San Pietro ad Aram è uno dei
numerosi edifici sacri monumentali di Partenope
Il
complesso religioso(che si erge nel Centro Storico e che, fino
all’Ottocento, era affiancato da un magnifico chiostro, ndr) è fra
i più noti dell’area dato che, secondo la tradizione, custodirebbe l’Ara Petri, ovvero
l’altare su cui pregò San
Pietro durante la sua venuta a Napoli. Sarebbe, tra l’altro,
anche il luogo dove il discepolo avrebbe battezzato Santa
Candida e
Sant’Aspreno, i primi napoletani convertiti (come narra anche l’affresco nel
vestibolo recentemente attribuito a Girolamo
da Salerno,
ndr).
Una
Basilica, dunque, dalla storia
antichissima. Papa
Clemente VII le concesse, proprio per il suo immenso valore
storico, il privilegio di poter celebrare il Giubileo
un anno dopo quello di Roma,
in modo da evitare un eccessivo affollamento nella capitale
pontificia ed un viaggio che, al tempo, era particolarmente difficoltoso
e faticoso per il popolo napoletano. I
post-giubilei, più nello specifico, furono celebrati nel 1526, nel 1551 ed infine nel 1576. Papa Clemente VIII
abolì, tuttavia, questo privilegio alla città nel XVII secolo. L’attuale
ristrutturazione è del XVII secolo (compiuta negli anni fra il 1650 e il 1690),
su precedente disegno di Pietro De
Marino e Giovanni
Mozzetta.
Alla
fine dell’Ottocento,
coi lavori del cosiddetto Risanamento,
i capitelli del distrutto chiostro (di epoca aragonese) furono trasferiti nel Sacello di Sant’Aspreno
in Piazza Borsa.
La
facciata della struttura è in un sobrio Stile
Neoclassico. La parte inferiore è tripartita in fasce verticali da
quattro lesene
scanalate corinzie. Nella fascia centrale si trova il portale, inserito
all’interno di una strombatura
poco profonda con arco a
tutto sesto sorretto da due colonne
tuscaniche. In ciascuna delle due zone laterali, nello specifico,
si trova un’apertura
ad arco. L’area superiore, separata da quella sottostante tramite
un cornicione decorato con bassorilievi, è divisa in due livelli: quello più
basso presenta due finestre ottagonali con al centro un frontone semicircolare
con oculo; quello in alto, invece, un finestrone sormontato da un frontone
triangolare.
Il
portale dell’ingresso secondario
(del XVI secolo) è in pietra scolpita a motivi di girali
vegetali e proviene dal Conservatorio
dell’Arte della Lana, in Vico
Miroballo, demolito per i lavori voluti per la ristrutturazione
della città.
L’interno
è a navata unica ed a croce
latina. Nel vestibolo vi è l’altare in
marmo con iscrizione angioina e colonnine sveve, sormontato dal
baldacchino di Giovan
Battista Nauclerio.
Di
grande bellezza sono il rilievo con la Madonna
delle Grazie di Giovanni
da Nola, la Tela con
il Giubileo di Wenzel
Cobergher (1594),
il San Raffaele di Giacinto Diano,
il Battesimo di Cristo
di Massimo
Stanzione, la Madonna
con San Felice da Cantalice di Andrea
Vaccaro.
Nel
presbiterio,
inoltre, sono collocate due tele giovanili di Luca
Giordano: San
Pietro e San Paolo si abbracciano prima di andare al martirio e La consegna delle chiavi.
Il coro ligneo, del 1661, è di Giovan Domenico Vinaccia.
Nelle rimanenti cappelle,
tra gli altri, è possibile ammirare dei dipinti di Sarnelli,
Pacecco De Rosa,
Giacinto Diano,
Cesare Fracanzano
e Nicola
Vaccaro.
Dal transetto sinistro si scende nella cripta che, in seguito ai restauri del 1930, si rivelò essere una chiesa paleocristiana. Questa presenta tre navate, articolate con colonne monolitiche in marmo, dove sono state scoperte anche delle catacombe. In queste ultime è presente un culto delle anime del purgatorio simile a quello praticato nel Cimitero delle Fontanelle.
Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, dipinge opere meravigliose e inquietanti. Anche nella sua biografia c’è inquietudine, oscurità e mistero. Nato a Milano nel 1571, vissuto poi a Caravaggio, paese d’origine della sua famiglia, compare a Roma, nel 1595, quale esperto pittore, già molto stimato da notabili e alti prelati della Roma papalina, che gli commissionano opere importanti. Eppure, ed è molto strano, non si conosce nessuna sua opera dipinta prima del suo soggiorno romano. I critici hanno studiato a fondo le sue pitture romane e vi hanno evidenziato influenze, per quanto ipotetiche, di vari pittori lombardi esaltando, così, l’importanza della pittura lombarda. Viceversa, sono stati molto poco studiati i rapporti tra le sue pitture realizzate a Napoli e l’ambiente sociale e artistico di questa città. Anzi, ci è affrettati ad affermare soltanto l’influsso di Caravaggio sui pittori napoletani, che quindi sono stati definiti tout court caravaggeschi. Ma ecco, a Capodimonte, fino al 14 luglio, la mostra Caravaggio Napoli, che già nel titolo “paritario” si presenta come stimolo ad approfondire questo argomento, iniziando un nuovo discorso. E che, seduttiva e spettacolare nell’allestimento, curato dallo stesso direttore della Reggia-Museo e del Real Bosco di Capodimonte Sylvain Bellenger e dalla professoressa Cristina Terzaghi, può diventare una pietra miliare nella conoscenza di Michelangelo Merisi, della pittura seicentesca napoletana e, in fondo, pure di tutta la storia dell’arte. Caravaggio arriva a Napoli nel 1606. E’ in fuga da Roma, dove è stato condannato a morte perché, in una rissa, ha ucciso un uomo. Napoli è il suo rifugio. Vi resterà per quasi un anno. Vi ritornerà nel 1609 e se ne allontanerà l’anno dopo per sfuggire a un misterioso killer; ma nella fuga, invece, troverà la morte. Napoli, all’epoca, è una splendida capitale spagnola e la città di gran lunga la più popolosa d’Italia. In quegli anni è in piena attività anche edilizia e sta sostituendo il palazzo reale aragonese con un altro più grande e più bello, che dovrebbe accogliere Filippo III d’Asburgo, il Re, che però non vi giungerà mai. (lo stesso palazzo, ristrutturato e modificato, ora si trova nella piazza del Plebiscito, chiamata, un tempo, Largo di Palazzo) A Napoli, all’epoca, c’è un’ampia e vivace cerchia di letterati e di artisti, tra i quali Caravaggio è accolto. E possiamo immaginarlo dialogare con loro in un proficuo scambio di idee. Si ritrovano nella Taverna del Cerriglio. Tra gli avventori, c’è gente di nobile famiglia, come il grande Giovan Battista Basile, che la dice “casa de li spasse, dove trionfa Bacco, dove si scarfa Venere e s’allonga la vita ‘e chiù ‘e cient’anne”. Ma la taverna è frequentata anche da povera gente: è un ambiente napoletano, in cui ricchi e poveri si mischiano, perché il denaro e il ceto sociale non sono, per i napoletani di un tempo, il discrimine che li divide. Ricchi e poveri appaiono insieme, mischiati tra loro, anche nella prima opera che il pittore lombardo dipinge a Napoli: Le sette opere di misericordia.
LA MOSTRACaravaggio Napolial Museo di Capodimontefino al 14 luglio 2019, sala Causa (piano terra), aperta tutti i giorni dalle 8.30 alle 19.30 (compreso il mercoledì, tradizionale giorno di chiusura del Museo). La biglietteria chiude alle 18.30. Il biglietto della mostra dà diritto a un ingresso ridotto al Pio Monte della Misericordia e viceversa. Disponibili navette gratuite tra Capodimonte e Pio Monte della Misericordia messe a disposizione dal Comune di Napoli e dal Museo. Prenotazioni e acquisti online www.coopculture.it Per saperne di più http://www.museocapodimonte.beniculturali.it/
Nella Reggia-Museo di
Capodimonte, la Sala Causa, dedicata al compianto sovrintendente Raffaello
Causa, ha ospitato la conferenza-stampa di presentazione della
mostra “Caravaggio-Napoli”
(12 aprile – 14 luglio 2019). Anche stavolta un grande artista è messo in
relazione con Napoli. Come già Pablo Picasso con
la sua “Parade”,
che riprendeva le figure della cultura popolare napoletana. Come pure Jan
Fabre, tuttora presente a Capodimonte (fino al 15 settembre)
con le sue opere di corallo rosso, lavorato negli antichi laboratori della
cittadina vesuviana di Torre del Greco.
Il rapporto tra Napoli
e Caravaggio si svolse in un soggiorno di 18 mesi in tutto,
diviso in due tappe: nel 1606 e nel 1610, anno della sua morte misteriosa sulla
spiaggia di Porto Ercole.
Non fu solo un dare da
parte dell’artista alla città ma fu, forse soprattutto, un avere. Come ci dice
lo stesso critico Roberto Longhi, che
lo “riscoprì” dopo che per secoli era stato dimenticato, e si domanda quanto
grande sia stata l’impressione che Napoli, all’epoca “immensa capitale
meridionale, più classicamente antica di Roma stessa, e insieme spagnolesca e
orientale” aveva potuto suscitare nel pittore lombardo.
Infatti forse la più
bella, importante, rivoluzionaria delle sue opere è quella
che dipinse appena giunto a Napoli: “Sette
opere di misericordia”. Riprende la vita del vicolo napoletano,
dove il pittore abitava. E così crea un nuovo spazio fatto dal movimento e dai
gesti della gente, dalle persone stesse: forse la più grande rivoluzione
iconografica del suo tempo. D’altronde quella era la Napoli vissuta anche dai
pittori napoletani poi detti caravaggeschi. Questi guardarono e vissero la
stessa vita del lombardo ed ebbero ed espressero con lui una consentaneità
profonda di pensieri e sentimenti.
Perciò stupisce che
alla mostra, pur bella e ricca, manchi appunto l’opera delle
“Sette opere di
Misericordia”. Certo la si può guardare andando a visitare la
magnifica chiesa del Pio Monte della Misericordia, al centro storico di Napoli,
così come hanno fatto i giornalisti oggi con una navetta messa a loro
disposizione ad hoc.
Dicono che questa
mancanza sia giustificata dalla preoccupazione che un’opera così bella e
importante possa, con lo spostamento, deteriorarsi e
che d’altronde è facile andare al centro storico per vedere l’opera. Ma chi
conosce un po’ di queste cose sa bene che tante osservazioni possono farsi, e
quindi tante conoscenze d’arte e di storia possono nascere, dal confronto
ravvicinato delle opere.
Ci si è giustificati,
da parte dell’opposizione, anche citando le spese troppo alte dell’assicurazione. Eppure
altre opere caravaggesche sono giunte in questa occasione a Capodimonte, come
il Martirio di Suor
Orsola dalla napoletana via Toledo e altre da
Rouen, da Madrid, da Siviglia e da Londra.
Non molto tempo fa
anche la “Flagellazione”
di Caravaggio, conservata a Capodimonte, è mancata dal museo perché trasferita
per qualche tempo altrove. Molte pagine di giornale sono state
riempite dalla questione. L’opposizione al trasporto delle “Sette
Opere di Misericordia” è stato aspra ma le
ragioni di questa opposizione non sono apparse convincenti e di buon senso.
Tanto che persone di cui è riconosciuto il valore, come lo stesso
soprintendente del Pio Monte Alessandro Pasca di Magliano
e il musicista Riccardo Muti, si sono dichiarati
indignati dalla speciosità di certi argomenti.
Eppure nella
conferenza-stampa non si è parlato di questo. C’è stato solo un accenno
sottinteso nelle parole del soprintendente del Pio Monte, che, ringraziato
dal direttore del Museo Sylvain Bellenger (curatore
della mostra con Maria Cristina Terzaghi)
per la sua collaborazione e la sua lealtà, ha detto che non avrebbe mai
immaginato che la sua collaborazione sarebbe stata così laboriosa.
Anche l’assessore alla
Cultura del Comune di Napoli Nino Daniele dice
che sarebbe stato favorevole a che l’opera fosse stata spostata al museo per la
durata della mostra. Ma di rispettare le opinioni contrarie.
Forse è meglio non
discuterne più, come suggerisce il presidente degli Amici
di Capodimonte, avvocato Di Lorenzo: “Noi teniamo
a che Sylvain resti a Napoli e possa continuare nella sua opera missionaria e
illuminata in favore della cultura e della città. Quindi cerchiamo di non
complicare le cose con polemiche a questo punto inutili”.
In quanto a noi,
consideriamo un incubo il regresso della Reggia-Museo e del Real Bosco di
Capodimonte alle condizioni ante-Bellenger. Il popolo napoletano vuole che
Bellenger rimanga. Speriamo che possa rimanere. Altrimenti non saremmo in
democrazia ma in quella che Aristotele chiamava “oklocrazia”,
ovvero il comando della gente dappoco.
È
incominciata così. Con una lunga conversazione tra Jan Fabre, artista
belga di fama mondiale, e Sylvain Bellenger,
direttore della Reggia-Museo e del Real
Bosco di Capodimonte, umani luoghi tra i
più belli del mondo. Bellenger parlava di Napoli. Questa città – si dice- è
eccessiva e contraddittoria. Ma possiamo anche dirla, per un certo
suo fascino, “carnale”,
che, in lingua napoletana, significa il verace sentimento che può prenderti usque ad
medullas.
“Carnale”
è anche l’esoterismo napoletano, come quello del culto di san Gennaro, fatto di
sangue, che si coagula e si squaglia, e di fede appassionata. Simbolo “carnale”
è anche il
corallo rosso, quella sorta di polipo che vive negli abissi più
oscuri del Mediterraneo e che si lavora, in antichi laboratori, a Torre del
Greco, cittadina dell’hinterland napoletano.
Compare, questo corallo dal colore rosso-sangue, anche in alcuni quadri nelle
sale della pinacoteca di Capodimonte, a indicare la Passione di Cristo.
Conversavano,
girando proprio in queste sale, Jan Fabre e Sylvain Bellenger. E forse da qui è
nato, nell’artista belga, il desiderio di fare delle opere di corallo apposta
per Capodimonte. Ed ecco, così, le opere coralline ora in mostra. Opere anch’esse “carnali”, fatte di corallo
rosso-sangue e di umanità.
Sono
in rapporto stretto con Napoli, con il suo popolo più verace e con lo stesso
museo di Capodimonte. Infatti questa mostra – è stato detto dal
professore Stefano
Causa – non è solo di Fabre ma è di Capodimonte. Infatti
Causa, che, insieme a Blandine Gwizdala, della mostra è il curatore, la ha
arricchita con altre opere, molte della pinacoteca napoletana, che così ora
evidenzia la contemporaneità dei suoi tesori.
Ce
ne sono soprattutto del Seicento, secolo che Raffaello Causa,
padre di Stefano, prediligeva e ne fece una mostra bellissima, che non poté
inaugurare solo perché pochi mesi prima dell’inaugurazione se ne era andato via
da questo mondo. Era la sua mostra, sebbene altri, con oscena arroganza, poi se
ne sia attribuita la paternità.
E
proprio il pathos del
Seicento napoletano, un insieme di scienza e di religione, di ragione e di
sangue, sembra esprimere Fabre in queste sue opere di corallo. Che, insieme a
delle opere coperte d’oro da lui prodotte nel corso degli anni e ad alcuni
disegni tracciati con il suo sangue, costituiscono un insieme di oro lucente e di rosso brillante.
E
sono cuori, croci, teschi, pugnali, spade: simboleggiano un’intima guerra, con
l’ironia tormentata di un pensiero profondo. È il barocco contemporaneo di Fabre.
Che, artista anti-classico, anti-accademico e straordinariamente creativo,
batte strade nuove, creando degli oggetti viventi. Ogni sua opera è
un unicum. È vero, vi sono due croci di corallo di grandezza simile; eppure
sono molto diverse tra loro. Ognuna ha la forma della croce, il simbolo forse
più famoso del mondo. Ma sono come singoli individui con una vita propria.
L’uno
è un corpo vivente del mondo animale, in cui scorre il sangue, rappresentato da
un percorso di semi di corallo: ha
una vita fisica e spirituale, e con le rosse ali si eleva e va
verso l’alto. L’altro ha una superficie ruvida come la scorza di un albero, una
corteccia che è ricoperta da un’altra corteccia, fatta da una sorta di
rigonfiamenti che ci suggeriscono le circonvoluzioni del cervello umano: natura
e scienza.
Così i rametti che spuntano da
questa croce ricordano, si, l’albero della vita di masaccesca
memoria (la Crocifissione di Masaccio del polittico di Pisa, ora a Capodimonte)
ma anche i nervi, quei neuroni a specchio che tanto hanno interessato Fabre,
del quale è noto l’amore per le scienze. E si riferisce ad Albert Einstein il suo autoritratto
in corallo, in cui caccia la lingua. È una linguaccia
lunghissima, che ci fa tornare alla memoria la “lingua di Menelik”, quel gioco
carnevalesco in voga, non molto tempo fa, tra i venditori ambulanti in giro per
Napoli. Questa mostra è un interessantissimo insieme di bellezza, di simboli e
di rimandi continui.
Ma
Fabre non si ferma qui. Fino al 30 settembre sarà visibile, nella chiesa del Pio Monte
della Misericordia, a cura di Melania Rossi, in dialogo diretto con
le Sette Opere di Misericordia,The
Man Who Bears the Cross (L’uomo che sorregge la croce), una
scultura in cera a grandezza d’uomo.
Sempre
fino al 30 settembre, è allestita, nel cortile d’onore del Museo
Madre, con la curatela di Andrea Viliani, Melania Rossie Laura Trisorio, The Man
whoMeasures the Clouds (L’uomo che misura le nuvole), in
un’inedita versione in marmo di Carrara. L’opera è un rifacimento della
versione in bronzo che fu posta, nel 2008, in Piazza del Plebiscito e, nel
2017, creando un effetto stupendo, sul terrazzo dello stesso museo.
Invece,
nella galleria Studio
Trisorio, è esposto, a cura di Melania Rossi e Laura Trisorio, Tribute to
Hieronimus Bosch in Congo (Omaggio a Hieronimus Bosch in
Congo), una selezione di opere realizzate completamente con gusci di scarabei.
Sono dei grandi pannelli e delle sculture
in mosaico ispirati alla complessa vicenda, di potere e di
morte, della conquista belga del Congo.
L’ispirazione
storica s’intreccia alla simbologia medievale de “Il giardino delle delizie” il
capolavoro di Bosch.
Nel frattempo a Capodimonte, c’è, sempre fino al 30 settembre, “Un restauro in mostra” con un’opera di Antonio Canova, studiata alla perfezione e la mostra, imperdibile, “Caravaggio e Napoli” Altri due protagonisti della scena culturale mondiale.
Dimenticare il brutto del quotidiano.
Andare, per una full
immersion nel bello, al Museo di Capodimonte. Che non ha la
pesantezza tipica di un museo perché è una Reggia. Accogliente e ariosa, è
stata appunto costruita, nel Settecento, dal Re Borbone, per contenere opere
d’arte. E per abitarvi, contemplandole. Oggi,
ogni visitatore può girarvi nelle sale come un Re.
La sensazione, per anni appannata, di trovarsi in una Reggia, è stata, da
qualche tempo, ritrovata per l’attenta manutenzione di cui ora è oggetto
l’edificio e per l’atteggiamento diverso del personale nelle sale, che ha
abbandonato la sciatteria disinformata di un tempo. In più, da qualche
settimana, l’illuminazione con centinaia di lampade a led ha creato, nel Salone
delle Feste, la scintillante atmosfera di una fiaba principesca. Mentre
la “Flagellazione”, la famosa opera di Caravaggio (1571/1610) custodita qui,
in una sala tutta per sé, è ora circondata da una cornice coeva che, in
complesse fitomorfiche curve, esprime il naturalismo barocco napoletano e
storicizza l’artista, non più nume avulso dal tempo, riportandolo all’epoca
sua. Il parco (grande due volte quello di Caserta.) che circonda la Reggia
suggerisce chiaramente come l’arte si ispiri alla natura. Intorno all’edificio,
i prati ora sono ben curati e c’è la vista del mare dal Belvedere
liberato dalla siepe che ne impediva la vista.
Questa sorta di révolution heureusenella Reggia e nel Real Bosco riguarda
anche la strategia culturale che vi viene attuata. Attenta a non
abbassare il livello della comunicazione culturale, diversamente da quella che
ha l’unico fine di ottenere un maggior numero di visitatori, questa strategia
mira a educare il pubblico all’arte e al bello sollecitandone le capacità e
l’attenzione. Un esempio ne è la mostra (dal 21/12/18 al 15/5/19) “Depositi di
Capodimonte. Storie ancora da scrivere”, intelligente nella impostazione,
ricca di stimoli e di idee. Una sua originale caratteristica è l’attuale
mancanza del catalogo, che sarà pubblicato al suo termine, per contenere i
pareri degli esperti che converranno in un convegno internazionale e le
osservazioni, i suggerimenti e i desideri dei visitatori. Le 120 opere tirate fuori dai depositi (il 20 /100 circa di quelle lì
conservate) sono dipinti, ceroplastiche, gessi, marmi, tessuti e armi,
porcellane e terracotte. Tutte di pregio. Non sono presentate secondo una
successione cronologica, secondo il prima e il dopo. Ma sono collocate in modo
che si trovino vicine tra loro quelle che hanno tra loro delle analogie. Qui si sfida anche il visitatore a trovare degli elementi in comune tra opere
diverse e, in base a questi, raggrupparle e magari scoprirne lo sconosciuto
autore. Se la prosa letteraria ha un linguaggio razionale, quindi pressappoco
univoco, l’opera figurativa, invece, è, a suo modo, polivalente. Le
somiglianze, quindi, possono trovarsi in base a diversi elementi. In base
alla materia usata, al colore, alla tecnica, al tema rappresentato, all’aspetto
che vi viene evidenziato….Ogni opera racconta una sua storia, tutta ancora da
scrivere. Da un’ attenta osservazione delle opere si comprende anche la fallace
superficialità del detto “Non è bello quel che è bello. E’ bello quel che
piace.” Perché il Bello oggettivamente esiste. Ma piace all’osservatore
quell’aspetto dell’opera d’arte che gli è più consentaneo, e quindi più per lui
comprensibile. A questo si deve anche il criterio secondo il quale le opere
sono state mandate nei depositi, da cui ora sono state tratte per questa
mostra. Vi sono state mandate perché non erano consentanee al gusto o al clima
politico all’epoca o alle preferenze del critico al tempo più in auge. In
proposito c’è l’eclatante esempio di Caravaggio (1593/1610), molto apprezzato
ai tempi suoi ma poi a lungo tenuto in non cale. Finché, nel Novecento, un
critico che allora andava per la maggiore, Roberto Longhi, lo riabilitò. Perché
-come ancora si dice- a suo avviso Caravaggio aveva avuto il pregio di porre in
primo piano la povera gente con i suoi piedi sporchi. Sebbene un valore
maggiore potrebbe attribuirsi alla sua cancellazione, con la resa del buio,
dello spazio canonico e la creazione, a volte, di uno spazio diverso, formato
dai movimenti delle persone. Come nelle “Sette opere di Misericordia”, la prima
opera che l’artista geniale produsse al suo arrivo a Napoli. Tra i liberi accostamenti che in questa mostra si realizzano, c’è il
confronto ravvicinato tra i personaggi ritratti nelle opere dell’Ottocento e in
quelle del Seicento napoletano. Da cui appare chiara la diversissima
sensibilità tra le due epoche. Il sentimentalismo ottocentesco rivela lo studio
dei sentimenti, risentendo dello storicismo letterario, del positivismo e
dell’eredità del neoclassicismo. Il Seicento napoletano rivela un’abundantia
cordis irrefrenabile e la sensualità di una carnalità dirompente. Tra le tante opere citiamo la veduta seicentesca di una irriconoscibile
Messina, che dai terremoti, epocale quello del 1908, fu travisata del
tutto. Ma, a prescindere dai luoghi, questa veduta rivela, nello stile della
composizione avvolgente, i suoi rapporti con l’arte napoletana. E ci
viene in mente Antonello (Messina 1430/1479). Molto interesse suscitano, tra gli oggetti in mostra, anche quelli portati
in Europa dal Capitano James Cook e poi donati a Ferdinando di Borbone da
Lord Hamilton, ambasciatore inglese presso la Corte Borbonica. Sono armi, un
copricapo, una maschera di pelle e e altri oggetti provenienti dall’Oceania.
Che testimoniano il senso della bellezza e dell’arte di un popolo ritenuto
selvaggio. E suggeriscono un modo di vivere altro ma non per questo meno
felice. Nella stessa sala, statuette in terracotta riprendono precisamente le
figure e gli abbigliamenti di popoli esotici vestiti nei loro abiti
tradizionali. Sono riproduzioni perfette. Ma poco suggestive. La conoscenza
storica è fatta anche di immaginazione. Prendendo spunto da tutti questi
oggetti, Carmine Romano, curatore della mostra insieme a Maria Tamayo e ad
altri collaboratori, tra cui Linda Martino, ha raccontato una storia su
Ferdinando di Borbone. Questi, personaggio vitalissimo, amante delle donne e
del suo popolo, con cui, quando poteva, si mischiava festaiolo, durante una
festa carnevalesca del 1748 si era abbigliato alla turca secondo una moda
esotica di fantasia. Un pittore francese, Joseph-Marie Vien (1716/1809), lo
ritrasse insieme ai suoi e portò questi dipinti a Londra. Dove i membri
dell’ambasciata turca li videro, e, rimanendone suggestionati, si abbigliarono
a quel modo di fantasia. Se l’arte copia la vita, a volte anche la vita copia
l’arte. Le opere in mostra ritorneranno nei depositi? Sulla loro sorte non si
hanno ancora notizie precise. Mentre c’è in progetto la creazione di un altro
spazio espositivo in un grande edificio nel Real Bosco, quello che si trova di
fronte la Reggia. Ma, nel frattempo, meglio andare a visitare queste
“imperdibili” opere, prima che vadano in qualche deposito. E scompaiano alla
vista. LA MOSTRA Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere
Fino al 15 maggio
Per saperne di più http://www.museocapodimonte.beniculturali.it/portfolio_page/depositi-di-capodimonte-storie-ancora-da-scrivere/
Il museo napoletano tira fuori dal suo deposito una serie di opere per una storia dell’arte ancora da scrivere, ripudiata dalla “moda” e dalla politica. Che riavvampa con gusto
La mostra “Depositi di Capodimonte. Storie ancora
da scrivere”, in esposizione al Museo di Capodimonte di Napoli fino al 15
maggio 2019, è uno sballo, una sfida e una scommessa. Che sia anche un
importante avvenimento lo si capiva già dai tanti giornalisti che affollavano
la conferenza stampa nella magnifica Sala degli Arazzi, quelli che narrano
della battaglia di Pavia del 1525. Di quando Napoli era capitale spagnola e il
napoletano Francesco d’Avalos vinceva le truppe di Francesco I, quel re di
Francia che aveva pianto il suo amico Leonardo (da Vinci) sul letto di morte.
Anche questi arazzi sono stati per un po’ nella polvere di un deposito. Fin
quando, nel 1998, non furono restaurati. Ora a Capodimonte, c’è, quale
direttore, un altro francese amante dell’arte italiana, Sylvain Bellenger, che
ha voluto questa mostra di opere tratte dai depositi del museo.
Già l’apertura di questi depositi è stato un fatto
eclatante. Infatti, erano rimasti chiusi anche a lungo e si racconta che un
tempo, con il successore del sovrintendente Raffaello Causa, ne fu vietato
l’accesso finanche agli studiosi e all’ANISA-Associazione Nazionale Insegnanti
Storia dell’Arte, dando adito a sospettosi perché. Ora finalmente sono
visitabili. È c’è anche un video di presentazione, caricato su Youtube, in cui
un uomo con un grande mazzo di chiavi avanza verso i depositi e li apre, come
per liberare le opere, le vite, le storie che vi sono prigioniere. Il 20% di
queste opere – e ne sono più di 1200 – costituisce la mostra. La sua preparazione
ha coinvolto tutto il personale del museo, dai funzionari, ai restauratori,
agli uomini di fatica. Si è lavorato tanto, fino all’ultimo momento. La mattina
della conferenza stampa, c’erano ancora delle scope in un angolo e, su un
tavolo, i bigliettini delle didascalie che sarebbero stati al proprio posto per
l’inaugurazione nel pomeriggio. Nell’aria, grande entusiasmo. Soddisfatti i
curatori, Carmine Romano e Maria Tamajo, sorridenti insieme ai loro
collaboratori. Come Linda Martino che, vivace, leggera, quasi saltava di gioia.
E più leggera era anche Aurora Giglio, la vivacissima presidente di
MusiCapodimonte, l’associazione di promozione della musica popolare napoletana,
(altra iniziativa osé del direttore Bellenger).
Ma quello che di straordinario, dirompente,
“sballante” c’è in questa mostra intelligente è l’affermazione della
libertà di pensiero, che si esprime nell’apparente disordine secondo il quale
sono state collocate le opere. Che non seguono il filo di una logica
progressiva, per esempio non sono state messe secondo un ordine cronologico del
prima e del dopo. Qui si invita il visitatore a uscire dagli schemi già dati,
lo si incita all’attenta osservazione della realtà e a usare una logica fondata
su di essa, una logica analogica. E gli si suggerisce di lasciarsi guidare
dalle suggestioni delle analogie. Che possono essere tante. Qui si sfida il
visitatore a trovarle e magari, in base a queste, ad assemblare dei gruppi di
opere e scoprirne gli sconosciuti autori. E si può accostare un’opera a un’altra
per un’affinità nascosta, per il carattere dei personaggi rappresentati, per la
forza dei loro sguardi, per l’espressività di questo o quel sentimento, per la
costruzione degli spazi, per l’omogeneità del colore e così via. È una sfida e
una scommessa. E può essere un test divertente, che rivela le capacità di
ciascun visitatore. Da qui, da queste opere, tante idee, tante vite, tante
storie. Ancora tutte da scrivere. I cataloghi, infatti, saranno pubblicati
soltanto alla chiusura della mostra, arricchiti dalle osservazioni dei
visitatori.
Ma come nascono i depositi dei musei?
A volte allo stesso modo con cui noi abbandoniamo,
magari in fondo a un cassone, qualche vestito che ci è venuto in uggia o che
non è più di moda ma potrebbe tornarvi e chi lo sa. Così un’opera museale vien
messa in deposito non solo per mancanza di spazio, per un cattivo stato di
conservazione e in attesa di restauro come gli arazzi d’Avalos ma, soprattutto,
per un cambiamento del gusto di un’epoca, ha spiegato il Direttore. E anche,
aggiungerei, per motivi politici. Capodimonte è diventato museo nazionale negli
anni Cinquanta del Novecento. Molte sculture ottocentesche all’epoca furono
messe da parte: la scultura non era più di moda. Perché, mentre la pittura si
era evoluta, la scultura era rimasta ancorata ai vecchi schemi. Inoltre, dopo
il referendum “monarchia o repubblica?” del ’46, le opere sfacciatamente
savoiarde erano state confinate nei depositi. Da cui ora sono stati tirati
fuori i busti di un compassato Umberto I e di un Vittorio Emanuele II dalla
faccia assatanata. Nella stessa sala, accanto a questi busti, vi sono le
sculture eseguite da Leopoldo di Borbone, le quali, per il 1860, dormivano nei
depositi: c’è l’Angelo della Carità in gesso, di un dolcissimo sentimentalismo
ottocentesco ma incorniciato dal curvo disegno, accentuato in senso astratto,
di due grandi ali imponenti.
C’è, tra le sculture, anche un divertente tacchino
perfettamente eseguito. È assurdamente seduto su un porco e attrae lo sguardo
per l’originale composizione cui dà luogo. Molti sono i capolavori da scoprire
in questa mostra, che vanta preziose porcellane e opere di Battistello
Caracciolo, Bernardo Cavallino, Mattia Preti e anche di Luca Giordano che –
notizia in anteprima – quest’autunno partirà, insieme a Vincenzo Gemito, per
Parigi, dove alloggerà al Musée du Petit Palais.
Molto interesse suscitano anche gli oggetti in mostra
portati in Europa dal Capitano James Cook e poi donati al re di Napoli
Ferdinando IV da Lord Hamilton, ambasciatore inglese presso la Corte Borbonica.
Sono armi e altri oggetti provenienti dall’Oceania, che testimoniano la civiltà
e il senso della bellezza e dell’arte di un popolo ritenuto selvaggio. Un
popolo allora dignitoso e libero perché era diverso dagli altri ma certo non
era diverso da sé. Ammiriamo, tra l’altro, un aggraziato copricapo, dei
bracciali e delle cavigliere femminili. Appartenevano a una principessa? Dov’è
ora questa principessa che, regalmente, danzava muovendo le piume infilate nei
bracciali e nelle cavigliere? Vola leggera nel cielo? Il suo popolo, camuffato
dagli abiti occidentali, non esiste più. Nella stessa sala, statuette in
terracotta riprendono precisamente le figure di popoli esotici vestiti nei loro
abiti tradizionali. Sono riproduzioni perfette ma senz’anima. In occasione
della mostra, altre novità: la Flagellazione caravaggesca è circondata da un
cornice coeva. Mentre tante lampadine a led, imitando molto bene il brillante
luccichio delle candele di un tempo, illuminano la favolosa Sala delle Feste.
E c’è anche un’altra novità: parte da questa mostra il
progetto di digitalizzazione delle opere di Capodimonte, con l’uso
dell’ultimissima tecnica della Art Camera «Per la quale si potrà distinguere
anche il filo della tela di un dipinto. È perfetta più dell’occhio umano», dice
il Direttore, entusiasta. Ma c’è chi dice di preferire conoscere l’opera nella
sua realtà, sentire il suo magnetismo e di provare a volte il desiderio
peccaminoso di toccare la ruvidezza di una tela, la profondità del legno di una
tavola dipinta, di accarezzare le curve levigate di un marmo. E considera con
raccapriccio la fotografia dell’opera un’astrazione, un suo avatar. Ma «Non vi
potrebbe essere un manuale di storia dell’arte senza fotografie e sarebbe
bello, ma non è pensabile, vedere tutte le opere d’arte in originale» dice
Bellenger. E ha ragione.