamento nei riguardi del Vicario.

Il Presidente del Tribunale della Giunta di Stato, Vincenzo Speciale, che il Canosa definisce “pazzamente feroce”, chiede per lui la somma condanna, ma il Re, sollecitato dalle famiglie dei Cavalieri della Città, decise di affidare il giudizio finale anche alla Giunta del buon Governo, presieduta dal Principe di Cassaro, persona molto equilibrata. Lo stesso Canosa così racconta la vicenda: “i membri della Giunta di Stato furono scissi tra loro nella decisione della causa. La scissura toccò tanto gli estremi, che mentre uno votò per la morte, votarono due affinché venisse fatta relazione al Monarca intorno ai meriti che contratto avea colla buona causa il supposto reo. Tra le tante sentenze strampalate si cavò quasi come media proporzionale, tra chiassi ripetuti e cachinni la condanna di cinque anni di castello”. Precisamente, alla più mite condanna si giunse per l’assoluzione dalla reità di Stato e cioè dall’accusa di aver promosso l’instaurazione di una “repubblica aristocratica”, e per il riconoscimento solo dell’insubordinazione al Vicario(5).

Tuttavia, nel 1801, a seguito del Trattato di Firenze con cui Napoleone aveva imposto una generale amnistia per i giacobini condannati, anche il Canosa, che certamente non rientrava tra costoro, riacquista la libertà.

I repubblicani rivoluzionari, dunque, lo avevano condannato perché “monarchico” ed il Tribunale del re lo condannava perché incolpato di aver voluto instaurare una sorta di repubblica aristocratica: “monarchia” e “aristocrazia”, come rileva Benedetto Croce(6), sono proprio “i due elementi che egli bensì componeva armonicamente nella sua antiquata personalità, ma che la storia aveva scissi e messi in contrasto”.

3. – La “leggenda nera”. – Il Principe di Canosa è perseguitato da una leggenda nera che l’ha dipinto a fosche tinte in vita e continua a perseguitarlo anche dopo la morte; si è giunti ad incolparlo della strage di centinaia di migliaia di “giacobini, murattisti e carbonari”, fino ad attribuire alla sua nefasta influenza presso la Corte di Modena, il supplizio di Ciro Menotti. 4

Vincenzo Gioberti lo ritiene “uomo d’infame memoria, che, dopo commesso in Napoli ogni sorta di ribellione, trovò asilo tra le braccia dei gesuiti alle sponde del Crostole”(7).

Niccolò Tommaseo lo definisce “villano di Canosa, cacciato da Napoli e dalla Toscana come uomo stolidamente torbido e vituperevolmente irrequieto”(8); “prepotente, fanatico e cieco reazionario, nemico di ognuno che aspirasse ad ordini più civili di governo”, lo considera Matteo Mazziotti(9).

Giuseppe Mazzini – dal sicuro dei suoi esili, nota S. Vitale(10) – lo raffigura “colle baionette d’intorno e il carnefice a fianco”(11).

Più astioso è il giudizio di Pietro Colletta, che, ricordando il carcere subito dopo i moti del 1821, lo taccia di essere “aristocratico per dottrina, plebeo per genio”, “diffamato per opere pessime”, “orditore sagace… di trame, ribellioni, delitti”, “cagione di mille morti, o da lui date o dall’avversa parte, per vendetta e condanne”, “doppiamente adultero, sempre ubriaco di vino e di furore”, autore di “opere inique sotto le immagini del Salvatore e dei Santi”, “tenuto malvagio nel mondo”(12).

Sono affermazioni senza alcun fondamento, di cui specialmente quelle del Colletta furono dal Canosa puntigliosamente confutate in vita nell’Epistola ovvero riflessioni critiche sulla moderna storia del reame di Napoli del generale Pietro Colletta, pubblicata a Capolago nel 1834 e recentemente ripubblicata dal Vitale in appendice al suo volume “Il Principe di Canosa”.

A sua volta, il Blanch, dopo un generico apprezzamento dell’umanità del Canosa, bolla le sue vedute politiche come “una idea esagerata che ha la forza di rendere nulle le migliori intenzioni e le virtù stesse”(13).

Più benevolo è il giudizio di B. Croce(14) che di fronte alle voci calunniose della polizia del Saliceti e alle tenaci difese dello stesso Canosa, dichiara di propendere per queste, osservando che “l’uomo era bensì un don Chisciotte(15) della reazione, ma non punto sanguinario, né malvagio e nemmeno ingeneroso”.

Pur dichiarando di non volersi discostare dalle considerazioni del Croce, il Maturi(16) ridimensiona alquanto il sostanzialmente positivo giudizio del Croce osservando che “Accanto al generoso cavaliere, v’è nel Canosa il settario capace per odio di parte delle più basse delazioni e delle più odiose quali l’inasprimento delle pene in materia di opinioni, gli atti più odiosi quali i processi napoletani del 1799 e i processi piemontesi del 1833”.

Il conte Clemente Solaro della Margarita, che pure come il Canosa è fedele al trono e devoto all’altare, non è tenero nei suoi confronti: gli riconosce che è “uomo onesto, devoto ai buoni principi”, ma aggiunge che è “incapace di maneggiare affari di Stato, specialmente nell’epoca difficile di una restaurazione. Più poteva in lui la passione che il senno; non aveva idee fisse; non perseveranza di condotta; voleva il bene non sapeva operarlo; fu tremendo coi carbonari della plebe, i più accorti delle classi sociali riuscirono a schermirsene”.

4. – La complessa personalità costellata da eminenti doti. – I negativi giudizi espressi sul Canosa sono unilaterali e mostrano di non considerare le qualità che il personaggio possedeva in grande misura, come il sommo disinteresse personale, la generosità d’animo non venata da rancori, la costanza dei sentimenti, lo spirito di indipendenza alieno da cortigianeria.

I suoi sentimenti non sono stati mai contaminati da venature di interesse economico: “Io, afferma il Canosa, ero il capo di una patrizia famiglia commoda bastantemente nel mio paese.

Abbandonai tutto sul fondato timore di perder tutto, ed in effetti tutto perdei fuor che il mio onore. Nel venire non ebbi presente giammai altro che il mio dovere, l’odio verso la rivoluzione”(17).

Il tornaconto personale non ha mai ispirato o condizionato la sua attività, per difendere i suoi ideali sacrificò la famiglia (giovane moglie, teneri figli, vecchi genitori), gli studi, la tranquillità ed i suoi averi, tra cui la libreria che aveva “carissima”(18). 6

E’ anche il caso di ricordare che, quando si avvicina il pericolo dell’invasione straniera, il Canosa si arruola volontario nell’esercito regio e recluta, a proprie spese, una cinquantina di uomini a difesa di Napoli e della monarchia.

Il disinteresse economico ha, perciò, costituito la nota dominante della sua attività, come viene dimostrato dal fatto che è morto povero; in un mondo in cui l’utile personale costituisce la direttiva principale per ogni azione, questa sola connotazione contribuisce ad elevare la figura del Canosa ed a farlo assurgere a modello da imitare, anziché a farlo sprofondare tra i soggetti da scansare.

Canosa era senza dubbio generoso, così come può aspettarsi da una persona, come lui, di alto lignaggio; sono significativi, in proposito, alcuni episodi, forse di no grande rilievo, che però aiutano a comprendere meglio la sua personalità.

Così, nel soggiorno in toscano (1816), incontrato un vecchio compagno d’armi che si trovava in difficoltà economiche, gli concede il suo aiuto versandogli mensilmente la somma di cento lire. Si tratta di Giuseppe Torelli che non era propriamente un amico del Canosa perché a Ponza (1807), dove era stato costituito un “punto d’appoggio”, una specie di “resistenza”, per la preparazione di un movimento anti francese a Napoli, aveva cercato di metterlo in cattiva luce con la stessa Regina; in seguito, scomparsa la Regina, il Torelli aveva chiesto inutilmente aiuto al Ministro Medici che lo scacciò in malo modo. In Toscana, dunque, avvicina il Principe che, ricordando che era stato “nemico della rivoluzione, e fedele alla grande Maria Carolina… due attributi che per me canonizzano il demonio”, dimentica precedenti contrasti e gli concede concreto sostegno(19).

Meritevole di essere segnalato è anche il comportamento tenuto nei confronti del generale A. Bergani, che aveva aderito al regime costituzionale ed era rimasto fedele fino all’ultimo a Gioacchino Murat: mosso a compassione dalla supplica della moglie del generale, lo giustificò davanti al Re, facendo richiamo all’osservanza dello spirito militare e alle materiali necessità di sopravvivenza, e lo fece rimettere in libertà(20). 7

In precedenza aveva mostrato la sua magnanimità graziando alcuni sicari inviati a Ponza per la sua eliminazione dal ministro di polizia del napoleonide Giuseppe Bonaparte.

Un altro elemento costante della sua attività è stata l’avversione senza indulgenza ai moti rivoluzionari che cozzavano profondamente con la sua profonda convinzione di legittimista. Contro lo spirito rivoluzionario sostiene che la lotta non può essere affidata ai poteri ordinari e molto meno al potere costituzionale: “il solo che può vincerlo è un dispotismo vigoroso ed estremamente attivo”(21).

Con apprensione rileva, quindi, al ritorno di Ferdinando IV sul trono di Napoli, che i murattiani continuano a mantenere alte cariche nell’amministrazione statale e nell’esercito, i beni confiscati al clero e alla nobiltà non vengono restituiti, la fedeltà dei sudditi non viene in alcun modo ricompensata.

Teme, perciò, che la politica, seguita dai ministri Medici e Tommasi, finisca per isolare il Re che si troverà senza la difesa dei nobili, i cui poteri sono stati annullati, e senza l’ausilio del clero la cui autorità religiosa viene scossa da una diffusa miscredenza.

In questa situazione, osserva il Canosa, le forze rivoluzionarie si faranno vive e finiranno con il prevalere.

Le pessimistiche considerazioni del Canosa vennero esposte nel lavoro “I Piffari di montagna”, pubblicato nel maggio del 1820 ed assunsero subito il significato di una negativa profezia, in quanto, nel luglio successivo, scoppiano i moti rivoluzionari che costringeranno il Re a cedere il potere, salvo poi l’intervento restauratore delle truppe austriache.

Ricordando quegli avvenimenti qualche tempo dopo, il Cav. Luigi Medici, principe di Ottaviano, mestamente osservava che “Quando non si possa (rimettersi la feudalità), come veramente ben che non si possa, qual altro principio vi si surrogherà? Qui Canosa vuole dispotismo puro, i liberali costituzione e rappresentanza. Gli uni e gli altri dicon male: ma sarebbe lunga diceria e non ho tempo. Dico di volo che nel quinquennio [1815-1820] credei di sciogliere il 8

problema; ma, disgraziatamente, due tenenti [Silvati e Morelli che insorsero a Nola, chiedendo la costituzione] mi provarono che ero un coglione, e tutto fu rovesciato. Ond’è che non ci penso più”(22).

Qui, dunque, il Canosa ha avuto ragione; lo ammette anche Croce nel suo interessante saggio sul Principe di Canosa(23).

Senza alcun tentennamento od ombra di dubbio, il Canosa, era convinto monarchico; del resto, in quanto nobile, riteneva fermamente che “ove non vi è Monarchia, non vi è nobiltà”. Dei nobili, però, ricordava le tradizioni di fedeltà e di eroismo a difesa del Re e si rammaricava che, all’epoca, essi si fossero ridotti da aristocratici feudali in accidiosi cortigiani, rinunciando alla propria funzione di comando e di giustizia(24).

Il Canosa, però, non ha assunto mai atteggiamenti di cortigianeria e quando si è presentata l’occasione, senza venir meno all’ossequio dovuto alla maestà del capo dello Stato, ha palesato la difformità delle sue opinioni, mostrando l’indipendenza del suo spirito e nello stesso tempo la rettitudine del suo comportamento.

E’ sintomatico l’episodio del comando impartitogli dalla regina Maria Carolina, con la quale peraltro esisteva una grande comunanza di vedute, e che il Canosa dichiarò di non poter eseguire, perché era contrario alle leggi.

La Regina gli osservò: “Ma le leggi non le facciamo noi? Ebbene noi la sospenderemo o revocheremo”; il Canosa, tuttavia, mantenne il suo rifiuto, dichiarando: “Signora giustissima… non tutte le leggi sono fatte dal Re. Ce ne sono talune che sono leggi di cui la sorgente si trova naturale, nella legge emanata da Dio, che è il Re dei Re. La legge alla quale si oppone il comando, per equivoco, datomi da Vostra Maestà, è appunto una legge universale, una legge di natura”.

L’episodio merita particolare attenzione. Il Canosa, monarchico perinde ac cadaver, non esegue l’ordine regale perentoriamente impartitogli, ma la Regina, che pur sovente ricorda di essere “figlia di Maria Teresa” e perciò abituata a farsi ubbidire senza discussioni, non dubitava della realtà del Principe ed ha accettato le sue spiegazioni. Personaggi di diversa levatura, in simili frangenti si sarebbero

comportati in altro modo e sarebbero stati lieti di appiattirsi sui superiori regii voleri. Rifulge, quindi, nel Canosa la profonda conoscenza del diritto, acquisita in gioventù con l’esercizio della professione forense, e la spiccata accortezza nell’assolvere, al di là di ogni condizionamento, il suo ruolo di consigliere, additando la via più corretta per l’espletamento dell’attività di governo.

Strenuo difensore dei diritti della nobiltà, si oppose alla richiesta, loro rivolta, dall’avvocato fiscale Nicola Vivenzio di prestare il servizio militare in tempo di guerra.

In proposito, rifacendosi al giasnaturalismo, sostenne con fermezza che lo Stato, alla stessa guisa dei privati, deve rispettare i contratti. Orbene, gli antichi feudi concessi o donati dal Re, comportavano l’obbligo del servizio militare; ma l’obbligo venne abolito da Alfonso I d’Aragona e da Ferdinando il Cattolico e convertito in donativi.

Per quanto concerne i feudi moderni, osserva che venivano acquisiti a condizioni venali, ma che tra queste non era contemplato l’obbligo del servizio militare.

Per conseguenza, il Re non poteva pretendere dai nobili il servizio militare perché non era compreso nel contratto; ma, sostiene il Canosa, quando la monarchia si trova in pericolo, i nobili devono accorrere in suo aiuto spontaneamente, fornendo denaro ed uomini contro le avverse minacce.

Coerente con le sue opinioni, quando il Re con la corte si ritira in Sicilia e sorge la necessità di rinforzare l’esercito regio con altre truppe, il Canosa, come abbiamo accennato sopra, si reca nei casali vicini a Napoli, solleva gli animi contro i francesi e raduna, a proprie spese, circa cinquanta reclute.

Ma non “s’indusse a chiedere rimunerazione alcuna dalla generosità del Sovrano, trovandosi molto contento d’aver servito S. M. (D. G.)”(25).

6. – Riflessioni conclusive. – Anche oggi, pur dopo le importanti ricerche di W. Maturi e di S. Vitale e gli interessanti studi di B. Croce che hanno esaminato più estesamente la vita e le opere del Canosa, permane una generale avversione nei 10

suoi confronti, avversione che richiama singoli e certamente secolari episodi per farne discendere giudizi assolutamente negativi e perentori.

In effetti, il Canosa, quale arguto polemista, nel suo discorrere era solito avvalersi di paradossi e di enfatizzazione per colorire meglio le sue argomentazioni e sminuire quelle dei suoi oppositori.

Chi, come il conte Monaldo Leopardi, lo aveva avuto vicino per affinità di idee e per familiarità di rapporti e, quindi, si trovava in posizione privilegiata per valutare i suoi intimi pensieri ed i suoi concreti atteggiamenti, aveva chiaramente affermato che “Egli è l’Argante del Re, e bisognerebbe avere l’animo di Giuda per negargli il diritto all’omaggio e alla riconoscenza di quanti combattono per la difesa della legittimità”; e più oltre sottolineava che “In sostanza, se Voltaire fu il Patriarca dell’empietà, La Fajette è stato il Patriarca della bugiarda libertà, è Canosa incontra stabilmente il Patriarca del realismo e della legittimità”(26).

Alla morte del Canosa, è ancora il Leopardi che unicamente ne tesse l’elogio funebre, con appropriate espressioni che lungi dal diffondersi in ipocriti elogi, come si è soliti in simili occasioni, suonano a monito degli indolenti: “… una vergogna dell’Italia il non aver alzato una voce d’encomio”; ed a coloro che non volessero intendere ricorda apparentemente enfatiche ma rispondenti pienamente alla realtà che “Canosa era un gran dotto, un gran politico, un vero galantuomo e un vero cristiano”(27).

Domenico LA MEDICA

(1) non il 6 marzo, come afferma N. Del Corno, in Gli “scritti sani”, Dottrina e propaganda della reazione italiana dalla Restaurazione all’Unità, Milano, Franco Angeli, 1992, 37; il 6 marzo è la data di battesimo. (2) Il termine “lazzaro” non si rinviene nella letteratura napoletana anteriormente alla rivolta di Masaniello (1647) e forse deriva dallo spagnolo lazaro , cencioso, pezzente, con cui i signori napoletanoi, che spagnoleggiavano nella lingua, indicavano la torma dei popolani seminudi, di cui si circondava quel capopopolo; proprio perché vestiti di stracci, richiamavano alla mente il Lazzaro resuscitato e quello cencioso dell’Evangelo. Di lazzari si torna a parlare nelle burrascose giornate del 1799, per la loro resistenza alle truppe di occupazione francesi e, successivamente, quando, sotto la guida del cardinale Ruffo, si distinsero per la lotta contro i “giacobini”.

In seguito con l’espressione lazzaro si intese quella categoria del sottoproletariato che non aveva alcuna occupazione e viveva accontentandosi del minimo, ma che non per questo aveva perso la sua spensieratezza; come ideali, poi, nutriva “in religione, il culto devoto e fanatico dei Santi protettori e, in primo luogo, di San Gennaro, e in politica, il culto del re” (Croce B., I “lazzari, in Aneddoti di varia letteratura, II, Napoli, 1942, 428 ss.; Benigno F., Trasformazioni discorsive e identità sociali, il caso dei lazzari, in Storica, 2005, 7 ss.).

(3) Così si esprimeva il gen. Championnet, nella sua relazione al Direttorio, come riporta Colletta P., Storia del reame di Napoli, libro III, cap. XXII.

(4) Il privilegio della Città di Napoli di rappresentare la Nazione e di assumerne il governo, in caso di assenza o di imbecillità del Sovrano, si fa risalire all’antico patto tra il Re e Nazione sul quale si fondava la Monarchia. Questo privilegio si sarebbe dovuto ritenere ancora in vigore, in quanto Carlo di Borbone con il manifesto del 1753 aveva conservato alla Nazione i suoi privilegi, ricevendone in cambio il giuramento di fedeltà e con l’atto di cessione del 5 ottobre 1759, aveva trasmesso al suo figlio Ferdinando IV l’obbligo di osservare quei privilegi.

Pertanto, quando il Re si era allontanato da Napoli, la nomina del Vicario venne ritenuta come abuso regio contro i diritti della Città.

In effetti, la monarchia borbonica aveva perso l’antica fisionomia di monarchia feudale temperata dai privilegi per assumere quella di monarchia assoluta, perciò le pretese della Città, più che dirette a restaurare un diritto esistente, erano sembrate che dessero adito alla instaurazione di una sorta di repubblica aristocratica (v. Maturi W., Il Principe di Canosa, Firenze, 1944, 16 ss.)

(5) Merita di essere ricordata la memoria scritta a difesa del suo operato, in cui è evidente lo spirito polemista che caratterizza il suo stile e la cultura giuridica rafforzata nell’esercizio della professione di avvocato (a Napoli, li chiamavano e li chiamano tuttora “paglietta”) precedentemente svolta: “Non v’ha dubbio alcuno, che la lettera di dimissione scritta al signor Vicario Generale fu di vari giorni posteriore all’anarchia accaduta. Dunque la lettera fu scritta quando il potere civile non esisteva nelle mani del Vicario generale, anzi quando, cessato assolutamente tra tutti, era veramente Civitas dissoluta, … Dunque, il generale Pignatelli, nel momento in cui fu scritta la lettera, non era più nel fatto Vicario generale. Dunque con la lettera non se gli venne a togliere se non ciò che aveva col fatto già perduto. Dunque non venendo ad avere alcun affetto di fatto, non poteva averlo neanche di diritto” (riportata da Maturi W., Op. cit., 33).

(6) B. CROCE, Uomini e cose della vecchia Italia, Bari, 1927, 242.

(7) GIOBERTI V., Gesuita moderno, Losanna, 1846, II, 325.

(8) TOMMASEO N., Dell’Italia, I, cap. VII.

(9) MAZZIOTTI M., L’esilio di Pietro Colletta in Austria, in Nuova Antologia, 1° gennaio 1916, 4.

(10) VITALE S., Il Principe di Canosa e l’Epistola contro Pietro Colletta, Napoli, s.d., 8

(11) MAZZINI G., La Giovane Italia, Roma, 1902, 99.

(12) Storia del reame di Napoli (1734 – 1825), Capolago, 1834, I, 314: II, 16ss-; la colpa dell’adulterio si spiega forse perché dopo aver sposato donna Teresa Galluccio, dei duchi di Toro, aveva avuto relazioni con altre due donne che, però, si conclusero, appena il Canosa rimase libero, con regolare matrimonio: precisamente, la seconda moglie, Anna Orsellini, figlia di un cenciaio di Pisa, gli diede tre figli (due femmine ed uno maschio); alla morte di questa (31 dicembre 1836), sposò a Pesaro Teresa Gabellini di Roma, anch’essa di umili origini, alla quale era legato da precedente relazione.

(13) Scritti storici, II, Nota: Il sistema del Principe di Canosa, Bari, 1945, 121 ss.

(14) Op., cit., 244.

(15) Simile definizione era stata data a Metternich dal poeta austriaco Grillparzer, come vicorda Bagger E., Francesco Giuseppe, Milano, 1935, 22.

(16) Op. cit., 281.

(17) Un dottore in filosofia e un uomo di Stato, dialogo del Principe di Canosa sulla politica amalgamatrice, 1832, 15 seg.

(18) V. Epistola, cit., 133; per necessità economiche, fu in seguito costretto a disfarsi dei suoi libri (v. Maturi W., Il principe, cit., 146 n. 3).

(19) MATURI W., Op. cit., 136 n. 3.

(20) MATURI W., Op. cit., 155 seg..

(21) I Piffari di montagna ossia cenno estemporaneo di un cittadino imparziale sulla congiura del principe di Canosa e sopra i Carbonari, 1820, 163.

(22) Si tratta di una lettera scritta dal Medici nel 1823, di cui dà notizia B. Croce, Uomini e cose, cit., 246. 12 P

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La Calabria Post-Unitaria Il Brigantaggio, la Povertà e le Grandi Ondate Migratorie

Posted by on Feb 8, 2019

La Calabria Post-Unitaria Il Brigantaggio, la Povertà e le Grandi Ondate Migratorie

L’ondata migratoria sospinta e sostenuta dai poteri finanziari rappresenta un vulnus per l’identità delle genti italiche, fatta di storia millenaria, tradizioni, cultura, leggi, principi e valori, cui in nulla si riconducono i migranti economici che sbarcano a migliaia ogni giorno, che nei millenni non hanno costruito nulla di simile a noi. Perciò, voglio coltivare il senso della nostra identità, per una volta ripercorrendone le pagine della storia e non solo, come sempre, la trama dei principi costituzionali. Per capire di cosa Vi parlo, comincio guardando negli occhi questa immagine della famiglia materna.

Questo saggio è di VINCENZO FALCONE, Docente di Politica Economica dell’Unione Europea

1) Il Brigantaggio

Sul tema del brigantaggio meridionale, e calabrese in particolare, esiste una letteratura talmente vasta che non pretendiamo, in questa sede, di essere esaustivi sull’argomento.
Ci proponiamo, piuttosto, di esporre qualche notizia informativa, senza alcuna pretesa di nuove scoperte storiografiche, se si eccettua qualche documento dell’epoca, che ci sembra significativo e illuminante sulla mentalità e sul modo di agire di quelli che furono comunemente definiti “briganti”.
Per poter dare una data di inizio al fenomeno del Brigantaggio in Calabria, bisogna risalire alla metà del 1500, ai tempi dell’imperatore Carlo V, quando, in particolare, le angherie dei feudali e le tassazioni cominciarono a rendere quasi impossibile la vita delle masse popolari, all’interno delle quali cominciarono a nascere bande armate che, pur saccheggiando casali e centri abitati, non erano, comunque, malviste dalle popolazioni locali, in quanto esse colpivano, in maggiore misura, i ricchi baroni o i proprietari terrieri (ma non quelli più potenti), allo scopo di vendicare le ingiustizie sociali perpetrate nei confronti della povera gente.
Il brigantaggio divenne uno dei problemi più gravi per i governanti dell’epoca, che durò almeno 400 anni (praticamente fino alla fine del 1800) e giocò ruoli diversi a seconda del tipo di iniziative che intraprendevano gli stessi briganti, oppure in funzione delle alleanze che essi riuscivano a creare con i protagonisti delle lotte per il potere.
Il brigantaggio meridionale in generale, caratterizzato da metodi quasi identici a quelli della delinquenza comune, fu spesso ritenuto causa di malessere sociale e di disagi economici di grande portata che, inevitabilmente, coinvolsero le popolazioni civili interessate dai territori di riferimento, allorquando i governanti, nel periodo napoleonico, o lo Stato, nel periodo postunitario, intervennero per combattere, in modo più o meno cruento, le diffuse sacche di criminalità.
La Calabria è stata, in particolare nel XIX secolo, una delle maggiori ribalte del brigantaggio italiano.
In effetti, il brigantaggio, nell’Ottocento, ebbe diverse impronte: ci furono cicli di aggregazione di bande con ispirazione politico-sociale, altre fasi in cui prevalse il movente criminale e mafioso, e perfino qualche momento in cui si parlò di “brigantaggio romantico”.
In ripetute occasioni, ad alimentare il clima di aggressività furono, come al solito, i Borboni.
Basta ricordare il coinvolgimento di alcuni briganti nel 1799, durante la spedizione sanfedista del cardinale Fabrizio Ruffo per reprimere, nel Mezzogiorno, il «caos giacobino» della conquista francese e a rimettere sul trono di Napoli proprio la dinastia borbonica.
Il brigantaggio, in questi casi, assume carattere politico, alleandosi con i più potenti, ricattando piccoli baroni e proprietari e rispettando, in generale, la povera gente che garantiva loro nascondiglio e copertura.
Assistiamo, quindi, non solo alla connivenza dei baroni con i briganti, ma anche alla “abilitazione”di questi ultimi al rango di borghesi liberi e ricchi e di comandanti militari.
Dopo il 1860, nacque la categoria dei “briganti-guerriglieri” che scendevano in campo contro l’unità d’Italia presentata come «usurpazione piemontese».
Il brigante, in molti casi, era visto dalle masse popolari come un “giustiziere”: vendicatore di secolari soprusi, altre volte, come unica alternativa al Governo, o allo Stato; poche volte come criminale da isolare.
Infatti, sia durante il decennio napoleonico che subito dopo l’Unità d’Italia, la grande difficoltà incontrata dallo Stato, nel combattere il brigantaggio, era la connivenza e l’omertà della gente che proteggeva il brigante o che, comunque, difficilmente lo tradiva.
Un’omertà così fortemente radicata nella popolazione si ripropone, ancora oggi, con riferimento alla criminalità organizzata.
A creare situazioni anomale ha contribuito, in qualche modo, la stessa conformazione geografica che, se da un lato, ha fatto di questa estremità della penisola una via terrestre di comunicazioni essenziale tra il resto del Mezzogiorno continentale e la Sicilia, dall’altro ne ha fatto una regione remota, con una natura splendida ma impervia.
Il teologo e giurista tedesco Johann Heinrich Bartels, che fu anche borgomastro di Amburgo, rilevò con sgomento che “le informazioni che Napoli riceve dalla Calabria sono identiche a quelle che la Spagna un tempo riceveva dall’America”.
Egli era convinto che doveva esserci qualche interesse occulto all’origine di una disinformazione così incomprensibile.
Nei loro resoconti, i visitatori europei sottolineavano la contraddizione tra il forte senso d’ospitalità dei calabresi e l’estrema fertilità delle campagne, contrapposti alla povertà dei contadini e al quasi totale analfabetismo.
Secondo i fratelli Fouchier, ad esempio, tale situazione di arretratezza era dovuta agli onnipotenti baroni, proprietari di latifondi immensi, i quali erano convinti di mantenere il loro potere, se i contadini non si fossero emancipati e se il loro tenore di vita fosse stato limitato alla stretta sopravvivenza.
Sulla ribalta della Calabria, allora, si mossero vivacemente anche mestatori internazionali, quali lo spagnolo José Borges che sbarcò sul litorale ionico come agente sobillatore di istanze reazionarie e come reclutatore di «cafoni armati».
Poiché questa non è la sede per approfondire tutte le questioni legate al brigantaggio, limitiamo le nostre riflessioni al periodo post-unitario ed a quello post-fascista, sottolineando il fatto che sia il Regno d’Italia che i primi governi repubblicani non riuscirono a trovare le giuste soluzioni alle reazioni e alle sommosse popolari dell’epoca:
Furono, infatti, costretti ad utilizzare il potere militare per reprimere le ribellioni delle masse di disperati ed emarginati che si sentivano, alla fine, più protetti e garantiti, prima dal brigantaggio e poi dalla criminalità organizzata.
La differenza culturale e l’incapacità di valutare appieno i gravissimi problemi della Calabria, non consentivano di dare il giusto peso alla miseria sconfinata, al malcontento, al malessere sociale profondo, alla fame di terra dei contadini, alle gelosie e lotte tra benestanti che, alimentando brigantaggio e criminalità, costrungevano la regione ed i suoi abitanti alla rassegnazione nei confronti di uno Stato ingiusto ed emarginante che obbligava la popolazione o a convivere con l’illegalità, oppure ad emigrare.
Iniziando, dunque, le nostre riflessioni a partire dall’unificazione del regno d’Italia, ci sembra opportuno, soprattutto in relazione alla Calabria, citare la nota riflessione di Benedetto Croce concernente il trapasso dal momento eroico, che aveva caratterizzato gli anni del Risorgimento nazionale, a quello più prosaico della risoluzione dei problemi nati con l’Unità: […] Non più scoppi di giubilo come nel sessanta da un capo all’altro d’Italia, e il respirare degli oppressi e l’affratellarsi delle varie popolazioni, ormai tutte italiane […].
Molti sentivano che il meglio della loro vita era stato vissuto.
Tutti dicevano (e disse così anche il re, in uno dei discorsi della Corona) che il periodo “eroico” della nuova Italia era terminato e si entrava in quello ordinario del lavoro economico e che, alla “poesia” succedeva la “prosa”.
In Calabria, come in quasi tutto il Mezzogiorno, spentasi l’euforia dell’impresa dei Mille e quella suscitata dai plebisciti, attraverso i quali la stragrande maggioranza dei calabresi aveva manifestato il desiderio di far parte dello Stato italiano, riemergevano i vecchi problemi ai quali si sovrapponevano quelli nuovi, nati dal confronto con le regioni più progredite del resto d’Italia.
Infatti, la Calabria, nei quindici anni di governo della Destra Storica, dovette affrontare la nuova situazione politica, venutasi a creare con l’Unità, da una posizione di estrema debolezza economica e sociale.
Il nodo più difficile da sciogliere era rappresentato dalla necessità di subordinare i problemi locali a quelli generali dell’Italia.
La regione non “sentiva” l’opportunità di sacrificare le sue scarse risorse economiche e intellettive nell’interesse generale di un’entità statale che ai più appariva lontana ed astratta.
I calabresi, infatti, a parte il ristretto numero dei patrioti che avevano avuto un ruolo determinante nel corso delle lotte risorgimentali e quello, altrettanto sparuto, degli intellettuali che avevano letto Hegel, Settembrini, Mazzini e Gioberti, dovettero, tra l’altro, fare i conti con un “nuovo” fenomeno politico, lo “Stato unitario” che stravolgeva il concetto stesso che essi avevano sempre avuto, sia dello Stato che della politica.
Fino al 1860, i calabresi avevano tenuto come punto di riferimento una capitale, Napoli che quasi nulla aveva chiesto e alla quale in verità poco era stato dato dalle estreme periferie del Regno.
Il re stesso, molto somigliante nei vizi e nelle virtù, ai suoi sudditi, aveva fatto sentire la sua voce attraverso quella, spesso violenta e brutale, dei suoi funzionari e dei ricchi proprietari terrieri, detentori del potere reale esercitato nei confronti dei braccianti e della plebe cittadina.
Era stato difficile, per una popolazione che deteneva il triste primato di altissimi indici di analfabetismo, di mortalità infantile, di disoccupazione e di mancanza, pressoché totale, di strutture, coltivare ideali che non fossero quelli della sopravvivenza e dell’affannosa ricerca della giornata di lavoro o del posto nella pubblica amministrazione.
Conseguita l’Unità, i calabresi venivano, quindi, chiamati a rendersi partecipi di questioni generali (completamento dell’unità nazionale, rapporti con la Chiesa, alleanze con gli Stati europei, ecc.) che, in effetti, nulla sembrava avessero in comune con i numerosi problemi locali rimasti uguali a prima, anzi peggiorati a causa dalle nuove leggi che prevedevano, tra l’altro, un sistema fiscale più moderno, più organico e rigoroso ed il servizio di leva come doverosa partecipazione di tutti gli italiani alla difesa della patria comune.
Tra i numerosi problemi che la Destra dovette immediatamente affrontare, relativamente alla crisi che investiva il Mezzogiorno e, soprattutto, la Calabria, vi furono quelli del brigantaggio, quelle delle conseguenze economiche derivanti dall’applicazione della legge sul macinato e, infine, quelle dell’eterna questione dei boschi della Sila.
Già all’inizio del 1861, in Calabria, il brigantaggio si manifestò nelle forme endemiche di furti, ricatti, vendette personali, atti vandalici contro le colture e il bestiame.
Cominciarono ad apparire le prime bande guidate da capi decisi, abili e spietati che rappresentavano un preoccupante superamento della fase iniziale del fenomeno che negli anni immediatamente precedenti l’Unità era stato caratterizzato dall’azione di fuorilegge isolati.
Le bande che crescevano, di giorno in giorno, in numero e aggressività, arrivarono ad attaccare i borghi rurali e, in qualche caso, anche i centri importanti .
Durante tali aggressioni, venivano uccisi liberali, sindaci, ufficiali della guardia nazionale, nonché, distrutti gli archivi comunali e liberati i detenuti.
Episodi del genere si registrarono a Strongoli, a Zagarise e a San Mauro Marchesato.
Nel 1864, nel constatare l’esplosione del fenomeno, Vincenzo Padula così lo interpretava:
“Finora avemmo briganti, ora abbiamo il brigantaggio; e tra l’una e l’altra parola corre grande divario. Vi hanno briganti quando il popolo non gli ajuta, quando si ruba per vivere, e morire con la pancia piena; e vi ha brigantaggio quando la causa del brigante è la causa del popolo, allorquando questo lo ajuta, gli assicura gli assalti, la ritirata, il furto e ne divide i guadagni. Or noi siamo nella condizione del Brigantaggio […]. Il Brigantaggio imbaldanzito dice al popolo: “Garibaldi” vi promise carne e pane, e vi tradì; “Vittorio Emanuele” vi giurò di farvi felici e non attenne le promesse: seguite dunque noi. E il popolo è coi briganti; vale a dire, il popolo che una volta fu per Garibaldi, pel Re, per l’ordine, per l’emancipazione d’Italia, ora è per la vergogna di Italia, pel disordine, pel saccheggio. Come cademmo così basso? Chi alimenta l’audacia dei briganti, ed assicura loro il dominio dei boschi? Noi non temiamo di dirlo”.[1]
Aggravatasi, pertanto, la situazione, il governo pensò di intervenire per stroncare questo fenomeno dilagante.
Il 15 luglio del 1863 cominciò, così, alla Camera dei Deputati la discussione sulla legge che prevedeva un massiccio intervento nelle province meridionali del Regno d’Italia.
Fin dalle prime battute, alla Camera emersero le due opposte tendenze che da qualche anno dividevano il paese sul quel fenomeno, che nel Mezzogiorno aveva assunto le dimensioni di un male endemico.
Bisogna ricordare, infatti, come abbiamo già accennato, che la presenza di briganti in Calabria aveva quasi scandito la storia stessa della regione, sin dal 1500.
In tempi più recenti i briganti erano stati, di volta in volta, utilizzati anche per fini politici.
Durante la spedizione del cardinale Ruffo, nel corso del decennio francese, la ferocia dei briganti calabresi era diventata tristemente nota in tutta Europa, soprattutto, attraverso i diari degli ufficiali francesi, testimoni di veri e propri atti di crudeltà, compiuti nei confronti dei loro soldati.
Il brigantaggio non assunse mai in Calabria, come del resto nelle altre regioni del Mezzogiorno, i caratteri di una rivolta sociale.
In effetti, tale fenomeno fu sempre un fatto ricollegabile alla complessiva arretratezza della nostra regione, ma non per questo i briganti ebbero mai la consapevolezza, se si eccettua qualche rarissimo caso, di lottare per ideali di giustizia sociale o di libertà.
Incompreso nella sua reale dimensione e nelle sue svariate componenti, il brigantaggio, nel momento in cui lo Stato pensò di intervenire per reprimerlo, divise il mondo politico italiano.
Da una parte, si schierarono, rappresentando la maggioranza, quanti vedevano in esso una manifestazione di delinquenza comune, resa maggiormente persistente a causa della crisi determinata dai recenti sconvolgimenti politici e dal passaggio da un sistema di governo ad un altro.
I parlamentari che sollecitavano un pronto intervento dello Stato erano indotti ad assumere questa posizione anche a causa della scarsa informazione sui molteplici problemi che travagliavano la Calabria e dal pregiudizio che il brigantaggio fosse da collegare ad una certa ferocia propria delle popolazioni del Sud.
Dall’altra, fatte salve le posizioni moderate e di mediazione che emersero nelle discussioni, sempre abbastanza animate, si collocavano i parlamentari convinti di trovarsi davanti ad un problema sociale da esaminare, con molta pacatezza e da risolvere con provvedimenti legislativi adeguati.
Tra i parlamentari calabresi si fece sentire, forte ed autorevole, la voce di Luigi Miceli[2], mentre gli altri rimasero silenziosi, come se i provvedimenti da prendere non interessassero direttamente la propria regione e i propri elettori.
Il Miceli si mostrò subito contrario ad interventi repressivi eccezionali, convinto com’era che altre dovessero essere le misure da prendere di fronte a fatti che, nonostante la loro gravità, celavano i profondi squilibri sociali esistenti nel Mezzogiorno d’Italia e, segnatamente, in Calabria.
Le cause del brigantaggio erano, a suo giudizio, l’endemica miseria delle masse contadine, la prepotenza e l’esosità dei proprietari terrieri, l’ingiusta distribuzione della ricchezza, l’infimo livello culturale del popolo, la mancanza assoluta di scuole, strade, ospedali ed altre infrastrutture primarie.
“Un Governo che succede ad una rivoluzione”, affermò il Miceli, nella seduta parlamentare del 31 luglio 1863, “è obbligato ad agire con la massima rapidità e franchezza, a non frapporre indugio di un sol giorno, ad approvare leggi dalle quali deve risultare la salvezza del plebe che vive di stenti […]. Un Governo onesto e che vuole la tranquillità del Paese, un Governo che vuole sradicare il brigantaggio e il borbonismo, non deve dare motivi per cui si istituiscano paragoni tra lui e il cessato Governo, deve fare giustizia, una rigorosa giustizia e più di tutto deve farla contro i potenti che abusano del loro stato”.
Nonostante la ferma posizione del Miceli e di altri parlamentari che operavano all’opposizione, venne approvata la legge Pica che prevedeva lo stato d’assedio, anche nelle Calabrie, e le conseguenti norme legislative che di fatto sospendevano le garanzie costituzionali.
L’esercito italiano intervenne in Calabria con estrema determinatezza e applicò, con severità, la legge speciale da poco approvata dal Parlamento.
Saccheggi, incendi, perquisizioni, ingiustizie e soprusi furono ciò che la Calabria conobbe da parte dei piemontesi i quali pretendevano di risolvere con la repressione, un problema che, invece, andava visto ed interpretato con lungimiranza politica, piuttosto che soffocato con la forza delle armi.
Corollari di tutta questa campagna furono numerosi processi ed esecuzioni sommarie a carico di briganti o presunti tali.
Non si tenne conto del fatto che i contadini calabresi, per costume, non consideravano reato il possesso del fucile o del coltello.
Per le truppe inviate in Calabria, tale possesso rappresentava un delitto da punire severamente.
I briganti risposero con durezza a questo stato di cose e spesso misero a repentaglio la vita degli stessi soldati italiani, più volte in difficoltà su un terreno poco conosciuto e che tanto si prestava agli agguati e alle improvvise ritirate.
I briganti strinsero ancor più i loro rapporti sia con gli agenti borbonici che con una parte del clero locale, piuttosto sensibile alla politica oltranzista messa in atto da Pio IX.
Strette tra l’incombente minaccia dei briganti e le severe sanzioni per quanti si fossero assunto il compito di aiutare, in un modo o nell’altro, i fuorilegge, le popolazioni calabresi sperimentarono un sistema di governo che ai loro occhi apparve ingiusto ed estremamente lontano dai propri bisogni.
Nella vischiosa situazione in cui venne a trovarsi la Calabria, a pochi anni dall’Unità, un ruolo importantissimo venne assunto dai proprietari terrieri, molti dei quali vennero definiti “manutengoli” per l’utilizzazione che fecero dei briganti a difesa delle loro proprietà, minacciate dalle bande che battevano tutto il territorio.
La prima fase dell’insorgere del brigantaggio postunitario viene generalmente definita “politica” a causa degli aiuti offerti dai sostenitori del passato regime.
Nell’estate del 1861, i Borboni pensarono che fosse necessario incanalare l’attività delle bande brigantesche verso precisi obiettivi politici di stampo legittimista.
I briganti, cioè, avrebbero dovuto operare in modo da preparare il terreno ai fini di una sollevazione generale del Mezzogiorno che favorisse il loro ritorno.
A tale fine, il principe di Scilla, nel luglio del 1861, pensò di affidare, tramite opportune istruzioni da parte del generale borbonico Clary, la delicatissima missione ad uno spagnolo della Catalogna Josè Borjes[3] che, con pochi compagni fidati, sbarcò in Calabria, sul litorale ionico, tra Bruzzano e Brancaleone, il 14 settembre 1861, nascondendosi tra i boschi dell’Aspromonte.
Il momento scelto non era, tuttavia, favorevole, anche perché, col sopraggiungere della stagione invernale, l’attività dei briganti si riduceva notevolmente e la repressione di luglio e di agosto, da parte dell’esercito nazionale, soprattutto nella provincia di Catanzaro, fu rapida e decisa.
Borjes e i suoi pochi compagni si trovarono quindi ben presto isolati.
Braccato dalle guardie nazionali e dalle truppe, egli tentò di tirare dalla sua parte la banda comandata dal brigante Mittica, con il quale sembra avesse concertato un attacco a Platì.
Fallito il progetto, mentre Mittica veniva ucciso in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine, il Borjes, aiutato da un inviato del Principe di Bisignano, riuscì a fuggire verso la Basilicata.
Con la partenza del Borjes, si chiudeva in Calabria la fase del cosiddetto brigantaggio politico.
Quando venne approvata la legge Pica[4], lo Stato italiano si trovò a combattere contro bande che, praticamente, non potevano più contare sull’appoggio del partito borbonico.
Nonostante ciò, i risultati ottenuti dall’esercito non furono molto positivi, tant’è vero che, nel 1864, venne proposta la proroga della legge straordinaria.
Anche nel corso di quella discussione in Parlamento, tra i deputati calabresi, intervenne solo Luigi Miceli, per sostenere, tra l’altro che, “La legge eccezionale, vista in se stessa, è diventata tristissima per il modo violento ed arbitrario col quale è stata eseguita”
Del resto, l’intervento dello Stato ai fini della repressione del fenomeno non era una novità per il Mezzogiorno.
Anche il governo borbonico, proprio nel dodicennio preunitario, era intervenuto energicamente, conseguendo un certo successo. Le forze dell’ordine, coordinate in quell’occasione dal marchese Nunziante, che aveva ricevuto poteri eccezionali, avevano, infatti, catturato parecchi malfattori e denunciato presunti favoreggiatori (i cosiddetti manutengoli).
È un episodio da tenere ben presente, se pensiamo che non pochi proprietari terrieri calabresi avevano aderito e sostenuto i programmi unitari, anche perché speravano che un governo più forte di quello borbonico avrebbe avuto maggiori possibilità di debellare, definitivamente, quella piaga che non pochi danni procurava alle loro proprietà con incendi, furti di bestiame, ricatti e grassazioni varie.
Con l’Unità, molti Consigli municipali calabresi avevano invocato l’intervento dello Stato, anche se, poi, avevano manifestato il loro dissenso in occasione di rappresaglie particolarmente violente, eseguite nei territori posti sotto la loro giurisdizione.
In definitiva, si era creata in Calabria, una contraddittoria visione delle cose : da una parte si faceva pressante richiesta di azioni determinanti da parte dello Stato ma, nel contempo, venivano rivolte critiche aspre allo stesso, quando la sua presenza assumeva tutte le caratteristiche di un vero e proprio stato d’assedio.
Infatti, la tecnica adottata dal generale Fumel che, spesso, non distingueva tra briganti e innocui possessori di fucili o di coltelli, non era il mezzo più idoneo per risolvere le cose.
Luigi Miceli, continuava a portare avanti la sua battaglia politica contro quei mezzi che egli considerava inidonei per stroncare e risolvere il problema del brigantaggio.
Egli era uno dei pochi, se non l’unico deputato calabrese, che era riuscito ad inquadrare il fenomeno nei termini di una crisi profonda che, come tale, richiedeva interventi straordinari, in quanto, a suo parere, le vere cause del brigantaggio dovevano essere ricercate nell’inerzia del governo, nella protervia dei proprietari terrieri, oppressori della povera gente, nella mancata soluzione della questione silana e nella grave situazione delle terre demaniali.
Ad ogni modo, tra il 1861 e il 1862, furono eliminati in Calabria circa 1.560 briganti (1.023 nella provincia di Catanzaro, 306 in quella di Cosenza e 234 in quella di Reggio Calabria).
Tuttavia, nonostante le leggi eccezionali, il biennio 1863-64 segnò una recrudescenza del fenomeno che proprio in quegli anni, da elemento “politico”, dato l’appoggio che esso aveva ricevuto dai Borboni, si trasformava in vero e proprio dramma socio-economico.
Le estorsioni divennero più frequenti e non risparmiarono più neanche i grandi proprietari terrieri.
Ciò procurava ai briganti l’appoggio dei contadini.
In un ambiente come quello calabrese, i solidi legami materiali e morali tra i contadini (a parte l’antico mito ancora persistente del brigante difensore dei deboli) rendevano, ancora più difficile, l’opera di repressione, in un contesto che mal sopportava la presenza di uno Stato che, fino ad allora, si era mostrato, quasi soltanto, sotto l’aspetto repressivo.
Del resto, molti briganti erano coraggiosi e astuti e sapevano accattivarsi le simpatie dei diseredati, abituati da sempre a farsi giustizia da sé, date le note deficienze dei governanti del passato.
Celebri e non sempre disprezzate, in tutta la Calabria, divennero le bande di Pietro Monaco, di Faccione, di La Valle e di Malerba.
Essi erano riusciti ad assoldare o quanto meno a trascinare dalla loro parte, parecchi elementi del disciolto esercito meridionale garibaldino.
La stessa grave crisi economica che aveva investito la Calabria, fin dal 1860, non rendeva agevole stroncare il brigantaggio che, anzi, proprio da questa negativa congiuntura, traeva spesso alimento.
I prezzi del pane e del sale si elevarono continuamente, dopo il 1860, e le misure adottate dal governo furono quasi sempre limitate o tardive.
Si pensò di costruire strade, ponti, acquedotti e, a questo fine, con un decreto reale del gennaio 1861, vennero stanziati 10 milioni per lavori pubblici a favore del Mezzogiorno.
Vennero approntati i progetti, ma i soldi tardarono ad arrivare e Liborio Romano[5], nelle sue “Memorie Politiche”, affermava decisamente che, rimasto disatteso il decreto del 23 gennaio 1861: “ne seguirono due gravissimi mali: il primo, che il brigantaggio si accrebbe di tutti coloro che l’indigenza spinse a farvi ricorso come solo mezzo alla vita, fra’ quali non pochi dell’esercito borbonico, improvvidamente disciolto, il secondo era la mancanza di strade comunali che rendeva più difficoltosi gli scambi interpersonali e commerciali”.
Ma il governo non affrontò globalmente il problema e si limitò ad adottare solo misure di emergenza.
Scarso rilievo, infatti, ai fini del controllo del carovita, ebbero le importazioni di grano che avrebbero dovuto provocare un “ribasso” sui mercati meridionali.
In sintesi, si possono distinguere due grandi fasi del brigantaggio postunitario: la prima, quella politica, in quanto sorretta dall’appoggio dei Borboni che, anche in Calabria, si erano serviti, come già detto, del catalano Josè “Borjes; la seconda, quella sottolineata dalla famosa relazione Massari, presentata nel comitato segreto della Camera dei deputati nel maggio 1863 e pubblicata dopo qualche mese.
Questa relazione, mise in evidenza che le principali cause determinanti del brigantaggio erano lo stato di estrema miseria in cui versava il proletariato meridionale, ossia quello dei contadini senza terra.
In essa veniva sottolineato, inoltre, che, nelle province dove i contadini possedevano la terra o partecipavano, in qualche modo, ai suoi frutti, minore appariva il flagello del brigantaggio.
Ci sembra ora utile ricordare un documento dell’epoca, che, tra l’altro, ci offre la possibilità di ricostruire il clima creatosi attorno al fenomeno del brigantaggio.
Nel giugno del 1867 si celebrò, presso la Corte di Assise di Catanzaro, un processo a carico di 21 briganti.
Riportiamo alcuni brani del resoconto che di tale processo fece un anonimo articolista del «Giurista Calabrese».
Il documento ci sembra interessante per diversi motivi ma, soprattutto perché vi si nota la tendenza, di stampo positivistico, a leggere, nei tratti somatici degli imputati, una sorta di innata malvagità.
Evidentemente, sulla scia degli studi di Cesare Lombroso e dei suoi seguaci, si pretendeva di interpretare il carattere degli individui e delle popolazioni proprio attraverso l’esame del tratto somatico.
Ecco infatti cosa dice a tale proposito il cronista, nel descrivere i vari imputati:
“I giudicabili [ gli imputati, n.d.r.] serban quasi tutti un contegno di noncuranza — taluno di essi sta in atteggiamento di sprezzo — niuno sembra agitato dal rimorso. Il solo Pietro Bianchi, dalle atletiche forme e dalla folta e nera barba, conserva un’aria quasi serena, ma sotto quell’apparente tranquillità osservi la marcata sporgenza del labbro superiore, e l’occhio irrequieto vivacissimo, indice di una scaltrezza senza pari […]. Greco è il solo che veste il costume brigantesco — egli tocca appena 30 anni — È di mezzana statura: la conformazione speciale della bocca, e della fronte — e l’occhio stupidamente feroce, indicano l’abbiettezza e la perversità dell’animo […]. Un occhio piccolo, affossato, cupo — una bocca enormemente sporta in fuori, una fronte schiacciata, angustissima, il color del volto giallo-terreo e sfornito di peli — fanno distinguere fra tutti Pasquale Dardano Bufalaro — Se la fisonomia di Benedetto Greco può, tuttocché ributtante, esaminarsi per qualche tempo, quella di Dardano ispira tale invincibile ribrezzo che lo sguardo si ritorce inorridito, come se avesse incontrato le forme della iena. Antonio Critelli Grio, è giovine, robusto. Gli cresce sul mento una barba rossiccia, ed ha costantemente le labbra atteggiate ad un riso sprezzante — Sta poggiato ad una delle spranghe che chiudono i giudicabili, ed in tale giacitura pare che non si curi della solennità del giudizio”.
Anche la pubblica accusa, nella sua requisitoria di cui riportiamo i passaggi più significativi, interpreta, pienamente, la generalizzata lettura che si faceva del brigantaggio, anche se non mancano in essa degli accenni a fenomeni molto inquietanti, quali, ad esempio, quello del manutengolismo:
“Volge ormai il quinto anno dacché la selvaggia creazione del brigantaggio arreca alle due prime Calabrie lutti e danni pressocché innumerevoli. Quella orde di masnadieri fatte audacissime dall’aspra natura dei luoghi, dall’ignavia dei monti, e (con voce vibrata) dall’impudente connivenza dei pochi ai quali piace arricchire dell’altrui, non temerono di manomettere a viso aperto le sostanze dei privati, di maculare l’onore delle famiglie, di attentare alla vita dei cittadini […]. Distrutta la pastorizia con le frequenti uccisioni delle greggi: isterilita l’agricoltura tagliando le piante ed appiccando il fuoco alle biade ed alle case rurali; disseccata la fonte del commercio colle reiterate aggressioni sul pubblico cammino: impoverite le famiglie con le numerose estorsioni: insozzata coi ratti e cogli stupri la santità del pudore domestico: il tipo del brigante diventato nella degenere coscienza delle plebi un ideale di fortunati ardimenti […], parea che la forza sociale, e la potestà delle leggi dovessero rimanere paralizzate per lunga stagione […]”.
Terribili e, purtroppo, quanto mai attuali le testimonianze delle vittime dei briganti.
Uno di essi narrò che “mentre l’infelice Mancuso era agonizzante fu tagliato a pezzi, e dilaniato nel modo il più spaventevole. Ciò fatto [i briganti, n.d.r.] si recarono dall’altro pastore Chiarella e lo percossero in modo che gli ruppero la colonna vertebrale. Quel misero cercava allontanarsi carponi dal luogo, ma i briganti gli scaricarono contro vari colpi d’arma da fuoco e lo ferirono a morte. Prima di allontanarsi misero sul cadavere del Mancuso un biglietto scritto precedentemente da Perrelli, nel quale si diceva che egli, Sacco e Trapasso aveano consumati gli assassinii, perché sospettavano che i due pastori aveano fatto la spia alla pubblica forza contro i briganti”.
Un’altra vittima così diceva ai magistrati: “e così mi condussero nella Sila fra le nevi ed i geli, perché nel forte dell’inverno, e mi tennero 31 giorni fra le sevizie e le minaccie di morte, non essendo mai contenti delle somme ed oggetti preziosi che si mandavano dalla famiglia. Finalmente mediante la somma di ducati 16 mila circa fui liberato”.
Presidente: “aveste reciso anche l’orecchio sinistro?”.
Querelante: “Sissignore, a fin di mandarlo alla mia famiglia ed ottenere maggiori somme sen’altro indugio: ecco (e si alzò sollevando i capelli che coprivano l’immane sfregio)”.
Giustino Fortunato definì il brigantaggio l’ultimo terribile atto della vecchia e grave questione demaniale.
Presso l’Archivio di Stato di Catanzaro giacciono le maquettes dei briganti: erano lettere minatorie, ricatti, minacce, richieste di denaro, di averi o di altro alle famiglie benestanti.
In esse, probabilmente scritte da uno scrivano semianalfabeta sotto dettatura, si riscontra l’evidente ignoranza dei briganti i quali si esprimevano o scrivevano (se sapevano scrivere), in forma dialettale, per cui alcune parole si presentano incomprensibili e intraducibili.
A titolo di esempio, ne trascriviamo una, datata 1865, in cui era scritto: “Gentilissimo Signore è cavalieri Ripetuosamente Vengo a Baggiare la mano ma sono costretto a fati uno buoglieto in mia testa è Vi na Prego subito che ricevite questo biglietto che avete la premura per lo spazio di tre giorni che vi benignati à mandarer gli uggetti che noi vi domandamo. Primo tre cento ducati, due rivovari due pistoli a due buoti due stiletti ben fatti è 6 anela di oro; non altro vi saluto mo tutti è sono servitore – firmato Giachino loggo con la sua compagnia”,
(Gentilissimo Signore e cavaliere, rispettosamente vengo a baciarVi la mano, ma sono costretto a scrivere un biglietto di testa mia. Vi prego che quando riceverete questo biglietto di avere la premura nel tempo di tre giorni, vi benigniate di mandarmi gli oggetti che vi chiediamo. Per prima cosa trecento ducati, poi due revolver, due pistole a due fuochi, due stiletti ben fatti e sei anelli di oro; non altro vi salutano ora tutti e sono servitore – Gioacchino Longo con la sua compagnia).
Sempre lo stesso Longo, in un’altra lettera, chiederà 40 mila ducati, di cui ventimila in oro e ventimila in argento; poi, cento anelli, cento fazzoletti di seta, sette brillanti, …dieci paia di orecchini alla francese, sei cilindri (orologi) di oro con le catene di oro, sette carabine, revolver, settecento palle di revolver, sette cannocchiali di lunga vista e sette fili di oro per la gola del più grosso.
In un’altra lettera, sempre il Longo, aggiungerà: “sinon mandati questa somma, lo vostro figlio noi lo uccidiamo”.
In un altro avviso, aggiunge che avrebbe mandato le orecchie (“laricche”), oppure la testa.
Un altro brigante, nel 1864, chiederà seimila ducati, una bisaccia di pane e companatico, trenta canne[6] di velluto per fare cappelli, una canna di castoro, un orologio da taschino, “rilogo di sacca”, otto anelli, una collana, tre cappelli, quattro canne di velluto rigato, quattro paia di stivali, un revolver, cento bottoni in argento e di non fare parola con nessuno.
Un altro, nel 1862 chiede: “duecento piastre, perché non vi chiedo una somma che non potreste possedere, perché mi debbo sostenere con tutti i miei compagni, perché se me le rimettete ringrazio la vostra bontà e se no vi darò dei dispiaceri e lo voglio sapere subito, avete due ore di tempo”.
Un altro, nel 1861 scriverà: “La comitiva mi dice che se volete i buoi vivi dovete mandare sei canne di castoro, oppure il corrispondente in denaro, ed altri venti pezzi per il cappello, un paio di scarponi, tre mazzi di cartucce, due bottiglie di rosolio e due di rum (“rumbu”), un mazzo di sigari e quattro libbre di tabacco, moltissimo pane ben fatto, quattro camicie e quattro fazzoletti;… in caso contrario subito faremo “il festino”.
Una prova della religiosità e della devozione dei briganti verso le immagini votive si rileva in una lettera datata 8 agosto 1863, nella quale il brigante Vincenzo Scalise, detto Pane di Grano, minaccia i galantuomini di Petilia Policastro, un paesino in provincia di Crotone, ai quali intima di trasferire la statua della Madonna nel Romitorio, perché “Lei non è stata mai molestata e la gente che vi è andata in preghiera si è mossa con grande sicurezza e non è stata molestata e né verrà molestata da alcuno. Se non portate la madonna al romitorio vi bruso (vi brucio) le vostre robe (il casino, vacche e pecore) e con un battero (un fiammifero) vi rovino e la dovete portare in processione”.
Ma vi è, pure, una lettera di un ricattato, con uno stile di persona colta, il quale alla richiesta, sicuramente esosa, risponde al brigante affermando: “Caro Antonio, credimi non posso più. Il mio cuore è grande ma le mie finanze sono ristrettissime. Non andare presso le malelingue. Datti carico delle mie circostanze. Il bene che mi fai non andrà perduto. Se non posso oggi, spero potrò appresso. In me avrai un amico sincero che potrà esserti utile in ogni tempo, di notte e di giorno. Non mi affliggere perché non me lo merito. Io non ti conosco, non ti ho fatto male veruno. Ho sempre difeso i parenti dei briganti ed i loro amici senza interessi, e con zelo, quindi se non merito riguardi, merito almeno di non essere posto in croce. …Fa quello che Dio ti ispira. … Un amico vale più di un milione. Ajutami caro Antonio e poi comandami della vita. Ti saluto coi tuoi compagni e mi attendo i tuoi favori- tuo amico Luigi Chimirri”.
Poi vi è una lettera del 1865, nella quale il brigante Francesco Cristiano fa uno sconto al ricattato, perché ha appreso che è un sostenitore del Reale Francesco II: “voi siete rialista, così invece di ottocento ne manderete quanto potete, ma pensate che si devono contentare trenta persone… altrimenti avete un gran dispiacere. Come si vede, il rispetto verso il sostenitore dei reali è fino ad un certo punto, altrimenti saranno comunque guai”.
In una lettera di un sequestrato, il sig. Antonio Perri fu Diodato di Conflenti (prov. di Catanzaro), datata 1865, c’è scritto: “Mia cara Madre e caro fratello se mi volete vedere un’altra volta mandatemi la somma di quattromila ducati, il mio fucile e dieci canne di castoro, dieci di cotone, dieci di vellutino e duecento palmi di vellutino per i cappelli, perché io sono attaccato mano e piedi e poi la roba vale più della mia vita”.
Poi ancora: ”cara sposa vai da tuo padre, digli di fare il possibile per farsi prestare il denaro, che poi faremo i conti, perché verranno due signori con un fazzoletto bianco messo sopra la spalla sinistra la sera della domenica”.
Alla fine della missiva raccomanda di guardarsi dalle persone che potrebbero incontrare, “per non restare derubati e colle mani vacante”.
Un altro sequestrato, Luigi Filippo Chimirri, in una lettera del 1867, scrive: “Caro padre, io sono in mano ai briganti, che vogliono quarantamila ducati, poi sei orologi in oro a doppia cassa con le catene a laccetto per collana, sei revolvers, sei a due colpi di un’oncia, sei cannocchiali di lunga vista, venti paia di orecchini di dieci ducati il paio, cento anelli, cinquanta fazzoletti di seta, dieci collane per donna, dieci grembiuli damascati di seta, dieci canne di bordiglione castrato e dieci di castoro verde, dieci brillanti per le mani e subito preparate questa somma, affinché io possa ritornare a casa, se no passo all’altra vita”.
“Caro Padre non fate venire la forza militare cittadina, perché scontrandosi con la comitiva, io sarò ucciso. Vi raccomando, perché so benissimo che è impossibile che voi possiate disporre di tali somme ed oggetti, ma essi questo mi dissero di scrivere ed io scrissi. Non vi date troppo alla collera e pregate per il vostro infelice figlio”.
In una lettera del 1868 si legge: “inviatemi subito, nel termine di due ore, perché io sono di passaggio, duecento ducati, una bisaccia di pane e companatico per otto persone, perché se non me li mandate vi uccido i buoi e le pecore”.
Nel 1868, il brigante Angelo De Santijs scrive al parroco di Castagna “un paesino della presila”: “”Con tanta gentilezza vengo a pregarvi, se voi accettate le mie preghiere, voglio solo due fucili a due canne, il revolver ed un coltellaccio per questa sera”
“Non fateli venire meno queste cose se no vi provoco dei danni”
“Se non potete mandarmi questi oggetti, mandatemi la somma di cento ducati, al fine di poter comprare queste cose”.
Alcuni briganti, nelle loro lettere minatorie, si firmavano anche come “vostro amico”; in un’altra lettera un brigante, con una giustificata distinzione, si firmava “il vostro affezionatissimo amico e nemico”.
Questa breve corrispondenza epistolare tra persecutori e perseguitati dimostra come il brigantaggio che, agli inizi era stato visto dalle stesse popolazioni locali come uno “strumento di rivendicazione” ai soprusi perpetrati dai potenti contro i deboli, stava diventando, sempre più, un cancro che tendeva a divorare anche quelle poche speranze di riscatto da parte di un popolo analfabeta, povero, pieno di pregiudizi e abbandonato dalle istituzioni.
Questa consapevolezza, spinse, lentamente, le popolazioni calabresi a rifiutare il sostegno alla bande brigantesche ed ai suoi “prestigiosi” capi, sui quali, molto spesso, le speranze degli umili e dei diseredati si erano riversate.
Questo cambio di atteggiamento, da parte delle masse contadine nei confronti del brigantaggio, facilitò le forze dell’ordine a sgominare le ultime bande, verso la fine degli anni ’60 del XIX secolo.

continua…………

fonte http://www.vincenzofalcone.it/schede.php?id=54

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La noia di Massimo D’Azeglio di Angela Pellicciari

Posted by on Feb 6, 2019

La noia di Massimo D’Azeglio di Angela Pellicciari

“Re galantuomo”, “l’Italia è fatta, si tratta di fare gli italiani”, queste parole d’ordine, questi motti incisivi, perfetti dal punto di vista della propaganda, sono il frutto di un’intelligenza brillante e di una fantasia disinvolta: quelle del cavaliere Massimo D’Azeglio, uno dei principali protagonisti dell’epopea del nostro risorgimento nazionale.
Pittore, romanziere, genero di Manzoni, membro della migliore aristocrazia piemontese, amico di tutti i massimi governanti d’Europa, Massimo D’Azeglio è l’uomo che può riuscire dove altri hanno fallito. Così pensa la massoneria. Dopo i disastrosi tentativi insurrezionali di carbonari e mazziniani, si impone un cambiamento di strategia: bisogna puntare su un uomo moderato, ufficialmente conosciuto come cattolico, che dia alla strategia rivoluzionaria un’apparenza di riformismo e, sotto questo camuffamento, riesca dove tutti gli altri hanno fallito.
Narcisista come pochi, è lo stesso D’Azeglio a raccontare l’episodio del suo incontro romano col “settario” Filippo. Il compito che la massoneria affida a D’Azeglio non è semplice. Si tratta di convincere l’antico cospiratore Carlo Alberto a farsi promotore della lotta per la libertà e l’indipendenza della penisola e si tratta anche di convincere i vari ‘fratelli’ sparsi per l’Italia centro-settentrionale a fidarsi di lui. Il problema è serio perché già una volta (in occasione dei moti del 1821) Carlo Alberto in un primo momento aderisce alla cospirazione ma poi si tira indietro e tradisce.
D’Azeglio svolge brillantemente il compito affidatogli. La motivazione utilizzata per convincere i “fratelli” è davvero azzeccata: quando il ladro ruba per sé, si può star certi che faccia sul serio. Bisogna aver fiducia in Carlo Alberto, sostiene. Capeggiare la rivoluzione italiana è nel suo interesse perché alla fine dell’impresa avrà un regno immensamente più grande e prestigioso.
D’Azeglio inizia così quella che con brillante giro di parole battezza “congiura all’aria aperta”. La congiura, dopo tanto sangue sparso inutilmente, invece delle armi si serve della penna. L’arma prescelta, la penna della pubblicistica e della propaganda, è puntata contro l’Austria e contro lo stato pontificio accusati di essere la quintessenza dell’oppressione liberticida e del malgoverno.
E’ davvero tanto insopportabile la vita negli stati preunitari? A tener conto di come la descrive lo stesso D’Azeglio ne I miei ricordi non sembrerebbe. “Qual è l’opinione -scrive-, l’idea, il pensiero che non si possa dire o stampare oggi in Italia, e sul quale non si possa discutere e deliberare? Qual è l’assurdità o la buffonata, o la scioccheria che non si possa esporre al rispettabile pubblico in una sala o su un palco scenico di qualche teatrino (pur di pagar la pigione s’intende) col suo accompagnamento di campanello, presidente, vice presidente, oratori, seggioloni, candelieri di plaquè, lumi, ec. ec.? Basta andar d’accordo col codice civile e criminale; del resto potete a piacimento radunarvi, metter fuori teorie politiche, teologiche, sociali, artistiche, letterarie, chi vi dice niente?”.
Il torinese D’Azeglio, per di più, non sopporta la tetraggine bacchettona della Torino sabauda: “ed io, un odiatore di professione dello straniero, lo dico colla confusione più profonda, se volevo tirar il fiato, bisognava tornassi a Milano”. E allora perché? Perché D’Azeglio si impegna con tanta tenacia nella “congiura” all’aria aperta? Perché tanta fatica spesa per organizzare una campagna di disinformazione e di odio contro il papa e contro l’imperatore austriaco? Per vincere la depressione. Questa la candida ammissione del cavalier D’Azeglio: “per aver modo di passar la malinconia -scrive ne I miei ricordi-, e finalmente il mio gusto per la vita d’avventure e d’azione”.
Alle motivazioni ufficiali che nel 1861 rendono possibile la nascita del Regno d’Italia -oltre all’unità alla libertà e all’indipendenza per intenderci-, ce n’è un’altra da non sottovalutare: la noia.

Angela Pellicciari

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IL MATTINO e il 1799

Posted by on Gen 8, 2019

IL MATTINO e il 1799

Antonella Orefice ha pubblicato un libro in cui si rivelerebbero in due paesini molisani “gli eccidi ordinati dai Borbone” (titolo a tutta pagina su Il Mattino del 14/6 con nota storiografica articolata che abbiamo inviato allo stesso giornale e allegata a queste premesse, in attesa di “eventuale” pubblicazione). Orefice è stata assistente di Maria Antonietta Macciocchi, comunista di posizioni maoiste che scrisse anche un libro dedicato alla de Fonseca e sintetizzato (Corriere della Sera, 8 gennaio 1999) nel libretto dell’opera allestita al San Carlo (contestata dai neoborbonici) per il bicentenario del 1799: “sono sicura -scriveva la Macciocchi- che è stata Eleonora a salvarmi dalle SS nel 1943… lasciai Napoli per Parigi ma credo che anche in questa scelta vi fosse l’influsso astrale di Eleonora…”. Una forma di cultura “neogiacobina” anche più estremizzata di qualsiasi forma di “neoborbonismo”… Lasciando da parte alcune perplessità sulla attendibilità di queste affermazioni e sulla scientificità della storia scritta dalla Macciocchi, riportiamo un post pubblicato poche ore fa dalla sua ex assistente che ha firmato il libro recensito a tutta pagina da Il Mattino: “Ecco chi sono i Borboni che tanto rimpiangi! ESULTA POPOLO LAZZARO…. ! (Ma noi SIAMO ANCORA QUA……….. La Nostra Repubblica è VIVA!)”.

Inevitabili alcune lettere di protesta che pare siano pervenute alla Orefice che se ne lamenta sempre sul suo profilo (e che non condividiamo solo se sono in qualche modo offensive e minacciose). Più di un dubbio, però, ci assale sulla imparzialità di questo nuovo libro, probabile frutto del comprensibile entusiasmo di chi non è esattamente e sistematicamente di casa negli archivi. E più di un dubbio ci assale anche sul distacco (quasi un odio, diremmo) che i giacobini del 1799 avvertivano contro quel “popolo lazzaro” (massacrato dai franco-giacobini con non meno di 60.000 caduti!) che si ribellò eroicamente a quella invasione: tenuto conto che la cultura ufficiale ha formato sulla base delle idee giacobine/liberali schiere di classi dirigenti locali e nazionali, ci assale ancora un altro dubbio che si lega al distacco che viviamo da queste parti tra governanti e governati. Distanti e contro il popolo (di Napoli e del Sud) nel 1799. Distanti e contro il popolo (di Napoli e del Sud) oggi. A dimostrazione della “pacatezza” e della sobrietà di intellettuali e giornalisti locali, l’autore dell’articolo, in un post appena pubblicato mette sullo stesso piano “neoborbonici e neofascisti” (“tra neofascisti e neoborbonici.. stiamo proprio messi male!”)…

E se la scommessa del futuro fosse, invece, proprio una classe dirigente finalmente e veramente radicata, rispettosa di tradizioni e identità, fiera e autenticamente napoletana e meridionale? E’ questo, da circa 20 anni, l’obiettivo neoborbonico: una scommessa paradossalmente davvero nuova se consideriamo i fallimenti delle classi dirigenti monopolisticamente formate dalla cultura ufficiale giacobina, liberale, antiborbonica e antinapoletana. Il successo e la diffusione (con la conseguente e facile rabbia degli “avversari”) delle nostre iniziative delle nostre idee ci fanno ben sperare…

Il solito 1799 e le stragi giacobine (davvero) dimenticate

Anche per Mazzini i giacobini erano traditori…  

Caro direttore, Napoli è davvero uno strano paese: da oltre 200 anni prevale in maniera monopolistica una lettura parziale e unilaterale di certe storie (in testa quella del 1799 fino a quelle “risorgimentali”) eppure la stessa cultura ufficiale che detiene quel monopolio continua a lamentarsi perché qualcuno ha “osato”, in questi anni, raccontare altre storie. In questo caso, Mario Avagliano, recensendo il nuovo libro di Antonella Orefice su alcune stragi (“dimenticate”) del Molise durante la rivoluzione napoletana, cita i soliti esuli che tante colpe hanno avuto nella creazione di un mito negativo e ancora attuale di Napoli o che -nel caso di Settembrini- furono costretti a rivedere molte delle loro tesi dopo l’Unità. Sempre i Borbone, poi, per l’articolista, avrebbero affidato a Ruffo “il compito della repressione” e così Ruffo avrebbe “occupato Napoli nel giugno del 1799 macchiandosi di efferati delitti, con mercenari albanesi, contadini del luogo e avanzi di galera”… Peccato, però, che quei mercenari fossero 50 (sui complessivi 80.000 volontari della sua armata) e che il Cardinale non aveva avuto il compito di “reprimere” ma di “liberare” il Regno da un’invasione straniera favorita da pochi giacobini locali (“una minoranza impercettibile” li definì Luigi Blanch) così come Napoli non fu di certo “occupata” da Ruffo (o dai Borbone), visto che era già “dei” Borbone che legittimamente vi regnavano. E di certo, del resto, in nessuna guerra (tanto più in una guerra contro l’esercito più potente del mondo) nessuno ha mai chiesto il curriculum di chi combatte. La Orefice ha scritto questo libro lasciando parlare “i documenti: quelli veri, quelli scomodi” contro chi in questi anni avrebbe “santificato i briganti e definito traditori i patrioti del 1799”. Solo che da oltre due secoli si tirano fuori sempre gli stessi documenti e non quelli che raccontano le stragi (quelle sì e quelle davvero dimenticate) compiute dai franco-giacobini ai danni della parte napoletana-cristiana-borbonica: oltre ottomila (in tre giorni) nella capitale e “oltre sessantamila i napoletani passati a fil di spada” in appena cinque mesi di repubblica: “Napoli non era altro che un immenso campo di carneficine, incendi, spavento e morte “ (memorie del generale Thiebault). Fu Giuseppe Mazzini, del resto, il primo a definire traditori quei patrioti che “avevano aperto le porte della città agli stranieri invasori… il Popolo napoletano  era disposto a morire combattendo non per superstizione, come più volte si è detto, ma per un sentimento nazionale, per un’idea di Patria che vi pulsava al di sotto” (manoscritto, Museo Centrale-Risorgimento). Si ricordano, allora, le fucilazioni molisane ma non i massacri e le devastazioni  sempre molisane di Isernia (oltre 1500 morti) o quelli di Mercogliano, Caserta, Ceglie, Carbonara, Bacoli, Benevento, Briano, Cetara, Collettara, Fondi, Gensano, Casamari, Itri, Massa, Nola, Pomigliano, Pagani  (e l’elenco sarebbe troppo lungo). Fu una guerra di invasione in alcune occasioni divenuta una sanguinosa e (a partire dai Borbone) non voluta guerra civile. Solo che in qualsiasi altro posto del mondo si  ricorderebbero i difensori della propria patria o almeno “anche” loro (si pensi alla celebrazione che il grande Goya ha fatto dei popolani spagnoli antifrancesi) e dalle nostre parti si scrive ancora con una rabbia e una parzialità oggettivamente eccessive di “massacri ordinati dai Borbone” o di “orde sanfediste” lasciando spazio ad una cultura ufficiale sempre poco attenta alle nostre tradizioni e alle nostre radici (anche borboniche e cristiane, al contrario di quanto pensano alcuni intellettuali): la stessa cultura ufficiale che, se solo guardiamo alla formazione delle nostre classi dirigenti, non ha prodotto risultati così positivi…

L’esercito francese che massacra il popolo napoletano al Carmine.

Premessa: e se Il Mattino organizzasse un dibattito? Leggo solo ora alcune considerazioni scritte dalla sig.ra Antonella Orefice autrice di un libro sugli “eccidi ordinati dai Borbone” in alcuni paesini molisani, recensito da Il Mattino qualche giorno fa e al centro di alcune polemiche e di un mio precedente intervento. La sig.ra Orefice minaccia di querelarmi ma è difficile capire le motivazioni di queste minacce poiché avevo espresso semplicemente alcuni giudizi (dovrebbe chiamarsi “dibattito”, mi pare) in merito a quanto scritto nella recensione firmata da Mario Avagliano. Giudizi storiografici (altro che “giudizi spregevoli sulla sua persona”) e che non posso che confermare perché si nota in quelle righe effettivamente un “entusiasmo comprensibile” per chi trova un documento, ma credo che sia necessario  evidenziare le lacune di ricerche archivistiche di fonti “dell’altra parte” (e citavo un lungo elenco di paesi oggetto di massacri, saccheggi e devastazioni): è forse “spregevole” a Napoli chiedersi se si tratta o no di un libro parziale o imparziale? Sempre la sig. ra Orefice, poi,  mi sopravvaluta e sottovaluta (forse solo per un naturale istinto di difesa delle proprie posizioni) la portata di un nuovo fenomeno culturale: io non ho “seguaci” (non ho mai creato una setta): circa 20 anni fa ho semplicemente creato un movimento culturale (il Movimento Neoborbonico) che ha fatto opera di ricerca e divulgazione con tesi di segno contrario rispetto a quelle della cultura ufficiale. Il consenso e il successo riscontrati sono andati ben al di là dei mezzi in campo e delle più rosee previsioni anche perché, evidentemente, c’è un forte bisogno di radici (tutte le radici), di storie ricche di orgoglio e rispettose di tradizioni napoletane, cristiane e anche borboniche… La sig.ra Orefice, allora, non può accusare il sottoscritto per tutte le lettere a lei pervenute e dalle quali (ripetiamo un concetto già abbondantemente espresso) ci dissociamo qualora fossero risultate offensive o minacciose (non è stato mai il mio e il nostro stile e non possiamo certo disporre della volontà di quanti hanno manifestato il loro dissenso). Lei stessa, del resto, in un post pubblicato prima delle polemiche si rivolgeva al “popolo lazzaro” invitandolo sarcasticamente ad esultare per le verità raccontate sui “suoi Borboni”. Chi scrive, oltre alla specializzazione in Archivistica presso l’Archivio di Stato di Napoli, ha all’attivo semplicemente migliaia di ore di studio con pubblicazioni (quasi tutte esaurite) che raccontano storie diverse rispetto a quelle raccontate dalla Orefice. Tutto qui. Altro che “storielle” o “verità manipolate” o tentativi di “vendere chiacchiere” insieme alle (nostre) incapacità di “comprendere i suoi lavori”, affermazioni che pure si presterebbero a eventuali querele ma che supereremo amando i dibattiti e non amando i tribunali italiani. In quanto alla mia critica rivolta alle classi dirigenti, la sig.ra Orefice risponde affermando che “non ha velleità politiche” né è alla ricerca di “candidature” ma, come la sig.ra certamente sa, si è “classe dirigente” anche (e di più) da giornalista o da intellettuale e resta in piedi la mia tesi sulle responsabilità di chi, in oltre 200 anni, e nonostante un vero e proprio monopolio di segno giacobino e liberale (e che, a quanto pare, ancora non basta), ha formato culturalmente chi ci ha rappresentato in questi anni e (come lo stesso Mattino spesso denuncia) non in maniera del tutto adeguata. Le inviamo, poi, i nostri complimenti per la pubblicazione, di altre recensioni positive del suo lavoro ma la cosa conferma quanto già scritto a proposito del monopolio della cultura ufficiale che, naturalmente, può prevedere anche recensioni positive su Repubblica o magari (è una citazione della sig.ra Orefice) sulla rivista ufficiale della Gran Loggia d’Italia (e cioè di quella massoneria più volte al centro dei nostri studi e delle nostre critiche per le sue responsabilità in merito a certi processi legati all’unificazione). Per tornare, poi, a quella parola a Napoli (e dalle parti del Mattino) piuttosto rara (“dibattito”), come nel mio primo intervento, vorrei evitare le facili, semplicistiche e confortanti etichette (”neoborbonici”, “giacobini” ecc.) ed entrare nel merito di alcune domande alle quali la sig.ra Orefice non ha dato risposta alcuna: non è forse vero che fu Mazzini il primo a definire traditori quei giacobini? Non è forse vero quanto affermato dalle fonti francesi e cioè che a Napoli in 3 giorni furono massacrati oltre ottomila “lazzaroni” e in tutto il Regno (in meno di 5 mesi) oltre sessantamila persone di parte napoletana-cristiana-borbonica? Non è forse vero che partivano ogni giorno per Parigi convogli con le nostre opere d’arte o che diverse centinaia di popolani furono condannati a morte solo per non aver gridato “viva la repubblica”? Non è forse vero che nella socialmente e culturalmente variegata armata di Ruffo quei “mercenari albanesi” non superavano le poche decine ed erano, invece, soldati delle comunità albanesi fedeli alla dinastia? Non è forse vero che furono devastati tutti quei paesi (abitanti compresi) sia nel 1799 che nel successivo periodo murattiano (su tutti “l’onda dei morti” di Lauria)?  Non è forse vero che in tutto il mondo chi difende la propria patria dagli stranieri è celebrato dopo secoli (un esempio su tutti i popolani spagnoli antifrancesi dipinti da Goya) e solo da noi viene ignorato e disprezzato? Queste sono le domande che abbiamo rivolto alla Orefice e al Mattino e su questo dovrebbe riflettere davvero una città che, a quanto pare, non ha ancora fatto pace con la sua storia.  Concordo, infine, con la sig.ra Orefice sul fatto che per noi il 1799 è (brutta immagine ma cito il suo testo) “un’ulcera perforata” ma solo perché, dopo oltre due secoli, avremmo il dovere di ricordare con cristiano rispetto tutte le vittime della rivoluzione franco-giacobina, “perforate” (loro sì, e a migliaia!), dalle baionette francesi al Carmine o a via Foria, a Porta Capuana o al Mercato stando dalla difficile part dei vinti, ieri come oggi. Non era il “popolo lazzaro”. Era il Popolo Napoletano. Il nostro Popolo.

Prof. Gennaro De Crescenzo

pubblicato il 19 giugno 2013

da http://pocobello.blogspot.com/2013/06/ancora-verita-sul-1799.html

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Luigi Toro: la storia e le Opere – Parte II (a cura di C. A. Del Mastro)

Posted by on Dic 29, 2018

Luigi Toro: la storia e le Opere – Parte II (a cura di C. A. Del Mastro)

Luigi Toro, pittore Aurunco: la storia e le opere.

Parte II – La gioventù, le opere e la guerra.

Prof.  Cecilia Aida Del Mastro

Quando nel 1853 il giovane Luigi Toro compì 18 anni e diventò maggiorenne poteva vendere e comprare, il diabolico patrigno ne approfittò: gli disse che se voleva andare a Napoli e frequentare l’Accademia Artistica doveva vendergli tutti i suoi diritti sulla proprietà (case e terreni). Egli gli avrebbe depositato i soldi in banca da dove avrebbe ritirato, di volta in volta, il necessario per studiare e incominciare a dipingere. Il giovanissimo Luigi non ci pensò due volte, fece subito quello che il patrigno voleva e partì per Napoli. Tutti i conoscenti e i parenti restarono senza parole, nessuno aveva pensato che il patrigno arrivasse ad una simile espoliazione.

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Storia di Rocca d’Arce

Posted by on Dic 23, 2018

Storia di Rocca d’Arce

Che Roccadarce fosse stata abitata fin da tempi lontanissimi non ci sono dubbi, tutto ciò è suffragato da testimonianze archeologiche risalenti all’età del ferro, probabilmente perché Roccadarce era situata in una zona centrale nella Valle del Liri, ricca di falde acquifere e di cacciagione. Nella costruzione della strada che da Roccadarce raggiunge il cimitero, vennero ritrovati reperti di ceramiche incise e decorate con scene casalinghe.

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