L’antica città di Sinuessa è venuta a trovarsi più volte nel pieno di una discussione storica che ancora non è stata definitivamente chiarita: è effettivamente esistito un episcopato sinuessano o si è trattato solo di una montatura storica? Molti sono stati gli studiosi che hanno accolto la tesi dell’esistenza di una diocesi a Sinuessa, altri studiosi l’hanno caldamente respinta. Ma andiamo per gradi.
Furono forse gli onnipresenti Pelasgi a fondare l’ antica Sinope, più tardi divenuta colonia romana col nome di Sinuessa. Secondo lo storico greco Strabone, la città fu fondata da coloni provenienti dalla Tessaglia, gli Aminei, che la chiamarono Sinope per la molle sinuosità della costa su cui sorse e che per primi iniziarono la coltivazione della vite e che più tardi rese celebre il vino Falerno. Nel 296 a.C. arrivarono i romani e ne fecero una colonia marittima, gemella della vicina Minturnae, e ne cambiarono il nome in Sinuessa, dal nome della nutrice di Nettuno, Sinoessa.
La funzione principale della colonia era quella di controllo del territorio e di difesa dagli attacchi dei Sanniti, ma l’ ubicazione sulla via Appia, il porto e le salutari acque sulfuree fecero sì che essa diventasse ben presto città di supremazia commerciale dell’ area e luogo di villeggiatura del patriziato romano.
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Sinuessa affluivano tutte produzioni della Campania settentrionale per essere
ridistribuite altrove. Vi affluiva soprattutto la produzione vinicola del
Falerno per essere esportata verso la capitale.
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Secondo Nugnes, qui morì l’imperatore Claudio, e non a Roma come comunemente si crede, avvelenato dalla consorte Agrippina che volle così assicurare l’impero a Nerone, suo figlio di primo letto. Nel 69 d.C. vi morì anche il feroce Tigellino, ministro di Nerone.
L’abbandono di Sinuessa non fu un fenomeno rapido, ma un fenomeno che richiese del tempo e a cui contribuirono diverse concause. Una di queste fu senz’altro un aggiramento della via Appia a favore di Suessa Aurunca che fece perdere a Sinuessa la sua posizione di supremazia commerciale e ne favorì l’abbandono. A questa causa economica vanno aggiunti i notevoli fenomeni di bradisismo che interessavano la zona e che dimezzarono di molto l’attività commerciale, ma anche i continui assalti delle feroci bande barbariche che ormai scorrazzavano lungo la penisola. La città fu probabilmente abbandonata definitivamente verso la fine del V sec. a causa delle strutture portuali rese inutilizzabili dall’insabbiamento (Eliodoro Savino).
Tra i ruderi della città, nei secoli passati fu scoperta una lapide marmorea con un epigramma in greco attribuito al poeta Pompeo Teofane Giuniore e tradotto in latino dall’ Abate Ottaviani:
Litoribus finitimam Sinuessanis Venerem
Hospes, rursus pelago cerne egredientem.
Templa mihi collucent per Eonem, quan olim sinu
Drusi, et uxoris enutrivit delicium domus.
Morum vero suadela, et desiderium abstraxit illius
Totus locus hilari aptus laetitiae,
Bacchi enim sedibus me contubernalem coronavit,
Ad me calicum tumorem attrahens.
Fontes vero circa pedem scatent lavacrorum,
Quos meus filius urit cum igne natans.
Ne me frustra, hostites, praetereatis vicinam
Mari, et Nymphis Venerem, et Baccho.
Eone, ancella o liberta di Druso ed Antonia, eresse un tempio a Venere per mettere sotto la sua protezione i commerci che in questa città aveva, tra cui terme ed alberghi, e invita gli ospiti ad onorare, con Ciprigna e Bacco, le Ninfe della salute di queste acque sinuessane. La statua della Venere posta nel tempio rappresentava la dea che emergeva dalle acque e perciò fu detta Anadiomene, o marina. Come ben sappiamo, la Venere di cui parla l’epigramma, fu rinvenuta nel 1911 duranti dei lavori di sterro. Dopo una breve sosta al Museo Civico Archeologico “Biagio Greco” di Mondragone, ora è conservata al Museo Archeologico di Napoli.
Non si sa molto dell’evoluzione che la
colonia subì dopo il periodo romano. Molti studiosi ci raccontano alcuni
avvenimenti legati ad una supposta diocesi di Sinuessa, basandosi su documenti
che probabilmente sono dei falsi medioevali, come disserta il nostro Ugo Zannini in un suo studio molto interessante.
Lo studioso del XVII secolo Cesare Baronio, nei suoi Annali Ecclesiastici,è molto minuzioso nell’esporre le vicende legate a Marcellino papa, avvenute durante la feroce persecuzione di Diocleziano contro i cristiani.
Il Baronio ci dice che all’anno 303 di Diocleziano
sono datati gli atti di un concilio fatto a Sinuessa contro papa Marcellino I,
accusato da due presbiteri e un diacono di aver incensato agli dei pagani così
come imposto da un editto dell’imperatore. Il concilio si svolse nella Grotta
di Cleopatra, nei pressi di Sinuessa, perchè tutte le chiese cristiane
erano state distrutte e bruciate per ordine imperiale. Nella grotta si
radunarono 300 vescovi, cinquanta per volta al giorno, secondo la capienza del
luogo. In un primo tempo Marcellino negò la sua colpa, ma poi fu costretto ad
ammetterla e chiese ai vescovi di giudicarlo. La risposta definitiva dei
vescovi riportata negli atti fu: prima sedes non iudicabitur a quoquam, la
prima sede non può essere giudicata da alcuno.
Gli atti terminano dicendo che Diocleziano, saputo di questo Concilio in cui si erano radunati 300 vescovi, trenta preti e tre diaconi della chiesa romana, ne fece martirizzare molti di loro.
Se si accoglie la tesi che questi documenti siano dei
falsi storici, allora sorge una domanda molto spontanea. Qual’era lo scopo di
queste falsificazioni documentarie? Cosa volevano provare?
Due sono le posizioni che circolavano tra gli
studiosi. La prima asseriva che furono i donatisti,
zelanti scismatici, il cui ideale era una chiesa che soffre e il totale
distacco del clero dalla politica, a confezionare la storia del
Concilio di Sinuessa al fine di sostenere il loro pensiero. La seconda tesi
riguardava l’affermazione dell’ infallibilità papale che non può e non deve
essere giudicata da alcuno di inferiore posizione.
Anche le notizie riguardanti i martiri della supposta
chiesa sinuessana e quella sessana, S. Casto e Secondino, potrebbero non
essere veritiere, ma studi specifici al riguardo ci chiariranno meglio le idee.
Arthur Paul – Romans in Northern
Campania – Rome, 1991
Baronio Cesare – Annali
ecclesiastici – vol. I, Roma, 1656
Citti Francesco – Orazio, invito a
Torquato – Bari, 1994
Corcia Nicola – Storia delle Due Sicilie dall’antichità più remota al
1789, vol 2 – Napoli, 1845
De Luca Giuseppe – L’Italia
meridionale o l’antico Reame delle Due Sicilie – Napoli, 1860
Giannone Pietro – Istoria civile
del Regno di Napoli – Italia, 1821
Odescalchi Carlo – Difesa della
causa di S. Marcellino I – Roma 1819
Romanelli Domenico – Antica
topografia istorica del Regno di Napoli – Napoli, 1818
Salzano Maestro – Corso di storia
ecclesiastica – Milano,
1856
Savino Eliodoro – La Campania
tardoantica – Bari, 2005
Vacca Salvatore – Prima sedes a
nemine iudicatur – Roma, 1993
Zaccaria Francesco A. – Raccolta
di dissertazioni di storia ecclesiastica – Vol II – Roma, 1840
Zannini Ugo – La scomparsa di
Sinuessa e l’invenzione del suo episcopato – in Rivista Storica del
Sannio 23 – Napoli, 2005
L’ approfondimento che segue è un
interessante studio di Ugo Zannini, La
scomparsa di Sinuessa e l’invenzione del suo episcopato, pubblicato sulla
Rivista Storica del Sannio, 23, 3^ serie – anno XII. Le stesse note a piè di
questo articolo sono un ulteriore approfondimento dell’argomento in oggetto per
cui, per una miglior lettura, le trascriverò come articolo a parte.
******
Nella passio sanctorum Casti et Secondini (5) si narra la storia dei due martiri,
appuntoCasto (6) e Secondino (7), il
primo vescovo di Sessa Aurunca (8) ed il secondo di Sinuessa, imprigionati e torturati dal preside Curvus, il quale pur avendo assistito ai numerosi miracoli di questi santi,
infligge loro ogni sorta di sofferenze. Il preside, però, prima di vedere morti
i santi Casto e Secondino perirà sotto le macerie del tempio di Apollo. Solo
dopo questo evento voluto da Dio sarà possibile ai “cultori degli idoli”
uccidere, nel 292 presso Sinuessa, i santi trafiggendoli con la spada.
La passio, però, se analizzata attentamente, risulta essere stata composta in un
tempo relativamente recente (XI sec.), comunque lontanissima dai presunti
avvenimenti del III secolo d.C. Il genere letterario è ben noto agli agiografi
moderni: la prolissità è in simbiosi con un racconto dai toni drammatici in cui
l’elemento prodigioso sovrabbonda senza necessità e verosimiglianza. Ci
troviamo, cioè, di fronte a quelle vite “romanzate” in cui il biografo, a
corto di dati sul santo, era costretto a scriverne la storia immaginandosi le
persecuzioni, le scene del tribunale, il supplizio ecc.
E’ innegabile, però, che il culto nei
confronti dei santi doveva essere molto vivo in quei secoli nella Campania
settentrionale se il biografo sente la necessità di redigere una loro vita.
Testimonianza ne sono le chiese a loro dedicate che si desumono, ad esempio,
dalle Rationes decimarume dalle visitead sacra liminadelle diocesi sia di Carinola che di
Sessa Aurunca. Autorevoli studiosi hanno avanzato l’ipotesi, però, che i santi
Casto e Secondino non siano stati martiri locali, ma culti di santi importati
dall’Africa (F. Lanzoni). Nel III secolo, infatti, vengono martirizzati in
Africa Cassio, Casto e Secondino e conseguentemente i loro culti irradiati in
Campania.
Qualcuno potrebbe pensare che ciò è il
riflesso di quanto tramandatoci nella vita di S. Castrese in cui si narra di un gruppo di santi,
tra cui anche Secondino, abbandonati al largo del mare nostrum dai persecutori africani in una nave
rotta e sfasciata che approda incolume, per volere divino, nei lidi campani.
Così non è.
La vita di S. Castrese è un altro di quei “romanzi” agiografici
medioevali in cui non c’è nulla di attendibile: un falso composto nella
prima metà del secolo XII.
Se quindi lapassio di S. Casto e S. Secondino è un falso,
è evidente che non abbiamo nessuna prova che quest’ultimo sia stato un vescovo sinuessano , né che nel III secolo d.C.
esistesse a Sinuessauna sede episcopale.
Sotto il nome di Casto sono ricordati in Campania numerosi vescovi della prima cristianità.
Certo c’è da dire che la confusione regna sovrana e reduplicazioni e
sovrapposizioni sono quanto mai probabili. Ad un Casto vescovo del III secolo a
Benevento, si aggiunge un omonimo vescovo di Calvi martirizzato aSinuessa nel 66 d.C. che non è però il vescovo
di Sessa Aurunca perché questi sarebbe stato martirizzato insieme a
Secondino, sì a Sinuessa, ma nel 292 d.C.
Oltre che insieme a Secondino, Casto lo troviamo in coppia con Cassio sempre in Campania e nel
Lazio.
In quel di Sessa sarebbero state trovate
le tombe dei SS. Casto e Secondino. In verità tale asserzione non appare
confortata da prove inconfutabili. Cosimo Storniolo afferma, a seguito di
ispezione in loco, di essere convinto che il cimitero cristiano ritrovato a
Sessa Aurunca era anche il luogo di sepoltura dei SS. Casto e Secondino
[…]. Secondo il Testini, per l’identificazione della tomba di un
martire che almeno uno dei seguenti elementi debba provare inconfutabilmente:
1) Presenza di una cappella o basilica presso o sul sepolcro ancora integro; 2)
Iscrizionein
situ; 3) Graffiti tracciati
sull’intonaco delle pareti della cripta o della basilica sotterranea e sui muri
prossimi alla tomba del martire; 4) Altare eretto in onore del Santo; 5)
Eventuali pitture raffiguranti il Santo o presenza di elementi architettonici
attestanti il culto (scale di accesso per i visitatori ecc.). A ben osservare,
nessuno di questi elementi è testimoniato con chiarezza a Sessa Aurunca. L’
ubicazione in questo sito della chiesa dedicata a S. Casto, che tra
l’altro è ricordata nella Bolla di Atenulfo e nelle Rationes
Decimarumpoi, non è cosa certa neanche per gli storici locali.
Non può sfuggire a tal proposito come le
chiese di S. Casto e S. Secondino siano riportate, nei due predetti documenti,
separatamente mentre sarebbe stato più logico trovare una chiesa martoriale con
la doppia denominazione. Non vi sono, poi, né graffiti, né altari e né le
pitture medioevali e rinascimentali sono in grado di offrirci alcun dato;
infine, il ritrovamento dei resti di un sarcofago non dimostra alcunché
in quanto esso è pre-cristiano ed evidentemente riutilizzato. L’unica
prova, che questo cimitero cristiano fosse sorto presso le tombe
martoriali dei SS. Casto e Secondino, era un’ iscrizione riportata dal solo De
Masi (alla p. 244 del suo libro: CORPORA SS. MARTYRUM CASTI CIVIS/ ET EPI SUESSANI, ET SECUNDINI EPI/
SINUESSANI HIC REQUIESCUNT/ IN DOMINO). Pur volendo ritenere fededegna la notizia del De Masi, va precisato che la
formula utilizzata nell’ iscrizione non è ascrivibile al IV-V secolo d.C. ma
sicuramente è successiva. La notizia che vuole S. Casto cittadino di Suessa poi, è palesemente attinta dalla passio
che è un terminus ante quem non.
Va poi considerato che le due iscrizioni
riportate dal Menna (II p. 53) che si conservano scolpite sugli
scalini dell’atrio della chiesa cattedrale di Carinola, oggi non più esistenti,
ci attestano una tradizione diversa e forse più antica: OSSA. MARTYRIS. CASSII / EPISCOPI.
SINUESSANI HIC IN PACE / QUIESCUNT. e
CORPUS. MARTYRIS. SECUNDINI. / EPISCOPI.
SINUESSANI. HEIC./ REQUIESCIT. IN. DOMINO. In questo caso, non troviamo in coppia Casto e Secondino, ma ambedue
vescovi di Sinuessa presenti, però, in due distinte
epigrafi. Anche questa evidenza sembra confermare quella intuizione che avevano
avuto i Bollandisti (AA.SS., Julii, I, p.20) e di cui successivamente
Lanzoni tratterà più ampiamente: Casto, Casto e Secondini sono martiri
africani; successivamente il loro culto si diffonde in Campania e infine gli
agiografi dell’XI-XII secolo li fanno diventare martiri campani. Il ricordo della
loro originaria comune provenienza è rimasta testimoniata, a nostro avviso,
anche nelle diverse tradizioni che vedono questa triade presente a coppie
variabili:
–
Cassio/ Casto (Passio sanctorum Cassi et Casti);
–
Casto/Secondino (Passio sanctorum Casti et Secondini);
– Cassio e Secondino (Menna 1848, II, p. 53).
Da: Ugo Zannini
La scomparsa di Sinuessa e l’invenzione
del suo episcopato
Concetta Di Lorenzo
Fonte
Alcuni testi consultati dall’autore
Actasanctorum, Julii I –
Parigi 1719
Ambrasi D. in Bibliotheca Sanctorum
-coll. 811-812
Balducci A. inBibliotheca
Sanctorum – coll. 935-940
De Masi T.- Memorie istoriche degli
Aurunci antichissimi popoli dell’Italia e delle loro principali città Aurunca e
Sessa – Napoli, 1761
Di Silvestro L.- Diocesi di Sessa
Aurunca. Il cammino della Chiesa locale dalle origini al 1939 – Sessa
Aurunca, 1996
Mazzeo F. – Il complesso cimiteriale
dei Santi Casto e Secondino in Sessa Aurunca – in Fede e Cultura, 1, Sessa
Aurunca, 1987-1989
Menna Luca – Saggio istorico ossia
piccola raccolta dell’istoria antica e moderna della città di Carinola in Terra
di Lavoro – Aversa, 1848 (rist. a cura di Adele Marini Ceraldi, Napoli
1970)
Stornaiolo C.– Conferenze di
archeologia cristiana. anno XXII, 1896-1897 in Nuovo Bullettino di
archeologia cristiana, III, Roma, 1897
Testini P. – Acheologia Cristiana – Bari,
1980
Ughelli F. Italia Sacra, vol X – Venezia
1790
Zona M.- Il santuario caleno – Napoli, 1809
Actasanctorum, Julii I – Parigi 1719 Ambrasi D. in Bibliotheca Sanctorum -coll. 811-812 Balducci A. inBibliotheca Sanctorum – coll. 935-940 De Masi T.- Memorie istoriche degli Aurunci antichissimi popoli dell’Italia e delle loro principali città Aurunca e Sessa – Napoli, 1761 Di Silvestro L.- Diocesi di Sessa Aurunca. Il cammino della Chiesa locale dalle origini al 1939 – Sessa Aurunca, 1996 Lanzoni F. – Le diocesi d’ Italia dalle origini al principio del secolo VII – Faenza, 1927 Mazzeo F. – Il complesso cimiteriale dei Santi Casto e Secondino in Sessa Aurunca – in Fede e Cultura, 1, Sessa Aurunca, 1987-1989 Menna Luca – Saggio istorico ossia piccola raccolta dell’istoria antica e moderna della città di Carinola in Terra di Lavoro – Aversa, 1848 (rist. a cura di Adele Marini Ceraldi, Napoli 1970) Stornaiolo C.– Conferenze di archeologia cristiana. anno XXII, 1896-1897 in Nuovo Bullettino di archeologia cristiana, III, Roma, 1897 Testini P. – Acheologia Cristiana – Bari, 1980 Ughelli F. Italia Sacra, vol X – Venezia 1790 Zona M.- Il santuario caleno – Napoli, 1809 Pr
La giovane Giulia e le due
nipotine presero via “Da Capo” e arrivarono a casa. Questo incontro, per me,
spiega la vera anima del pittore e fa capire, chiaramente, come aveva vissuto e
viveva la delusione dei suoi sogni patriottici. A casa Giulia raccontò tutto ad
Antonio e i due sposi ripresero a piangere, poi pensarono alle bimbe e Giulia
preparò la cena. Dopo alcuni mesi anche la masseria di Leverano con tutto il
terreno intorno fu venduta e fu l’ultimo boccone della famiglia del Mastro ad
essere ingoiato dal Dinosauro Piemontese.
Papà diceva che a comprare
la masseria di Leverano era stato il signor Andrea Casale,il solo che non aveva
approfittato della disgrazia e l’aveva pagata quanto realmente valeva. Tanto
che papà era molto amico del figlio del signor Andrea Casale che si chiamava
Giovannino ed io, da piccola, rispettando la buona educazione laurese che i
figli chiamano zii gli amici dei genitori lo chiamavo “zio Giovannino” e papà
spesso mi portava a visitare la masseria dei miei bisnonni e “zio Giovannino”
me la faceva visitare tutta e a me bambina sembrava un piccolo e turrito castello.
Ritornando al pittore, quel pianto fatto alla masseria di Leverano in memoria
dell’amico Titta del Mastro dovette fargli bene, perché riprese a dipingere con
più lena e dalle sue mani uscirono tre quadri capolavori. Terminò il primo
quadro Agostino Nifo alla corte di Carlo V. 2) Taddeo da Sessa al concilio di
Lione. 3)La morte di Pilade Bronzetti alla battaglia di Castel Morrone.
Il pittore terminò il
quadro “Agostino Nifo alla corte di Carlo V” ed è uscito un vero capolavoro. Il
quadro è lungo 3m ed alto 3m. Chi lo guarda viene trasportato in una vera
reggia cinquecentesca. I vestiti dei personaggi sono perfetti,ma quello che
colpisce di più è il parlare dei personaggi e la sorpresa che traspare dai
volti dei nobili, perché il filosofo, non solo non si è tolto il cappello come
hanno fatto tutti i presenti, ma si è addirittura seduto davanti
all’imperatore, mentre tutti i presenti sono in piedi. L’imperatore è sorpreso,
ma non irato, si nota che stima molto il filosofo a cui ha affidato l’educazione
dei suoi figli. Luigi Toro con questo quadro non solo ha voluto dimostrare le
sue idee riguardo all’istruzione e alla nobiltà ma ha voluto lasciare anche un
ottimo insegnamento alle future generazioni: l’istruzione è superiore a tutti i
titoli nobiliari, l’uomo dotto, colto e onesto è addirittura uguale
all’Imperatore. Questo quadro per la mia famiglia paterna è stato sempre
considerato sacro ed ogni volta che qualcuno della nostra famiglia lo guardava
non poteva non recitare un eterno riposo per l’anima di zio Titta presente nel
quadro (è alto, il primo a sinistra, un po’ di spalle). Il quadro è stato
offerto al comune di Sessa e si trova sulla parete più importante del nostro
Senato Cittadino. Il pittore alla fine del decennio 1860 si trasferì a Roma e prese
casa a via Margutta, la strada degli artisti e lì dipinse i suoi ultimi quadri.
La cultura e l’uomo dotto
sono anche i protagonisti del quadro “Il Concilio di Lione” lungo 6m e alto 4m,
che occupa tutta una parete del nostro Senato Cittadino; ma per meglio capire
ed apprezzare questo capolavoro, bisogna fare una breve introduzione storica.
Siamo nel secolo XIII: é Re di Sicilia e Imperatore di Germania (Sacro Romano
Impero) il grande Federico II, che con le sue leggi e il suo ottimo governo ha
fatto diventare il Regno delle Due Sicilie il più ricco fra tutti i regni
europei e la stessa cosa si prepara a fare, come Imperatore per la Germania, ma
l’unione delle due corone: Re di Sicilia e Re di Germania non era gradita al
Pontefice Gregorio IX, perché il papa non voleva che il territorio governato
dallo stato pontificio fosse stretto e confinante con i possedimenti dello
stesso sovrano a Nord e a Sud. Perciò Federico II doveva rinunziare o al regno
di Sicilia o alla Corona Imperiale.
I Pontefici si potevano permettere
di fare questa richiesta, perché tutto era stato già confermato durante la
minorità di Federico II, che nato nel 1194, rimasto orfano del padre,
l’imperatore Enrico VI morto nel 1197, fu affidato dalla madre, l’imperatrice
Costanza d’Altavilla al pontefice Innocenzo III, che rimase il solo a prendersi
cura del piccolo principe quando anche la madre nel 1198 morì. Nel 1208
Innocenzo III dichiarò maggiorenne Federico a 14 anni e lo incoronò Re delle
Due Sicilie, facendogli, però, promettere di rinunziare alla Corona Imperiale
di Germania. Tutto procedeva bene, quando nel 1216 Innocenzo III morì e fu
eletto papa Onorio III molto legato a Federico che nel 1220 incoronò Federico
II anche Imperatore di Germania (Sacro Romano Impero). Morto Onorio III nel
1227 fu incoronato papa Gregorio IX, che subito ordinò a Federico di deporre
una delle due Corone e rispettare gli accordi stabiliti nel 1208. Poiché
Federico, appoggiato dai Siciliani e dai Germani resisteva, il Papa ricorse
all’arma della scomunica: lo scomunicò perché Federico ritardava a organizzare
la sesta crociata promessa e liberare la Terra Santa dai Musulmani.
Nel 1228 Federico
organizzò la crociata e partì, ma invece di combattere con le armi, risolvette
tutto diplomaticamente. Si incontrò in Egitto con sultano al-MaliK al Kamil a
cui Federico cedette tutti i porti dell’Egitto e dal sultano ebbe libera la
Terra Santa. Poi i due sovrani firmarono l’accordo e si salutarono con una
stretta di mano. Quando Federico II consegnò al Papa la Terra Santa liberata,
Gregorio IX gridò come un pazzo: <Cosa hai fatto?! Sei venuto con le spade
pulite!? Tu dovevi venire con le spade sporche di sangue musulmano. Gli
infedeli si uccidono! Tu hai stretto la mano del sultano! Tu sei un Anticristo
scomunicato e scomunicato resterai>. Furono tempi duri fra il Papa e
Federico II anche se i due nel 1230 arrivarono ad un accordo firmato a San
Germano (Montecassino ).
Morto Gregorio IX nel
1241, dopo un anno e mezzo di sede vacante fu eletto papa Innocenzo IV nel 1243
e mentre continuavano le trattative con Federico II e il Papa, Innocenzo IV
fuggì improvvisamente a Lione dove convocò un concilio nel quale scomunicò e
depose Federico II, bandendo, addirittura, contro di lui una crociata e chiese
aiuto alla Francia alla quale promise il Regno delle Due Sicilie. A questo
punto entrò in scena il più grande giurista del tempo,(oggi 2016 possiamo dire
il più grande giurista di tutti i tempi) il nostro concittadino Taddeo da
Sessa, nato a Sessa nel 1190. Taddeo da Sessa era il più grande giustiziere
della Curia Imperiale, giurista eminente, tenuto in gran conto alla corte di
Federico II, che gli affidò nel 1243 la sua difesa presso Innocenzo IV al
Concilio di Lione 1243. Il nostro giurista difese l’imperatore con un’arringa
in Latino degna di Cicerone, ma tutto fu inutile. Innocenzo IV non solo non
tolse la scomunica a Federico II, ma lo considerò decaduto e bandì contro di
lui addirittura una crociata. Chi guarda questo quadro si trova subito fra i
prelati presenti nel duomo di Lione, illuminato dalle luci delle candele. A
sinistra di chi guarda sta il Papa in trono solo, brutto, cattivo. La folla dei
chierici, in bianco, sembra un ammasso di statue, più spaventati che cantanti
il Te Deum. I prelati non sanno dove guardare, né dove correre.
Alcuni hanno il coraggio
di raggiungere (sulla destra guardando) il giurista Taddeo da Sessa, che il
pittore ci presenta disgustato, irato al punto che sta per strappare le carte
con i documenti, che ha tra le mani. Questo quadro, che, veramente, per come è
fatto, è un vero capolavoro, perché anche in questo quadro tutti i personaggi
non solo sono -loquaces- ma arrivano a mostrare anche il loro carattere. Un
quadro bellissimo di cui noi Suessani siamo orgogliosi.
Non così, purtroppo è
stato per la Chiesa Cattolica, che non ha mai dato il suo sostegno al nostro
pittore, perché la Chiesa non ama far conoscere i suoi peccati. Per avere il
sostegno della Chiesa il nostro pittore doveva seguire l’esempio di
Michelangelo, di Signorelli ed altri: tutti osannanti… Tutti protetti. Il
nostro pittore invece, presentando il Concilio di Lione non solo ha voluto far
conoscere il grande giurista Taddeo da Sessa, ma ha dimostrato anche la sua
libertà di pensiero, qualità importante per l’artista.
Il quadro ” La morte di
Pilade Bronzetti”.
Anche questo quadro è grandissimo è lungo 6m e alto 4m, il pittore ci presenta
il campo di Castel Morrone dopo la battaglia e la morte del suo amico Pilade
Bronzetti. Anche questo quadro fu dipinto a Roma, dove Luigi Toro si era
trasferito e abitava in via Margutta, la strada dei pittori. Il pittore per
fare questo quadro chiese un prestito al Banco di Napoli, ma il prestito non
potette essere saldato perché il quadro non fu venduto. Il quadro è stato solo
poche volte esposto ed è stato sempre conservato dal Banco di Napoli.
I perché sono tanti: chi
dice che è troppo grande- chi dice che mette sotto gli occhi di chi lo guarda
quella terribile <accisaglia> di italiani contro italiani che portò alla
conquista del Regno delle Due Sicilie. Tanto è vero che il re Vittorio Emanuele
II arrivò addirittura ad ordinare di far bruciare il quadro, perché non voleva
far vedere quello che era avvenuto per la conquista dell’Italia Meridionale.
Fortunatamente il Banco di Napoli si oppose e noi oggi possiamo ammirare questo
grande capolavoro. Che il quadro sia un vero capolavoro lo conferma la
bellissima critica di Gabriele d’Annunzio, scritta sulla Tribuna di Roma, ne
riporto alcuni pensieri: “le figure sono disegnate con bravura… il paesaggio
pare partecipare al triste destino degli uomini in guerra. Il paesaggio occupa
uno spazio rilevante nella composizione. Scegliendo, dunque, il versante del
Naturalismo più aggiornato il pittore aurunco riuscì ancor meglio a descrivere
e caratterizzare l’episodio storico”- Gabriele D’Annunzio.
Fra tutte le critiche su
questo sfortunato quadro ho scelto quella del poeta Gabriele D’Annunzio per far
capire agli italiani del 2016 che depositato nei forzieri del Banco di Napoli
c’è un vero capolavoro, che merita di essere esposto ed ammirato. Questo quadro
causò anche la rovina economica del pittore, perché, per farlo, non solo
consumò tutti i suoi risparmi, ma chiese prestiti anche al Banco di Napoli, che
non vendendo il quadro non poté saldare. Trascorse gli ultimi anni della sua
vita povero e triste. anche se aveva ottenuto il primo posto il suo dipinto
“Riposo dei cacciatori” all’Esposizione Internazionale di Vienna.
Luigi Toro non ebbe mai il
coraggio di ritornare a Lauro, per fortuna un suo carissimo alunno Nicola
Borrelli ne ebbe pietà, lo prese e lo portò a casa sua a Pignataro Maggiore,
dove il giorno 13 aprile del 1900 alle due antimeridiane l’alunno raccolse le
sue ultime parole: <Ho sempre pregato Iddio perché mi avesse concesso di
morire in mezzo agli amici> e tali, più che fratelli furono quelli che lo
assistettero e lo piansero. Fu sepolto a Pignataro nella tomba della famiglia
Borrelli. Il Consiglio Comunale di Sessa Aurunca lo commemorò nella seduta del
successivo 18 aprile. <Il giorno 13… spegnevasi in Pignataro Maggiore il
nostro illustre concittadino Cav. Luigi Toro con Lui Sessa perde un patriota
preclare, un cittadino integerrimo, un artista di fama nazionale… Sessa piangendone
la perdita rende il dovuto omaggio alla memoria di un suo cittadino che le
accrebbe lustro e nome>.
I resti mortali del
pittore il 12 maggio 1973 furono traslati da Pignataro Maggiore a Lauro, il
paese che gli aveva dato i natali ed ora riposano in pace nell’antica tomba di
famiglia: La tomba dei suoi cugini i colonnelli Toro, nel cimitero antico di
Lauro.
A cura della Prof. Cecilia Aida Maria Del Mastro, tratto da “Archivi Storici, archivi domestici”-
Luigi Toro, pittore
Aurunco: la storia e le opere.
Parte II – La gioventù, le opere e
la guerra.
Prof. Cecilia Aida Del Mastro
Quando nel 1853 il giovane Luigi Toro compì 18 anni e diventò maggiorenne poteva vendere e comprare, il diabolico patrigno ne approfittò: gli disse che se voleva andare a Napoli e frequentare l’Accademia Artistica doveva vendergli tutti i suoi diritti sulla proprietà (case e terreni). Egli gli avrebbe depositato i soldi in banca da dove avrebbe ritirato, di volta in volta, il necessario per studiare e incominciare a dipingere. Il giovanissimo Luigi non ci pensò due volte, fece subito quello che il patrigno voleva e partì per Napoli. Tutti i conoscenti e i parenti restarono senza parole, nessuno aveva pensato che il patrigno arrivasse ad una simile espoliazione.
Il
pittore Luigi Toro appartiene ad una delle famiglie più antiche e illustri
della Regione Aurunca, infatti il suo antico nome era “ Thora”, che deriva dal
greco e significa “terreno fertile e solatio”. Infatti venivano chiamati “Thora”
i tanti villaggi sorti sulle colline del versante di Roccamonfina, rivolto al
Mar Tirreno. Erano i secoli VI e V a.C. quando ancora la Regione Aurunca non
era stata occupata da Roma e il nome Thora restò anche quando nel 314 a.C.
tutta la Regione Aurunca fu occupata dai Romani ed entrò a far parte
dell’orbita romana e veniva governata con leggi romane.
Quando poi l’Impero Romano crollò
nel 476 tutte le piccole Thora del versante di Roccamonfina rivolto al Mar
Tirreno caddero sotto la giurisdizione di un feudatario di origine longobarda,
che unì al Toponimo Thora di origine greco – aurunca l’aggettivo longobardo
“aldo-alda-aldi-alde” che significa bellissimo e si ebbe il Toponimo “Toralde”
( in dialetto Toraglie) il feudatario ne prese anche il nome e si chiamò
Toraldo e chiamò tutta la zona a lui soggetta “Feudo Toraldo” (oggi gli eredi
della nobile famiglia Toraldo vivono a Piedimonte di Sessa Aurunca).
Molto sfortunata, invece, fu una
bellissima Thora formata da una villa agricola signorile e da alcune case di
contadini con cellai, stalle e fienili e intorno tanto terreno fertile,
coltivato a vigneti e ad oliveti. Questa bellissima Thora nell’anno 577 d.C.si
trovò sulla traiettoria del duce longobardo Zotone quando il duca si scagliò
contro l’Abbazia di Monteccasino e la distrusse e distrusse anche la nostra
Thora, i cui abitanti, che da secoli, l’avevano abitata, si rifugiarono nel
vicino villaggio di Lauro e dall’anno 577 presero come cognome il nome della
propria terra e fino al 1800 si sono sempre chiamati “de Tora”.
Il cognome de Tora fa parte dei
cognomi sorti nell’alto medioevo, quando molte famiglie furono costrette a
fuggire dalla propria terra, dal proprio paese per le continue e disastrose
invasioni barbariche e preferivano prendere come nuovo cognome il nome del loro
paese, della propria terra, di un loro antenato illustre o della professione
della loro famiglia e tutti questi nuovi cognomi erano preceduti dalla
preposizione – de – che indica provenienza.
In realtà il complemento di origine
o di allontanamento la grammatica Latina lo preferisce in ablativo semplice
senza le preposizioni “de-ex-e “, che si mettono solo quando il luogo da cui ci
si allontana è importante e non con nomi di paesi, di famiglia e di familiari,
ma nell’animo di quelle persone costrette ad allontanarsi dalla propria casa,
dal proprio paese, dalla propria famiglia, il sentimento che provavano era cosi
forte che quel – de- scritto in lettera minuscola ci sta di diritto e così
scritto, sempre in minuscola acquisterà col tempo anche – sinonimo di nobiltà-
e si chiamerà “de nobiliare”.
Per quanto riguarda la famiglia de
Tora di Lauro dal 577 fino al 1800 è rimasta sempre – de Tora- e a tutti i
figli maschi veniva dato il nome Leone e pur prendendo parte alla vita civile,
politica, militare e religiosa ha conservato sempre i suoi valori morali e
religiosi e tutte le sue ricchezze economiche: “ Famiglie
illustre-economicamente benestante- Proba- di Fede Cristiana Cattolica” come
risulta scritto negli archivi del Regno delle due Sicilie. Per quanto riguarda,
poi, la mia conoscenza della storia della famiglia de Tora – dall’anno 1800 in
poi essa rivive nei ricordi di mio padre, la cui nonna paterna,Giulia de Tora,
non solo è stata una erede di questa illustre famiglia, ma è stata anche prima
cugina del pittore Luigi Toro e spiegava a mio padre di come avvenne il
passaggio del cognome da – de Tora a Toro. Riporto il racconto di nonna Giulia
de Tora e di mio padre “ quando nel 1734 diventò Re di Napoli delle Due Sicilie
Carlo III di Borbone tutto rifiorì nel nostro Regno.
Le cose andavano, di giorno in
giorno, sempre meglio. Alla fine del 1700 il patriarca della famiglia de Tora
si chiamava Leone de Tora e aveva due nipoti giovani e tutte e due portavano il
suo nome e il suo illustre cognome. Uno restò a fare l’agricoltore come il
nonno e i terreni da lavorare erano ancora molti, tutti intorno all’antica
Tora: oliveti e vigneti, l’altro nipote partì militare di carriera nel
rinnovato e famoso esercito borbonico. Il giovane de Tora fece una brillante
carriera e raggiunse il grado di colonnello e si trovò a difendere il Regno
dagli assalti francesi del 1798 e seguì il Re Borbone Ferdinando IV quando il
re fu costretto nel dicembre 1798, a cercare scampo in Sicilia sotto la
protezione della flotta inglese”.
Dalla storia apprendiamo che nel
1799 tutta l’Italia era sotto la Francia, ma grazie all’intervento della III
coalizione europea,l’invasione francese fu bloccata e i francesi abbandonarono
l’Italia era il 1799-1800. Il Re ritornò a Napoli scortato dalla flotta inglese
e dall’ammiraglio Nelson. Nel 1800 ritornò anche il nostro colonnello Leone de
Tora che si faceva chiamare Leone Toro. Nonna Giulia diceva che il giovane
colonnello Toro aveva ricevuto dal Re anche molti doni: abitazioni a Napoli e
alcuni moggi del terreno demaniale del Garigliano.
Per il cognome cambiato il giovane
colonnello diceva che era stato desiderio del Re, perché il toro era
considerato animale nobile e un giorno sarebbe potuto diventare anche suo
simbolo araldico, perché non era lontano il giorno in cui avrebbe ottenuto
anche un titolo nobiliare. Stando così le cose un figlio di Leone de Tora
rimasto a fare l’agricoltore volle seguire lo zio colonnello ed entrò anche
egli nell’esercito borbonico e pure avendo già un bimbo piccolo, che per
rispetto del nonno aveva chiamato Leone Carmine de Tora, volle prendere per sè
e per i figli che sarebbero nati il nuovo cognome Toro. Ma l’illustre casata de
Tora ( purtroppo era destinata a finire, perché Leone Carmine de Tora, fatto
grande e sposatosi con la bravissima signorina Olimpia Grasso, ebbe solo tre
figlie, una di queste Giulia è stata la mia bisnonna paterna, mamma di nonna
Michele, padre del mio papà).
Ritorniamo al 1806. Napoleone non
aveva dimenticato il Regno di Napoli e lo riconquistò nel 1806 e il re
Ferdinando IV fu costretto nuovamente a scappare a Palermo con la sua corte e
con tutti i suoi militari fedelissimi, tra i quali i due ufficiali Toro: Leone
Toro padre e Leone Toro figlio e Leopoldo Luca, lasciato il bimbo di pochi anni
di nome Leone Carmine de Tora al padre e al nonno, Leopoldo Luca e la giovane
moglie Amalia Russo si trasferirono anche loro a Palermo e vi restarono fin
quando vi restò il Re: fino al 1815.
Quando Napoleone fu definitivamente
sconfitto e il Regno di Napoli, che durante il periodo napoleonico era stato
affidato a Murat, cognato di Napoleone, ritornò libero, il re Ferdinando IV vi
fece ritorno con tutta la sua corte i suoi militari fedelissimi. Ritornarono
anche i nostri colonnelli Toro: Leone Toro padre e Leone Toro figlio; e il
giovane ufficiale Leopoldo Luca Toro con la giovane moglie Amalia Russo e il
secondo figlio nato a Palermo nel 1810 chiamato Luca Leopoldo Toro. Abbiamo,
come vediamo, due fratelli figli dello stesso padre e della stessa madre ma con
cognomi diversi: (Leone Carmine de Tora e Luca Leopoldo Toro). Luca Leopoldo
viene sempre presentato ancora oggi 2016, come un giovane intelligente, bello e
buono e a soli 18 anni sposò Olimpia Scarretta, che di anni ne aveva 16, anche
la giovane sposa è ricordata bellissima e ricchissima, infatti la famiglia
Sciarretta è stata sempre tra le prime famiglie di Lauro.
I due sposi posero la loro residenza
in un antico palazzo nella parte più antica di Lauro: via Pietrabianca, quasi
di fronte alla casa dei miei antenati ( dove oggi io abito). I giovanissimi
coniugi furono subito allietati dalla nascita di un bimbo (1831) di nome
Francesco Leopoldo e il 3 gennaio 1835 ebbero un secondo bimbo chiamato Luigi
Leopoldo ( che sarà il nostro pittore), ma il 13 gennaio del 1836 a soli 26
anni morì il giovane padre. La giovane madre restò vedova a 24 anni con due
bimbi piccolissimi: uno di cinque anni e l’altro di un anno,ma fu molto aiutata
dalle tre famiglie parenti: Scarretta, Toro e Russo.
I bimbi crescevano bene e poiché
erano coetanei con i bimbi del Mastro loro dirimpettai, nacque tra
loro una profonda amicizia, che durerà per sempre. Giovanbattista del Mastro
era del 1830, i fratelli Michele del 1834 e Antonio del 1836. L’amicizia diventava
sempre più salda perché, come in tutte le famiglie benestanti dei piccoli
borghi, l’istruzione dei figli veniva affidata ad un ottimo maestro, perché
ancora l’istruzione elementare non era obbligatoria e gratuita, lo diventerà
con la legge Coppino nel 1882. I fratelli Toro e i fratelli del Mastro
frequentavano lo stesso maestro il bravissimo parroco Girolamo Perrotta, che
subito notò il genio artistico del piccolo Luigi perché gli bastava un foglio e
una matita e riproduceva il volto degli amici e le cose che lo circondavano.
Il bravissimo maestro avrebbe voluto
mandarlo a Napoli per fargli frequentare una scuola adatta alle sue capacità
artistiche, ma il bravo maestro non veniva ascoltato. Quando poi anche i tre
fratellini del Maestro rimasero orfani del padre, infatti il signor Gabriele
del Mastro morì il 5 aprile 1844, la comitiva degli amici si ridusse perché
Mons.Michele Ceraldi, zio vescovo dei fratelli delMastro mise Michele in
seminario, perché desideravo farlo diventare sacerdote e scrisse Antonio alla Regia
Academia Militare di Napoli per farne un ufficiale dell’esercito Borbonico,
lasciò invece il giovanissimo Giovanbattista, chiamato affettuosamente Titta,
in compagnia della madre vedova di nome Olimpia Ceraldi, sorella del signor
Michele Ceraldi che abitava a San Castrese e nipote del vescovo Mons. Michele
Ceraldi.
Il piccolo Luigi Toro, dopo la
partenza dei suoi coetanei Michele e Antonio, si attaccò ancora di più a Titta
anche perché nella sua famiglia si erano verificati due avvenimenti importanti,
destinati, purtroppo, a condizionare tutta la sua vita futura. Nel 1851 la
madre si risposò con Giuseppe Prete. A Lauro vi erano due famiglie che
portavano il cognome Prete: una era formata da onesti proprietari terrieri,
l’altra era ricchissima ma, tristemente famosa e poco stimata perché i
componenti, da sempre, erano stati usurai, tanto che nel 1800 erano arrivati a
praticare anche il vergognoso e peccaminoso <Menanno> ( quando il mal
capitato non poteva saldare il debito e aveva figlie giovani e belle il
debitore gli chiedeva una delle figlie, se il peccaminoso baratto veniva
accettato, la ragazza scelta risultava morta per la sua famiglia d’origine e
passava tutta la sua vita a fare la schiava del padrone).
Non so a quale delle due famiglie Prete appartenesse il secondo marito di Olimpia, la madre del nostro pittore, ma dal comportamento del signor Prete penso più alla famiglia degli usurai. Il patrigno era anch’egli vedovo e aveva una figlia signorina di nome Angela, che subito fece sposare a Francesco Leopoldo, fratello maggiore del pittore e cominciò così ad impadronirsi delle ricchezze della famiglia di Luca Toro.
Luigi Toro, pittore Aurunco: la storia e le opere.
Parte I – Gli Avi, la sua famiglia e la sua infanzia
Prof. Cecilia Aida Maria Del Mastro
A
cura della Prof. Cecilia Aida Maria Del Mastro, tratto da “Archivi Storici,
archivi domestici”-
l
L’ approfondimento che segue è un interessante
studio di Ugo Zannini, La scomparsa di Sinuessa e l’invenzione del suo
episcopato, pubblicato sulla Rivista Storica del Sannio, 23, 3^ serie –
anno XII. Le stesse note a piè di questo articolo sono un ulteriore
approfondimento dell’argomento in oggetto per cui, per una miglior lettura, le
trascriverò come articolo a parte.
Nella passio sanctorum
Casti et Secondini (5) si narra la storia dei due martiri,
appunto Casto (6) e Secondino (7), il primo vescovo di Sessa
Aurunca (8) ed il secondo di Sinuessa, imprigionati e
torturati dal preside Curvus, il quale pur avendo
assistito ai numerosi miracoli di questi santi, infligge loro ogni sorta
di sofferenze. Il preside, però, prima di vedere morti i santi Casto e
Secondino perirà sotto le macerie del tempio di Apollo. Solo dopo questo evento
voluto da Dio sarà possibile ai “cultori degli idoli” uccidere, nel 292 presso Sinuessa,
i santi trafiggendoli con la spada.
La passio, però, se analizzata
attentamente, risulta essere stata composta in un tempo relativamente recente
(XI sec.), comunque lontanissima dai presunti avvenimenti del III secolo d.C.
Il genere letterario è ben noto agli agiografi moderni: la prolissità è in
simbiosi con un racconto dai toni drammatici in cui l’elemento prodigioso
sovrabbonda senza necessità e verosimiglianza. Ci troviamo, cioè, di
fronte a quelle vite “romanzate” in cui il biografo, a corto di dati sul santo,
era costretto a scriverne la storia immaginandosi le persecuzioni, le scene del
tribunale, il supplizio ecc.
E’ innegabile, però, che il culto nei confronti dei
santi doveva essere molto vivo in quei secoli nella Campania settentrionale se
il biografo sente la necessità di redigere una loro vita. Testimonianza ne sono
le chiese a loro dedicate che si desumono, ad esempio, dalle Rationes
decimarume dalle visitead sacra liminadelle
diocesi sia di Carinola che di Sessa Aurunca. Autorevoli studiosi hanno
avanzato l’ipotesi, però, che i santi Casto e Secondino non siano stati martiri
locali, ma culti di santi importati dall’Africa (F. Lanzoni). Nel III secolo,
infatti, vengono martirizzati in Africa Cassio, Casto e Secondino e
conseguentemente i loro culti irradiati in Campania.
Qualcuno potrebbe pensare che ciò è il riflesso di
quanto tramandatoci nella vita di S. Castrese in cui si narra di
un gruppo di santi, tra cui anche Secondino, abbandonati al largo del mare
nostrum dai persecutori africani in una nave rotta e sfasciata che
approda incolume, per volere divino, nei lidi campani.
Così non è.
La vita di S. Castrese è un altro di quei
“romanzi” agiografici medioevali in cui non c’è nulla di attendibile: un
falso composto nella prima metà del secolo XII.
Se quindi lapassio di S. Casto e S.
Secondino è un falso, è evidente che non abbiamo nessuna prova che quest’ultimo
sia stato un vescovo sinuessano , né che nel III secolo d.C.
esistesse a Sinuessauna sede episcopale.
Da: Ugo Zannini
La scomparsa di Sinuessa e l’invenzione del suoepiscopato