Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Anno Domini 1411: Roccasecca “caput Europae”….Mundi

Posted by on Set 20, 2019

Anno Domini 1411: Roccasecca “caput Europae”….Mundi

Nella sua “Storia delle Signorie Italiane” edita a Milano nel 1881, il Cipolla, accennando alla battaglia di Roccasecca del 19 maggio 1411, così scriveva: “Tutta Italia fu ripiena della fama di questa insigne battaglia”. Ricostruire, sia pure in sintesi, il contesto in cui maturò tale evento bellico non è operazione agevole. Morto nel 1386 Carlo III di Durazzo, il Regno di Napoli passava nelle mani dei suoi due figli, Ladislao e Giovanna, ancora bambini. I poteri, allora, vennero affidati a Margherita d’Angiò, moglie del defunto re. Ciò non impedì l’insorgere di una serie torbida di congiure provocate dai potenti baroni meridionali i quali, riconoscendo come loro sovrano il giovane Luigi II d’Angiò, nipote del re di Francia, indussero i transalpini a scendere in Italia. Nel 1391 i Francesi si impadronirono di Napoli costringendo la regina Margherita e i figli a rifugiarsi nella fortezza di Gaeta.

Soltanto nel 1399 Ladislao, ormai maggiorenne, poté rientrare in possesso del suo regno. Egli, per prima cosa, si preoccupò di ristabilire l’ordine interno frenando la prepotenza dei baroni. Quindi, poco adatto alla sedentaria vita di corte, dette inizio ad una lunga serie di operazioni militari. Nel 1403 si recò, come già suo padre, in Ungheria per impossessarsi della corona di Santo Stefano: l’impresa, però, fallì e fu costretto a tornare a Napoli. Sfumato il sogno balcanico Ladislao concentrò tutti i suoi sforzi sul territorio italiano, rivolgendo le sue mire sul vicino Ducato Romano. Profittando delle difficoltà della Chiesa alle prese con le prime avvisaglie del “grande scisma”, nel 1406 occupò Roma. Temendo la scomunica, però, si ritirò e stabilì una tregua con il pontefice. L’anno successivo Ladislao marciò di nuovo alla volta della Città Eterna che ben presto cadde nelle sue mani.
Il papa Giovanni XXIII, allora, si vide costretto ad assoldare un poderoso esercito per combattere i napoletani. Il comando fu affidato a Luigi II d’Angiò, l’antico rivale di Ladislao. L’angioino con 12.000 corazzieri guidati dai più celebri condottieri del tempo (Paolo Orsini, Muzio Attendolo detto lo “Sforza”, Braccio Fortebraccio da Montone), da Roma, seguendo la via Latina, si portò a Ceprano, ai confini del Regno. Il re Ladislao, invece, con i suoi capitani, tra cui Rostaino Cantelmo, conte di Alvito, da San Germano (l’odierna Cassino) spostò le sue truppe nella pianura di Roccasecca e allestì l’accampamento sulle sponde del Melfa. La mattina del 19 maggio 1411 gli angioini, guadato il fiume, assalirono con forza i reparti napoletani che, colti di sorpresa, non seppero resistere all’urto e si diedero a precipitosa fuga. Lo stesso Ladislao, ferito e deluso dall’esito della battaglia, dapprima si rifugiò nel vicino castello di Roccasacca e poi fuggì a San Germano trincerandosi nella munita Rocca Janula. Luigi d’Angiò aveva riportata una brillante vittoria nella battaglia di Roccasecca. Molti notabili, capitani e baroni napoletani caddero nelle mani degli angioini che raccolsero un ragguardevole bottino. A Roma si organizzarono grandi festeggiamenti per celebrare la vittoria con la quale si pensava di aver definitivamente messo fuori gioco l’irrequieto e bellicoso Ladislao. Si ignora dove la battaglia sia stata combattuta. Qualcuno propende per la contrada Nevali dove alla fine dell’800, in occasione dell’apertura di una strada rotabile, sono stati rinvenuti arnesi bellici, ferri, freni di cavalli, scimitarre nonché un numero impressionante di resti umani. Tornando alla vicenda bellica c’è da dire che i vincitori non seppero profittare della situazione favorevole.
Distolti da saccheggi e ruberie non riuscirono ad impedire la fuga di Ladislao il quale, riorganizzate le sue truppe, fu pronto a contrastare di nuovo gli avversari. Tanto che, con salace arguzia, il sovrano napoletano era solito affermare: “Nel primo giorno dopo la sconfitta che toccai i nemici avevano in mano la mia persona; al secondo il mio regno; al terzo né la mia persona né il mio regno”. Nel campo francese si giustificò l’inspiegabile inerzia con la grave perdita di cavalli subita nella cruenta battaglia. Sembra, però, che l’interruzione delle ostilità sia stata provocata soprattutto dal ritardo con il quale era stato versato il soldo alla milizia mercenaria e ai loro capi. Della qualcosa profittò abilmente il re Ladislao che provvide al riassetto del suo esercito ricomprando dai nemici soldati, armi e cavalli. Dopo aver sostato per alcune settimane nella malsana palude di Roccasecca, le truppe transalpine, decimate dalla malaria, ripiegarono su Roma. Poco dopo lo stesso Luigi d’Angiò, vista la precarietà della situazione, si imbarcò alla volta della Provenza lasciando campo libero ai napoletani. Ladislao, allora, invase nuovamente le terre della Chiesa costringendo il papa alla fuga. Giunto con le sue truppe a Narni, però, si ammalò gravemente. Qualcuno sostiene che sia stato avvelenato da una avvenente fanciulla del luogo che aveva tentato prepotentemente di concupire. Tornato a Napoli, nel 1414, ad appena 37 anni, rendeva l’anima a Dio lasciando il trono alla sorella Giovanna, detta “la pazza”. Dopo di che il regno cadde in preda ad un vortice ininterrotto di lotte intestine, di anarchia e di disordine che si protrarrà per buona parte del XV secolo.

Fernando Riccardi

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La leggenda dei Florio: quando la Sicilia riusciva a competere con il Nord

Posted by on Set 3, 2019

La leggenda dei Florio: quando la Sicilia riusciva a competere con il Nord

Uno sguardo sulla celebre famiglia di industriali

Quando si parla della difficile situazione economica e industriale della Sicilia, la questione spesso viene liquidata superficialmente o con affermazioni stereotipate del tipo “Tanto in Sicilia questi problemi ci sono sempre stati e non si può fare nulla per cambiare” o ancor peggio “La Sicilia si deve dare una mossa perché l’Italia è ormai da un secolo e mezzo che la mantiene”.

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COME GENNARO AGRILLO

Posted by on Ago 22, 2019

COME GENNARO AGRILLO

Prendo distanza da qualunque movimento meridionale politicizzato.
Il fregiarsi dello stemma di Casa Reale Borbone Due Sicilie indica solo ed esclusivamente appartenenza storico-culturale ad un Popolo che è esistito, che esiste e che continuerà ad esistere.

Vivere la vita come una colonna sonora su di un susseguirsi di immagini, passando da uno stato d’animo ad un altro.
La mente va, viaggiando attraverso l’infinito universo delle note.
Ad ogni passo un ricordo . . . bello . . . brutto . . . odioso . . . piacevolmente intenso.
Un viso, una frase pronunciata da qualcuno che credevo di aver dimenticato o di aver rimosso dalla mia vita . . . da qualcuno che ricordo con affetto, con amore, con passione, con tristezza, con dolore, con gioia.
Ad ogni passo il presente . . . con i suoi attimi già passati . . . perchè il presente non esiste . . . ciò che accade è già andato o sta diventando futuro di timori . . . di speranza . . . di quella che sarà o potrebbe essere la mia vita.

Gennaro Agrillo

fonte http://lazzaronapoletano.it/

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Il “Banco delle due Sicilie”: quando il Sud era il motore ricco dell’Europa

Posted by on Lug 20, 2019

Il “Banco delle due Sicilie”: quando il Sud era il motore ricco dell’Europa

Più o meno tutti, almeno una volta nella vita, a parte qualche rara eccezione, abbiamo cercato di far passare un’affermazione falsa come un’affermazione vera, in che modo? Molto spesso ripetendo quella falsità fino allo svenimento, un metodo talmente efficace, che alla fine anche noi stessi, crediamo, ideatori e autori della menzogna, che quest’ultima corrisponda alla verità.

È incredibile ma la nostra mente funziona così, pertanto la percezione che possiamo avere della realtà può variare molto in base a come essa viene raccontata. Ecco, similmente, questa tecnica comunicativa è stata utilizzata dalla propaganda e dalla retorica politica piemontese dopo l’unità d’Italia, facendo passare il messaggio che il Regno meridionale, oppresso dai Borbone, fosse una terra povera e arretrata e che il Settentrione si sarebbe impegnato per il suo sviluppo. Infatti non è casuale che oggi molti meridionali hanno perso, almeno in parte, la coscienza del proprio passato.

Il Regno delle Due Sicilie era lo Stato più ricco e all’avanguardia d’Italia e tra i più floridi in Europa. Uno degli indicatori di questa ricchezza ci proviene dal sistema bancario meridionale preunitario.

A Napoli nel 1539 fu fondato il “Monte di Pietà”, un istituto che aveva il compito di fornire prestiti a tasso zero a favore di coloro che si trovavano in una situazione di povertà, come garanzia si richiedeva un pegno. Dopo aver iniziato a svolgere attività bancaria e di deposito, nel 1584 l’istituto divenne un Banco. Così tra il ‘500 e il ‘600 a Napoli vennero fondati ben otto istituti bancari pubblici: il già citato “Banco di Pietà”(1539), il “Monte e Banco dei Poveri”(1563), il “Banco della Santissima Annunziata”(1587), il “Banco di Santa Maria del Popolo”(1589), il “Banco dello Spirito Santo”(1590), il “Banco di Sant’Eligio”(1592), il “Banco di San Giacomo e Vittoria”(1597) e il “Banco del Santissimo Salvatore”(1640), quest’ultimo, l’unico Banco a non essere legato ad istituti caritatevoli e assistenziali.

Siamo di fronte a un sistema bancario che pochi altri Stati dell’epoca potevano vantare. Alcuni importanti cambiamenti arrivano nel 1794, quando Ferdinando IV di Borbone istituisce il “Banco Nazionale di Napoli”, il quale aveva il compito di coordinare e controllare l’attività degli otto Banchi napoletani.

Nel 1806 il re Giuseppe Bonaparte rivoluzionerà l’assetto bancario del regno, infatti egli farà chiudere due Banchi, quello “del Popolo” e quello “del Salvatore”, inoltre creerà il “Banco dei Privati” che assorbirà i Banchi “della Pietà”, “dei Poveri”, di “Sant’Eligio” e dello “Spirito Santo”, infine il “Banco di San Giacomo” cambierà nome in “Banco di Corte”, con il compito di custodire e gestire il tesoro dello Stato.

Sarà invece il re Gioacchino Murat a mutare profondamente il sistema bancario meridionale attraverso la fondazione del “Banco delle Due Sicilie”, articolato in due rami, la “Cassa dei Privati” e la “Cassa di Corte”. Nel 1844 fu fondata la “Cassa di Corte” a Palermo e nel 1846 la “Cassa di Corte” a Messina, tre anni più tardi esse saranno fuse nel “Banco Regio dei Reali Domini al di là del Faro”. Ricordiamo che nel 1858 fu fondata la “Cassa di Corte” a Bari e nel 1860 la “Cassa di Corte” a Reggio Calabria e a Chieti. Insomma un apparato bancario veramente articolato e possente, a tal punto che nel 1860 il “Banco delle Due Sicilie” potrà vantare una ricchezza intorno ai 440 milioni di lire in monete d’oro, invece la ricchezza monetaria di tutti gli altri Stati italiani messi insieme non arrivava ad un valore di 230 milioni di lire, oltretutto una parte in cartamoneta.

Dopo il “sacco garibaldino”, quel poco che rimaneva del “Banco Regio dei Reali Domini al di là del Faro” fu confluito nel nuovo istituto “Banco di Sicilia”mentre il “Banco delle Due Sicilie” fu convertito in “Banco di Napoli” e venne amministrato da funzionari piemontesi, oltretutto avrà il compito, per 65 anni, di emettere moneta nel nuovo “Regno d’Italia”, fino a quando tale funzione sarà assunta nel 1926 dalla “Banca d’Italia”.

Quindi, già con lo sbarco di Garibaldi, il sistema bancario meridionale iniziò a subire danni irreparabili, per poi essere smembrato a partire dall’Unità d’Italia. Non è un caso se oggi il “Banco di Sicilia” è di proprietà di “Unicredit”, una banca milanese, e il “Banco di Napoli” di “Intesa-San Paolo”, un istituto di credito torinese.

Dal 1861 si assistette a un’enorme trasferimento di capitali dal meridione al settentrione e il processo fu anche incredibilmente veloce e spietato, infatti dopo qualche decennio dall’unificazione, di quel florido mondo bancario, costruito attraverso i secoli, non rimaneva che qualche traccia, gran parte ormai era stato sotterrato dalle macerie dell’opportunismo e della Storia e anche dal tentativo, in gran parte riuscito, di cancellare la memoria collettiva di quello che un tempo era uno dei sistemi bancari più ricchi d’Europa, quello del Regno delle Due Sicilie.

fonte https://www.ilsicilia.it/il-banco-delle-due-sicilie-quando-il-sud-era-il-motore-ricco-delleuropa/?fbclid=IwAR1nsnQ-YpL_oY542GIiHO5hRN8kZQ1–fotfH83kgThMy4nwq4OKe2gWUA

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Le Due Sicilie e il mare

Posted by on Lug 5, 2019

Le Due Sicilie e il mare

1734: LA RINASCITA

Amico, cominciamo anche noi ad avere una patria, e ad intendere quanto vantaggio sia per una nazione avere un proprio principe. Interessianci (interessiamoci, ndr) all‘onore della nazione. I forestieri conoscono, e il dicono chiaro, quanto potremmo noi fare se avessimo miglior teste. Il nostro augusto sovrano fa quanto può per destarne” (A.Genovesi, Lettera a Gioseppe De Sanctis, 3 agosto 1754). Il Sovrano di cui il Genovesi tesseva l’elogio era nientedimeno colui che aveva restituito la patria ai Duosiciliani nel 1734, il grande, indimenticabile Re Carlo III.

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