Posted by altaterradilavoro on Giu 19, 2019
“A Licata vennero chiusi in carceri le madri, le sorelle, i parenti dei contumaci alla leva, sottoposti a tortura fino a spruzzare il sangue delle carni; uccisi i giovinetti a colpi di frusta e di baionetta; fatta morire una donna gravida! Della stessa barbarie e degli stessi delitti si macchiarono i militari di Trapani, di Girgenti, di Sciacca, di Favara, di Bagheria, di Calatafimi, di Marsala e di altri Comuni…”
di Giovanni Maduli
vice presidente del Parlamento delle Due Sicilie-Parlamento del Sud®, Associazione culturale
Purtroppo non a tutti sono note le drammatiche e tragiche vicende che Siciliani e Meridionali tutti dovettero subire a seguito della cosiddetta Unità d’Italia. Molti – ma per fortuna sempre meno – si lasciano ancora cullare dalle favolette risorgimentali che per oltre centocinquanta anni ci sono state propinate, raccontandoci di “libertà”, di “progresso”, di “unità dei popoli italici”. Tutte fandonie volte a coprire la miserrima realtà dei fatti: una squallida e volgare annessione voluta da borghesia, sette segrete e potenze straniere con vari e diversi fini fra i quali,
principalmente, l’eliminazione di un Regno che, con l’avvicinarsi dell’apertura del Canale di Suez, era di ostacolo allo strapotere commerciale di quelle potenze; l’appropriazione dell’oro contenuto nei forzieri del Banco di Sicilia e del Banco di Napoli; l’ascesa al potere delle classi borghesi finanziarie e bancarie; l’eliminazione del potere temporale della Chiesa.
Tuttavia, ormai da anni e grazie al contributo di numerosi storici o semplici appassionati di Storia, la Verità sta tornando alla luce. Come noto, infatti, la Verità può essere nascosta, negata, sottaciuta, manipolata, smentita, cambiata, ridicolizzata, sottovalutata e quant’altro e per molto tempo; ma non può essere uccisa. Essa prima o poi ritorna in auge, nuda e pura, come nuda e pura la volle giustamente il Botticelli nel suo celebre dipinto “La calunnia”.
E la Verità in vero non necessita di “giustificazioni”, di “orpelli”, di “coperture”. Certamente possono esservi varie e diverse interpretazioni di Essa; interpretazioni dovute, ad esempio, a diverse valutazioni su determinati fatti o circostanze; ovvero dovute a documentazioni e testimonianze ritenute autentiche fino ad un certo momento, o altro ancora.
Ma determinati “fatti documentati” e determinate “circostanze documentate” non possono rientrare in quelle “interpretazioni” di cui sopra: esse costituiscono l’ossatura, l’impalcatura e le fondamenta di una Verità ormai innegabile e irreversibilmente tornata a nuova vita.
Al fine di contribuire modestamente alla diffusione di certi fatti e circostanze documentate, iniziamo oggi la pubblicazione di alcuni stralci di testimonianze e accadimenti che certamente non possono andare soggette a dubbi, a perplessità o a interpretazioni di sorta. Stralci che appunto abbiamo voluto chiamare “Schegge di Storia”.
– Da un discorso del deputato Vito D’Ondes Reggio alla Camera sappiamo che:
”Devo esprimere a voi fatti miserandi e sui quali il ministero non accetta inchiesta. Eppure non si tratta di partiti politici; ma dei diritti, della giustizia e dell’umanità orrendamente violati! I siciliani non hanno mai avuto leva militare, e repugnano ad essere arruolati… il Governo ha fatto una legge eccezionale, che è eseguita con ferocia…il comandante piemontese Frigerio, il 15 di agosto del 1863, intima al Comune di Licata, 22 mila abitanti, di far presentare entro poche ore i renitenti alla leva privando l’intera città di acqua, vieta ai cittadini di uscire di casa pena la fucilazione istantanea e di altre più severe misure.
A Licata vennero chiusi in carceri le madri, le sorelle, i parenti dei contumaci alla leva, sottoposti a tortura fino a spruzzare il sangue delle carni; uccisi i giovinetti a colpi di frusta e di baionetta; fatta morire una donna gravida!
Della stessa barbarie e degli stessi delitti si macchiarono i militari di Trapani, di Girgenti, di Sciacca, di Favara, di Bagheria, di Calatafimi, di Marsala e di altri Comuni…
Un altro comandante piemontese dispone l’arresto di tutti coloro dai cui volti si sospetti d’essere coscritti di leva, e anche l’arresto dei genitori e dei maestri d’arte dei contumaci: questo avveniva a Palermo. Il prefetto, interpellato, rispose che nulla sapeva e nulla poteva (1).
A Petralia una capanna fu circondata dalla truppa, non per prendere un coscritto ma per chiedere informazioni; gli abitanti erano tre, padre, figlio e figlia, furono bruciati
accadimenti che certamente non possono andare soggette a dubbi, a perplessità o a interpretazioni di sorta. Stralci che appunto abbiamo voluto chiamare “Schegge di Storia”.
– Da un discorso del deputato Vito D’Ondes Reggio alla Camera sappiamo che:
”Devo esprimere a voi fatti miserandi e sui quali il ministero non accetta inchiesta. Eppure non si tratta di partiti politici; ma dei diritti, della giustizia e dell’umanità orrendamente violati! I siciliani non hanno mai avuto leva militare, e repugnano ad essere arruolati… il Governo ha fatto una legge eccezionale, che è eseguita con ferocia…il comandante piemontese Frigerio, il 15 di agosto del 1863, intima al Comune di Licata, 22 mila abitanti, di far presentare entro poche ore i renitenti alla leva privando l’intera città di acqua, vieta ai cittadini di uscire di casa pena la fucilazione istantanea e di altre più severe misure.
A Licata vennero chiusi in carceri le madri, le sorelle, i parenti dei contumaci alla leva, sottoposti a tortura fino a spruzzare il sangue delle carni; uccisi i giovinetti a colpi di frusta e di baionetta; fatta morire una donna gravida!
Della stessa barbarie e degli stessi delitti si macchiarono i militari di Trapani, di Girgenti, di Sciacca, di Favara, di Bagheria, di Calatafimi, di Marsala e di altri Comuni…
Un altro comandante piemontese dispone l’arresto di tutti coloro dai cui volti si sospetti d’essere coscritti di leva, e anche l’arresto dei genitori e dei maestri d’arte dei contumaci: questo avveniva a Palermo. Il prefetto, interpellato, rispose che nulla sapeva e nulla poteva (1).
A Petralia una capanna fu circondata dalla truppa, non per prendere un coscritto ma per chiedere informazioni; gli abitanti erano tre, padre, figlio e figlia, furono bruciati vivi per non aver voluto aprire (2).
1) Carlo Alianello, La conquista del Sud, Rusconi Editore, pag. 200)
(2) Carlo Alianello, Ibidem, pag. 301)
– Da un discorso in Parlamento del 10 dicembre 1861 di Francesco Crispi, veniamo a conoscenza di quanto segue:
“La causa principale di questo malessere è il governo attuale. Dell’insipienza e della poca moralità dei giudici e dei delegati di pubblica sicurezza il governo è responsabile. Vi ho parlato di individui arrestati arbitrariamente, di individui che soffrono pene non decretate dal Codice, di individui uccisi a capriccio, e tutto questo significa nessun rispetto alle leggi. Pertanto le popolazioni non possono avere fiducia né negli uomini che amministrano la Sicilia, né negli uomini che governano l’Italia…”.
– T. Romano – Sicilia 1860 – 1870; una storia da riscrivere, ed. ISSPE, pag. 63.
– Ancora, da quanto riportato dal prof. Tommaso Romano nel suo ottimo Sicilia, 1860 – 1870, Una storia da riscrivere, apprendiamo che:
“Naturalmente nel paese fu tenuto lo stato d’assedio e le stesse misure furono applicate a Sciacca, Caltanissetta, Girgenti, Favara, Trapani, Calatafimi, Bagheria dove si registrarono molti arresti anche di donne e bambini, solo perché parenti di renitenti.
A Gangi, altro grosso paese della provincia palermitana, alla fine di ottobre, il maggiore Volpi dovendo arrestare il renitente Giuseppe Antonio Gilibrasi e non avendolo
trovato, arrestò la moglie incinta la quale dovette lasciare a casa i figli ancora piccoli da soli chiusi a chiave.
La povera donna, successivamente abortì.
L’8 novembre al termine delle ‘indagini’ sul fatto di Gangi, il Prefetto scrisse al Sottoprefetto di Cefalù che l’arresto “non può dirsi né arbitrario né illegale”.
– Tommaso Romano, Sicilia, 1860 – 1870, Una storia da riscrivere, ISSPE edizioni,
pag. 98.
fonte https://www.inuovivespri.it/2019/04/23/schegge-di-storia-la-sicilia-subito-dopo-lunita-ditalia-ecco-come-i-piemontesi-ammazzavano-i-siciliani/
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Posted by altaterradilavoro on Giu 9, 2019
Non mi sembra che siamo ancora pronti per il satyagraha, la lotta nonviolenta di liberazione. Ma possiamo almeno cominciare a parlarne.
Praticare la noncollaborazione e la disobbedienza civile, sostenendo i sacrifici necessari e accettandone le conseguenze repressive che potranno provocare, è un metodo in grado di scalfire lo strapotere del Nord Italia che, pesantemente, ci toglie il respiro e che trova, oggi, la sua manifestazione più meschina e ingiusta nel progetto della cosiddetta autonomia di Emilia Romagna, Lombardia e Veneto.
I settentrionali ci accusano di essere un giogo sulle loro spalle, in realtà siamo noi che facciamo quadrare i conti del Nord: acquistando le sue merci, andandoci a curare nei suoi centri specializzati, mettendo il denaro nelle sua banche, accendendo polizze con le sue compagnie di assicurazione, iscrivendo i giovani nelle sue università, fornendo soldati per le guerre utili soprattutto al sua sistema economico. Noi siamo, insomma, il loro forziere da cui estrarre energie umane e naturali, ricchezze, braccia, cervelli. Siamo la grande riserva del Nord, di cui esso non sa fare a meno e che perciò vuole mantenere sotto il suo controllo. Il recupero della libertà delle nostre Due Sicilie cozza frontalmente con gli interessi del Nord e con quelli dei nostri rappresentati politici ad esso asservitisi.
Il legittimo malcontento della popolazione duosiciliana, per le condizioni di povertà e la carenza di servizi, non deve essere più rivolto verso se stessa, in un bagno di colpevolezza e vergogna che ci hanno insegnato opportunisticamente a compiere, ma verso il reale artefice del nostro penare: l’Italia colonizzatrice, le cui ingiurie noi portiamo ogni giorno sulla pelle da oltre 150 anni.
Dobbiamo, dunque, prendere coscienza della debolezza del sistema coloniale –che ha bisogno della nostra collaborazione per restare in piedi- ed unirci nella lotta per la libertà. Superiamo la sottomissione e il senso di inferiorità verso i colonizzatori italiani! Ma oltrepassiamo anche l’alienazione di credere che l’Italia unita sia un valore a qualsiasi prezzo, e abbandoniamo l’opportunismo di metterci alla tavola dei padroni per ottenere una fetta del loro bottino.
Davanti alla nostra noncollaborazione e disobbedienza civile, useranno la repressione: impariamo, allora, a trasformare la debolezza delle apparenti sconfitte in una posizione di forza. Come i fiori fanno col vento: le lacrime del loro sacrificio sono il polline fecondo che porta frutti di cambiamento, sparso proprio dal vento mentre imperversa. Alla fine questi troverà più conveniente smettere di soffiare, comprendendo che la sua impetuosità si ritorce contro se stesso.
Dobbiamo intraprendere la lotta di liberazione coniugandola con la rivendicazione della nostra identità e plurisecolare unità, puntando ad un modello di comunità e di sviluppo che sia totalmente diverso da quello, violento, razzista e inquinante, che il Nord pretende ancora oggi di imporci e farci apprezzare.
Antonio Lombardi
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Posted by altaterradilavoro on Giu 5, 2019
In Sicilia,
l’effervescenza della primavera 1860 esplose, dopo lo sbarco dei Mille a
Marsala, in sollevazioni popolari con razzie degli ammassi, devastazioni di
archivi notarili, catasti e Municipi, occupazione di terre. Specie dopo il
decreto del 2 giugno, con cui Garibaldi prometteva l’assegnazione dei fondi
demaniali, braccianti e contadini si sentirono legittimati a rivoltarsi e
occupare i terreni usurpati, a prendersi la libertà promessa – libertà dal
giogo e dalla miseria. Si
combatteva, insomma, una guerra parallela a quella “italiana”, la rivolta
contro gli eterni assetti sociali, la fame, la persistente soggezione feudale.
Nella prima fase della
spedizione, Garibaldi cercò con abilità di tenere insieme le rivendicazioni di
tutti, patrizi e plebei, radicali e moderati, autonomisti e unitari,
incanalando le loro battaglie contro il comune nemico borbonico; ma una volta
istituito il governo
dittatoriale, di fronte al radicalizzarsi dello scontro sociale, il Dittatore è costretto a scegliere. Supportato
dai continui sbarchi di soldati piemontesi e veterani stranieri, Garibaldi si
libera dell’ala popolana e radicale del suo schieramento e, per continuare ad
apparire agli occhi del Piemonte e delle potenze europee, come custode
dell’ordine tradizionale e nemico di ogni deriva rivoluzionaria, dalla metà di
giugno il suo governo, retto da Crispi, passa decisamente alla repressione
delle rivolte. Scriverà con amarezza lo scrittore Ippolito Nievo,
vice-intendente della spedizione in Sicilia, che ora alle camicie rosse toccava di fare i carabinieri contro gli alleati di
ieri.
La situazione di Bronte
Ma a Bronte, sul versante
etneo occidentale, accadrà qualcosa di più, si allestirà una repressione
spettacolare, con fucilazioni e processi. A Bronte comandavano gli inglesi, i
principali protettori della spedizione garibaldina, e non avevano alcuna
intenzione di risultarne le prime vittime; bisognava rendere evidente a tutti
che Garibaldi avrebbe scongiurato il rischio di una rivoluzione sociale.
Quelle terre, estese per
migliaia di ettari, furono donate da Ferdinando I di Borbone, come ricompensa
per il ruolo svolto nella riconquista di Napoli dopo i fatti del 1799, all’ammiraglio inglese Horatio
Nelson. Era una donazione perpetua con diritto di “ducea”, cioè, riprendendo
antiche consuetudini feudali, con autorità giurisdizionale civile e penale
nonché potere di imporre servitù e gabelle. La presenza della ducea
condizionava anche la vita politica locale. Classe dirigente e decurioni civici si dividevano in
“ducali”, sostenitori dell’assetto esistente della ducea e delle usurpazioni, e
“comunali”, che rivendicavano il passaggio della ducea al Comune e, ma solo i
più radicali, la divisione dei latifondi con distribuzione di quote ai
contadini.
La rivolta delle coppole
Leonardo Sciascia (“Verga
e la libertà”, in La corda pazza, pp.
94-96) ha descritto la durissima vita dei braccianti, considerati gli ultimi
nella scala sociale isolana, simili a bestie che con ostinazione faticano,
zappano, arano, sotto le intemperie o il solleone e, se fortunati, dispongono
saltuariamente di pane nero raffermo, cibandosi per lo più con acqua di cisterna, bacche, radici e
verdure. La povera gente sperava che le cose potessero migliorare con la
formazione di un consiglio civico non più espressione di latifondisti e
notabili; ma alle nuove elezioni, a base censuale ristretta, vinsero ancora i
conservatori, accendendo la rabbia dei ceti poveri e subalterni.
All’avvicinarsi di Garibaldi e confidando in quel decreto del 2 giugno, i
contadini-vassalli di Bronte si ribellarono, in nome della libertà, cioè per la
terra e contro la soggezione e la miseria ma anche per l’abolizione della
feudale ducea. Le coppole insorsero e
come furie si rivoltarono contro i cappelli.
La rivolta, iniziata il 29 luglio, esplose violenta tra il 2 e il 3 agosto
1860: disordini, caccia ai signori, regolamento di vecchi conti, incendio del
catasto – ritenendo che distrutti i titoli di proprietà o possesso sarebbe
stato più facile dividere la terra. Fu un crescendo di eccitazione e furore,
con posti di blocco, incendi, spari nell’aria, proclami minacciosi urlati a
piena voce, 16 uccisioni.
Pressato dai Consoli
inglesi in Sicilia, Garibaldi decise di intervenire. Il 4 agosto giunse a
Bronte una compagnia della guardia nazionale, limitandosi però a parlamentare
con gli insorti senza forzare la situazione. Il 6 agosto arrivò invece Nino
Bixio, con due battaglioni e la raccomandazione di reprimere con il massimo
rigore la rivolta. Sapeva Garibaldi di poter confidare sul buon esito della
missione, essendo note l’arroganza e la ferocia del suo generale.
La rappresaglia
I capi della rivolta e gli
insorti più violenti, frattanto, si erano rifugiati fuori dell’abitato, fra
boschi e alture. Bixio decretò subito lo stato d’assedio e la consegna delle
armi, imponendo pure una tassa di guerra. Fece affiggere un avviso che
dichiarava Bronte “colpevole di lesa umanità”. Dopodiché iniziò una
rappresaglia feroce e indiscriminata, ma in paese non sui monti. Fece arrestare
5 uomini indicatigli dai “ducali”, fra cui l’innocuo scemo del paese – a ogni
evidenza del tutto infermo di mente, colpevole di aver girato per le vie
cittadine col capo cinto da un fazzoletto tricolore profetizzando, poco prima
della rivolta, amare sciagure ai galantuomini – e l’avvocato Nicolò Lombardo,
notabile locale e vecchio liberale “radicale”, ma definito da Bixio un
reazionario borbonico: sarà arrestato con l’accusa di non aver tenuto a freno
la violenza contadina ma, in realtà, perché espressione degli interessi
comunali e popolari contro quelli di usurpatori e “ducali”.
Processo farsa
Una Commissione mista di guerra, presieduta dal maggiore De Felice,
celebrò una parodia di processo, durato appena quattro ore, senza riconoscere
alcun diritto di difesa. Era la sera del 9 agosto, fu data agli imputati appena
un’ora per presentare per iscritto le ragioni a loro discolpa. A parte
l’avvocato, gli altri erano analfabeti. Impiegarono due ore e il “tribunale”
respinse il documento. Alle 8 di sera era tutto deciso: cinque condanne a
morte, pronunciate in nome di re Vittorio Emanuele II, seppure non ancora re
d’Italia. Il 10 agosto 1860, all’alba, furono fucilati davanti alla
cittadinanza nella piazzetta della chiesa di San Vito. Durante il percorso
dalla prigione alla piazza, il matto continuava a baciare uno scapolare che
portava al collo mormorando con convinzione il suo auspicio – La Madonna mi salverà! Un ufficiale
lesse la sentenza, poi le scariche di fucileria, i corpi caduti uno sull’altro.
Il matto era ancora vivo, si gettò ai piedi di Bixio: Grazia, grazia, la Madonna mi ha fatto la grazia, adesso fatemela voi!
Ma il generale ordinò al sergente Niutti di ammazzare
quella canaglia e così il matto ricevette il colpo di grazia. I cadaveri
furono lasciati fino a sera sul luogo dell’esecuzione, come monito
intimidatorio.
L’epilogo
Il 12 agosto Bixio annuncia al mondo che a Bronte è stata ripristinata la legalità – seppure in tempi di invasione di uno Stato sovrano, di una guerra in corso anche se non dichiarata, di una rivoluzione invocata o promessa, di un aleatorio e inapplicato decreto di quotizzazione delle terre. Bixio scriverà che gli assassini e i ladri di Bronte sono stati severamente puniti, che è compito del governo valutare il reintegro di ciascuna terra demaniale e chi proverà a farsi giustizia da sé sarà trattato da sovversivo – cioè, esattamente come era stato fino allora. Gli esponenti dell’establishment del vecchio regime diventano in buona sostanza i sostenitori e i beneficiari della “rivoluzione” di Garibaldi, mentre coloro che in nome di Garibaldi si rivoltavano contro le antiche concentrazioni di proprietà e potere vengono trattati come sovversivi di stampo borbonico. Un secondo processo in Corte d’assise a Catania comminerà, nel 1863, 37 condanne, di cui 25 ergastoli. Nell’arringa difensiva, l’avvocato Michele Tenerelli Contessa sosterrà, inutilmente, che la rivolta dal 2 al 5 agosto 1860 era stata la “brutale confermazione” della rivoluzione partita da Marsala, della chiamata alle armi del popolo contro il nemico, cioè contro il Borbone e contro quei Brontesi che si opponevano al riscatto dei ceti subalterni, alla libertà da soggezione e miseria, alla distribuzione della terra. Ma in Sicilia i giochi erano ormai fatti e non era più tempo di ipocriti infingimenti.
fonte
https://gerardogiordanelli.it/bronte-1860-un-eccidio-che-i-libri-di-storia-non-raccontano/?fbclid=IwAR2wdjgmFCOSZqm0KgzrYuEGhjO_2r_q2KauOWzO8oddDTSNaajK-2hqSSw
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Posted by altaterradilavoro on Mag 30, 2019
I segni della damnatio
memoriae che i Savoia all’indomani dell’unità d’Italia (annessione del Regno
delle Due Sicilie al Regno di Sardegna), perpetrarono ai danni della dinastia
Borbonica sono davvero tanti; stemmi ricoperti, toponomastica cambiata, re fatti
cadere nell’oblio. Mi riferisco ai re successivi a Carlo, che comunque viene
ricordato come re di Spagna, e non come il primo re borbonico che ridiede
dignità e indipendenza al Regno delle Due Sicilie sottraendolo dalla sfera di
influenza spagnola.
I discendenti di
Carlo, da Ferdinando in poi, quelli che diedero vita al ramo dei Borbone di
Napoli e che seppero continuare quel periodo di governo lungimirante improntato
all’innovazione e alla cultura inaugurato proprio da Carlo di Borbone (non III
di Spagna; ahimè, io sono proprio originaria di quella piazza napoletana che
reca nell’intitolazione al sovrano, proprio tale numerazione), per i Savoia
dovevano scomparire dalla memoria di tutti i napoletani (come si può notare
osservando i sovrani di Napoli fatti posizionare nelle nicchie della facciata
del palazzo reale cittadino da casa Savoia). Ma l’arte non si distrugge cari
miei, ed ecco che dal Largo di Palazzo (Piazza del plebiscito se preferite)
ergono trionfanti le due statue equestri raffiguranti padre e figlio, Carlo e
Ferdinando, in posa e in abiti classici, in una delle più grandi piazze di
Napoli, apoteosi del Neoclassicismo, non per niente fatte eseguire da Canova, e
portate a compimento dal suo allievo Calì.
Ma l’arte a volte si può coprire, occultare con degli
artifizi, offuscare alla vista mediante stratagemmi. Questo è il caso per me
più eclatante, di cui tanti napoletani ancora oggi non si accorgono, di come i
Savoia scalzarono in ogni modo la memoria storica di una dinastia che per la città
e per tutto il regno aveva fatto tanto bene.
Avete presente il Real Teatro di San Carlo, la prima
grande impresa artistica in cui si imbarcò Carlo appena diventato sovrano, con
esiti straordinari, sia per realizzazione che per tempistica, perché capì che
una grande corte europea, prima di una reggia aveva bisogno del suo gran
salotto, un luogo d’arte, dove potersi intrattenere anche per altro, che
accogliesse in special modo il fior fiore della diplomazia straniera.
Teatro che ahimè andò distrutto in un incendio
successivamente, ma che il figlio e successore di Carlo, Ferdinando, seppe far
ricostruire con la stessa tenacia e velocità di suo padre.
Quel Teatro, simbolo nella città della grandezza e magnificenza della corte
borbonica, fu volutamente sfregiato dai Savoia; no certo, mica lo toccarono o modificarono.
La cosa non doveva apparire, doveva sfuggire, doveva essere in una parola
subdola.
I grandi monumenti e le grandi architetture hanno
bisogno di aria, del loro spazio per poter essere ammirate, per poterne
apprezzare l’intero aspetto prospettico, nonché senz’altro la facciata
principale dell’opera.
Ora
io non sono un architetto ma una semplice estimatrice dell’arte e di tutto ciò
che di bello ci circonda, ma il fatto di
non poter godere della vista della facciata del Teatro San Carlo in lontananza,
mi fa un po’arrabbiare; dopo l’arrabbiatura, rifletto, e penso, sempre non da
intenditrice, che forse quella vista avrei potuto godermela se tra il 1887 e il
1890, qualcuno non avesse fatto costruire la Galleria Umberto I, proprio in
quel punto, di fronte la facciata del magnifico teatro della mia città, il più
antico teatro lirico d’Europa.
Ripeto, io non sono una cima in merito, ma perché
costruire un monumento maestoso quasi attaccato ad un altro? Che senso ha?
Personalmente non credo di averlo riscontrato altrove; se non ci avete mai
fatto caso, rifletteteci, forse il mio discorso non è completamente campato in
aria.
Una domanda: qualcuno si ricorda dove si trova l’altra galleria saboiarda fatta costruire nella città di Napoli? Semplice, probabilmente di fronte a un’altra architettura costruita durante il governo di un re Borbone… controlliamo?
Cinzia Perrone
fontehttps://giustinutrimenti.blogspot.com/2018/09/la-facciata-soffocata.html?fbclid=IwAR3Ijlrmn8kadx9DcezcUiIXFn79mGvLrKwOpQVMHxmK6-NxehL7uxnbG6I
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Posted by altaterradilavoro on Mag 3, 2019
Il
10 maggio 1734
Carlo di Borbone, figlio di Filippo V di Spagna, entrò trionfante a nella città
di Napoli
rendendola capitale di uno Stato indipendente.
Dopo
varie vicende che riguardavano la lotta per la successione alla corona spagnola
tra i Borbone di Francia e gli Asburgo d’Austria, alla morte precoce e senza
eredi di un Carlo II deforme e malaticcio fin dalla nascita (a causa dei
matrimoni tra consanguinei), nel 1707 gli Austriaci invasero il
Regno di Napoli, mentre il Regno di Sicilia, che dal 1713 fu
dato a Vittorio Amedeo II di Savoia, nel 1720 passò ancora agli Austriaci, che
riuscirono dunque a riunire sotto un’unica corona il territori del Mezzogiorno
d’Italia. Gli Asburgo, che avevano promesso al
popolo e alla nobiltà napoletani che sarebbero stati governati in un regno
indipendente, senza essere una semplice provincia austriaca, smentirono
tale proposito deludendo gran parte di coloro che speravano nell’indipendenza
stessa, creando un certo smembramento all’interno del Regno di Napoli.
La parentesi austriaca tuttavia durò
poco, perché il figlio del Re di Spagna prese il Regno di Napoli, come abbiamo
detto, nel 1734, entrando a Napoli il 10 Maggio. Il pretesto dello scontro armato tra
Spagna e Austria fu ancora una volta la successione a una
corona, stavolta quella polacca, che all’epoca non si trasmetteva
ereditariamente, bensì era elettiva. Una prima elezione fu resa nulla a
causa della mobilitazione delle truppe armate da parte della Russia, alleata
dell’Austria, e così alla seconda fu scelto come Re Federico Augusto II,
sostenuto proprio da queste due potenze. La Francia e il Regno di Sardegna,
allora, mossero guerra all’Austria, e in seguito a difficili
trattative nell’alleanza rientrò pure la Spagna, grazie soprattutto a Elisabetta
Farnese, la madre di Carlo, che desiderava per il figlio quella
che definì “la più bella corona
d’Italia”. In seguito i rapporti tra la Spagna e gli alleati
si incrinarono, e Carlo partì per Napoli da Parma, dando contestuale ordine di trasferire
l’imponente collezione Farnese, di sua proprietà, e
che ancora
oggi possiamo ammirare tra Capodimonte e il Museo Archeologico di Napoli,
prevedendo un possibile tradimento dei Francesi e dei Piemontesi.
Dopo
la discesa dello stivale, il passaggio autorizzato dal Papa attraverso lo Stato
della Chiesa e le prime conquiste, don Carlo entrò a Napoli il 10 Maggio 1734, festeggiato
dal popolo stanco della dominazione austriaca e dai nobili, i
quali vedevano rinnovate le speranze di indipendenza. Le resinstenze
austriache, tuttavia, erano tutt’altro che domate, e gli Spagnoli dovettero
conquistare le roccaforti una ad una: il 26 maggio ci fu la storica
battaglia di Bitonto, vicino Bari, dove ancora si svolge la rievocazione
degli avvenimenti dell’epoca, in ricordo del punto di avvio di una nuova
prosperità per il Mezzogiorno, fino al 24 Novembre, con la caduta di Capua. Nel 1735
Carlo scacciò gli Austriaci anche dalla Sicilia,
venendo incoronato Re di Sicilia il 1735, a Palermo. I due Regni saranno poi
uniti anche formalmente nel 1816 dal figlio di Carlo, Ferdinando, dando vita al Regno delle Due Sicilie.
A Napoli, secondo l’investitura papale, fu Carlo VII, in Sicilia Carlo III,
però egli scelse di non usare nessuna titolatura perché i
sovrani precedenti regnarono da un trono straniero: il Re identificò
se stesso, a questo punto, semplicemente come “Carlo”.
Don
Carlo, il buon Re, fu un sovrano amato dal popolo e
che amò il popolo,
tanto che, dovendo abbandonare Napoli perché la corona spagnola nel 1759 era
rimasta senza eredi, se ne andò palesemente controvoglia; in Spagna divenne
Carlo III, non essendoci, questa volta, alcuna diatriba circa la numerazione.
Nel frattempo Carlo aveva avviato una serie di interventi
che
faranno prosperi i suoi regni, e di Napoli una delle principali capitali
d’Europa.
Inaugurò gli Scavi Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia, oltre alle
costruzioni del Teatro di San Carlo, le Regge di Portici e Capodimonte, il Foro
Carolino (l’attuale Piazza Dante a Napoli), la Reggia di Caserta, gli Alberghi
dei Poveri a Napoli e Palermo, oltre ad altri diversi interventi in tutti
i suoi territori, in particolar modo di tipo amministrativo e politico. Il riportare
alla luce le città sepolte dal Vesuvio creò grande entusiasmo in tutta
l’Europa, vale a dire in tutto il mondo, e Napoli divenne la meta finale e più preziosa del Gran
Tour; lo stesso Re Carlo si recava spessissimo a
controllare lo stato degli scavi, e portava sempre al dito un anello che aveva
trovato a Pompei, l’anello che poi restituirà in quanto di proprietà del popolo
napoletano, quando se ne partì per la Spagna. Imparò la Lingua Napoletana
per essere in grado di capire e comunicare con il suo popolo e, secondo una
leggenda, in Spagna portò con sé anche un po’ del sangue di San Gennaro.
Francesco Pipitone
fonte https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/storia/89928-10-maggio-1734-napoli-diventa-capitale-uno-indipendente-sara-prospero/?fbclid=IwAR3juovhqjiw2RQDh-VrPonG9Pdjbb9XUoqQ8hUfP0uzQ_gkOmhV9vS6ofU
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Posted by altaterradilavoro on Mag 1, 2019
«e quel corno d’Ausonia
che s’imborga di Bari,
di Gaeta e di Catona
da ove Tronto e Verde
in mare sgorga…»
Paradiso, Canto VIII
I versi in evidenza sono presenti nel Terzo Cielo del Paradiso, Canto VIII, della Divina Commedia di Dante Alighieri quello di Venere, dove il poeta pone gli spiriti amanti.
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