Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

“SAN PIETRO AD ARAM”: BASILICA DALLA STORIA ANTICHISSIMA a NAPOLI

Posted by on Mag 3, 2019

“SAN PIETRO AD ARAM”: BASILICA DALLA STORIA ANTICHISSIMA a NAPOLI

San Pietro ad Aram è uno dei numerosi edifici sacri monumentali di Partenope

Il complesso religioso (che si erge nel Centro Storico e che, fino all’Ottocento, era affiancato da un magnifico chiostro, ndr) è fra i più noti dell’area dato che, secondo la tradizione, custodirebbe l’Ara Petri, ovvero l’altare su cui pregò San Pietro durante la sua venuta a Napoli. Sarebbe, tra l’altro, anche il luogo dove il discepolo avrebbe battezzato Santa Candida e Sant’Aspreno, i primi napoletani convertiti (come narra anche l’affresco nel vestibolo recentemente attribuito a Girolamo da Salerno, ndr).

Una Basilica, dunque, dalla storia antichissima. Papa Clemente VII le concesse, proprio per il suo immenso valore storico, il privilegio di poter celebrare il Giubileo un anno dopo quello di Roma, in modo da evitare un eccessivo affollamento nella capitale pontificia ed un viaggio che, al tempo, era particolarmente difficoltoso e faticoso per il popolo napoletano. I post-giubilei, più nello specifico, furono celebrati nel 1526, nel 1551 ed infine nel 1576. Papa Clemente VIII abolì, tuttavia, questo privilegio alla città nel XVII secolo. L’attuale ristrutturazione è del XVII secolo (compiuta negli anni fra il 1650 e il 1690), su precedente disegno di Pietro De Marino e Giovanni Mozzetta.

Alla fine dell’Ottocento, coi lavori del cosiddetto Risanamento, i capitelli del distrutto chiostro (di epoca aragonese) furono trasferiti nel Sacello di Sant’Aspreno in Piazza Borsa.

La facciata della struttura è in un sobrio Stile Neoclassico. La parte inferiore è tripartita in fasce verticali da quattro lesene scanalate corinzie. Nella fascia centrale si trova il portale, inserito all’interno di una strombatura poco profonda con arco a tutto sesto sorretto da due colonne tuscaniche. In ciascuna delle due zone laterali, nello specifico, si trova un’apertura ad arco. L’area superiore, separata da quella sottostante tramite un cornicione decorato con bassorilievi, è divisa in due livelli: quello più basso presenta due finestre ottagonali con al centro un frontone semicircolare con oculo; quello in alto, invece, un finestrone sormontato da un frontone triangolare.

Il portale dell’ingresso secondario (del XVI secolo) è in pietra scolpita a motivi di girali vegetali e proviene dal Conservatorio dell’Arte della Lana, in Vico Miroballo, demolito per i lavori voluti per la ristrutturazione della città.

L’interno è a navata unica ed a croce latina. Nel vestibolo vi è l’altare in marmo con iscrizione angioina e colonnine sveve, sormontato dal baldacchino di Giovan Battista Nauclerio.

Di grande bellezza sono il rilievo con la Madonna delle Grazie di Giovanni da Nola, la Tela con il Giubileo di Wenzel Cobergher (1594), il San Raffaele di Giacinto Diano, il Battesimo di Cristo di Massimo Stanzione, la Madonna con San Felice da Cantalice di Andrea Vaccaro.

Nel presbiterio, inoltre, sono collocate due tele giovanili di Luca Giordano: San Pietro e San Paolo si abbracciano prima di andare al martirio e La consegna delle chiavi. Il coro ligneo, del 1661, è di Giovan Domenico Vinaccia. Nelle rimanenti cappelle, tra gli altri, è possibile ammirare dei dipinti di Sarnelli, Pacecco De Rosa, Giacinto Diano, Cesare Fracanzano e Nicola Vaccaro.

Dal transetto sinistro si scende nella cripta che, in seguito ai restauri del 1930, si rivelò essere una chiesa paleocristiana. Questa presenta tre navate, articolate con colonne monolitiche in marmo, dove sono state scoperte anche delle catacombe. In queste ultime è presente un culto delle anime del purgatorio simile a quello praticato nel Cimitero delle Fontanelle.

fonte http://www.villasignorini.it/it/san-pietro-ad-aram-basilica-dalla-storia-antichissima/

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La mostra a Capodimonte/Napoli e Caravaggio: due anime eretiche che rifiutano di relegare la visione del mondo in uno spazio-scatola

Posted by on Apr 29, 2019

La mostra a Capodimonte/Napoli e Caravaggio: due anime eretiche che rifiutano di relegare la visione del mondo in uno spazio-scatola

Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, dipinge opere meravigliose e inquietanti. Anche nella sua biografia c’è inquietudine, oscurità e mistero. Nato a Milano nel 1571, vissuto poi a Caravaggio, paese d’origine della sua famiglia, compare a Roma, nel 1595, quale esperto pittore, già molto stimato da notabili e alti prelati della Roma papalina, che gli commissionano opere importanti.
Eppure, ed è molto strano, non si conosce nessuna sua opera dipinta prima del suo soggiorno romano. I critici hanno studiato a fondo le sue pitture romane e vi hanno evidenziato influenze, per quanto ipotetiche, di vari pittori lombardi esaltando, così, l’importanza della pittura lombarda. Viceversa, sono stati molto poco studiati i rapporti tra le sue pitture realizzate a Napoli e l’ambiente sociale e artistico di questa città. Anzi, ci è affrettati ad affermare soltanto l’influsso di Caravaggio sui pittori napoletani, che quindi sono stati definiti tout court caravaggeschi.
Ma ecco, a Capodimonte, fino al 14 luglio, la mostra Caravaggio Napoli, che già nel titolo “paritario” si presenta come stimolo ad approfondire questo argomento, iniziando un nuovo discorso. E che, seduttiva e spettacolare nell’allestimento, curato dallo stesso direttore della Reggia-Museo e del Real Bosco di Capodimonte Sylvain Bellenger e dalla professoressa Cristina Terzaghi, può diventare una pietra miliare nella conoscenza di Michelangelo Merisi, della pittura seicentesca napoletana e, in fondo, pure di tutta la storia dell’arte.
Caravaggio arriva a Napoli nel 1606. E’ in fuga da Roma, dove è stato condannato a morte perché, in una rissa, ha ucciso un uomo. Napoli è il suo rifugio. Vi resterà per quasi un anno. Vi ritornerà nel 1609 e se ne allontanerà l’anno dopo per sfuggire a un misterioso killer; ma nella fuga, invece, troverà la morte.
Napoli, all’epoca, è una splendida capitale spagnola e la città di gran lunga la più popolosa d’Italia. In quegli anni è in piena attività anche edilizia e sta sostituendo il palazzo reale aragonese con un altro più grande e più bello, che dovrebbe accogliere Filippo III d’Asburgo, il Re, che però non vi giungerà mai. (lo stesso palazzo, ristrutturato e modificato, ora si trova nella piazza del Plebiscito, chiamata, un tempo, Largo di Palazzo)
A Napoli, all’epoca, c’è un’ampia e vivace cerchia di letterati e di artisti, tra i quali Caravaggio è accolto. E possiamo immaginarlo dialogare con loro in un proficuo scambio di idee. Si ritrovano nella Taverna del Cerriglio. Tra gli avventori, c’è gente di nobile famiglia, come il grande Giovan Battista Basile, che la dice “casa de li spasse, dove trionfa Bacco, dove si scarfa Venere e s’allonga la vita ‘e chiù ‘e cient’anne”.
Ma la taverna è frequentata anche da povera gente: è un ambiente napoletano, in cui ricchi e poveri si mischiano, perché il denaro e il ceto sociale non sono, per i napoletani di un tempo, il discrimine che li divide. Ricchi e poveri appaiono insieme, mischiati tra loro, anche nella prima opera che il pittore lombardo dipinge a Napoli: Le sette opere di misericordia.

E’ un’opera cruciale, che testimonia un cambiamento profondo nella concezione del mondo del sensibile artista lombardo. Nel dipinto c’è la rappresentazione della realtà e dell’anima di un vicolo napoletano. Le persone rappresentate, anche la Madonna, hanno la fisionomia della gente di questo popolo.
E qui Caravaggio è libero dall’impedimento della costruzione prospettica del canonico spazio-scatola di derivazione toscana. Alla quale, pur obbedendole, si era già dimostrato insofferente quando, ad esempio, nella “Sepoltura di Cristo” (Pinacoteca Vaticana), dipingeva uno spazio in diagonale, mettendo uno spigolo del sepolcro in primo piano. Qui, invece, gli spigoli delle costruzioni fanno da incerto sfondo, mentre spingono in avanti la folla portata in primo piano. E’ lei che crea la realtà dello spazio, che qui è formato dai movimenti e dai gesti di ciascuno. Non c’è bisogno di contestare lo spazio canonico criticandolo. Basta crearne un altro. Napoli e Caravaggio: due anime eretiche che, libere dal modo di pensare canonico, sono restie a immettere la loro visione del mondo nei ristretti limiti di uno spazio-scatola.
Già Antonello da Messina (1430/1479), allievo del napoletano Colantuono (1420/1460),  aveva oscurato lo spazio nei ritratti e nella “Annunciata” di Palazzo Abatellis  e realizzato, poi, nel “San Girolamo nello studio”, una sorta di spazio in movimento, come chiaramente testimonia, tra l’altro, il disegno delle mattonelle del pavimento. E, nei polittici di Cicino da Caiazzo e del Maestro di Sanseverino (a Capodimointe), la Madonna e i Santi hanno forme cinquecentesche ma vivono in un anomalo spazio d’oro, senza linee prospettiche (per la qualcosa i dotti li considerano arretrati).
Poi  Francesco Curia (1538/1616), maestro anche di Teodoro d’Errico (1544/1610), dipinge autonomamente e racconta, nell’Annunciazione” (a Capodimonte),  una sorta di sconvolgimento spaziale creato dall’annunzio dell’angelo. Le “Sette opere di misericordia” purtroppo non sono nell’attuale mostra, la quale, tuttavia, è ugualmente affascinante, come testimonia la straordinaria affluenza del pubblico, rapito dalla sua  scenografia favolosa, che lo introduce in quella pittura seicentesca che scandaglia con una sensibilità “viscerale”, tutta napoletana, la sofferente anima umana.
Ma questa mostra è anche molto importante per gli studiosi. Perché, subito dopo l’arrivo a Napoli, Caravaggio, come riferisce Francesca Santucci, incomincia a “rinvigorire gli scuri”. Il che non avviene per una superficiale ragione estetica. In questo modo, infatti, lui elimina del tutto lo spazio tradizionale. E dipinge il buio. Quel buio della sua anima tormentata dal peccato e dal rimorso, quel buio da cui con forza fa risaltare i corpi illuminandoli. E sono i corpi dei Cristi ma anche quelli dei carnefici, perché la luce è vita e la vita è fatta così, di luce e ombra.
Caravaggio ora cerca soprattutto la verità e considera nei personaggi rappresentati il loro essere fatto di carne e di sangue, di energia luminosa e di buio. Sicché tende a liberare gli uomini dagli abiti, che li rinchiuderebbero in un ruolo, e ama i loro nudi robusti che a Napoli sono quelli reali dei marinai e degli scaricatori di porto.
Nella mostra vi sono anche i dipinti dei napoletani. Tra questi, almeno  Battistello Caracciolo (1578/1635) e Carlo Sellitto (1581/1614) sono troppo veri e grandi artisti per essere considerati soltanto dei semplici seguaci di Caravaggio. Tra l’altro, come rivela la professoressa Terzaghi, esiste un documento di pagamento, girato da Caravaggio a Battistello, che testimonia che “il rapporto tra i due sommi pittori non può essere solamente immaginato in termini di fascinazione stilistica ma ha anche un’origine biografica e strettamente professionale”.
Possiamo anche notare che, mentre in Caravaggio c’è la tendenza a fare risaltare i corpi dal buio, in Battistello c’è una tendenza diversa, che si realizzerà più compiutamente in Bernardo Cavallino (nato nel 1616 morirà per la peste del 1656, che falcidiò anche tanti artisti  napoletani). Cavallino immagina i corpi affondati nel buio, e,  accarezzandoli delicatamente, con una luce amorevole, li scopre e gli dà vita.
A questo punto  possiamo anche citare Picasso: “I buoni pittori copiano, i grandi rubano” e aggiungere: i sommi pittori s’influenzano l’un l’altro. Perché, se è chiara la consentaneità dei napoletani con il pittore lombardo, si  dovrebbe maggiormente approfondire se e come e in quale misura dall’ambiente antropologico e artistico napoletano questi sia stato influenzato, superando la preconcetta tesi della sua pretesa immunità da influenze siffatte. Forse questo potrebbe essere per gli studiosi l’impegno che questa mostra suggerisce.
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In foto, alcuni momenti della mostra ripresi da Francesco Squeglia: all’inaugurazione, con il direttore Bellenger, anche il presidente della Regione De Luca

LA MOSTRACaravaggio Napoli al Museo di Capodimontefino al 14 luglio 2019, sala Causa (piano terra), aperta tutti i giorni dalle 8.30 alle 19.30 (compreso il mercoledì, tradizionale giorno di chiusura del Museo). La biglietteria chiude alle 18.30. Il biglietto della mostra dà diritto a un ingresso ridotto al Pio Monte della Misericordia e viceversa. Disponibili navette gratuite tra Capodimonte e Pio Monte della Misericordia messe a disposizione dal Comune di Napoli e dal Museo.

Prenotazioni e acquisti online
www.coopculture.it
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http://www.museocapodimonte.beniculturali.it/

Adriana Dragoni

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Caravaggio-Napoli, conferenza stampa di presentazione della mostra alla Reggia-Museo di Capodimonte

Posted by on Apr 16, 2019

Caravaggio-Napoli, conferenza stampa di presentazione della mostra alla Reggia-Museo di Capodimonte

Nella Reggia-Museo di Capodimonte, la Sala Causa, dedicata al compianto sovrintendente Raffaello Causa, ha ospitato la conferenza-stampa di presentazione della mostra “Caravaggio-Napoli” (12 aprile – 14 luglio 2019). Anche stavolta un grande artista è messo in relazione con Napoli. Come già Pablo Picasso con la sua “Parade”, che riprendeva le figure della cultura popolare napoletana. Come pure Jan Fabre, tuttora presente a Capodimonte (fino al 15 settembre) con le sue opere di corallo rosso, lavorato negli antichi laboratori della cittadina vesuviana di Torre del Greco.

Il rapporto tra Napoli e Caravaggio si svolse in un soggiorno di 18 mesi in tutto, diviso in due tappe: nel 1606 e nel 1610, anno della sua morte misteriosa sulla spiaggia di Porto Ercole.

Non fu solo un dare da parte dell’artista alla città ma fu, forse soprattutto, un avere. Come ci dice lo stesso critico Roberto Longhi, che lo “riscoprì” dopo che per secoli era stato dimenticato, e si domanda quanto grande sia stata l’impressione che Napoli, all’epoca “immensa capitale meridionale, più classicamente antica di Roma stessa, e insieme spagnolesca e orientale” aveva potuto suscitare nel pittore lombardo.

Infatti forse la più bella, importante, rivoluzionaria delle sue opere è quella che dipinse appena giunto a Napoli: “Sette opere di misericordia”. Riprende la vita del vicolo napoletano, dove il pittore abitava. E così crea un nuovo spazio fatto dal movimento e dai gesti della gente, dalle persone stesse: forse la più grande rivoluzione iconografica del suo tempo. D’altronde quella era la Napoli vissuta anche dai pittori napoletani poi detti caravaggeschi. Questi guardarono e vissero la stessa vita del lombardo ed ebbero ed espressero con lui una consentaneità profonda di pensieri e sentimenti.

Perciò stupisce che alla mostra, pur bella e ricca, manchi appunto l’opera delle “Sette opere di Misericordia”. Certo la si può guardare andando a visitare la magnifica chiesa del Pio Monte della Misericordia, al centro storico di Napoli, così come hanno fatto i giornalisti oggi con una navetta messa a loro disposizione ad hoc.

Dicono che questa mancanza sia giustificata dalla preoccupazione che un’opera così bella e importante possa, con lo spostamento, deteriorarsi e che d’altronde è facile andare al centro storico per vedere l’opera. Ma chi conosce un po’ di queste cose sa bene che tante osservazioni possono farsi, e quindi tante conoscenze d’arte e di storia possono nascere, dal confronto ravvicinato delle opere.

Ci si è giustificati, da parte dell’opposizione, anche citando le spese troppo alte dell’assicurazione.  Eppure altre opere caravaggesche sono giunte in questa occasione a Capodimonte, come il Martirio di Suor Orsola dalla napoletana via Toledo  e altre da Rouen, da Madrid, da Siviglia e da Londra. 

Non molto tempo fa anche la “Flagellazione” di Caravaggio, conservata a Capodimonte, è mancata dal museo perché trasferita per qualche tempo altrove.  Molte pagine di giornale sono state riempite dalla questione. L’opposizione al trasporto delle “Sette Opere di Misericordia” è stato aspra ma le ragioni di questa opposizione non sono apparse convincenti e di buon senso. Tanto che persone di cui è riconosciuto il valore, come lo stesso soprintendente del Pio Monte Alessandro Pasca di Magliano e il musicista Riccardo Muti, si sono dichiarati indignati dalla speciosità di certi argomenti.

Eppure nella conferenza-stampa non si è parlato di questo. C’è stato solo un accenno sottinteso nelle parole del soprintendente del Pio Monte, che, ringraziato dal direttore del Museo Sylvain Bellenger (curatore della mostra con Maria Cristina Terzaghi) per la sua collaborazione e la sua lealtà, ha detto che non avrebbe mai immaginato che la sua collaborazione sarebbe stata così laboriosa.

Anche l’assessore alla Cultura del Comune di Napoli Nino Daniele dice che sarebbe stato favorevole a che l’opera fosse stata spostata al museo per la durata della mostra. Ma di rispettare le opinioni contrarie.

Forse è meglio non discuterne più, come suggerisce il presidente degli Amici di Capodimonte, avvocato Di Lorenzo: “Noi teniamo a che Sylvain resti a Napoli e possa continuare nella sua opera missionaria e illuminata in favore della cultura e della città. Quindi cerchiamo di non complicare le cose con polemiche a questo punto inutili”.

In quanto a noi, consideriamo un incubo il regresso della Reggia-Museo e del Real Bosco di Capodimonte alle condizioni ante-Bellenger. Il popolo napoletano vuole che Bellenger rimanga. Speriamo che possa rimanere. Altrimenti non saremmo in democrazia ma in quella che Aristotele chiamava “oklocrazia”, ovvero il comando della gente dappoco.

Adriana Dragoni

fonte http://agenziaradicale.com/index.php/cultura-e-spettacoli/mostre/5794-caravaggio-napoli-conferenza-stampa-di-presentazione-della-mostra-alla-reggia-mu

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Jan Fabre, Oro Rosso. Sculture d’Oro e corallo a Capodimonte

Posted by on Apr 11, 2019

Jan Fabre, Oro Rosso. Sculture d’Oro e corallo a Capodimonte

È incominciata così. Con una lunga conversazione tra Jan Fabre, artista belga di fama mondiale, e Sylvain  Bellenger, direttore della Reggia-Museo del Real Bosco di Capodimonte, umani  luoghi  tra i più belli del mondo. Bellenger parlava di Napoli. Questa città – si dice- è eccessiva e contraddittoria.  Ma possiamo anche dirla, per un certo suo fascino, “carnale”, che, in lingua napoletana, significa il verace sentimento che può prenderti usque ad medullas.

Carnale” è anche l’esoterismo napoletano, come quello del culto di san Gennaro, fatto di sangue, che si coagula e si squaglia, e di fede appassionata. Simbolo “carnale” è anche il corallo rosso, quella sorta di polipo che vive negli abissi più oscuri del Mediterraneo e che si lavora, in antichi laboratori, a Torre del Greco, cittadina dell’hinterland napoletano. Compare, questo corallo dal colore rosso-sangue, anche in alcuni quadri nelle sale della pinacoteca di Capodimonte, a indicare la Passione di Cristo.

Conversavano, girando proprio in queste sale, Jan Fabre e Sylvain Bellenger. E forse da qui è nato, nell’artista belga, il desiderio di fare delle opere di corallo apposta per Capodimonte. Ed ecco, così, le opere coralline ora in mostra. Opere anch’esse “carnali, fatte di corallo rosso-sangue e di umanità.

Sono in rapporto stretto con Napoli, con il suo popolo più verace e con lo stesso museo di Capodimonte. Infatti questa mostra – è stato detto dal professore  Stefano Causa – non è solo di Fabre ma è di Capodimonte. Infatti Causa, che, insieme a Blandine Gwizdala, della mostra è il curatore, la ha arricchita con altre opere, molte della pinacoteca napoletana, che così ora evidenzia la contemporaneità dei suoi tesori.

Ce ne sono soprattutto del Seicento, secolo che Raffaello Causa, padre di Stefano, prediligeva e ne fece una mostra bellissima, che non poté inaugurare solo perché pochi mesi prima dell’inaugurazione se ne era andato via da questo mondo. Era la sua mostra, sebbene altri, con oscena arroganza, poi se ne sia attribuita la paternità.

E proprio il pathos del Seicento napoletano, un insieme di scienza e di religione, di ragione e di sangue, sembra esprimere Fabre in queste sue opere di corallo. Che, insieme a delle opere coperte d’oro da lui prodotte nel corso degli anni e ad alcuni disegni tracciati con il suo sangue, costituiscono un insieme di oro lucente e di rosso brillante.

E sono cuori, croci, teschi, pugnali, spade: simboleggiano un’intima guerra, con l’ironia tormentata di un pensiero profondo. È il barocco contemporaneo di Fabre. Che, artista anti-classico, anti-accademico e straordinariamente creativo, batte strade nuove, creando degli oggetti viventi.  Ogni sua opera è un unicum. È vero, vi sono due croci di corallo di grandezza simile; eppure sono molto diverse tra loro. Ognuna ha la forma della croce, il simbolo forse più famoso del mondo. Ma sono come singoli individui con una vita propria.

L’uno è un corpo vivente del mondo animale, in cui scorre il sangue, rappresentato da un percorso di semi di corallo: ha una vita fisica e spirituale, e con le rosse ali si eleva e va verso l’alto. L’altro ha una superficie ruvida come la scorza di un albero, una corteccia che è ricoperta da un’altra corteccia, fatta da una sorta di rigonfiamenti che ci suggeriscono le circonvoluzioni del cervello umano: natura e scienza.

Così i rametti che spuntano da questa  croce ricordano, si, l’albero della vita di masaccesca memoria (la Crocifissione di Masaccio del polittico di Pisa, ora a Capodimonte) ma anche i nervi, quei neuroni a specchio che tanto hanno interessato Fabre, del quale è noto l’amore per le scienze. E si riferisce ad Albert Einstein il suo autoritratto in corallo, in cui caccia la lingua. È una linguaccia lunghissima, che ci fa tornare alla memoria la “lingua di Menelik”, quel gioco carnevalesco in voga, non molto tempo fa, tra i venditori ambulanti in giro per Napoli. Questa mostra è un interessantissimo insieme di bellezza, di simboli e di rimandi continui.

Ma Fabre non si ferma qui. Fino al 30 settembre sarà visibile, nella chiesa del Pio Monte della Misericordia, a cura di Melania Rossi, in dialogo diretto con le Sette Opere di Misericordia,The Man Who Bears the Cross (L’uomo che sorregge la croce), una scultura in cera a grandezza d’uomo. 

Sempre fino al 30 settembre, è allestita, nel cortile d’onore del Museo Madre,  con la curatela di Andrea VilianiMelania RossiLaura TrisorioThe Man whoMeasures the Clouds (L’uomo che misura le nuvole), in un’inedita versione in marmo di Carrara. L’opera è un rifacimento della versione in bronzo che fu posta, nel 2008, in Piazza del Plebiscito e, nel 2017, creando un effetto stupendo, sul terrazzo dello stesso museo. 

Invece, nella galleria Studio Trisorio, è esposto, a cura di Melania Rossi e Laura Trisorio, Tribute to Hieronimus Bosch in Congo (Omaggio a Hieronimus Bosch in Congo), una selezione di opere realizzate completamente con gusci di scarabei. Sono dei grandi pannelli e delle sculture in mosaico ispirati alla complessa vicenda, di potere e di morte, della conquista belga del Congo.

L’ispirazione storica s’intreccia alla simbologia medievale de “Il giardino delle delizie” il capolavoro di Bosch.

Nel frattempo a Capodimonte, c’è, sempre fino al 30 settembre, “Un restauro in mostra” con un’opera di Antonio Canova, studiata alla perfezione e la mostra, imperdibile, “Caravaggio e Napoli” Altri due protagonisti della scena culturale mondiale.

Adriana Dragoni

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La mostra a Capodimonte/La bellezza esce dai depositi e intreccia con gli spettatori una storia tutta da scrivere

Posted by on Mar 9, 2019

La mostra a Capodimonte/La bellezza esce dai depositi e intreccia con gli spettatori una storia tutta da scrivere

Dimenticare il brutto del quotidiano. Andare, per una full immersion nel bello, al Museo di Capodimonte. Che non ha la pesantezza tipica di un museo perché è una Reggia. Accogliente e ariosa, è stata appunto costruita, nel Settecento, dal Re Borbone, per contenere opere d’arte. E per abitarvi, contemplandole.
Oggi, ogni visitatore può girarvi nelle sale come un Re. La sensazione, per anni appannata, di trovarsi in una Reggia, è stata, da qualche tempo, ritrovata per l’attenta manutenzione di cui ora è oggetto l’edificio e per l’atteggiamento diverso del personale nelle sale, che ha abbandonato la sciatteria disinformata di un tempo. In più, da qualche settimana, l’illuminazione con centinaia di lampade a led ha creato, nel Salone delle Feste, la scintillante atmosfera di una fiaba principesca.
Mentre la “Flagellazione”, la famosa opera di Caravaggio (1571/1610) custodita qui, in una sala tutta per sé, è ora circondata da una cornice coeva che, in  complesse fitomorfiche curve, esprime il naturalismo barocco napoletano e storicizza l’artista, non più nume avulso dal tempo, riportandolo all’epoca sua. Il parco (grande due volte quello di Caserta.) che circonda la Reggia suggerisce chiaramente come l’arte si ispiri alla natura. Intorno all’edificio, i prati ora sono ben curati e c’è  la vista del mare dal Belvedere liberato dalla siepe che ne impediva la vista.

Questa sorta di révolution heureuse nella Reggia e nel Real Bosco riguarda anche la strategia culturale che vi viene attuata. Attenta a non  abbassare il livello della comunicazione culturale, diversamente da quella che ha l’unico fine di ottenere un maggior numero di visitatori, questa strategia mira a educare il pubblico all’arte e al bello sollecitandone le capacità e l’attenzione.
Un esempio ne è la mostra (dal 21/12/18 al 15/5/19)  “Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere”, intelligente nella impostazione, ricca di stimoli e di idee. Una sua originale caratteristica è l’attuale mancanza del catalogo, che sarà pubblicato al suo termine, per contenere i pareri degli esperti che converranno in un convegno internazionale e le osservazioni, i suggerimenti e i desideri dei visitatori.
Le 120 opere tirate fuori dai depositi (il 20 /100 circa di quelle lì conservate) sono dipinti, ceroplastiche, gessi, marmi, tessuti e armi, porcellane e terracotte. Tutte di pregio. Non sono presentate secondo una successione cronologica, secondo il prima e il dopo. Ma sono collocate in modo che si trovino vicine tra loro quelle che hanno tra loro delle analogie.
Qui si sfida anche il visitatore a trovare degli elementi in comune tra opere diverse e, in base a questi, raggrupparle e magari scoprirne lo sconosciuto autore. Se la prosa letteraria ha un linguaggio razionale, quindi pressappoco univoco, l’opera figurativa, invece, è, a suo modo, polivalente. Le somiglianze, quindi, possono trovarsi in base  a diversi elementi. In base alla materia usata, al colore, alla tecnica, al tema rappresentato, all’aspetto che vi viene evidenziato….Ogni opera racconta una sua storia, tutta ancora da scrivere.
Da un’ attenta osservazione delle opere si comprende anche la fallace superficialità del detto “Non è bello quel che è bello. E’ bello quel che piace.” Perché il Bello oggettivamente esiste. Ma piace all’osservatore quell’aspetto dell’opera d’arte che gli è più consentaneo, e quindi più per lui comprensibile. A questo si deve anche il criterio secondo il quale le opere sono state mandate nei depositi, da cui ora sono state tratte per questa mostra.
Vi sono state mandate perché non erano consentanee al gusto o al clima politico all’epoca o alle preferenze del critico al tempo più in auge. In proposito c’è l’eclatante esempio di Caravaggio (1593/1610), molto apprezzato ai tempi suoi ma poi a lungo tenuto in non cale. Finché, nel Novecento, un critico che allora andava per la maggiore, Roberto Longhi, lo riabilitò. Perché -come ancora si dice- a suo avviso Caravaggio aveva avuto il pregio di porre in primo piano la povera gente con i suoi piedi sporchi. Sebbene un valore maggiore potrebbe attribuirsi alla sua cancellazione, con la resa del buio, dello spazio canonico e la creazione, a volte, di uno spazio diverso, formato dai movimenti delle persone. Come nelle “Sette opere di Misericordia”, la prima opera che l’artista geniale produsse al suo arrivo a Napoli.
Tra i liberi accostamenti che in questa mostra si realizzano, c’è il confronto ravvicinato tra i personaggi ritratti nelle opere dell’Ottocento e in quelle del Seicento napoletano. Da cui appare chiara la diversissima sensibilità tra le due epoche. Il sentimentalismo ottocentesco rivela lo studio dei sentimenti, risentendo dello storicismo letterario, del positivismo e dell’eredità del neoclassicismo. Il Seicento napoletano rivela un’abundantia cordis irrefrenabile e la sensualità di una carnalità dirompente.
Tra le tante opere citiamo la veduta seicentesca di una irriconoscibile Messina, che dai terremoti, epocale quello del 1908, fu travisata del tutto. Ma, a prescindere dai luoghi, questa veduta rivela, nello stile della composizione avvolgente,  i suoi rapporti con l’arte napoletana. E ci viene in mente Antonello (Messina 1430/1479).
Molto interesse suscitano, tra gli oggetti in mostra, anche quelli portati in Europa dal Capitano James Cook e poi donati a Ferdinando di Borbone da Lord Hamilton, ambasciatore inglese presso la Corte Borbonica. Sono armi, un copricapo, una maschera di pelle e e altri oggetti provenienti dall’Oceania. Che testimoniano il senso della bellezza e dell’arte di un popolo ritenuto selvaggio. E suggeriscono un modo di vivere altro ma non per questo meno felice.
Nella stessa sala, statuette in terracotta riprendono precisamente le figure e gli abbigliamenti di popoli esotici vestiti nei loro abiti tradizionali. Sono riproduzioni perfette. Ma poco suggestive. La conoscenza storica è fatta anche di immaginazione. Prendendo spunto da tutti questi oggetti, Carmine Romano, curatore della mostra insieme a Maria Tamayo e ad altri collaboratori, tra cui Linda Martino, ha raccontato una storia su Ferdinando di Borbone. Questi, personaggio vitalissimo, amante delle donne e del suo popolo, con cui, quando poteva, si mischiava festaiolo, durante una festa carnevalesca del 1748 si era abbigliato alla turca secondo una moda esotica di fantasia. Un pittore francese, Joseph-Marie Vien (1716/1809), lo ritrasse insieme ai suoi e portò questi dipinti a Londra. Dove i membri dell’ambasciata turca li videro, e, rimanendone suggestionati, si abbigliarono a quel modo di fantasia. Se l’arte copia la vita, a volte anche la vita copia l’arte.
Le opere in mostra ritorneranno nei depositi? Sulla loro sorte non si hanno ancora notizie precise. Mentre c’è in progetto la creazione di un altro spazio espositivo in un grande edificio nel Real Bosco, quello che si trova di fronte la Reggia. Ma, nel frattempo, meglio andare a visitare queste “imperdibili” opere, prima che vadano in qualche deposito. E scompaiano alla vista.
LA MOSTRA
Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere 
Fino al 15 maggio
Per saperne di più
http://www.museocapodimonte.beniculturali.it/portfolio_page/depositi-di-capodimonte-storie-ancora-da-scrivere/

Adriana Dragoni


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Capodimonte è uno sballo di Adriana Dragoni

Posted by on Feb 17, 2019

Capodimonte è uno sballo di Adriana Dragoni

Il museo napoletano tira fuori dal suo deposito una serie di opere per una storia dell’arte ancora da scrivere, ripudiata dalla “moda” e dalla politica. Che riavvampa con gusto

La mostra “Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere”, in esposizione al Museo di Capodimonte di Napoli fino al 15 maggio 2019, è uno sballo, una sfida e una scommessa. Che sia anche un importante avvenimento lo si capiva già dai tanti giornalisti che affollavano la conferenza stampa nella magnifica Sala degli Arazzi, quelli che narrano della battaglia di Pavia del 1525. Di quando Napoli era capitale spagnola e il napoletano Francesco d’Avalos vinceva le truppe di Francesco I, quel re di Francia che aveva pianto il suo amico Leonardo (da Vinci) sul letto di morte. Anche questi arazzi sono stati per un po’ nella polvere di un deposito. Fin quando, nel 1998, non furono restaurati. Ora a Capodimonte, c’è, quale direttore, un altro francese amante dell’arte italiana, Sylvain Bellenger, che ha voluto questa mostra di opere tratte dai depositi del museo.

Già l’apertura di questi depositi è stato un fatto eclatante. Infatti, erano rimasti chiusi anche a lungo e si racconta che un tempo, con il successore del sovrintendente Raffaello Causa, ne fu vietato l’accesso finanche agli studiosi e all’ANISA-Associazione Nazionale Insegnanti Storia dell’Arte, dando adito a sospettosi perché. Ora finalmente sono visitabili. È c’è anche un video di presentazione, caricato su Youtube, in cui un uomo con un grande mazzo di chiavi avanza verso i depositi e li apre, come per liberare le opere, le vite, le storie che vi sono prigioniere. Il 20% di queste opere – e ne sono più di 1200 – costituisce la mostra. La sua preparazione ha coinvolto tutto il personale del museo, dai funzionari, ai restauratori, agli uomini di fatica. Si è lavorato tanto, fino all’ultimo momento. La mattina della conferenza stampa, c’erano ancora delle scope in un angolo e, su un tavolo, i bigliettini delle didascalie che sarebbero stati al proprio posto per l’inaugurazione nel pomeriggio. Nell’aria, grande entusiasmo. Soddisfatti i curatori, Carmine Romano e Maria Tamajo, sorridenti insieme ai loro collaboratori. Come Linda Martino che, vivace, leggera, quasi saltava di gioia. E più leggera era anche Aurora Giglio, la vivacissima presidente di MusiCapodimonte, l’associazione di promozione della musica popolare napoletana, (altra iniziativa osé del direttore Bellenger).

Ma quello che di straordinario, dirompente, “sballante” c’è in questa mostra intelligente è l’affermazione della libertà di pensiero, che si esprime nell’apparente disordine secondo il quale sono state collocate le opere. Che non seguono il filo di una logica progressiva, per esempio non sono state messe secondo un ordine cronologico del prima e del dopo. Qui si invita il visitatore a uscire dagli schemi già dati, lo si incita all’attenta osservazione della realtà e a usare una logica fondata su di essa, una logica analogica. E gli si suggerisce di lasciarsi guidare dalle suggestioni delle analogie. Che possono essere tante. Qui si sfida il visitatore a trovarle e magari, in base a queste, ad assemblare dei gruppi di opere e scoprirne gli sconosciuti autori. E si può accostare un’opera a un’altra per un’affinità nascosta, per il carattere dei personaggi rappresentati, per la forza dei loro sguardi, per l’espressività di questo o quel sentimento, per la costruzione degli spazi, per l’omogeneità del colore e così via. È una sfida e una scommessa. E può essere un test divertente, che rivela le capacità di ciascun visitatore. Da qui, da queste opere, tante idee, tante vite, tante storie. Ancora tutte da scrivere. I cataloghi, infatti, saranno pubblicati soltanto alla chiusura della mostra, arricchiti dalle osservazioni dei visitatori.

Ma come nascono i depositi dei musei?

A volte allo stesso modo con cui noi abbandoniamo, magari in fondo a un cassone, qualche vestito che ci è venuto in uggia o che non è più di moda ma potrebbe tornarvi e chi lo sa. Così un’opera museale vien messa in deposito non solo per mancanza di spazio, per un cattivo stato di conservazione e in attesa di restauro come gli arazzi d’Avalos ma, soprattutto, per un cambiamento del gusto di un’epoca, ha spiegato il Direttore. E anche, aggiungerei, per motivi politici. Capodimonte è diventato museo nazionale negli anni Cinquanta del Novecento. Molte sculture ottocentesche all’epoca furono messe da parte: la scultura non era più di moda. Perché, mentre la pittura si era evoluta, la scultura era rimasta ancorata ai vecchi schemi. Inoltre, dopo il referendum “monarchia o repubblica?” del ’46, le opere sfacciatamente savoiarde erano state confinate nei depositi. Da cui ora sono stati tirati fuori i busti di un compassato Umberto I e di un Vittorio Emanuele II dalla faccia assatanata. Nella stessa sala, accanto a questi busti, vi sono le sculture eseguite da Leopoldo di Borbone, le quali, per il 1860, dormivano nei depositi: c’è l’Angelo della Carità in gesso, di un dolcissimo sentimentalismo ottocentesco ma incorniciato dal curvo disegno, accentuato in senso astratto, di due grandi ali imponenti.

C’è, tra le sculture, anche un divertente tacchino perfettamente eseguito. È assurdamente seduto su un porco e attrae lo sguardo per l’originale composizione cui dà luogo. Molti sono i capolavori da scoprire in questa mostra, che vanta preziose porcellane e opere di Battistello Caracciolo, Bernardo Cavallino, Mattia Preti e anche di Luca Giordano che – notizia in anteprima – quest’autunno partirà, insieme a Vincenzo Gemito, per Parigi, dove alloggerà al Musée du Petit Palais.

Molto interesse suscitano anche gli oggetti in mostra portati in Europa dal Capitano James Cook e poi donati al re di Napoli Ferdinando IV da Lord Hamilton, ambasciatore inglese presso la Corte Borbonica. Sono armi e altri oggetti provenienti dall’Oceania, che testimoniano la civiltà e il senso della bellezza e dell’arte di un popolo ritenuto selvaggio. Un popolo allora dignitoso e libero perché era diverso dagli altri ma certo non era diverso da sé. Ammiriamo, tra l’altro, un aggraziato copricapo, dei bracciali e delle cavigliere femminili. Appartenevano a una principessa? Dov’è ora questa principessa che, regalmente, danzava muovendo le piume infilate nei bracciali e nelle cavigliere? Vola leggera nel cielo? Il suo popolo, camuffato dagli abiti occidentali, non esiste più. Nella stessa sala, statuette in terracotta riprendono precisamente le figure di popoli esotici vestiti nei loro abiti tradizionali. Sono riproduzioni perfette ma senz’anima. In occasione della mostra, altre novità: la Flagellazione caravaggesca è circondata da un cornice coeva. Mentre tante lampadine a led, imitando molto bene il brillante luccichio delle candele di un tempo, illuminano la favolosa Sala delle Feste.

E c’è anche un’altra novità: parte da questa mostra il progetto di digitalizzazione delle opere di Capodimonte, con l’uso dell’ultimissima tecnica della Art Camera «Per la quale si potrà distinguere anche il filo della tela di un dipinto. È perfetta più dell’occhio umano», dice il Direttore, entusiasta. Ma c’è chi dice di preferire conoscere l’opera nella sua realtà, sentire il suo magnetismo e di provare a volte il desiderio peccaminoso di toccare la ruvidezza di una tela, la profondità del legno di una tavola dipinta, di accarezzare le curve levigate di un marmo. E considera con raccapriccio la fotografia dell’opera un’astrazione, un suo avatar. Ma «Non vi potrebbe essere un manuale di storia dell’arte senza fotografie e sarebbe bello, ma non è pensabile, vedere tutte le opere d’arte in originale» dice Bellenger. E ha ragione.

Adriana Dragoni

fonte http://www.exibart.com/notizia.asp?IDNotizia=61207&IDCategoria=1


Giuseppe Casciaro, Paesaggio (Napoli da Posillipo)

Annibale Carracci (copia da?), Due giovani che ridono (1584/85 ca)
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