Posted by altaterradilavoro on Apr 12, 2019
L’ approfondimento che segue è un interessante studio
di Ugo Zannini, La scomparsa di Sinuessa e l’invenzione del suo episcopato,
pubblicato sulla Rivista Storica del Sannio, 23, 3^ serie – anno XII. Le stesse
note a piè di questo articolo sono un ulteriore approfondimento dell’argomento
in oggetto per cui, per una miglior lettura, le trascriverò come articolo
a parte.
Nella passio sanctorum
Casti et Secondini (5) si narra la storia dei due martiri,
appuntoCasto (6) e Secondino (7), il
primo vescovo di Sessa Aurunca (8) ed il secondo di Sinuessa, imprigionati e torturati dal preside Curvus, il quale pur avendo assistito ai
numerosi miracoli di questi santi, infligge loro ogni sorta di sofferenze. Il
preside, però, prima di vedere morti i santi Casto e Secondino perirà sotto le
macerie del tempio di Apollo. Solo dopo questo evento voluto da Dio sarà
possibile ai “cultori degli idoli” uccidere, nel 292 presso Sinuessa, i santi trafiggendoli con la spada.
La passio, però, se
analizzata attentamente, risulta essere stata composta in un tempo
relativamente recente (XI sec.), comunque lontanissima dai presunti avvenimenti
del III secolo d.C. Il genere letterario è ben noto agli agiografi moderni: la
prolissità è in simbiosi con un racconto dai toni drammatici in cui l’elemento
prodigioso sovrabbonda senza necessità e verosimiglianza. Ci troviamo,
cioè, di fronte a quelle vite “romanzate” in cui il biografo, a corto di
dati sul santo, era costretto a scriverne la storia immaginandosi le
persecuzioni, le scene del tribunale, il supplizio ecc.
E’ innegabile, però, che il culto nei
confronti dei santi doveva essere molto vivo in quei secoli nella Campania
settentrionale se il biografo sente la necessità di redigere una loro vita.
Testimonianza ne sono le chiese a loro dedicate che si desumono, ad esempio,
dalle Rationes decimarum e dalle visite ad sacra
limina delle diocesi sia di Carinola che di
Sessa Aurunca. Autorevoli studiosi hanno avanzato l’ipotesi, però, che i santi
Casto e Secondino non siano stati martiri locali, ma culti di santi importati
dall’Africa (F. Lanzoni). Nel III secolo, infatti, vengono martirizzati in
Africa Cassio, Casto e Secondino e conseguentemente i loro culti irradiati in
Campania.
Qualcuno potrebbe pensare che ciò è il
riflesso di quanto tramandatoci nella vita di S. Castrese in cui si narra di un gruppo di santi,
tra cui anche Secondino, abbandonati al largo del mare nostrum dai persecutori africani in una nave
rotta e sfasciata che approda incolume, per volere divino, nei lidi campani.
Così non è.
La vita di S. Castrese è un altro di quei “romanzi” agiografici
medioevali in cui non c’è nulla di attendibile: un falso composto nella
prima metà del secolo XII.
Se quindi la passio di S. Casto e S. Secondino è un falso,
è evidente che non abbiamo nessuna prova che quest’ultimo sia stato un vescovo sinuessano , né che nel III secolo d.C.
esistesse a Sinuessa una sede episcopale.
Sotto il nome di Casto sono ricordati in Campania numerosi
vescovi della prima cristianità. Certo c’è da dire che la confusione regna
sovrana e reduplicazioni e sovrapposizioni sono quanto mai probabili. Ad un
Casto vescovo del III secolo a Benevento, si aggiunge un omonimo vescovo di
Calvi martirizzato a Sinuessa nel 66 d.C. che non è però il vescovo
di Sessa Aurunca perché questi sarebbe stato martirizzato insieme a
Secondino, sì a Sinuessa, ma nel 292 d.C.
Oltre che insieme a Secondino, Casto lo troviamo in coppia con Cassio sempre in Campania e nel Lazio.
In quel di Sessa sarebbero state trovate
le tombe dei SS. Casto e Secondino. In verità tale asserzione non appare
confortata da prove inconfutabili. Cosimo Storniolo afferma, a seguito di
ispezione in loco, di essere convinto che il cimitero cristiano ritrovato a
Sessa Aurunca era anche il luogo di sepoltura dei SS. Casto e Secondino
[…]. Secondo il Testini, per l’identificazione della tomba di un
martire che almeno uno dei seguenti elementi debba provare inconfutabilmente:
1) Presenza di una cappella o basilica presso o sul sepolcro ancora integro; 2)
Iscrizione in situ; 3) Graffiti tracciati sull’intonaco
delle pareti della cripta o della basilica sotterranea e sui muri prossimi alla
tomba del martire; 4) Altare eretto in onore del Santo; 5) Eventuali pitture
raffiguranti il Santo o presenza di elementi architettonici attestanti il culto
(scale di accesso per i visitatori ecc.). A ben osservare, nessuno di questi
elementi è testimoniato con chiarezza a Sessa Aurunca. L’ ubicazione in
questo sito della chiesa dedicata a S. Casto, che tra l’altro è ricordata
nella Bolla di Atenulfo e nelle Rationes Decimarum poi, non è cosa certa neanche per gli storici locali.
Non può sfuggire a tal proposito come le
chiese di S. Casto e S. Secondino siano riportate, nei due predetti documenti,
separatamente mentre sarebbe stato più logico trovare una chiesa martoriale con
la doppia denominazione. Non vi sono, poi, né graffiti, né altari e né le
pitture medioevali e rinascimentali sono in grado di offrirci alcun dato;
infine, il ritrovamento dei resti di un sarcofago non dimostra alcunché
in quanto esso è pre-cristiano ed evidentemente riutilizzato. L’unica
prova, che questo cimitero cristiano fosse sorto presso le tombe
martoriali dei SS. Casto e Secondino, era un’ iscrizione riportata dal solo De
Masi (alla p. 244 del suo libro: CORPORA SS. MARTYRUM CASTI CIVIS/ ET EPI SUESSANI, ET SECUNDINI EPI/
SINUESSANI HIC REQUIESCUNT/ IN DOMINO). Pur volendo ritenere fededegna la notizia del De Masi, va precisato che la
formula utilizzata nell’ iscrizione non è ascrivibile al IV-V secolo d.C. ma
sicuramente è successiva. La notizia che vuole S. Casto cittadino di Suessa poi, è palesemente attinta dalla passio che è un terminus ante quem non.
Va poi considerato che le due iscrizioni
riportate dal Menna (II p. 53) che si conservano scolpite sugli
scalini dell’atrio della chiesa cattedrale di Carinola, oggi non più esistenti,
ci attestano una tradizione diversa e forse più antica: OSSA. MARTYRIS. CASSII / EPISCOPI.
SINUESSANI HIC IN PACE / QUIESCUNT. e
CORPUS. MARTYRIS. SECUNDINI. / EPISCOPI.
SINUESSANI. HEIC./ REQUIESCIT. IN. DOMINO. In questo caso, non troviamo in coppia Casto e Secondino, ma ambedue
vescovi di Sinuessa presenti, però, in due distinte
epigrafi. Anche questa evidenza sembra confermare quella intuizione che avevano
avuto i Bollandisti (AA.SS., Julii, I, p.20) e di cui
successivamente Lanzoni tratterà più ampiamente: Casto, Casto e Secondini
sono martiri africani; successivamente il loro culto si diffonde in Campania e
infine gli agiografi dell’XI-XII secolo li fanno diventare martiri campani. Il
ricordo della loro originaria comune provenienza è rimasta testimoniata, a
nostro avviso, anche nelle diverse tradizioni che vedono questa triade presente
a coppie variabili:
–
Cassio/ Casto (Passio sanctorum Cassi et Casti);
–
Casto/Secondino (Passio sanctorum Casti et Secondini);
–
Cassio e Secondino (Menna 1848, II, p. 53).
Da: Ugo Zannini
La scomparsa di Sinuessa e l’invenzione
del suo episcopato
Alcuni testi consultati dall’autore
Actasanctorum, Julii I –
Parigi 1719
Ambrasi D. in Bibliotheca Sanctorum
-coll. 811-812
Balducci A. inBibliotheca
Sanctorum – coll. 935-940
De Masi T.- Memorie istoriche degli
Aurunci antichissimi popoli dell’Italia e delle loro principali città Aurunca e
Sessa – Napoli, 1761
Di Silvestro L.- Diocesi di Sessa
Aurunca. Il cammino della Chiesa locale dalle origini al 1939 – Sessa
Aurunca, 1996
Mazzeo F. – Il complesso cimiteriale
dei Santi Casto e Secondino in Sessa Aurunca – in Fede e Cultura, 1, Sessa
Aurunca, 1987-1989
Menna Luca – Saggio istorico ossia
piccola raccolta dell’istoria antica e moderna della città di Carinola in Terra
di Lavoro – Aversa, 1848 (rist. a cura di Adele Marini Ceraldi, Napoli
1970)
Stornaiolo C.– Conferenze di
archeologia cristiana. anno XXII, 1896-1897 in Nuovo Bullettino di
archeologia cristiana, III, Roma, 1897
Testini P. – Acheologia Cristiana – Bari,
1980
Ughelli F. Italia Sacra, vol X – Venezia
1790
Zona M.- Il santuario caleno –
Napoli, 1809
Actasanctorum, Julii I – Parigi 1719
Ambrasi D. in Bibliotheca Sanctorum -coll. 811-812
Balducci A. inBibliotheca Sanctorum – coll. 935-940
De Masi T.- Memorie istoriche degli Aurunci antichissimi popoli dell’Italia e delle loro principali città Aurunca e Sessa – Napoli, 1761
Di Silvestro L.- Diocesi di Sessa Aurunca. Il cammino della Chiesa locale dalle origini al 1939 – Sessa Aurunca, 1996
Lanzoni F. – Le diocesi d’ Italia dalle origini al principio del secolo VII – Faenza, 1927
Mazzeo F. – Il complesso cimiteriale dei Santi Casto e Secondino in Sessa Aurunca – in Fede e Cultura, 1, Sessa Aurunca, 1987-1989
Menna Luca – Saggio istorico ossia piccola raccolta dell’istoria antica e moderna della città di Carinola in Terra di Lavoro – Aversa, 1848 (rist. a cura di Adele Marini Ceraldi, Napoli 1970)
Stornaiolo C.– Conferenze di archeologia cristiana. anno XXII, 1896-1897 in Nuovo Bullettino di archeologia cristiana, III, Roma, 1897
Testini P. – Acheologia Cristiana – Bari, 1980
Ughelli F. Italia Sacra, vol X – Venezia 1790
Zona M.- Il santuario caleno – Napoli, 1809
fonte http://carinolastoria.blogspot.com/2011/
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Posted by altaterradilavoro on Apr 6, 2019
La peste del
1656 inasprì la tensione tra potere civile ed ecclesiastico che si trascinava
da anni soprattutto per la specificità della nunziatura napoletana che
derogando dalle norme che dovunque caratterizzavano l’istituzione (a Napoli
mancavano gli elementi essenziali di sovranità e indipendenza statale) era
fonte di continui problemi.
La dipendenza del Regno dalla Spagna, dove già era regolarmente accreditato
un nunzio pontificio, impediva di fatto alla nunziatura napoletana di
costituire un’istituzione importante per la discussione di problemi di politica
internazionale (che avveniva altrove) e la faceva scadere a istituzione
secondaria funzionale agli interessi del papa che poteva tenere a Napoli un
proprio rappresentante investito delle funzioni di nunzio.
Viceré e Collaterale[1], consapevoli dell’illegalità di fondo di tale
insediamento, impedirono che potesse diventare strumento di rafforzamento del
potere ecclesiastico: perciò bolle, brevi, lettere di giurisdizione straordinaria,
provvedimenti e disposizioni provenienti da Roma potevano avere esecuzione nel
Regno solo dopo essere stati vagliati e approvati col regio exequatur.
Allo stesso iter procedurale erano sottoposte nomina e destinazione dei
vescovi nel Regno e qualsiasi deroga a tali norme concordate produsse sempre
reazioni decise da parte del Collaterale che fece della difesa del potere
civile un punto irrinunciabile del proprio operato politico come testimoniano
le tensioni giurisdizionali fomentate dal Filomarino, cardinale arcivescovo di
Napoli.
Dopo gli aspri contrasti che avevano caratterizzato il governo dell’Oñate,
il tentativo del successore, conte di Castrillo, di instaurare rapporti più
distesi con l’autorità ecclesiastica fu bloccato da un gesto del
cardinale interpretato dal viceré come un attacco aperto alla real
giurisdizione.
All’indomani della peste il Cardinale aveva creduto, come un po’ tutta
l’aristocrazia, di trovarsi di fronte ad una profonda crisi dell’organizzazione
statale e provvide ad emanare un editto che proibiva l’accesso a Napoli degli
ecclesiastici sprovvisti di licenza sanitaria arcivescovile scritta sostenendo
di aver ricevuto quest’ordine dalla Sacra Congregazione. Ma poiché un analogo
provvedimento era stato dettato dal viceré per chiunque si fosse recato a
Napoli, l’editto del Cardinale (privo peraltro del regio exequatur)
sembrò voler affermare l’esclusione degli ecclesiastici dal provvedimento
governativo e il Collaterale, nella seduta del 28 febbraio 1657, ne votò la
revoca.
Il documento contenente tale decisione, consegnato al Filomarino ai primi
di marzo dopo il fallimento di una soluzione diplomatica, fu seguito
dall’emanazione di un bando che documentava l’illegalità dell’intervento
ecclesiastico in materia sanitaria.[2]
A questa tensione di fondo, che si sarebbe protratta fino
all’esasperazione, si sovrapposero altri due eventi: la nomina papale di un
nuovo inquisitore a Napoli e il trasporto in processione alla maniera degli
scomunicati, deciso dal vicario del Filomarino, di uno sbirro assassinato dopo
aver arrestato un pregiudicato in una strada pubblica davanti alla chiesa delle
Scuole Pie .
Sulla nomina del nuovo inquisitore, anticipando la linea politica che
avrebbe tenuto in seguito, il Collaterale suggerì al viceré di rispondere “che
non voleva questi impiastri, ma che risolutamente gli facesse intendere che non
avrebbe permesso che venisse un forestiero qua per un simile ufficio” mentre
in merito alla processione pretese dal Cardinale l’espulsione del suo vicario
anche se poi ammorbidì la propria posizione.[3]
Restò intransigente sulla questione sanitaria precisando nella risposta ad
un breve pontificio le differenti competenze delle due autorità: al papa quelle
spirituali, al governo civile quelle politiche, economiche e sanitarie del
Regno.[4]
Ma l’intervento pontificio riaccese le velleità del Cardinale che, senza
chiedere il regio exequatur, ripubblicò l’editto col divieto assoluto
per il clero di accogliere forestieri in casa. Il Collaterale replicò
impartendo ordini più severi ai castelli sul divieto di accesso per chiunque
fosse sprovvisto dei bollettini sanitari conformi alle disposizioni vicereali e
invitando il Filomarino a richiedere il regio exequatur.[5]
Il Cardinale si giustificò sostenendo di aver agito su ordine del Papa e
alla minaccia di duri provvedimenti nei suoi confronti si mostrò irremovibile e
disposto allo scontro aperto, pronto ad utilizzare tutti i mezzi che la
giurisdizione ecclesiastica gli consentiva, dalle censure agli interdetti.[6]
La risposta dei Reggenti si limitò al sequestro del suo casale nei
pressi di Aversa perché, quando si trattò di proseguire con l’arresto dei
parenti e la sua espulsione dal Regno, si creò in seno al Collaterale una
profonda spaccatura e la maggioranza del Consiglio ritenne più prudente
attendere conferme da Madrid e avviare una soluzione diplomatica preparando un
incontro a Roma tra l’ambasciatore e il pontefice.[7]
In questo clima di tensione venne intrapreso, nel gennaio 1658, il viaggio
del Sobremonte a Roma con un’agenda fittissima di impegni.
Lo scopo essenziale della missione fu la ricerca di una soluzione alle
numerosissime questioni aperte con lo Stato Pontificio quali il regio
exequatur alla bolla relativa alla soppressione dei conventini, la
conferma in perpetuum della bolla di Leone X e di quella che vietava ai
pregiudicati di rifugiarsi nelle chiese, l’accordo sul rientro degli esuli
masanielliani, l’exequatur per le lettere provenienti da Roma, il
conferimento degli ordini maggiori solo a chierici di una certa età,
l’esenzione dei chierici coniugati dal godimento del foro in civilibus,
le donazioni fraudolente a favore di ecclesiastici per sottrarsi agli oneri
fiscali, la limitazione della competenza dei tribunali ecclesiastici alle sole
questioni spirituali nei confronti dei laici, le usure e i contratti illeciti
rilasciati a chierici anche defunti.[8]
La presenza a Roma del Sobremonte si rivelò anche un efficace strumento per
seguire più da vicino le decisioni della curia romana e ricevere informazioni
di prima mano come la decisione del pontefice, ai primi di ottobre, di inviare
come inquisitore nel Regno il forlivese mons. Piazza .[9]
Se questa notizia riconfermò in seno al Consiglio la linea politica di
intransigente ostracismo nei confronti dei vescovi extraregnicoli destinati a
quest’incarico, più morbido apparve l’atteggiamento verso il Filomarino per non
intralciare la missione diplomatica del Sobremonte e l’instaurarsi di un clima
di maggiore distensione che doveva portare, proprio in quei giorni, alla
riapertura del commercio con lo Stato Pontificio e con la Repubblica di Genova,
indispensabile alla lenta ripresa del Regno avviato ad uscire dal completo
isolamento in cui lo aveva relegato la peste del 1656.[10]
Con la partenza del conte di Castrillo, sostituito al vertice del governo
dal conte di Peñaranda, la situazione sembrò subire un ulteriore miglioramento.
Il nuovo viceré avviò a soluzione la questione dei conventini
dibattuta da più di dieci anni ed esplosa con la razionalizzazione dei conventi
operata nel 1652 da Innocenzo X: la determinazione papale di rendere
autosufficienti i conventi aveva portato alla chiusura di quelli con meno di 12
religiosi.
Non erano state estranee a questa decisione del papa sia la pressione
esercitata dal clero regolare e dai vescovi per liberarsi della concorrenza
della vasta e capillare opera di apostolato esercitata dagli ordini religiosi
sia la possibilità dei vescovi di acquisire i beni dei conventi soppressi e
utilizzarli per il sostentamento dei giovani che entravano nei nuovi seminari
istituiti dal concilio di Trento.
La soppressione di 1513 conventi in seguito alla bolla Instaurandae
aveva colpito soprattutto gli ordini mendicanti del meridione e del napoletano.
Non tutti i monaci dei conventi soppressi poterono essere assegnati come
soprannumerari ad altri conventi dell’ordine di appartenenza; anzi
moltissimi avevano lasciato indebitamente il chiostro vagando senza fissa
dimora facendo diventare l’apostasia da conventi e congregazioni religiose un
problema di ordine pubblico che coinvolse il potere statale: coinvolgimento
attivo che sembrò creare una forte solidarietà tra viceré, curia romana e
arcivescovo napoletano.[11]
Ma la tensione di fondo non era stata eliminata: le pretese ecclesiastiche
di immunità fiscale per i chierici coniugati, i contrasti per le immunità delle
chiese e l’attività zelante del nuovo inquisitore napoletano inviato a Napoli
in un delicato momento che aveva impedito al governo un’efficace opposizione
alla nomina, aprirono uno scontro tra potere civile ed ecclesiastico che si
sarebbe acutizzato con il caso Peluso e con l’opposizione popolare
all’Inquisizione.
È vero che a dicembre mons. Piazza, nonostante la sua azione inflessibile
mietesse già le prime vittime (tra cui il conte di Mola arrestato, trasferito a
Roma e processato per questioni di S. Ufficio), vedeva riconosciuta la sua
nomina di inquisitore dal viceré e una lettera del Sobremonte ne certificava le
buone qualità; ma l’intensificarsi dell’attività inquisitoriale e
l’intransigenza dei due contendenti avvertiva che si stava scivolando verso la
guerra aperta sul problema giurisdizionale. [12]
A farla esplodere fu un banale ma sanguinoso e crudele episodio di cronaca
cittadina avvenuto nell’aprile 1660 e illustrato in Collaterale dal giudice
Marciano.
Un certo Marco Peluso, soprannominato Carcioffola, cocchiere
dell’arcivescovo, aveva accoltellato e ucciso la moglie di un ortolano con cui
era venuto a lite: la donna era all’ottavo mese di gravidanza e la creatura le
fu estratta dal ventre e battezzata.
Il Peluso, in seguito alla generale commozione e all’indignata protesta
della città, fu immediatamente arrestato e tradotto in giudizio davanti alla
Vicaria[13].
Ma il cardinale, trattandosi di un suo dipendente, invitò il vicario
generale Orazio Maldacea ad inviare ai ministri di Vicaria un monitorio,
cioè una diffida a procedere contro il Peluso con l’ordine di consegnarlo entro
24 ore al tribunale ecclesiastico e di presentarsi essi stessi per rispondere
della violazione della bolla “Coenae Domini”.[14]
Le autorità laiche replicarono con una lettera al Vicario in cui si
riaffermava la competenza della Vicaria nel procedimento giudiziario in corso e
con l’invio del segretario del Regno dal Cardinale nel tentativo di convincerlo
ad accettare il provvedimento regio che avrebbe soddisfatto le aspettative
generali. Il tentativo fallì e il cardinale minacciò di fulminare scomuniche se
non gli fosse stato consegnato il cocchiere.[15]
Il Collaterale provò allora a far pressione sul Vicario, ma quando questi
rispose di non poter venire incontro alle aspettative del viceré perché
l’Arcivescovo aveva avocato a sé la causa, non esitò a ordinare ai giudici di
procedere nella loro azione giudiziaria nei confronti di Marco Peluso.[16]
Nonostante l’interessamento del Nunzio e di Roma il Cardinale continuò per la
sua strada: il 16 aprile fece affiggere alle porte dell’Episcopio, della
Vicaria e della Nunziatura un monitorio ultimativo con la richiesta di
un’immediata consegna del reo minacciando di infliggere una scomunica a tutti i
giudici; ma questi riaffermarono le motivazioni di competenza a procedere e
intimarono al Vicario, se il Cardinale avesse inflitto la scomunica, di
abbandonare Napoli entro 6 ore e il Regno entro 5 giorni.[17]
Il 17 aprile, mentre la Vicaria completava il processo con la condanna a
morte di Marco Peluso, il Filomarino preparava i cedoloni di scomunica
per i giudici e quando il governo, il giorno seguente, fece eseguire la condanna
in piazza Mercato ne ordinò l’affissione.
Al gesto dell’arcivescovo il governo rispose con l’espulsione del Vicario e
Roma tornò ad interessarsi alla questione: la serrata controversia sul
principio dell’autonomia e della pienezza giurisdizionale invocata da entrambi
i contendenti tenne impegnati fino a metà giugno il segretario di stato
pontificio mons. Pacca, il Filomarino, il nunzio Spinola e lo stesso Viceré.
Quando il Pontefice, tramite il Nunzio, impose al Maldacea, che stava già
allontanandosi da Napoli, di ritornarvi subito e tentò di anticipare
l’opposizione del Collaterale facendo balenare la possibilità di interdire il
Regno, i Reggenti non si lasciarono intimorire e ribadirono la legalità della
loro azione, consapevoli che permettere il rientro del Vicario avrebbe
significato la resa del potere laico a quello ecclesiastico.
Questa linea di fermezza spinse la parte ecclesiastica a tentare un
approccio diplomatico: il Nunzio addossò ogni responsabilità all’intransigenza
dell’Arcivescovo e si accordò col Viceré sul rientro del Maldacea con la
clausola che sarebbe stato richiesto personalmente dal Papa.[18]
Ma la lettera del card. Chigi del 3 maggio non sembrò averla recepita:
diretta non al Viceré ma al Nunzio, lo invitava ad adoperarsi per il rientro
del Vicario come se un tale evento dipendesse da lui e non dalla volontà del
governo.
Ancora una volta l’azione diplomatica saltò e il Collaterale provvide ad
inviare al Filomarino la richiesta di revocare le censure e di scacciare il
Maldacea dal palazzo arcivescovile dove si era rifugiato dopo essere riuscito a
rientrare a Napoli.[19]
Il Cardinale provò a minimizzare il caso in cui erano invece in gioco il
prestigio e l’autorità del potere statale e declinò sostanzialmente le
richieste del governo: non poteva scacciare il Vicario in quanto gli era stato
consegnato dal Nunzio e non poteva ritirare le censure perché la causa era
stata avocata dalla S. Congregazione dell’Immunità.[20]
Il Collaterale, preso atto delle giustificazioni addotte, decise di lasciar
passare alcuni giorni: si era alla vigilia di Pasqua e si sperava che da Roma
giungessero segni di distensione; ma svanita anche questa speranza attuò una
serie di provvedimenti quali l’arresto dei nipoti del cardinale
(Ascanio e Francesco Filomarino) tenuti in blanda prigionia in Castel
Nuovo, il sequestro del suo casale nei pressi di Aversa e dei suoi depositi
(sia i 44.000 ducati sul Monte della Pietà che i 9.000 sul Monte dei Poveri) e
il mandato di arresto anche per i parenti del Maldacea domiciliati a Massa.[21]
Il Vicario tentò comunque di sottrarsi all’ordine di espulsione: partito da
Napoli alla volta di Messina, a Vietri si pentì della decisione presa e si
ritirò nel monastero della Trinità della Cava tanto che il Collaterale fu
costretto a scrivere al governatore della città di ricercarlo e costringerlo a
riprendere il viaggio. A metà di giugno l’ordine doveva essere stato eseguito
se il Nunzio faceva affiggere un monitorio contro il Vicario per avere
lasciato il Regno senza l’ordine del Papa e per essersi sottomesso al potere
civile. Seguì in agosto un decreto che lo privò di ogni dignità
ecclesiastica e degli ordini sacri con conseguente divieto di celebrare messa;
ma il Collaterale ne prese le difese: si accertò dell’esistenza del decreto
ecclesiastico, ne contestò la validità perché affisso senza regio exequatur e
contestò al Nunzio la pretesa di avere poteri illimitati su tutti gli
ecclesiastici del Regno.[22]
Intanto i giudici di Vicaria si erano visti ritirare la scomunica in cambio
della liberazione dei nipoti del Cardinale e ai primi di luglio il canonico
Paolo Garbinato aveva preso possesso dell’ufficio lasciato vacante dal
Maldacea.
Da tale controversia fu il potere civile a conseguire la soddisfazione
maggiore: giocò a suo favore sia l’isolamento in cui era stato lasciato il
Filomarino dall’opinione pubblica colpita dall’odiosità del delitto commesso e
dalla sensazione che il Cardinale si stesse battendo per ritardare il castigo
del reo sia, soprattutto, il generale deterioramento della posizione del clero
napoletano.
La nuova società che si andava formando nel Regno cominciava ad essere
stanca di una Chiesa che agli interessi spirituali prediligeva l’arricchimento
sfrenato, le liti giudiziarie e le complicazioni ereditarie e patrimoniali.
Le due consecutive vittorie ottenute dal potere civile su licenze sanitarie
e caso Peluso indicavano chiaramente come il governo potesse agire sulla base
di una cosciente collaborazione popolare.
L’opinione pubblica, consapevole che i contrasti giurisdizionali
nascondevano grossi problemi di carattere economico, continuò ad appoggiare il
viceré anche nella controversia sul contributo richiesto dal Pontefice agli
ecclesiastici del Regno da inviare all’imperatore Leopoldo I per la guerra
contro i Turchi e a cui il Collaterale negò costantemente il regio
exequatur.
Il documento papale prevedeva che tutti gli ecclesiastici del Regno che
avevano entrate su chiese e luoghi pii avrebbero dovuto versare a Roma per
dieci anni il 6% del loro reddito tramite la Nunziatura; ma il viceré,
contrario alla fuga all’estero dei capitali del Regno, non volle concedere la
propria autorizzazione dando luogo ad una tensione col potere ecclesiastico
durato vari mesi. Il Collaterale ne fece consulta al re di Spagna nel marzo
1661, ma il Filomarino continuò imperterrito a richiedere i pagamenti anche
senza l’autorizzazione governativa motivando la sua posizione con
un’autorizzazione pontificia che definiva la decima un’imposizione universale e
non necessaria di regio exequatur.[23]
Quando però il Collaterale impartì l’ordine tassativo agli istituti
religiosi di non inviare denaro a Roma non trovò la solita accanita reazione:
il cardinale, insofferente delle fortune del Chigi e desideroso di trovare pace
nei suoi agitati rapporti col potere civile, si rifiutò di esigere le decime
protestando la propria incompetenza in quanto materia propria della Nunziatura.
Altrettanto difficile si rivelò la battaglia ingaggiata nel 1661 sulla
questione dell’inquisizione in cui intervenne in modo molto duro lo stesso
nunzio Spinola che sul problema delle licenze sanitarie e sul caso Peluso si
era adoperato a far valere la voce della ragionevolezza sia con il governo che
con la corte pontificia.
Con l’eccezione degli incidenti provocati da mons. Petronio tra il 1626 e
il 1631, l’Inquisizione napoletana affidata al Tamburello, già vicario
diocesano di Napoli, non aveva suscitato difficoltà di rilievo fino al 1656,
quando, per la morte del vescovo, l’incarico fu ricoperto momentaneamente fino
alla nomina di mons. Piazza.
La riattivazione di un organo la cui attività si era fino ad allora
istradata sui binari della più assoluta normalità raggiunse la coscienza
popolare attraverso i casi vistosi dell’incriminazione del conte di Mola Duarte
Vaaz per segreta pratica di ebraismo con conseguente confisca dei beni e di
quella del duca delle Noci per aver letto un libro censurato. Ma non vanno
dimenticati né il proliferare delle carceri del S. Ufficio, che raggiunsero in
numero di sette o otto, né l’aumento dei procedimenti divenuti più sommari ed
arbitrari né le malversazioni e prepotenze scandalose con cui il nuovo
inquisitore e i suoi agenti e rappresentanti portavano avanti la loro attività.
A mettere in moto le Piazze di Napoli fu la reazione del duca delle Noci:
da una riunione di gran cavalieri e cittadini tenuta in S. Lorenzo il 31 marzo
scaturì la decisione di riunire le Piazze il sabato successivo 2 aprile.[24]
Il 5 aprile la Deputazione eletta dalle Piazze si presentò in Collaterale a
chiedere l’allontanamento di mons. Piazza e la conservazione della prassi
inquisitoriale nel Regno quale era stata fissata 114 anni prima in seguito ai
tumulti avvenuti per le stesse ragioni nel 1547.
Il viceré, nell’accomiatare la Deputazione, assicurò che nei giorni
successivi avrebbe fatto conoscere la sua decisione: aspettava infatti di
conoscere l’esito dei contatti diplomatici che aveva avviato, tramite
l’ambasciatore a Roma, con il pontefice il giorno precedente quando,
incontrando anche il Nunzio, lo aveva invitato ad esortare mons. Piazza ad
allentare la sua zelante attività e a ritirarsi per qualche tempo nel convento
di Monte Oliveto o in quello di Monte Cassino.[25]
L’8 aprile giunse da Roma la decisione di espellere mons. Piazza dal Regno
e la notte del 10, con una scorta di soldati a cavallo messa a disposizione dal
viceré, l’inquisitore venne accompagnato alla frontiera.
A maggio la sua ventilata sostituzione suscitò la protesta del Collaterale
perché il successore designato aveva già creato problemi alla real
giurisdizione come vescovo di Ragusa e Barletta. I Reggenti erano intenzionati,
dopo tanti contrasti, a dare una loro impronta precisa all’elezione del nuovo
inquisitore che, oltre ad essere vescovo del Regno, avrebbe dovuto mostrarsi
ligio alla politica vicereale.[26]
Come già nel 1656 con le licenze sanitarie e nel 1660 col caso Peluso,
anche questo contrasto tra Stato e Chiesa si concluse con la vittoria del
potere civile e se la questione si protrasse ancora fu per i contrasti sorti
tra le Piazze cittadine e il viceré: gli ambienti aristocratici avevano tentato
di strumentalizzare il problema dell’inquisizione per riaffermare una presenza
politica che dal 1648 in poi non aveva trovato modo di farsi valere; ma il
viceré, conte di Peñaranda, consapevole della manovra, si preparò a
vanificarla.
Dopo lunghe riunioni tra aprile e maggio alla ricerca di una comune
piattaforma rivendicativa delle sei Pazze due sole richieste trovarono
l’accordo unanime: che i processi per S. Ufficio non implicassero il sequestro
dei beni e che pertanto venissero dissequestrati quelli del conte di Mola. Per
il resto la spaccatura fu profonda: se le Piazze di Capuana, Porto e Montagna
chiedevano che l’inquisizione napoletana fosse affidata al locale arcivescovo
come ordinario, senza particolare delega pontificia e secondo le norme
canoniche, la Piazza di Nido, la minoranza di quella di Portanova e quella del
Popolo ammettevano che vi fosse un inquisitore come figura distinta da quella
dell’arcivescovo purché procedesse secondo l’uso invalso nel Regno prima degli
eccessi di mons. Piazza.[27]
Questa divisione facilitò l’opera di repressione messa in atto dal viceré
nei confronti di ciò che restava ancora dell’agitazione: il primo luglio il
Collaterale vietò la riunione delle Piazze programmata per il giorno seguente e
minacciò di applicare una pena pecuniaria di 4.000 ducati a chiunque dei
deputati e dei 5 e 6 delle Piazze avesse contravvenuto all’ordine. Il 15
luglio, alla luce di una lettera del re di Spagna indirizzata agli Eletti della
città, dichiarò decaduta la Deputazione eletta il 2 aprile per affrontare il
problema dell’inquisizione e le tolse definitivamente il compito il 18 luglio allorché,
su richiesta dell’eletto del Popolo, decretò che “ si levasse l’inibitoria
ai cinque e sei deputati di potersi unire e convocare le Piazze a rispetto di
tutte quelle che avevano da trattare per beneficio del pubblico eccettuato però
il negotio di mons. Piazza il quale resta sopito…”[28]
Dopo un tentativo del Nunzio in settembre di voler assumere l’ufficio di
inquisitore e le aspre proteste del Collaterale che portarono ad un serrato
scambio epistolare tra Viceré e Pontefice, in ottobre si decise per la
successione di mons. Piazza che intanto si era stabilito a Terracina.[29]
Così quando tra novembre e dicembre prima la Piazza del Popolo e poi la
Deputazione e gli Eletti si recarono in visita al viceré, questi confermò loro
la decisione di Madrid di conservare l’inquisizione, seppur con i procedimenti
precedenti a quelli attuati da mons. Piazza.
La vittoria del Viceré fu completa e la nobiltà, che aveva puntato tutto
sul passaggio dell’Inquisizione dalle mani del ministro pontificio a quelle del
locale arcivescovo, venne sconfitta.
Nel luglio 1662 furono dissequestrati i beni del conte di Mola e nell’aprile
1663 il papa nominò inquisitore del Regno il vescovo di Bitonto Alessandro
Crescenzi che, pur essendo vescovo del Regno, non era regnicolo e pertanto la
sua nomina contraddiceva uno dei punti essenziale degli accordi tra Piazze e
Vicerè.
Proteste però non ve ne furono: segno evidente che tanti mesi di lotte e
agitazioni sul problema dell’inquisizione erano state determinate da obiettivi
eminentemente politici.[30]
Tra il 1662 e il 1667 continuarono gli strascichi relativi alla bolla sulle
decime:
l’opposizione vicereale all’esecuzione della bolla pontificia nel Regno e
l’esenzione decretata dal Collaterale per tutte le estaurite
(chiese tenute da laici) esasperarono la tensione tra stato e chiesa. Era
chiaro che la questione coinvolgeva una più vasta problematica economica che si
trascinava da anni ma delle cui dimensioni il governo si rendeva conto
forse solo ora.[31]
L’eccezionale proliferazione del clero, l’illegale tassa sul commercio
domenicale e festivo imposto dal Filomarino e la pretesa di raddoppiare le
tratte di vino per la curia pontificia diventarono l’oggetto su cui si instaurò
il braccio di ferro tra potere civile ed ecclesiastico.
Nell’estate del 1665 il governatore della Terza denunciò in un memoriale
l’eccessivo numero di ricchi cittadini che negli ultimi trent’anni avevano
abbracciato gli ordini sacri per sottrarsi al pagamento degli oneri fiscali
gravanti sulle loro terre che così continuavano a possedere a titolo di
donazione.[32]
Sollecitato da tale denuncia il Collaterale emanò un decreto che prevedeva
l’arresto di quanti facessero donazioni alla Chiesa, ma il provvedimento non
fermò la corsa agli ordini sacri: due anni dopo, un censimento sugli
ecclesiastici del Regno accertava che, tra sacerdoti, diaconi, suddiaconi,
clerici in minoribus, coniugati, diaconi selvaggi e oblati, essi avevano
raggiunto il consistente numero di 56.446. I Reggenti ne fecero consulta al Re
di Spagna chiedendo provvedimenti che ne determinassero la diminuzione,
consapevoli che l’esenzione fiscale di cui godevano determinava il raddoppio
degli oneri per i contribuenti laici.[33]
Tra le fine del 1665 e gli inizi del 1666 fu affrontata la questione della
chiusura domenicale e festiva dei negozi che anche la Chiesa già da tempo
faceva osservare, ma su cui sorvolava dietro congrui pagamenti.
Fu la protesta dei negozianti, esasperati dalle richieste ecclesiastiche
divenute ormai insostenibili, a imporre l’intervento del governo che il 21
dicembre 1665 decretò illegale l’esazione imposta dal Filomarino ai
rifornimenti annonari e ai viveri di prima necessità, ma non alle botteghe di calzolai
e barbieri per le quali si nutriva ancora qualche dubbio. Ad avallare la
decisione governativa c’era il breve del pontefice Urbano VIII, la decisione
presa dalla S. Congregazione nel 1603 in un’analoga questione e tutto
l’insegnamento della Chiesa. Pertanto, mentre il Viceré avviava una soluzione
diplomatica della questione, il Collaterale affidava ai tribunali civili e
all’avvocato della Città Ignazio Provenzale l’incarico di difendere i sudditi
dalle illegali pretese dell’Arcivescovo.[34]
Gli incontri diplomatici si intensificarono sollecitati da una nuova
protesta cittadina sui danni arrecati dalla “oppressione e vessattione che
danno li cursori del sig. cardinale Filomarino Arcivescovo a quelli che
introducono cose comestibili” e sembrarono avere esiti positivi: il
Cardinale si impegnò ad abolire la tassa sul commercio festivo sia alle porte
della città che nei borghi e si convenne di porre nei giorni festivi una tavola
di fronte alle botteghe e un drappo davanti alle macellerie.[35]
Ma l’impegno restò sulla carta. Lo si scoprì neanche due mesi dopo con
l’arrivo in Collaterale di un nuovo memoriale “sopra li eccessi che
continuano li cursori della Curia Arcivescovale di nuove esattioni in danno del
pubblico” e il governo decretò l’abolizione della tassa ecclesiastica
almeno sul commercio all’ingrosso alle porte della città lasciando ai piccoli
negozianti la possibilità di una libera contrattazione con l’Arcivescovo in
attesa che l’ambasciatore del Regno a Roma sollecitasse un risolutivo
intervento pontificio.[36]
La questione della tratta dei vini fu affrontata tra settembre e ottobre
del 1667: il Viceré illustrò i danni arrecati all’Arrendamento dalla
stipulazione della tratta di ulteriori 200 botti di vino destinate al Collegio
Ungarico e Germanico di Roma oltre le 200 già inviate annualmente per antica
consuetudine e invitò i Reggenti a farne consulta al Re di Spagna chiedendone
l’abrogazione. Il 3 ottobre, sulla scorta della risposta del sovrano e in
seguito ad una sollecitazione del Nunzio, si chiarì che la concessione era a
discrezione del sovrano e a favore dei cardinali fedeli alla corona e non, come
stava diventando, un preciso dovere nei confronti di un organismo ecclesiastico
che il governo non riconosceva in quanto tale.[37]
[1] Il Consiglio Collaterale, organo istituito da Ferdinando
il Cattolico nel 1507 e posto, come consiglio di Stato, accanto al viceré (le
sue pronunce furono rese vincolanti da una prammatica di Filippo II nel 1593)
caratterizzò il periodo vicereale. Composto da viceré, che ne era il capo, da
due reggenti (che poi crebbero di numero), dal segretario del regno e da due
segretari privati del viceré, il Collaterale assumeva il governo per morte o
assenza del viceré. Accentrando nella sua struttura sia funzioni consultive che
deliberative e giudiziarie aveva una cancelleria, una segreteria diretta da un secretarius
regni ed un tribunale. Soppresso il 7 giugno 1735, fu sostituito dalla
Camera di S. Chiara.
[2] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 61: 26 febbraio e 5, 8, 13 e 16 marzo 1657.
[3] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 61: 12, 15,19 e 22 giugno 1657.
[4] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 61:;13 e 22 agosto 1657.
[5] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 61: 24 agosto e 1 settembre 1657
[6] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 61: 13 e 24 settembre; 12 ottobre 1657
[7] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 61: 19 ottobre 1657
[8]Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale 62: 21 gennaio 1658
[9] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio Collaterale
62: 2 e 5 ottobre 1658
[10] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale 62: 18, 21 e 30 ottobre 1658
[11] Cfr. G. Galasso, Napoli Spagnola dopo Masaniello(Politica
– Cultura – Società), ESI, Napoli, 1972, pag 59 e E. Boaga, La soppressione
innocenziana dei piccoli conventi in Italia, Edizioni di Storia e Letteratura,
Roma, 1971.
[12] Archivio di Stato di Napoli, Not. del Consiglio
Collaterale, vol. 63: 27 agosto, 5 e 9 settembre, 3 dicembre 1659.
[13] La Gran Corte di Vicaria, prima magistratura di appello
di tutte le corti del Regno di Napoli, istituita da Carlo II d’Angiò attraverso
la fusione del Tribunale del Vicario con la Gran Corte, ebbe sede a Castel
Capuano con la riforma voluta nel 1537 da don Pedro Toledo. Strutturata in 4
sezioni giudicava in prima istanza reati commessi nel napoletano e in
appello tutti quelli commessi nelle province nel Regno.
[14] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 64: 6 aprile 1660.
La bolla “In coena Domini” pubblicata da Pio V nel 1568 rese molto tesi i rapporti dei vari stati europei e italiani col Papato. Essa vietava ai principi di accogliere persone non cattoliche nei propri territori e di intrattenervi rapporti anche epistolari nonché di punire per colpe civili cardinali, prelati e giudici ecclesiastici nonché i loro agenti, procuratori e congiunti. Vietava ai sovrani temporali di imporre pedaggi, gabelle, prestiti, decime sui beni dei chierici senza l’approvazione della curia romana. Vietava all’autorità laica di sequestrare la rendita delle chiese, dei monasteri e i benefici ecclesiastici; tutte le cause che riguardassero questioni del genere dovevano essere sottratte al foro temporale e riservate a quello ecclesiastico. Proibiva al principe l’esercizio dell’exequatur sulle concessioni e i decreti pontifici e lo considerava scomunicato qualora occupasse terre della Chiesa o le muovesse guerra.
Giovanni Aniello
fonte http://www.larecherche.it/testo.asp?Id=555&Tabella=Saggio
[15] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 64: 7 aprile 1660
[16] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 64: 14 e 15 aprile 1660
[17]Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 64: 16 aprile 1660. Cfr. anche G. Galasso, Napoli
spagnola…, op. cit., pag. 59.
[18] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 64: 27 e 30 aprile 1660.
[19] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 64: 3 e 13 maggio 1660.
[20] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 64: 14 maggio 1660.
[21] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 64: 31 maggio 1660.
[22]Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 64: 7, 9 e 15 giugno; 11,12, 18 e 23 agosto 1660.
[23] Archivio di Stato di Napoli, Not. del Consiglio
Collaterale, vol. 65: 13, 22 e 23 marzo; 12 agosto e 9 settembre 1661.
[24] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 65: 31 marzo 1661.
[25]Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 65: 4 e 5 aprile 1661.
[26] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 65: 8 aprile e 9 maggio 1661.
[27] Cfr. G. Galasso, Napoli spagnola…, op. cit., pag. 64.
[28] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 65: 1, 15 e 18 luglio 1661.
[29] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 65: 22 e 26 sett., 8 e 20 ottobre 1661.
[30] Cfr. G. Galasso, Napoli spagnola…, op. cit., pag. 67 e
68.
[31] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 65: 6 febbraio 1662 e vol. 66, 20 nov. 1663.
[32] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 67: 28 agosto 1665.
[33] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 67: 22 aprile 1667.
[34] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 67: 4 e 17 dicembre 1665.
[35] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 67: 23 dicembre 1665.
[36] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 67: 4 febbraio 1666.
[37] Archivio di Stato di Napoli, Notamenti del Consiglio
Collaterale, vol. 67: 16 settembre e 3 ottobre 1666.
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