Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Il Concilio di Sinuessa

Posted by on Mar 14, 2019

Il Concilio di Sinuessa

L’antica città di Sinuessa è venuta a trovarsi più volte  nel pieno di una discussione storica che ancora non è stata definitivamente chiarita: è effettivamente esistito  un episcopato  sinuessano o si è trattato  solo di una montatura storica?  Molti sono stati gli studiosi che hanno accolto la tesi dell’esistenza di una diocesi a Sinuessa, altri studiosi l’hanno caldamente respinta. Ma andiamo per gradi.

Furono forse gli onnipresenti Pelasgi a fondare l’ antica Sinope, più tardi divenuta colonia romana col nome di Sinuessa. Secondo lo storico greco Strabone, la città fu  fondata da coloni provenienti dalla Tessaglia, gli Aminei, che la chiamarono Sinope per la molle sinuosità della costa su cui sorse e che per primi iniziarono la coltivazione della vite e che più tardi rese celebre il vino Falerno.  Nel 296 a.C. arrivarono i romani e ne fecero una colonia marittima, gemella della vicina Minturnae,  e ne cambiarono il nome in Sinuessa, dal nome della nutrice di Nettuno, Sinoessa.  

La funzione principale della colonia era quella di controllo del territorio e di  difesa dagli attacchi dei Sanniti, ma l’ ubicazione sulla via Appia, il porto e le salutari acque sulfuree fecero sì che essa diventasse ben presto città di supremazia commerciale dell’ area e luogo di villeggiatura del patriziato romano.

A Sinuessa affluivano tutte produzioni della Campania settentrionale per essere ridistribuite altrove. Vi affluiva soprattutto  la produzione vinicola del Falerno per essere esportata verso la capitale. Light

Secondo Nugnes, qui morì l’imperatore Claudio, e non a Roma come comunemente si crede, avvelenato dalla  consorte Agrippina che volle così assicurare l’impero a Nerone, suo figlio di primo letto. Nel 69 d.C. vi morì anche il feroce Tigellino, ministro di Nerone. 

L’abbandono di Sinuessa non fu un fenomeno rapido, ma un fenomeno che richiese del tempo e a cui contribuirono diverse concause. Una di queste fu senz’altro un aggiramento della via Appia a favore di Suessa Aurunca che fece perdere a Sinuessa  la sua posizione di supremazia  commerciale e ne favorì l’abbandono. A questa causa economica vanno aggiunti  i notevoli  fenomeni di bradisismo che interessavano la zona e che dimezzarono di molto l’attività commerciale, ma anche i continui assalti delle feroci bande barbariche che ormai scorrazzavano lungo la penisola. La città fu probabilmente abbandonata definitivamente verso la fine del V sec. a causa delle strutture portuali rese inutilizzabili dall’insabbiamento (Eliodoro Savino). 

  Tra i ruderi della città, nei secoli passati fu scoperta una lapide marmorea con un epigramma in greco attribuito al poeta Pompeo Teofane Giuniore e tradotto in latino dall’ Abate Ottaviani:

Litoribus finitimam Sinuessanis Venerem

Hospes, rursus pelago cerne egredientem.

Templa mihi collucent per Eonem, quan olim sinu

Drusi, et uxoris enutrivit delicium domus.

Morum vero suadela, et desiderium abstraxit illius

Totus locus hilari aptus laetitiae,

Bacchi enim sedibus me contubernalem coronavit,

Ad me calicum tumorem attrahens.

Fontes vero circa pedem scatent lavacrorum,

Quos meus filius urit cum igne natans.

Ne me frustra, hostites, praetereatis vicinam

Mari, et Nymphis Venerem, et Baccho.

Eone,  ancella o liberta di Druso ed Antonia, eresse un tempio a Venere per mettere sotto la sua protezione i commerci che in questa città aveva, tra cui terme ed alberghi, e invita gli ospiti ad onorare, con Ciprigna e Bacco, le Ninfe della salute di queste acque sinuessane. La statua della Venere posta nel tempio rappresentava la dea che emergeva dalle acque e perciò fu detta Anadiomene, o marina.
Come ben sappiamo, la Venere di cui parla l’epigramma, fu rinvenuta nel 1911 duranti dei lavori di sterro. Dopo una breve sosta  al Museo Civico Archeologico “Biagio Greco” di Mondragone, ora è conservata al Museo Archeologico di Napoli.

Non si sa molto dell’evoluzione che la colonia subì dopo il periodo romano. Molti studiosi ci raccontano alcuni avvenimenti legati ad una supposta diocesi di Sinuessa, basandosi su documenti che probabilmente sono dei falsi medioevali, come disserta il nostro  Ugo Zannini in un suo studio molto interessante.

Lo studioso del XVII secolo Cesare Baronio, nei suoi Annali Ecclesiastici, è molto minuzioso nell’esporre le vicende legate a Marcellino papa, avvenute durante la feroce persecuzione di Diocleziano contro i cristiani.

Il Baronio ci dice che all’anno 303 di Diocleziano sono datati gli atti di un concilio fatto a Sinuessa contro papa Marcellino I, accusato da due presbiteri e un diacono di aver incensato agli dei pagani così come imposto da un editto dell’imperatore. Il concilio si svolse nella Grotta di Cleopatra, nei pressi di Sinuessa, perchè tutte le chiese cristiane erano state distrutte e bruciate per ordine imperiale. Nella grotta si radunarono 300 vescovi, cinquanta per volta al giorno, secondo la capienza del luogo. In un primo tempo Marcellino negò la sua colpa, ma poi fu costretto ad ammetterla e chiese ai vescovi di giudicarlo.  La risposta definitiva dei vescovi riportata negli atti fu: prima sedes non iudicabitur a quoquam, la prima sede non può essere giudicata da alcuno.

Gli atti terminano dicendo che Diocleziano, saputo di questo Concilio in cui si erano radunati 300 vescovi, trenta preti e tre diaconi della chiesa romana, ne fece martirizzare molti di loro.

Se si accoglie la tesi che questi documenti siano dei falsi storici, allora sorge una domanda molto spontanea. Qual’era lo scopo di queste falsificazioni documentarie? Cosa volevano provare?

Due sono le posizioni che circolavano tra gli studiosi. La prima asseriva che furono i donatisti, zelanti scismatici, il cui ideale era una chiesa che soffre e il totale distacco  del clero dalla politica, a confezionare la storia del Concilio di Sinuessa al fine di sostenere il loro pensiero. La seconda tesi riguardava l’affermazione dell’ infallibilità papale che non può e non deve essere giudicata da alcuno di inferiore posizione.

Anche le notizie riguardanti i martiri della supposta chiesa sinuessana e quella sessana, S. Casto e Secondino, potrebbero non essere veritiere, ma studi specifici al riguardo ci chiariranno meglio le idee.

fonte http://carinolastoria.blogspot.com/2011/

Alcuni testi consultati

Joannes Bollandus – Acta Sanctorum Maii – vol. 18 –  Roma. 1866

Acta Sanctorum Martii – vol. 6  – ? -1668

Acta Sanctorum Julii  –  vol. I,  Parigi, 1719

Arthur Paul – Romans in Northern Campania – Rome, 1991

Baronio Cesare – Annali ecclesiastici – vol. I,  Roma, 1656

Citti Francesco – Orazio, invito a Torquato – Bari, 1994
Corcia Nicola – Storia delle Due Sicilie dall’antichità più remota al 1789, vol 2 – Napoli, 1845

De Luca Giuseppe – L’Italia meridionale o l’antico Reame delle Due Sicilie – Napoli, 1860

Giannone Pietro – Istoria civile del Regno di Napoli – Italia, 1821

Odescalchi Carlo – Difesa della causa di S. Marcellino I – Roma 1819

Romanelli Domenico – Antica topografia istorica del Regno di Napoli – Napoli, 1818

Salzano Maestro – Corso di storia ecclesiastica – Milano, 1856        

Savino Eliodoro – La Campania tardoantica – Bari, 2005

Vacca Salvatore – Prima sedes a nemine iudicatur –  Roma, 1993

Zaccaria Francesco A. –  Raccolta di dissertazioni di storia ecclesiastica –  Vol II – Roma, 1840

Zannini Ugo – La scomparsa di Sinuessa e l’invenzione del suo episcopato – in Rivista Storica del Sannio 23 – Napoli, 2005

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Approfondimento al Concilio di Sinuessa: Passio sanctorum Casti et Secondini

Posted by on Gen 31, 2019

Approfondimento al Concilio di Sinuessa: Passio sanctorum Casti et Secondini

L’ approfondimento che segue è un interessante  studio di Ugo Zannini, La scomparsa di Sinuessa e l’invenzione del suo episcopato, pubblicato sulla Rivista Storica del Sannio, 23, 3^ serie – anno XII. Le stesse note a piè di questo articolo sono un ulteriore approfondimento dell’argomento in oggetto per cui, per una miglior lettura, le trascriverò come articolo  a parte.

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Nella passio sanctorum Casti et Secondini (5) si narra la storia dei due martiri, appuntoCasto (6) e Secondino (7), il primo vescovo di Sessa Aurunca (8) ed il secondo di Sinuessa, imprigionati e torturati dal preside Curvus, il quale pur avendo assistito  ai numerosi miracoli di questi santi, infligge loro ogni sorta di sofferenze. Il preside, però, prima di vedere morti i santi Casto e Secondino perirà sotto le macerie del tempio di Apollo. Solo dopo questo evento voluto da Dio sarà possibile ai “cultori degli idoli” uccidere, nel 292 presso Sinuessa, i santi trafiggendoli con la spada.

La passio, però, se analizzata attentamente, risulta essere stata composta in un tempo relativamente recente (XI sec.), comunque lontanissima dai presunti avvenimenti del III secolo d.C. Il genere letterario è ben noto agli agiografi moderni: la prolissità è in simbiosi con un racconto dai toni drammatici in cui l’elemento prodigioso sovrabbonda senza necessità e verosimiglianza. Ci troviamo, cioè,  di fronte a quelle vite “romanzate” in cui il biografo, a corto di dati sul santo, era costretto a scriverne la storia immaginandosi le persecuzioni, le scene del tribunale, il supplizio ecc.

E’ innegabile, però, che il culto nei confronti dei santi doveva essere molto vivo in quei secoli nella Campania settentrionale se il biografo sente la necessità di redigere una loro vita. Testimonianza ne sono le chiese a loro dedicate che si desumono, ad esempio, dalle Rationes decimarum e dalle visite ad sacra limina delle diocesi sia di Carinola che di Sessa Aurunca. Autorevoli studiosi hanno avanzato l’ipotesi, però, che i santi Casto e Secondino non siano stati martiri locali, ma culti di santi importati dall’Africa (F. Lanzoni). Nel III secolo, infatti, vengono martirizzati in Africa Cassio, Casto e Secondino e conseguentemente i loro culti irradiati in Campania.

Qualcuno potrebbe pensare che ciò è il riflesso di quanto tramandatoci nella vita di S. Castrese in cui si narra di un gruppo di santi, tra cui anche Secondino, abbandonati al largo del mare nostrum dai persecutori africani in una nave rotta e sfasciata che approda incolume, per volere divino, nei lidi campani.

Così non è.

La vita di S. Castrese è un altro di quei “romanzi” agiografici medioevali  in cui non c’è nulla di attendibile: un falso composto nella prima metà del secolo XII.

Se quindi la passio di S. Casto e S. Secondino è un falso, è evidente che non abbiamo nessuna prova che quest’ultimo sia stato un vescovo sinuessano , né che nel III secolo d.C. esistesse a Sinuessa una sede episcopale.

Sotto il nome di Casto sono ricordati in Campania  numerosi vescovi della prima cristianità. Certo c’è da dire che la confusione regna sovrana e reduplicazioni e sovrapposizioni sono quanto mai probabili. Ad un Casto vescovo del III secolo a Benevento, si aggiunge un omonimo vescovo di Calvi martirizzato a Sinuessa nel 66 d.C. che non è però il vescovo di Sessa Aurunca  perché questi sarebbe stato martirizzato insieme a Secondino, sì a Sinuessa, ma  nel 292 d.C.

Oltre che insieme a Secondino, Casto lo troviamo in coppia con Cassio sempre in Campania e nel Lazio. 

In quel di Sessa sarebbero state trovate le tombe dei SS. Casto e Secondino. In verità tale asserzione non appare confortata da prove inconfutabili. Cosimo Storniolo afferma, a seguito di  ispezione in loco, di essere convinto che il cimitero cristiano ritrovato a Sessa Aurunca era anche il luogo di sepoltura dei SS. Casto e Secondino […].  Secondo il Testini, per l’identificazione  della tomba di un martire che almeno uno dei seguenti elementi debba provare inconfutabilmente: 1) Presenza di una cappella o basilica presso o sul sepolcro ancora integro; 2) Iscrizione in situ; 3) Graffiti tracciati sull’intonaco delle pareti della cripta o della basilica sotterranea e sui muri prossimi alla tomba del martire; 4) Altare eretto in onore del Santo; 5) Eventuali pitture raffiguranti il Santo o presenza di elementi architettonici attestanti il culto (scale di accesso per i visitatori ecc.). A ben osservare, nessuno di questi elementi è testimoniato con chiarezza a Sessa Aurunca. L’ ubicazione  in questo sito della chiesa dedicata a  S. Casto, che tra l’altro è ricordata nella Bolla di Atenulfo e nelle Rationes Decimarum poi, non è cosa certa neanche per gli storici locali. 

Non può sfuggire a tal proposito come le chiese di S. Casto e S. Secondino siano riportate, nei due predetti documenti, separatamente mentre sarebbe stato più logico trovare una chiesa martoriale con la doppia denominazione. Non vi sono, poi, né graffiti, né altari e né  le pitture medioevali e rinascimentali sono in grado di offrirci alcun dato; infine, il ritrovamento dei resti di un sarcofago non dimostra alcunché  in quanto esso è pre-cristiano ed evidentemente riutilizzato. L’unica prova, che questo cimitero cristiano fosse sorto presso le tombe  martoriali dei SS. Casto e Secondino, era un’ iscrizione riportata dal solo De Masi (alla p. 244 del suo libro: CORPORA SS. MARTYRUM CASTI CIVIS/ ET EPI SUESSANI, ET SECUNDINI  EPI/ SINUESSANI HIC REQUIESCUNT/ IN DOMINO). Pur volendo ritenere fededegna la notizia del De Masi, va precisato che la formula utilizzata nell’ iscrizione non è ascrivibile al IV-V secolo d.C. ma sicuramente è successiva. La notizia che vuole S. Casto cittadino di Suessa poi, è palesemente attinta dalla passio che è un terminus ante quem non. 

Va poi considerato che le due iscrizioni riportate dal Menna (II p. 53) che si conservano  scolpite  sugli scalini dell’atrio della chiesa cattedrale di Carinola, oggi non più esistenti, ci attestano una tradizione diversa e forse più antica: OSSA. MARTYRIS. CASSII / EPISCOPI. SINUESSANI HIC IN PACE / QUIESCUNT. e

CORPUS. MARTYRIS. SECUNDINI. / EPISCOPI. SINUESSANI. HEIC./ REQUIESCIT. IN. DOMINO.  In questo caso, non troviamo in coppia Casto e Secondino, ma ambedue vescovi di Sinuessa presenti, però, in due distinte epigrafi. Anche questa evidenza sembra confermare quella intuizione che avevano avuto i Bollandisti (AA.SS., Julii, I, p.20) e di cui successivamente Lanzoni  tratterà più ampiamente: Casto, Casto e Secondini sono martiri africani; successivamente il loro culto si diffonde in Campania e infine gli agiografi dell’XI-XII secolo li fanno diventare martiri campani. Il ricordo della loro originaria comune provenienza è rimasta testimoniata, a nostro avviso, anche nelle diverse tradizioni che vedono questa triade presente a coppie variabili:

–         Cassio/ Casto (Passio sanctorum Cassi et Casti);

–         Casto/Secondino (Passio sanctorum Casti et Secondini);

–         Cassio e Secondino (Menna 1848, II, p. 53).

Da: Ugo Zannini

La scomparsa di Sinuessa e l’invenzione del suo episcopato

Concetta Di Lorenzo

Fonte

http://carinolastoria.blogspot.com/2011/

Alcuni testi consultati dall’autore 

Actasanctorum, Julii I – Parigi 1719

Ambrasi D. in Bibliotheca Sanctorum -coll. 811-812

Balducci A. inBibliotheca Sanctorum – coll. 935-940

De Masi T.- Memorie istoriche degli Aurunci antichissimi popoli dell’Italia e delle loro principali città Aurunca e Sessa – Napoli, 1761

Di Silvestro L.- Diocesi di Sessa Aurunca. Il cammino della Chiesa locale dalle origini al 1939 – Sessa Aurunca, 1996

Mazzeo F. – Il complesso cimiteriale dei Santi Casto e Secondino in Sessa Aurunca – in Fede e Cultura, 1, Sessa Aurunca, 1987-1989

Menna Luca – Saggio istorico ossia piccola raccolta dell’istoria antica e moderna della città di Carinola in Terra di Lavoro – Aversa, 1848 (rist. a cura di Adele Marini Ceraldi, Napoli 1970)

Stornaiolo C.– Conferenze di archeologia cristiana. anno XXII, 1896-1897 in Nuovo Bullettino di archeologia cristiana, III, Roma, 1897

Testini P. – Acheologia Cristiana – Bari, 1980

Ughelli F. Italia Sacra, vol X – Venezia 1790 

Zona M.- Il santuario caleno – Napoli, 1809

Actasanctorum, Julii I – Parigi 1719
Ambrasi D. in Bibliotheca Sanctorum -coll. 811-812
Balducci A. inBibliotheca Sanctorum – coll. 935-940
De Masi T.- Memorie istoriche degli Aurunci antichissimi popoli dell’Italia e delle loro principali città Aurunca e Sessa – Napoli, 1761
Di Silvestro L.- Diocesi di Sessa Aurunca. Il cammino della Chiesa locale dalle origini al 1939 – Sessa Aurunca, 1996
Lanzoni F. – Le diocesi d’ Italia dalle origini al principio del secolo VII – Faenza, 1927
Mazzeo F. – Il complesso cimiteriale dei Santi Casto e Secondino in Sessa Aurunca – in Fede e Cultura, 1, Sessa Aurunca, 1987-1989
Menna Luca – Saggio istorico ossia piccola raccolta dell’istoria antica e moderna della città di Carinola in Terra di Lavoro – Aversa, 1848 (rist. a cura di Adele Marini Ceraldi, Napoli 1970)
Stornaiolo C.– Conferenze di archeologia cristiana. anno XXII, 1896-1897 in Nuovo Bullettino di archeologia cristiana, III, Roma, 1897
Testini P. – Acheologia Cristiana – Bari, 1980
Ughelli F. Italia Sacra, vol X – Venezia 1790 
Zona M.- Il santuario caleno – Napoli, 1809 Pr

Napoli, catacombe di San Gennaro, affresco IX sec d.C., Santi Desiderio e Acuzio
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Luigi Toro: la storia e le Opere – Parte III (a cura di C. A. Del Mastro)

Posted by on Gen 2, 2019

Luigi Toro: la storia e le Opere – Parte III (a cura di C. A. Del Mastro)

La giovane Giulia e le due nipotine presero via “Da Capo” e arrivarono a casa. Questo incontro, per me, spiega la vera anima del pittore e fa capire, chiaramente, come aveva vissuto e viveva la delusione dei suoi sogni patriottici. A casa Giulia raccontò tutto ad Antonio e i due sposi ripresero a piangere, poi pensarono alle bimbe e Giulia preparò la cena. Dopo alcuni mesi anche la masseria di Leverano con tutto il terreno intorno fu venduta e fu l’ultimo boccone della famiglia del Mastro ad essere ingoiato dal Dinosauro Piemontese.

Papà diceva che a comprare la masseria di Leverano era stato il signor Andrea Casale,il solo che non aveva approfittato della disgrazia e l’aveva pagata quanto realmente valeva. Tanto che papà era molto amico del figlio del signor Andrea Casale che si chiamava Giovannino ed io, da piccola, rispettando la buona educazione laurese che i figli chiamano zii gli amici dei genitori lo chiamavo “zio Giovannino” e papà spesso mi portava a visitare la masseria dei miei bisnonni e “zio Giovannino” me la faceva visitare tutta e a me bambina sembrava un piccolo e turrito castello. Ritornando al pittore, quel pianto fatto alla masseria di Leverano in memoria dell’amico Titta del Mastro dovette fargli bene, perché riprese a dipingere con più lena e dalle sue mani uscirono tre quadri capolavori. Terminò il primo quadro Agostino Nifo alla corte di Carlo V. 2) Taddeo da Sessa al concilio di Lione. 3)La morte di Pilade Bronzetti alla battaglia di Castel Morrone.

Il pittore terminò il quadro “Agostino Nifo alla corte di Carlo V” ed è uscito un vero capolavoro. Il quadro è lungo 3m ed alto 3m. Chi lo guarda viene trasportato in una vera reggia cinquecentesca. I vestiti dei personaggi sono perfetti,ma quello che colpisce di più è il parlare dei personaggi e la sorpresa che traspare dai volti dei nobili, perché il filosofo, non solo non si è tolto il cappello come hanno fatto tutti i presenti, ma si è addirittura seduto davanti all’imperatore, mentre tutti i presenti sono in piedi. L’imperatore è sorpreso, ma non irato, si nota che stima molto il filosofo a cui ha affidato l’educazione dei suoi figli. Luigi Toro con questo quadro non solo ha voluto dimostrare le sue idee riguardo all’istruzione e alla nobiltà ma ha voluto lasciare anche un ottimo insegnamento alle future generazioni: l’istruzione è superiore a tutti i titoli nobiliari, l’uomo dotto, colto e onesto è addirittura uguale all’Imperatore. Questo quadro per la mia famiglia paterna è stato sempre considerato sacro ed ogni volta che qualcuno della nostra famiglia lo guardava non poteva non recitare un eterno riposo per l’anima di zio Titta presente nel quadro (è alto, il primo a sinistra, un po’ di spalle). Il quadro è stato offerto al comune di Sessa e si trova sulla parete più importante del nostro Senato Cittadino. Il pittore alla fine del decennio 1860 si trasferì a Roma e prese casa a via Margutta, la strada degli artisti e lì dipinse i suoi ultimi quadri.

La cultura e l’uomo dotto sono anche i protagonisti del quadro “Il Concilio di Lione” lungo 6m e alto 4m, che occupa tutta una parete del nostro Senato Cittadino; ma per meglio capire ed apprezzare questo capolavoro, bisogna fare una breve introduzione storica. Siamo nel secolo XIII: é Re di Sicilia e Imperatore di Germania (Sacro Romano Impero) il grande Federico II, che con le sue leggi e il suo ottimo governo ha fatto diventare il Regno delle Due Sicilie il più ricco fra tutti i regni europei e la stessa cosa si prepara a fare, come Imperatore per la Germania, ma l’unione delle due corone: Re di Sicilia e Re di Germania non era gradita al Pontefice Gregorio IX, perché il papa non voleva che il territorio governato dallo stato pontificio fosse stretto e confinante con i possedimenti dello stesso sovrano a Nord e a Sud. Perciò Federico II doveva rinunziare o al regno di Sicilia o alla Corona Imperiale.

I Pontefici si potevano permettere di fare questa richiesta, perché tutto era stato già confermato durante la minorità di Federico II, che nato nel 1194, rimasto orfano del padre, l’imperatore Enrico VI morto nel 1197, fu affidato dalla madre, l’imperatrice Costanza d’Altavilla al pontefice Innocenzo III, che rimase il solo a prendersi cura del piccolo principe quando anche la madre nel 1198 morì. Nel 1208 Innocenzo III dichiarò maggiorenne Federico a 14 anni e lo incoronò Re delle Due Sicilie, facendogli, però, promettere di rinunziare alla Corona Imperiale di Germania. Tutto procedeva bene, quando nel 1216 Innocenzo III morì e fu eletto papa Onorio III molto legato a Federico che nel 1220 incoronò Federico II anche Imperatore di Germania (Sacro Romano Impero). Morto Onorio III nel 1227 fu incoronato papa Gregorio IX, che subito ordinò a Federico di deporre una delle due Corone e rispettare gli accordi stabiliti nel 1208. Poiché Federico, appoggiato dai Siciliani e dai Germani resisteva, il Papa ricorse all’arma della scomunica: lo scomunicò perché Federico ritardava a organizzare la sesta crociata promessa e liberare la Terra Santa dai Musulmani.

Nel 1228 Federico organizzò la crociata e partì, ma invece di combattere con le armi, risolvette tutto diplomaticamente. Si incontrò in Egitto con sultano al-MaliK al Kamil a cui Federico cedette tutti i porti dell’Egitto e dal sultano ebbe libera la Terra Santa. Poi i due sovrani firmarono l’accordo e si salutarono con una stretta di mano. Quando Federico II consegnò al Papa la Terra Santa liberata, Gregorio IX gridò come un pazzo: <Cosa hai fatto?! Sei venuto con le spade pulite!? Tu dovevi venire con le spade sporche di sangue musulmano. Gli infedeli si uccidono! Tu hai stretto la mano del sultano! Tu sei un Anticristo scomunicato e scomunicato resterai>. Furono tempi duri fra il Papa e Federico II anche se i due nel 1230 arrivarono ad un accordo firmato a San Germano (Montecassino ).

Morto Gregorio IX nel 1241, dopo un anno e mezzo di sede vacante fu eletto papa Innocenzo IV nel 1243 e mentre continuavano le trattative con Federico II e il Papa, Innocenzo IV fuggì improvvisamente a Lione dove convocò un concilio nel quale scomunicò e depose Federico II, bandendo, addirittura, contro di lui una crociata e chiese aiuto alla Francia alla quale promise il Regno delle Due Sicilie. A questo punto entrò in scena il più grande giurista del tempo,(oggi 2016 possiamo dire il più grande giurista di tutti i tempi) il nostro concittadino Taddeo da Sessa, nato a Sessa nel 1190. Taddeo da Sessa era il più grande giustiziere della Curia Imperiale, giurista eminente, tenuto in gran conto alla corte di Federico II, che gli affidò nel 1243 la sua difesa presso Innocenzo IV al Concilio di Lione 1243. Il nostro giurista difese l’imperatore con un’arringa in Latino degna di Cicerone, ma tutto fu inutile. Innocenzo IV non solo non tolse la scomunica a Federico II, ma lo considerò decaduto e bandì contro di lui addirittura una crociata. Chi guarda questo quadro si trova subito fra i prelati presenti nel duomo di Lione, illuminato dalle luci delle candele. A sinistra di chi guarda sta il Papa in trono solo, brutto, cattivo. La folla dei chierici, in bianco, sembra un ammasso di statue, più spaventati che cantanti il Te Deum. I prelati non sanno dove guardare, né dove correre.

Alcuni hanno il coraggio di raggiungere (sulla destra guardando) il giurista Taddeo da Sessa, che il pittore ci presenta disgustato, irato al punto che sta per strappare le carte con i documenti, che ha tra le mani. Questo quadro, che, veramente, per come è fatto, è un vero capolavoro, perché anche in questo quadro tutti i personaggi non solo sono -loquaces- ma arrivano a mostrare anche il loro carattere. Un quadro bellissimo di cui noi Suessani siamo orgogliosi.

Non così, purtroppo è stato per la Chiesa Cattolica, che non ha mai dato il suo sostegno al nostro pittore, perché la Chiesa non ama far conoscere i suoi peccati. Per avere il sostegno della Chiesa il nostro pittore doveva seguire l’esempio di Michelangelo, di Signorelli ed altri: tutti osannanti… Tutti protetti. Il nostro pittore invece, presentando il Concilio di Lione non solo ha voluto far conoscere il grande giurista Taddeo da Sessa, ma ha dimostrato anche la sua libertà di pensiero, qualità importante per l’artista.

Il quadro ” La morte di Pilade Bronzetti”.                                                                                       Anche questo quadro è grandissimo è lungo 6m e alto 4m, il pittore ci presenta il campo di Castel Morrone dopo la battaglia e la morte del suo amico Pilade Bronzetti. Anche questo quadro fu dipinto a Roma, dove Luigi Toro si era trasferito e abitava in via Margutta, la strada dei pittori. Il pittore per fare questo quadro chiese un prestito al Banco di Napoli, ma il prestito non potette essere saldato perché il quadro non fu venduto. Il quadro è stato solo poche volte esposto ed è stato sempre conservato dal Banco di Napoli.

I perché sono tanti: chi dice che è troppo grande- chi dice che mette sotto gli occhi di chi lo guarda quella terribile <accisaglia> di italiani contro italiani che portò alla conquista del Regno delle Due Sicilie. Tanto è vero che il re Vittorio Emanuele II arrivò addirittura ad ordinare di far bruciare il quadro, perché non voleva far vedere quello che era avvenuto per la conquista dell’Italia Meridionale. Fortunatamente il Banco di Napoli si oppose e noi oggi possiamo ammirare questo grande capolavoro. Che il quadro sia un vero capolavoro lo conferma la bellissima critica di Gabriele d’Annunzio, scritta sulla Tribuna di Roma, ne riporto alcuni pensieri: “le figure sono disegnate con bravura… il paesaggio pare partecipare al triste destino degli uomini in guerra. Il paesaggio occupa uno spazio rilevante nella composizione. Scegliendo, dunque, il versante del Naturalismo più aggiornato il pittore aurunco riuscì ancor meglio a descrivere e caratterizzare l’episodio storico”- Gabriele D’Annunzio.

Fra tutte le critiche su questo sfortunato quadro ho scelto quella del poeta Gabriele D’Annunzio per far capire agli italiani del 2016 che depositato nei forzieri del Banco di Napoli c’è un vero capolavoro, che merita di essere esposto ed ammirato. Questo quadro causò anche la rovina economica del pittore, perché, per farlo, non solo consumò tutti i suoi risparmi, ma chiese prestiti anche al Banco di Napoli, che non vendendo il quadro non poté saldare. Trascorse gli ultimi anni della sua vita povero e triste. anche se aveva ottenuto il primo posto il suo dipinto “Riposo dei cacciatori” all’Esposizione Internazionale di Vienna.

Luigi Toro non ebbe mai il coraggio di ritornare a Lauro, per fortuna un suo carissimo alunno Nicola Borrelli ne ebbe pietà, lo prese e lo portò a casa sua a Pignataro Maggiore, dove il giorno 13 aprile del 1900 alle due antimeridiane l’alunno raccolse le sue ultime parole: <Ho sempre pregato Iddio perché mi avesse concesso di morire in mezzo agli amici> e tali, più che fratelli furono quelli che lo assistettero e lo piansero. Fu sepolto a Pignataro nella tomba della famiglia Borrelli. Il Consiglio Comunale di Sessa Aurunca lo commemorò nella seduta del successivo 18 aprile. <Il giorno 13… spegnevasi in Pignataro Maggiore il nostro illustre concittadino Cav. Luigi Toro con Lui Sessa perde un patriota preclare, un cittadino integerrimo, un artista di fama nazionale… Sessa piangendone la perdita rende il dovuto omaggio alla memoria di un suo cittadino che le accrebbe lustro e nome>.

I resti mortali del pittore il 12 maggio 1973 furono traslati da Pignataro Maggiore a Lauro, il paese che gli aveva dato i natali ed ora riposano in pace nell’antica tomba di famiglia: La tomba dei suoi cugini i colonnelli Toro, nel cimitero antico di Lauro.

A cura della Prof. Cecilia Aida Maria Del Mastro, tratto da “Archivi Storici, archivi domestici”-

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fonte

https://www.generazioneaurunca.it/turismo-cultura/luigi-toro-la-storia-e-le-opere-parte-iii-a-cura-di-c-a-del-mastro/

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Luigi Toro: la storia e le Opere – Parte II (a cura di C. A. Del Mastro)

Posted by on Dic 29, 2018

Luigi Toro: la storia e le Opere – Parte II (a cura di C. A. Del Mastro)

Luigi Toro, pittore Aurunco: la storia e le opere.

Parte II – La gioventù, le opere e la guerra.

Prof.  Cecilia Aida Del Mastro

Quando nel 1853 il giovane Luigi Toro compì 18 anni e diventò maggiorenne poteva vendere e comprare, il diabolico patrigno ne approfittò: gli disse che se voleva andare a Napoli e frequentare l’Accademia Artistica doveva vendergli tutti i suoi diritti sulla proprietà (case e terreni). Egli gli avrebbe depositato i soldi in banca da dove avrebbe ritirato, di volta in volta, il necessario per studiare e incominciare a dipingere. Il giovanissimo Luigi non ci pensò due volte, fece subito quello che il patrigno voleva e partì per Napoli. Tutti i conoscenti e i parenti restarono senza parole, nessuno aveva pensato che il patrigno arrivasse ad una simile espoliazione.

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Luigi Toro: la storia e le Opere – (a cura di C. A. Del Mastro)

Posted by on Dic 26, 2018

Luigi Toro: la storia e le Opere – (a cura di C. A. Del Mastro)

Il pittore Luigi Toro appartiene ad una delle famiglie più antiche e illustri della Regione Aurunca, infatti il suo antico nome era “ Thora”, che deriva dal greco e significa “terreno fertile e solatio”. Infatti venivano chiamati “Thora” i tanti villaggi sorti sulle colline del versante di Roccamonfina, rivolto al Mar Tirreno. Erano i secoli VI e V a.C. quando ancora la Regione Aurunca non era stata occupata da Roma e il nome Thora restò anche quando nel 314 a.C. tutta la Regione Aurunca fu occupata dai Romani ed entrò a far parte dell’orbita romana e veniva governata con leggi romane.

Quando poi l’Impero Romano crollò nel 476 tutte le piccole Thora del versante di Roccamonfina rivolto al Mar Tirreno caddero sotto la giurisdizione di un feudatario di origine longobarda, che unì al Toponimo Thora di origine greco – aurunca l’aggettivo longobardo “aldo-alda-aldi-alde” che significa bellissimo e si ebbe il Toponimo “Toralde” ( in dialetto Toraglie) il feudatario ne prese anche il nome e si chiamò Toraldo e chiamò tutta la zona a lui soggetta “Feudo Toraldo” (oggi gli eredi della nobile famiglia Toraldo vivono a Piedimonte di Sessa Aurunca).

Molto sfortunata, invece, fu una bellissima Thora formata da una villa agricola signorile e da alcune case di contadini con cellai, stalle e fienili e intorno tanto terreno fertile, coltivato a vigneti e ad oliveti. Questa bellissima Thora nell’anno 577 d.C.si trovò sulla traiettoria del duce longobardo Zotone quando il duca si scagliò contro l’Abbazia di Monteccasino e la distrusse e distrusse anche la nostra Thora, i cui abitanti, che da secoli, l’avevano abitata, si rifugiarono nel vicino villaggio di Lauro e dall’anno 577 presero come cognome il nome della propria terra e fino al 1800 si sono sempre chiamati “de Tora”.

Il cognome de Tora fa parte dei cognomi sorti nell’alto medioevo, quando molte famiglie furono costrette a fuggire dalla propria terra, dal proprio paese per le continue e disastrose invasioni barbariche e preferivano prendere come nuovo cognome il nome del loro paese, della propria terra, di un loro antenato illustre o della professione della loro famiglia e tutti questi nuovi cognomi erano preceduti dalla preposizione – de – che indica provenienza.

In realtà il complemento di origine o di allontanamento la grammatica Latina lo preferisce in ablativo semplice senza le preposizioni “de-ex-e “, che si mettono solo quando il luogo da cui ci si allontana è importante e non con nomi di paesi, di famiglia e di familiari, ma nell’animo di quelle persone costrette ad allontanarsi dalla propria casa, dal proprio paese, dalla propria famiglia, il sentimento che provavano era cosi forte che quel – de- scritto in lettera minuscola ci sta di diritto e così scritto, sempre in minuscola acquisterà col tempo anche – sinonimo di nobiltà- e si chiamerà “de nobiliare”.

Per quanto riguarda la famiglia de Tora di Lauro dal 577 fino al 1800 è rimasta sempre – de Tora- e a tutti i figli maschi veniva dato il nome Leone e pur prendendo parte alla vita civile, politica, militare e religiosa ha conservato sempre i suoi valori morali e religiosi e tutte le sue ricchezze economiche: “ Famiglie illustre-economicamente benestante- Proba- di Fede Cristiana Cattolica” come risulta scritto negli archivi del Regno delle due Sicilie. Per quanto riguarda, poi, la mia conoscenza della storia della famiglia de Tora – dall’anno 1800 in poi essa rivive nei ricordi di mio padre, la cui nonna paterna,Giulia de Tora, non solo è stata una erede di questa illustre famiglia, ma è stata anche prima cugina del pittore Luigi Toro e spiegava a mio padre di come avvenne il passaggio del cognome da – de Tora a Toro. Riporto il racconto di nonna Giulia de Tora e di mio padre “ quando nel 1734 diventò Re di Napoli delle Due Sicilie Carlo III di Borbone tutto rifiorì nel nostro Regno.

Le cose andavano, di giorno in giorno, sempre meglio. Alla fine del 1700 il patriarca della famiglia de Tora si chiamava Leone de Tora e aveva due nipoti giovani e tutte e due portavano il suo nome e il suo illustre cognome. Uno restò a fare l’agricoltore come il nonno e i terreni da lavorare erano ancora molti, tutti intorno all’antica Tora: oliveti e vigneti, l’altro nipote partì militare di carriera nel rinnovato e famoso esercito borbonico. Il giovane de Tora fece una brillante carriera e raggiunse il grado di colonnello e si trovò a difendere il Regno dagli assalti francesi del 1798 e seguì il Re Borbone Ferdinando IV quando il re fu costretto nel dicembre 1798, a cercare scampo in Sicilia sotto la protezione della flotta inglese”.

Dalla storia apprendiamo che nel 1799 tutta l’Italia era sotto la Francia, ma grazie all’intervento della III coalizione europea,l’invasione francese fu bloccata e i francesi abbandonarono l’Italia era il 1799-1800. Il Re ritornò a Napoli scortato dalla flotta inglese e dall’ammiraglio Nelson. Nel 1800 ritornò anche il nostro colonnello Leone de Tora che si faceva chiamare Leone Toro. Nonna Giulia diceva che il giovane colonnello Toro aveva ricevuto dal Re anche molti doni: abitazioni a Napoli e alcuni moggi del terreno demaniale del Garigliano.

Per il cognome cambiato il giovane colonnello diceva che era stato desiderio del Re, perché il toro era considerato animale nobile e un giorno sarebbe potuto diventare anche suo simbolo araldico, perché non era lontano il giorno in cui avrebbe ottenuto anche un titolo nobiliare. Stando così le cose un figlio di Leone de Tora rimasto a fare l’agricoltore volle seguire lo zio colonnello ed entrò anche egli nell’esercito borbonico e pure avendo già un bimbo piccolo, che per rispetto del nonno aveva chiamato Leone Carmine de Tora, volle prendere per sè e per i figli che sarebbero nati il nuovo cognome Toro. Ma l’illustre casata de Tora ( purtroppo era destinata a finire, perché Leone Carmine de Tora, fatto grande e sposatosi con la bravissima signorina Olimpia Grasso, ebbe solo tre figlie, una di queste Giulia è stata la mia bisnonna paterna, mamma di nonna Michele, padre del mio papà).

Ritorniamo al 1806. Napoleone non aveva dimenticato il Regno di Napoli e lo riconquistò nel 1806 e il re Ferdinando IV fu costretto nuovamente a scappare a Palermo con la sua corte e con tutti i suoi militari fedelissimi, tra i quali i due ufficiali Toro: Leone Toro padre e Leone Toro figlio e Leopoldo Luca, lasciato il bimbo di pochi anni di nome Leone Carmine de Tora al padre e al nonno, Leopoldo Luca e la giovane moglie Amalia Russo si trasferirono anche loro a Palermo e vi restarono fin quando vi restò il Re: fino al 1815.

Quando Napoleone fu definitivamente sconfitto e il Regno di Napoli, che durante il periodo napoleonico era stato affidato a Murat, cognato di Napoleone, ritornò libero, il re Ferdinando IV vi fece ritorno con tutta la sua corte i suoi militari fedelissimi. Ritornarono anche i nostri colonnelli Toro: Leone Toro padre e Leone Toro figlio; e il giovane ufficiale Leopoldo Luca Toro con la giovane moglie Amalia Russo e il secondo figlio nato a Palermo nel 1810 chiamato Luca Leopoldo Toro. Abbiamo, come vediamo, due fratelli figli dello stesso padre e della stessa madre ma con cognomi diversi: (Leone Carmine de Tora e Luca Leopoldo Toro). Luca Leopoldo viene sempre presentato ancora oggi 2016, come un giovane intelligente, bello e buono e a soli 18 anni sposò Olimpia Scarretta, che di anni ne aveva 16, anche la giovane sposa è ricordata bellissima e ricchissima, infatti la famiglia Sciarretta è stata sempre tra le prime famiglie di Lauro.

I due sposi posero la loro residenza in un antico palazzo nella parte più antica di Lauro: via Pietrabianca, quasi di fronte alla casa dei miei antenati ( dove oggi io abito). I giovanissimi coniugi furono subito allietati dalla nascita di un bimbo (1831) di nome Francesco Leopoldo e il 3 gennaio 1835 ebbero un secondo bimbo chiamato Luigi Leopoldo ( che sarà il nostro pittore), ma il 13 gennaio del 1836 a soli 26 anni morì il giovane padre. La giovane madre restò vedova a 24 anni con due bimbi piccolissimi: uno di cinque anni e l’altro di un anno,ma fu molto aiutata dalle tre famiglie parenti: Scarretta, Toro e Russo.

I bimbi crescevano bene e poiché erano coetanei   con i bimbi del Mastro loro dirimpettai, nacque tra loro una profonda amicizia, che durerà per sempre. Giovanbattista del Mastro era del 1830, i fratelli Michele del 1834 e Antonio del 1836. L’amicizia diventava sempre più salda perché, come in tutte le famiglie benestanti dei piccoli borghi, l’istruzione dei figli veniva affidata ad un ottimo maestro, perché ancora l’istruzione elementare non era obbligatoria e gratuita, lo diventerà con la legge Coppino nel 1882. I fratelli Toro e i fratelli del Mastro frequentavano lo stesso maestro il bravissimo parroco Girolamo Perrotta, che subito notò il genio artistico del piccolo Luigi perché gli bastava un foglio e una matita e riproduceva il volto degli amici e le cose che lo circondavano.

Il bravissimo maestro avrebbe voluto mandarlo a Napoli per fargli frequentare una scuola adatta alle sue capacità artistiche, ma il bravo maestro non veniva ascoltato. Quando poi anche i tre fratellini del Maestro rimasero orfani del padre, infatti il signor Gabriele del Mastro morì il 5 aprile 1844, la comitiva degli amici si ridusse perché Mons.Michele Ceraldi, zio vescovo dei fratelli delMastro mise Michele in seminario, perché desideravo farlo diventare sacerdote e scrisse Antonio alla Regia Academia Militare di Napoli per farne un ufficiale dell’esercito Borbonico, lasciò invece il giovanissimo Giovanbattista, chiamato affettuosamente Titta, in compagnia della madre vedova di nome Olimpia Ceraldi, sorella del signor Michele Ceraldi che abitava a San Castrese e nipote del vescovo Mons. Michele Ceraldi.

Il piccolo Luigi Toro, dopo la partenza dei suoi coetanei Michele e Antonio, si attaccò ancora di più a Titta anche perché nella sua famiglia si erano verificati due avvenimenti importanti, destinati, purtroppo, a condizionare tutta la sua vita futura. Nel 1851 la madre si risposò con Giuseppe Prete. A Lauro vi erano due famiglie che portavano il cognome Prete: una era formata da onesti proprietari terrieri, l’altra era ricchissima ma, tristemente famosa e poco stimata perché i componenti, da sempre, erano stati usurai, tanto che nel 1800 erano arrivati a praticare anche il vergognoso e peccaminoso <Menanno> ( quando il mal capitato non poteva saldare il debito e aveva figlie giovani e belle il debitore gli chiedeva una delle figlie, se il peccaminoso baratto veniva accettato, la ragazza scelta risultava morta per la sua famiglia d’origine e passava tutta la sua vita a fare la schiava del padrone).

Non so a quale delle due famiglie Prete appartenesse il secondo marito di Olimpia, la madre del nostro pittore, ma dal comportamento del signor Prete penso più alla famiglia degli usurai. Il patrigno era anch’egli vedovo e aveva una figlia signorina di nome Angela, che subito fece sposare a Francesco Leopoldo, fratello maggiore del pittore e cominciò così ad impadronirsi delle ricchezze della famiglia di Luca Toro.

Luigi Toro, pittore Aurunco: la storia e le opere.

Parte I – Gli Avi, la sua famiglia e la sua infanzia

Prof. Cecilia Aida Maria Del Mastro

A cura della Prof. Cecilia Aida Maria Del Mastro, tratto da “Archivi Storici, archivi domestici”- l

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Approfondimenti al Concilio di Sinuessa: Passio sanctorum Casti et Secondini

Posted by on Dic 18, 2018

Approfondimenti al Concilio di Sinuessa: Passio sanctorum Casti et Secondini

L’ approfondimento che segue è un interessante  studio di Ugo Zannini, La scomparsa di Sinuessa e l’invenzione del suo episcopato, pubblicato sulla Rivista Storica del Sannio, 23, 3^ serie – anno XII. Le stesse note a piè di questo articolo sono un ulteriore approfondimento dell’argomento in oggetto per cui, per una miglior lettura, le trascriverò come articolo  a parte.

Nella passio sanctorum Casti et Secondini (5) si narra la storia dei due martiri, appunto Casto (6) e Secondino (7), il primo vescovo di Sessa Aurunca (8) ed il secondo di Sinuessa, imprigionati e torturati dal preside Curvus, il quale pur avendo assistito  ai numerosi miracoli di questi santi, infligge loro ogni sorta di sofferenze. Il preside, però, prima di vedere morti i santi Casto e Secondino perirà sotto le macerie del tempio di Apollo. Solo dopo questo evento voluto da Dio sarà possibile ai “cultori degli idoli” uccidere, nel 292 presso Sinuessa, i santi trafiggendoli con la spada.

La passio, però, se analizzata attentamente, risulta essere stata composta in un tempo relativamente recente (XI sec.), comunque lontanissima dai presunti avvenimenti del III secolo d.C. Il genere letterario è ben noto agli agiografi moderni: la prolissità è in simbiosi con un racconto dai toni drammatici in cui l’elemento prodigioso sovrabbonda senza necessità e verosimiglianza. Ci troviamo, cioè,  di fronte a quelle vite “romanzate” in cui il biografo, a corto di dati sul santo, era costretto a scriverne la storia immaginandosi le persecuzioni, le scene del tribunale, il supplizio ecc.

E’ innegabile, però, che il culto nei confronti dei santi doveva essere molto vivo in quei secoli nella Campania settentrionale se il biografo sente la necessità di redigere una loro vita. Testimonianza ne sono le chiese a loro dedicate che si desumono, ad esempio, dalle Rationes decimarume dalle visite ad sacra liminadelle diocesi sia di Carinola che di Sessa Aurunca. Autorevoli studiosi hanno avanzato l’ipotesi, però, che i santi Casto e Secondino non siano stati martiri locali, ma culti di santi importati dall’Africa (F. Lanzoni). Nel III secolo, infatti, vengono martirizzati in Africa Cassio, Casto e Secondino e conseguentemente i loro culti irradiati in Campania.

Qualcuno potrebbe pensare che ciò è il riflesso di quanto tramandatoci nella vita di S. Castrese in cui si narra di un gruppo di santi, tra cui anche Secondino, abbandonati al largo del mare nostrum dai persecutori africani in una nave rotta e sfasciata che approda incolume, per volere divino, nei lidi campani.

Così non è.

La vita di S. Castrese è un altro di quei “romanzi” agiografici medioevali  in cui non c’è nulla di attendibile: un falso composto nella prima metà del secolo XII.

Se quindi la passio di S. Casto e S. Secondino è un falso, è evidente che non abbiamo nessuna prova che quest’ultimo sia stato un vescovo sinuessano , né che nel III secolo d.C. esistesse a Sinuessauna sede episcopale.

Da: Ugo Zannini

La scomparsa di Sinuessa e l’invenzione del suoepiscopato

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