Alta Terra di Lavoro

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«ALTAMURA. LA STRAGE DELLE INNOCENTI». UN FALSO STORICO CONTRO L’INSORGENZA ITALIANA

Posted by on Lug 27, 2019

«ALTAMURA. LA STRAGE DELLE INNOCENTI». UN FALSO STORICO CONTRO L’INSORGENZA ITALIANA

1. IL FATTO

Il Corriere della Sera di mercoledì 17 febbraio 1999 ha pubblicato con ampio risalto sulla prima delle sue pagine culturali un articolo di Maria Antonietta Macciocchi dal titolo Altamura. La strage delle innocenti (1).

Nell’articolo è narrato un fatto di sangue che sarebbe accaduto duecento anni or sono, nel corso della guerra civile che nella prima metà del 1799 vide contrapposte le popolazioni del Regno di Napoli — inquadrate in gran parte nell’esercito della Santa Fede, guidato dal cardinale Fabrizio Ruffo dei duchi di Baranello (1744-1827), vicario generale di re Ferdinando IV di Borbone (1751-1825) — e i rivoluzionari francesi, affiancati dalle milizie della giacobina Repubblica Napoletana, proclamata il 21 gennaio dello stesso anno. Secondo la studiosa, le truppe sanfediste avrebbero perpetrato, nel corso del saccheggio seguito all’espugnazione della città pugliese di Altamura, roccaforte giacobina, nel maggio 1799, lo «stupro di massa» e il massacro di quaranta religiose di clausura, di cui non viene specificato l’ordine di appartenenza, ma che sarebbero orsoline, secondo le fonti di cui si è avvalsa.

2. LA NARRAZIONE

Maria Antonietta Macciocchi nasce il 22 luglio 1922 a Isola del Liri, in provincia di Frosinone; nel 1942 aderisce al Partito Comunista Italiano e nel 1950 si laurea in storia dell’arte all’Università La Sapienza di Roma. Sposa il giornalista Alberto Jacoviello, dal quale poi divorzierà. Dal 1956 al 1961 dirige il settimanale comunista Noi donne e dal 1961 al 1968 la rivista, sempre comunista, Vie nuove; è quindi corrispondente de l’Unità, l’organo ufficiale del Partito Comunista Italiano, da Algeri, da Bruxelles e da Parigi. Nel 1968 è eletta deputata nelle file del PCI. Nel 1971 entra in dissenso con la linea ufficiale del partito, che di conseguenza non la ricandida al Parlamento. Nel 1972 si trasferisce a Parigi, doveconsegue il dottorato in scienze politiche alla Sorbona e ottiene un lettorato all’università di Parigi VIII a Vincennes. Nel 1977 lascia il PCI e aderisce al Partito Radicale, nelle cui liste è eletta nel 1979 sia alla Camera dei Deputati, sia al Parlamento Europeo. È ancora parlamentare europea dal 1984 al 1989 con la Sinistra Indipendente. Collabora attualmente con i quotidiani Corriere della Sera, Le Monde, di Parigi, e El País,di Madrid. È promotrice della Convenzione di Venezia degli intellettuali europei e nel 1986 riceve dal governo francese l’Ordre des Arts et des Lettres. Ha pubblicato una quindicina di libri — per lo più su temi interni al movimento rivoluzionario italiano ed europeo —, gli ultimi dei quali dedicati alle due maggiori esponenti femminili della Repubblica Napoletana, Eleonora de Fonseca Pimentel (1752-1799) e Luisa Sanfelice (1764-1800), entrambe vittime della «ferocia misogina dei crocesegnati», ovvero dei sanfedisti (2).

Prendendo spunto dal clamore suscitato da una sentenza della Corte di Cassazione relativa a un caso di stupro e sfavorevole alla vittima — sentenza definita senza mezzi termini «sgangherata e beffarda» —, la scrittrice introduce il tema, connesso al primo, del duecentesimo anniversario dei moti repubblicani di Altamura, del quale sono in corso rievocazioni da parte di un comitato locale, e di uno «stupro di massa consumato dalle bande dei sanfedisti contro le suore di clausura del Monastero del Soccorso» di quella città. L’iniziativa nasce dalla scoperta fortuita, nel fondo Ginguené (3) della Biblioteca Richelieu di Parigi, del diario manoscritto relativo al saccheggio della città pugliese, in cui l’episodio dello stupro sarebbe narrato con efferati particolari. L’episodio sarebbe divenuto oggetto dell’attenzione della scrittrice non solo perché giudicato particolarmente grave e odioso e perché ne ricorre il secondo centenario, ma anche in quanto suonerebbe come l’ennesima conferma della tesi femminista secondo cui la violenza sessuale sulle donne, e in generale l’oppressione dell’elemento femminile, sarebbero un dato strutturale della società occidentale, da cui le interessate dovrebbero emanciparsi attraverso un’azione politica e sociale organizzata. Secondo questa prospettiva, lungo i secoli si sarebbe attuato un ininterrotto «martirio delle donne», di cui sarebbero responsabili non soltanto il maschio uti singulus, ma anche e soprattutto le leggi, il «sistema», ovvero le istituzioni sociali e religiose. Alla radice di tale oppressione plurisecolare sarebbe una ideologia «maschilista», misogina e illiberale, che risalirebbe in ultima analisi alla cultura e alla mentalità cattoliche — o, forse, a una concezione del cristianesimo «deviata» in quanto istituzionalizzata — e al potere esercitato dalla Chiesa sulle coscienze. Questa mentalità sarebbe particolarmente radicata in correnti ideologiche considerate come avverse pregiudizialmente alla modernità, di cui il sanfedismo sarebbe l’estrema manifestazione (4). La figura del cardinale Ruffo (5) e quella di re Ferdinando IV di Borbone, che rappresentano rispettivamente il «sacerdozio» e il «dispotismo», ovvero i due cardini della repressione istituzionale, vengono così percepite come gli emblemi della più bieca repressione anti-femminile. La responsabilità del «martirio» di Altamura e delle esecuzioni di numerosi «patrioti», vittime della giustizia borbonica dopo la caduta della Repubblica Napoletana — in particolare le donne, due volte martiri, della libertà e della condizione femminile —, viene attribuita in ultima istanza alla Chiesa e al Papa. Pertanto la Macciocchi, che pure si dichiara favorevole alla «rievangelizzazione del mondo» — che equivarrebbe curiosamente solo a «una Chiesa riconciliata con il Vangelo» e non a un mondo riconciliato con la Chiesa, quindi con il Vangelo —, si sente autorizzata a domandare pressantemente a Papa Giovanni Paolo II, definito un «Papa colossale» (6), di aggiungere l’eccidio delle «innocenti» di Altamura alla lista degli atti di contrizione che la Chiesa sarebbe prossima a compiere in occasione del Giubileo dell’anno 2000. Questo gesto, inoltre, dovrebbe essere accompagnato dalla condanna ufficiale del cardinale calabrese, reo di aver insignito del nome di «Esercito della Santa Fede un’accozzaglia di assassini e di stupratori», troppo a lungo «difeso da una fitta rete di complicità che passa per gli intellettuali borbonici, i fascisti e persino la Chiesa». La condanna dovrebbe essere estesa a re Ferdinando IV «[…] che allagò del sangue delle sue vittime tutta Napoli».

3. CONSIDERAZIONI STORICHE

L’episodio di Altamura e il modo con cui è affrontato dalla Macciocchi si prestano ad alcuni rilievi, sia sul piano della verità dei fatti — ovvero sul piano storico, con la sua premessa di metodologia storiografica —, sia su quello politico ed etico in generale. Va premesso che la Macciocchi aveva già fatto menzione tanto delle suore di Altamura — senza però citare come fonte il diario anonimo parigino, che peraltro avrebbe già dovuto conoscere —, quanto del mea culpa cattolico nella sua opera su Luisa Sanfelice, pubblicata nel 1998 (7).

3.1. Le fonti a disposizione

Sotto il profilo storico, il fatto rievocato — oltre a essere tutt’altro che inedito — poggia su basi molto fragili, se non del tutto inesistenti. Non risulta infatti dalla stragrande maggioranza delle fonti che vi sia stato ad Altamura nel 1799 un eccidio di religiose, tanto meno con le modalità particolarmente efferate denunciate. L’unico dato certo è che ad Altamura vi sono stati un assedio e una battaglia, culminati con l’espugnazione della città murata da parte dei «crociati» e con il saccheggio — non esente da tutte le intuibili forme di violenza privata proprie della rappresaglia —, che venne peraltro temperato proprio dal cardinale Ruffo e dai suoi ufficiali. Inoltre, non risulta che esistano rami claustrali delle orsoline, né che vi sia mai stato un convento di tale ordine in città.

Queste riserve sono state espresse da uno storico di Altamura, Giuseppe Castelli — i cui antenati furono fra i difensori della città in occasione dell’assedio sanfedista del 1799 —, che in un articolo sul quotidiano Avvenire ha precisato che dall’abbondante documentazione esistente — fra cui tutto quanto pubblicato in occasione del primo centenario dei fatti, non escluse le dichiarazioni di testimoni oculari, raccolti molti anni prima — non risulta alcun fatto nei termini riferiti dalla Macciocchi (8).

Fra le fonti disponibili figurano non poche cronache locali del tempo, anzitutto i resoconti di Gian Carlo Berarducci (1762-1837) e del sacerdote Vitangelo Bisceglia (1749-1817), pubblicati dallo storico Giuseppe Ceci (1863-1938) nel 1900 (9). Il primo, più laconico, si limita ad affermare che nel sacco di Altamura «si contano […] due monache, una morta e l’altra ferita» (10); il secondo precisa che «[…] il cardinale Ruffo, per risparmiare le claustrali dalle violenze, ordinò che fossero uscite [sic] dalla città, ed avessero occupata la casa di Montecalvario, dove con esse furono trasportate molte dame» (11). Il curatore precisa in una nota al testo: «Talune [donne] per minacce, altre co’ doni presi dal saccheggio, altre lusingate da promesse di matrimonio, si prestarono alle infami voglie» (12); parla però di «prostituzione» e non di violenze, e non dice nulla sulle religiose. Medesima impostazione ha l’abate Domenico Sacchinelli (1766-1844), il quale, scrivendo nel 1836, sostiene che «[…] le donne Altamurane (facendo le dovute eccezioni) produssero all’armata Cristiana quegli stessi effetti, che un tempo cagionarono ai soldati di Annibale le donne Capuane» (13). Nel 1899, in occasione del primo centenario del sacco di Altamura, il senatore pugliese Ottavio Serena (1837-1914) dà alle stampe un saggio su Altamura nel 1799, non favorevole al cardinale Ruffo, che non fa cenno alcuno dell’episodio raccontato dalla Macciocchi e pubblica l’importante relazione del parroco della cattedrale di Altamura, che, attingendo ai registri parrocchiali, riporta i nomi di tutte le vittime del saccheggio del 10 maggio — in totale trentasette, cioè tre di meno delle asserite vittime religiose — e la precisa indicazione: «Ora in Altamura non vi fu mai un monastero di Orsoline; le monache Clarisse del Soccorso prima dell’assalto abbandonarono il monastero» (14). Inoltre, nell’appendice documentaria sono edite le Notizie di un Anonimo altamurano, il quale, a proposito delle «Signore Monache di Clausura d’ambi i Monasteri del Soccorso e S. Chiara» (15), scrive che il cardinale «[…] ordinò che trasportate fossero nelle rispettive abitazioni ed ivi fossero custodite» (16); quindi «[…] anche le clausure delle monache sacrate se ne uscirono, e lasciarono in abbandono gli Monasteri e si ritirarono tutte unite in casa sicura di un Signore con guardia permessa dal Ruffo» (17). Lo stesso anonimo cronista altamurano, testimone dei fatti, è ripreso senza riserve dallo storico degli anni 1930 Massimo Lelj (1888-1962) — di orientamento sfavorevole ai sanfedisti e in genere piuttosto ben documentato — al capitolo XI della sua opera La Santa Fede. La spedizione del cardinale Ruffo (1799) (18). Infine, la tesi della protezione richiesta dalle religiose al cardinale è confermata dal tenente colonnello borbonico Domenico Petromasi, commissario di guerra presso l’armata sanfedista ed estensore di una cronaca della riconquista del Regno di Napoli, che è testimone oculare senz’altro interessato dei fatti, ma fondamentalmente equilibrato e onesto nel suo resoconto (19).

3.2. Le fonti utilizzate

Se mancano testimonianze tali da accreditare la versione della Macciocchi, a smentire la realtà dell’eccidio, per la loro intrinseca debolezza e inattendibilità, sono proprio le fonti utilizzate dalla scrittrice. Francamente non basta un diario — anche se manoscritto e inedito, e per di più letto dalla studiosa «quasi tremante» — per stabilire la verità di un fatto storico. Tanto più se il cronista non è testimone oculare dei fatti e, come traspare dai toni «apocalittici» utilizzati, si tratta di un «giovane che si era battuto», quindi di un militante rivoluzionario, di un giacobino, ossia di una persona pregiudizialmente avversa per ragioni ideologiche ai sanfedisti. Inoltre la prosa del cronista non convince: è troppo stranamente simile a quella di una qualunque delle gazzette giacobine del periodo, per le quali era più importante combattere la «battaglia delle idee» che riferire la verità. Basta aprirne una a caso, a Napoli come a Brescia o a Milano, per accorgersi che le vicende dell’Insorgenza sono generalmente riferite negli stessi termini e con i medesimi toni, faziosi e altamente emotivi, dell’anonimo.

Quanto ai «testi più solidi» cui la studiosa dice di essersi rifatta, sono molto dubbi il loro valore e la loro attendibilità. Tutti sono marcatamente favorevoli alla Rivoluzione: Jules Michelet (1798-1874), anticlericale e partigiano a oltranza dell’Ottantanove (20); Carlo Botta (1766-1837), ex giacobino, autore di un’ampia sintesi della storia d’Italia che si avvale spesso di fonti di dubbio valore (21); Pietro Colletta (1775-1831), prima seguace di Gioacchino Murat (1767-1815), poi carbonaro, autore di una Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, sulla quale lo stesso curatore esprime il seguente giudizio: «Quella del Colletta è una delle opere che maggiormente hanno bisogno di chiarimenti e di delucidazioni per esser ricca di errori, o voluti dall’autore per motivi di ordine politico o personale, o da attribuire alle fonti da lui usate» (22); Vincenzo Cuoco (1770-1823), già protagonista della Repubblica Napoletana (23); Adolf Wilhelm Theodor Stahr (1805-1876), autore di Die Republikaner in Neapel, «I repubblicani a Napoli», il cui anonimo traduttore precisa che «l’opera che pubblichiamo[,] tradotta dal tedesco, appartiene a quel genere commisto di vero e di falso del quale più si piacque questo secolo e che romanzo-storico vien detto» (24). Così non si capisce se la scena descritta da Stahr, nella quale il diacono cardinale Ruffo — che, ammette per inciso lo studioso, «[…] sentiva talora qualche piccolo accenno di umanità» (25) — celebra la Messa al campo, sia una forzatura romanzesca oppure l’autore — non alieno da studi presso facoltà teologiche protestanti — alluda a una partecipazione del cardinale stesso alla Messa nel suo limitato ruolo ministeriale (26).

La sorpresa maggiore, però, deriva dalla consultazione delle opere di Giovanni La Cecilia (1801-1880), perché si constatata che gran parte del testo della Macciocchi, sia fra virgolette sia in parafrasi, come pure tutti gli autori citati come fonti autorevoli e più solide, sono ripresi letteralmente da un volume del polemista napoletano (27). In particolare, la descrizione della truculenta scena dell’eccidio non è tratta dalle pagine dell’anonimo «parigino», che sarebbe stato senz’altro più autorevole, ma, senza avvertirne il lettore,dalla prosa dello scrittore mazziniano, confidando forse sul fatto che, siccome lo stile dei due autori è affine, il lettore inavvertito non se ne accorga. Anche La Cecilia, comunque, non suffraga il fatto specifico con alcuna «pezza d’appoggio», anzi ricorre al discorso diretto (28), come se si trattasse di una parentesi romanzata nella narrazione. Ciò avvalora l’ipotesi che sia una interpolazione dell’autore, fatta quanto meno a scopo narrativo, di spunti forniti da altri.

Del resto, La Cecilia, carbonaro e poi mazziniano, è un militante a tempo pieno, un «rivoluzionario di professione» — in una nota del volume confida di credere che «[…] il papato fu ed è il flagello d’Italia» (29) —, non uno storico ma un propagandista e un uomo d’azione, giudicato da Alessandro Galante Garrone come autore di «pittoresche romanzature» (30) e una «testa calda» (31). Il libro in questione colpisce immediatamente per la sua scarsa scientificità. La versione dei fatti è inattendibile, le fonti citate sparute e quasi mai di prima mano, l’apparato critico nullo, il linguaggio inadeguato a un’opera storica. Lo studio, quindi, si colloca all’interno del genere letterario del «romanzo d’appendice» — molto in voga nell’Ottocento e in verità mai tramontato —, piuttosto che in quello storiografico. La Cecilia si sforza di trasmettere della monarchia borbonica di Napoli l’immagine di un regime corrotto e inetto, che si avvale di ogni bassezza e di agenti spregevoli — per esempio, del cardinale Ruffo dice che manteneva un «Harem di corrotte femmine» (32) — pur di conservare il potere. Per rafforzare questo quadro La Cecilia non esita a far dipingere ad hoc ben cinquanta illustrazioni a colori, che raffigurano scene fra le più inverosimili — ma efficaci —, come quella del capitano borbonico Gennaro Rivelli, aiutante di campo del cardinale e particolarmente inviso a La Cecilia, che offre a Ruffo le teste mozzate di una madre incinta e della bambina strappatale dal ventre, al fine d’intascare due volte la taglia posta dal re sulle teste dei giacobini (33). In un’epoca in cui non esisteva la televisione, si può intuire come queste scene s’imprimessero nell’immaginario del lettore e dessero vita ad altrettante leggende. Pubblicato alla vigilia dell’invasione garibaldina del Regno di Napoli — e ripreso da non pochi scrittori politici «nazionali» che, evidentemente, lo hanno trovato utile (34) —, è difficile non vedere il volume come un lavoro di propaganda, inteso a «preparare il terreno» alle camicie rosse di Giuseppe Garibaldi (1807-1882). Questa è l’opera da cui la Macciocchi trae il succo della sua argomentazione: quando si trattano temi delicati e complessi come quello evocato, che stanno a cuore a molti, sia favorevoli che contrari, sarebbe però opportuno fondare la propria argomentazione su «pezze d’appoggio» un po’ meno fragili e screditate.

Per completezza di quadro, occorre esprimere non poche riserve sullo stile. In una persona di cultura, e in particolare in uno storico, i già segnalati toni altamente emotivi — verrebbe spontaneo scrivere «che rasentano l’isteria» — di cui risente pesantemente la prosa dell’illustre pubblicista sono stonature fatali. Alcuni passaggi meritano di essere riportati: «Su Parigi l’aria era fredda, pioveva, mentre continuavo a decifrare quasi tremante il manoscritto che avevo messo sul leggio. Tutto sembrava silenzio»; il diario scoperto a Parigi è un «eccezionale testo», scritto «con una calligrafia limpida e una prosa poderosa»; la folla di Altamura che ascolta la rievocazione della stessa studiosa è «fitta, bella e severa, assiepata davanti al monumento della Libertà». Frasi a effetto, che scadono però in autentiche contumelie e «clave ideologiche» quando, passando ai fatti storici, la Macciocchi descrive l’esercito della Santa Fede come un insieme di «bande» o di «orde», «un’accozzaglia di banditi e di stupratori», ignorando o dimenticando che con il cardinale Ruffo — «un vero bandito», che «si abbeverava di sangue» — combattevano reparti dell’esercito regolare napoletano. Oppure quando lascia cadere attributi enigmatici sui sanfedisti, come quando — riprendendo acriticamente un tema caro a La Cecilia — ricorda che il «mostro» Gennaro Rivelli, aiutante di campo di Ruffo, era stato «meniño», ovvero «fratello di latte» di re Ferdinando, lasciando intendere velatamente che il capo sanfedista e il re avessero condiviso chissà quali turpitudini (35). Oppure ancora quando, per accentuare la corresponsabilità del cardinale nei massacri, parla di una «piena assoluzione della Chiesa» che Ruffo avrebbe impartito ai suoi accoliti prima di lanciarli al massacro e al saccheggio, cosa da intendersi eventualmente nel senso di mancata o ridotta sanzione giudiziaria, civile o ecclesiastica, e non certo di assoluzione sacramentale, l’autentica «piena assoluzione della Chiesa», dato che, essendo solo diacono, «in virtù del [suo] sacro ministero», il cardinale non poteva assolvere proprio nessuno.

Certo la riconquista borbonica del Regno di Napoli avviene e culmina in un quadro di guerra civile, che causa profonde divisioni e odi. Essa costa sangue, come in genere tutte le guerre civili, ma nel 1799 la popolazione è tutta con il re. E non si può dimenticare che gli «illuminati» dirigenti della Repubblica Napoletana — in via di «beatificazione laica» — nei nove mesi della loro permanenza al potere comminarono migliaia di condanne, nel tentativo di «purificare» la repubblica proprio dallo spirito sanfedista. Come meravigliarsi che vi siano state vendette, anche sanguinose, da parte degli avversari? Del resto, proprio ad Altamura, come riferisce Lelj, i giacobini assediati, prima di fuggire ingloriosamente, avevano passato a fil di spada circa cinquanta realisti, politici e ostaggi, fra i quali più di un ambasciatore inviato dai sanfedisti (36). Di queste rappresaglie il cardinale Ruffo, come ormai è riconosciuto unanimamente, fu sempre, sia durante la guerra, che soprattutto dopo, moderatore intransigente, indipendentemente dal fallimento dei suoi tentativi di opporsi al re e ai britannici.

In conclusione, sotto il profilo storico quello della Macciocchi sembra un modo di accostarsi ai fatti scorretto e dilacerante, che rischia di risvegliare artificialmente passioni civili del tutto fuori luogo. Non è questo il metodo giusto per iniziare una serena e fondata revisione della storia italiana e per ricostruire una memoria comune del nostro popolo, sulla quale fondare — come è pressante necessità — nuove regole di convivenza civile.

4. CONSIDERAZIONI POLITICHE

Tutti questi elementi lasciano intravedere la trama di fondo, rigidamente ideologica, in cui l’intervento si situa. La storia, lo studio dei fatti del passato, in questa prospettiva, diventa puramente strumentale a obiettivi extra-storici, in genere politici o, nel caso della studiosa, funzionali a una militanza ideologica che talora va oltre la politica.

Rievocare un massacro di monache, vero o falso che sia, per la Macciocchi serve solo alla «prassi», cioè a «mettere in azione» persone e gruppi umani — quanto meno il comitato delle sue «amiche» di Altamura — in una prospettiva assunta apoditticamente e pregiudizialmente — verrebbe da dire «metafisicamente» — come buona, ovvero il trionfo del femminismo. E se i fatti scarseggiano o sono dubbi o mancano del tutto, tanto peggio per i fatti! Bastano quattro frasi di un romanzo d’appendice e un diario ideologizzato e i fatti si piegano al wishful thinking o alla «volontà di potenza» di chi scrive. E in questo la studiosa sembra davvero non avere dimenticato le sue radici culturali marxiste…

Quest’ultimo tratto suggerisce alcune riflessioni di tipo generale, che si traducono in altrettanti quesiti. Con tanti tragici casi umani davanti agli occhi, come mai questo interesse per una categoria femminile, normalmente non particolarmente in auge negli ambienti femministi? E perché un interesse che si spinge fino a rivendicare le doti delle religiose, quando si dimentica che cosa ne è stato — non solo delle doti, ma dei monasteri stessi, soprattutto nel Mezzogiorno — in altre condizioni e sotto altri regimi, giudicati invece con favore o comunque meno sgradevoli di quello borbonico restaurato, come le repubbliche giacobine o lo Stato italiano post-unitario? È proprio vero che, quando si tratta di «fare rivoluzione», marxisti o femministe non guardano tanto per il sottile quanto alla «materia prima» disponibile. L’illustre esponente progressista si sofferma sulla «pagliuzza» sanfedista, peraltro non provata, e dimentica l’enorme «trave» costituita dagl’innumerevoli eccidi — di uomini e di donne, anche religiose — e dai saccheggi con i quali i francesi e le milizie giacobine hanno funestato per anni regioni e province intere in Italia — e in tutta Europa —, soprattutto nel Mezzogiorno, dove infieriscono per oltre quindici anni (37). E sempre nella predetta metafora evangelica, sarebbe da chiedere alla studiosa da che parte si situano i massacri di migliaia di religiosi e di religiose perpetrati dai comunisti e dagli anarchici durante la guerra civile spagnola, quando monache e frati vennero uccisi non perché ricchi di famiglia o perché di piacevole aspetto — ma quale «misoginia» si può imputare ai «crocesegnati» nella versione dei fatti della Macciocchi? — e neppure sotto l’influsso del delirio da saccheggio, ma, freddamente, in quanto religiosi, e nessuno si curò che fossero «innocenti» o meno, per riallacciarsi al titolo dell’articolo. E come non ricordare, da ultimo, l’annientamento di intere chiese e comunità religiose — certamente composte da un’alta percentuale di donne — attraverso la deportazione nel GuLag in tutti i paesi sovietizzati a partire dal 1918? Ha letto la Macciocchi quale fu per esempio la sorte dei religiosi russi deportati nel Lager delle isole Solovki a nord-est di Leningrado, nel Mar Bianco, ai limiti del Circolo Polare Artico, di cui solo recentemente — dopo ottant’anni dal martirio — sono state ricostruite le indicibili sofferenze (38)?

Riguardo, infine, al tema della Chiesa e del perdono: certo, la Chiesa e il Papa, quando imperativi di verità lo hanno richiesto, non hanno esitato e non esiteranno a rivedere la propria interpretazione consueta di vicende storiche, che hanno visto un cattivo comportamento da parte di cristiani. Così, se l’eccidio di Altamura fosse autentico, esso potrebbe di certo finire nel novero di tali vicende. Non risulta invece che i responsabili di almeno ottanta milioni di vittime — uomini e donne, laici e religiosi —, a fianco dei quali ha militato per anni e forse ancora milita la Macciocchi, abbiano ancora in qualche forma chiesto perdono del loro operato. Quale senso ha, in questa prospettiva oggettivamente mutila e «squilibrata», avanzare arrogantemente richieste come quelle formulate, se non cercare di sfruttare furbescamente — o marxisticamente — tutte le opportunità, tutte le «contraddizioni» — reali o create ad arte — offerte dalla situazione, sforzandosi nel caso specifico di «arruolare» alla propria causa, sempre più in crisi, le forze ideali dell’avversario?

5. CONSIDERAZIONI FINALI

Concludendo, un ultimo appunto merita la sede in cui la Macciocchi ha potuto divulgare le sue tesi, più consone a testate di parte che non al più diffuso quotidiano italiano. Come mai questo ha ospitato sulla sua prima pagina culturale un contributo così discutibile e gli ha concesso tanto spazio? Semplice ricerca dello scoop? «Simpatia» di fondo per le tesi? Autorevolezza della scrittrice? O forse un «segnale» alla Chiesa e ai vescovi italiani, troppo «schierati» in occasione della battaglia parlamentare sulla legge relativa alla procreazione assistita?

Comunque — tornando a orizzonti maggiori, cioè nell’ottica della storia come deposito di esperienze per la politica e come ricostruzione del passato che, se non spiega il presente, almeno lo fonda —, si deve registrare il fatto che, dopo le dichiarazioni d’inesistenza dell’Insorgenza e/o quelle di perfetta conoscenza dei fatti a essa relativi, si è prodotto anche un nuovo tipo di attacco a un momento essenziale della storia degli italiani: il falso storico. Oscar Sanguinetti

Note

(1) Cfr. Maria Antonietta Macciocchi, Altamura. La strage delle innocenti, in Corriere della Sera, 17-2-1999, p. 33. Tutte le citazioni senza rimando sono tratte da questo articolo.
(2) Cfr. Eadem, Cara Eleonora. Passione e morte della Fonseca Pimentel nella Rivoluzione Napoletana, Mondadori, Milano 1996; ed Eadem, L’amante della Rivoluzione. La vera storia di Luisa Sanfelice e della Repubblica Napoletana del 1799, Mondadori, Milano 1998. Sulla scrittrice vedi I deputati dell’ottavo parlamento repubblicano, La Navicella, Roma 1979, sub nomine; Le donne italiane. Il chi è del ’900, a cura di Miriam Mafai, Rizzoli, Milano 1993, p. 272; e Who’s who in Italy, Sutter’s international red series, Milano 1998, vol. II, pp. 1147-1148. (3) Pierre Louis Ginguené (1748-1816) fu letterato rivoluzionario e uomo politico — ambasciatore presso la corte sabauda nel 1798 — nonché autore di una Storia letteraria dell’Italia in 10 volumi, scritta fra il 1811 e il 1819, in collaborazione con il giacobino Francesco Saverio Salfi (1759-1832). Fece parte della corrente culturale degli «idéologues»; cadde in disgrazia presso Napoleone Bonaparte (1769-1821) per essersi rifiutato di accettare la nuova costituzione del 1799.
(4) Sulla Santa Fede vedi Francesco Pappalardo, 1799: la crociata della Santa Fede, in Quaderni di «Cristianità», anno II, n. 3, inverno 1985, pp. 34-50, rielaborato in Idem, 1799. Rivoluzione e Contro-Rivoluzione nel Regno di Napoli, Istituto per la Storia delle Insorgenze, pro manuscripto, Milano 1999; e Idem, Il sanfedismo, in IDIS. Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Voci per un «Dizionario del Pensiero Forte», a cura di Giovanni Cantoni e con una presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità, Piacenza 1997, pp. 215-220.
(5) Su di lui, cfr. Giovanni Ruffo, Il cardinale rosso, Calabria Letteraria Editrice, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1998.
(6) Soprattutto — e forse solo — perché autore della «magnifica frase, quella sul genio delle donne» legato in qualche modo — non è ben chiaro il senso della frase della Macciocchi — alla «mulieris dignitatem», la lettera apostolica di Papa Giovanni Paolo II sulla dignità e la vocazione della donna, pubblicata nel 1988 in occasione dell’Anno Mariano.
(7) Cfr. M. A. Macciocchi, L’amante della Rivoluzione. La vera storia di Luisa Sanfelice e della Repubblica Napoletana del 1799, cit., rispettivamente alle pp. 204-209 e 224-227.
(8) Cfr. Giuseppe Castelli, Troppe leggende sul cardinale Ruffo, in Avvenire. Quotidiano d’ispirazione cattolica, 25-2-1999; cfr. pure Giovanni Formicola, Altamura, gli errori di Maria Antonietta Macciocchi, in Roma, 7-3-1999.
(9) Cfr. Cronache di fatti del 1799, a cura di G. Ceci, Tip. Vecchi, Andria (Bari) 1900.
(10) Diario di Gian Carlo Berarducci, in Cronache di fatti del 1799, cit., pp. 1-279 (p. 121).
(11) Memorie storiche contenenti la serie degli avvenimenti che hanno avuto luogo nella città di Altamura dal principio della rivoluzione fino all’ingresso e dimora dell’armata regia e cristiana nella medesima, vale a dire dal principio di Gennaio 1799 per tutto il mese di Maggio dello stesso anno, scritte nel tempo istesso da un testimonio di vista, in Cronache di fatti del 1799, cit., pp. 281-399 (p. 391).
(12) Ibid., p. 393, nota 2.
(13) Memorie storiche sulla vita del Cardinale Fabrizio Ruffo, con osservazioni sulle opere di Cuoco, di Botta e di Colletta. Edizione seconda, Tip. Poliglotta, Roma 1895, p. 161.
(14) Cfr. Ottavio Serena, Altamura nel 1799, Casa Editrice Italiana, Roma 1899, p. 79, nota 1.
(15) Ibid., p. 23 dell’appendice.
(16) Ibidem.
(17) Ibidem.
(18) Cfr. Massimo Lelj, La Santa Fede. La spedizione del cardinale Ruffo (1799),Mondadori, Milano 1936, pp. 127-147.
(19) Cfr. Domenico Petromasi, Alla riconquista del regno. La marcia del cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli, Editoriale il Giglio, Napoli 1994 (prec. ed. Manfredi, Napoli 1801), p. 71.
(20) Su di lui vedi Paul Vialleneix, Jules Michelet, in L’albero della rivoluzione. Le interpretazioni della Rivoluzione francese, a cura di Bruno Bongiovanni e Luciano Guerci, Einaudi, Torino 1989, pp. 481-490.
(21) Su di lui vedi Walter Maturi (1902-1961), Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Einaudi, Torino 1962, pp. 36-91.
(22) Nino Cortese (1896-1972), in Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, 3 voll., Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1956-1957, vol. I, p. XII. Colletta, comunque, descrivendo il saccheggio di Altamura, accenna in meno di una riga a «[…] un convento di vergini profanato» (ibid., vol. II, p. 64). Sull’opera di Colletta, vedi il giudizio del Dizionario di Storiografia (Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 222), secondo cui «[…] quest’opera storico-memorialistica fu largamente discussa e si rivelò un importante strumento politico contro la monarchia borbonica».
(23) A proposito di Altamura Cuoco parla «di cadaveri intrisi di sangue» (Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799, a cura di N. Cortese, Vallecchi, Firenze 1926, p. 270), ma è smentito dal curatore dell’edizione, che precisa: «La città fu data al saccheggio; ma, contrariamente a ciò che dice il Cuoco, è da avvertire che gli abitanti abbandonarono interamente il paese, al momento della resa» (ibid., p. 271, nota 2). Su di lui vedi Stefano Nutini, Vincenzo Cuoco, in L’albero della rivoluzione. Le interpretazioni della Rivoluzione francese, cit., pp. 152-158.
(24) Adolf Wilhelm Theodor Stahr, I repubblicani di Napoli. Romanzo storico, 2 voll., G. Lobetti-Bodoni, Pinerolo (Torino) 1854, vol. I, p. I. Stahr, storico prussiano dell’antichità greca e romana, scrittore assai prolifico, dopo un viaggio in Italia, in Svizzera e a Parigi, intrapreso nel 1845 e durato un anno — a Roma fra l’altro conobbe la sua futura consorte, la letterata Fanny Lewald (1811-1889) —, pubblicò alcuni volumi di ricordi di viaggio: Ein Jahr in Italien [Un anno in Italia, 1847], Herbstmonate in Italien [Mesi d’autunno in Italia, 1860] e Herbsmonate in Oberitalien [Mesi d’autunno in Italia settentrionale, 1866], nonché — unico suo lavoro di epoca moderna — Die Republikaner in Neapel, apparsonel 1849 a Berlino, un romanzo storico dedicato alla Repubblica Napoletana del 1799 e, in particolare, alla figura dello storico e militante repubblicano Colletta. Su Stahr vedi Allgemeine Deutsche Biographie, 56 voll., Dunder & Humblot, Lipsia 1874-1912, vol. 35, 1893, pp. 403-406.
(25) Ibid., vol. II, p. 115.
(26) Cfr. ibid., vol. II, p. 113.
(27) Cfr. Giovanni La Cecilia, Storie segrete delle famiglie reali o misteri della vita intima dei Borboni di Francia, di Spagna, di Parma, di Napoli e della famiglia Absburgo-Lorena d’Austria e di Toscana per Giovanni La-Cecilia [sic], 4 voll., Tip. Toscana Cecchi, Genova-Firenze 1859, vol. II, I Borboni di Napoli.
(28) Un esempio: «Olà (disse [il capitano Rivelli, indicato quale leader degli stupratori assassini]) mie tenere colombe, cessate dal guaire e andate a provvedere e qui recate quanto avete di meglio di cibi e di vini» (ibid., p. 386).
(29) Ibid., pp. 294-295, nota 1.
(30) Alessandro Galante Garrone, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828 -1837), 2< sup>a ed., Einaudi, Torino 1975, p. 170.
(31) Ibid., p. 175. Lo storico torinese, riguardo ad altra opera storica di La Cecilia, le Memorie storico-politiche dal 1820 al 1876. Risorgimento italiano (5 voll., Artero, Roma 1876-1878), dice trattarsi di «[…] opera notoriamente screditata nel campo storico per le sue gravi inesattezze e fantasiose invenzioni […] spesso accolta come verità sacrosanta, anche per penuria estrema d’altre sicure fonti» (ibid., p. 199, nota 16).
(32) G. La Cecilia, op. cit., p. 271.
(33) Cfr. ibid., inserto a pp. 430-431.
(34) Cfr., per esempio, Giovanni Firrao, Cenni storici sulla città di Altamura e i suoi avvenimenti. Dalla sua origine al 1860, Borsella, Cantatore e Soci, Andria (Bari) 1880, che riprende con ampio risalto da La Cecilia il tema della violenza alle religiose. Su di lui lo storico Serena esprime il seguente giudizio: «[…] il Firrao, seguendo ciecamente le storie segrete di Giovanni La Cecilia, ripete cose che possono trovar luogo in un romanzo, […] ma non in una vera e propria narrazione storica» (op. cit., p. 79, nota 1).
(35) Il rapporto fra i due «fratelli di latte» — la madre di Rivelli, Agnese, era stata balia del piccolo Ferdinando — è descritto con maggiore obiettività in Giuseppe Campolieti, Il re lazzarone. Ferdinando IV di Borbone, amato dal popolo e condannato dalla storia, Mondadori, Milano 1999, pp. 10 e 22-23, che tratta anche della deformazione della figura del re e di Rivelli operata da La Cecilia.
(36) Cfr. M. Lelj, op. cit., p. 134.
(37) Cfr., fra l’altro, Marcello Veneziani, 1799: Massacri in Puglia come nel Kosovo d’oggi, ne il Giornale, 1-4-1999. Il giornalista e scrittore si sofferma in particolare sui massacri giacobini di Andria e di Trani, che costarono alcune migliaia di vittime fra gl’insorgenti e i semplici civili e qualche centinaio tra i francesi. L’articolo polemizza en passant con quello della Macciocchi su Altamura.
(38) Cfr. Jurij Brodskij, Solovki. Le isole del martirio. Da monastero a primo lager sovietico, con una prefazione di Vittorio Strada, con illustrazioni, La Casa di Matriona, Milano 1998.

fonte http://www.identitanazionale.it/inso_1007.php

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L’Insorgenza come categoria storico-politica

Posted by on Mag 17, 2019

L’Insorgenza come categoria storico-politica

Nota del 17 novembre 2018
In occasione del Capitolo Nazionale di Alleanza Cattolica svoltosi oggi a Piacenza Francesco Pappalardo ha svolto una relazione dal titolo «L’Insorgenza come categoria politica nell’intuizione e nel pensiero di Giovanni Cantoni». Riproponiamo qui lo scritto del fondatore di Alleanza Cattolica che espone il suo pensiero sull’argomento.

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LA SCOPERTA DELL’AMERICA NON E’ STATA CASUALE, MA FRUTTO DELLA FEDE CATTOLICA

Posted by on Mag 11, 2019

LA SCOPERTA DELL’AMERICA NON E’ STATA CASUALE, MA FRUTTO DELLA FEDE CATTOLICA

Vinti i mori (musulmani) e riconquistata la Spagna, i sovrani cattolici Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona finanziarono Cristoforo Colombo per l’evangelizzazione di nuovi mondi

L’arrivo nell’isola di Guanahaní – poi San Salvador – della piccola flotta capitanata dal genovese Cristoforo Colombo (1451 ca. -1506), il 12 ottobre 1492, segna l’inizio della scoperta, della conquista e dell’evangelizzazione delle Americhe. Non si tratta, dunque, di un semplice rinvenimento – come nel caso del probabile arrivo di un gruppo di vichinghi nell’America Settentrionale verso la fine del secolo X, che non ebbe alcuna conseguenza per il continente -, ma di un atto che pone le premesse di un’integrazione razziale, culturale e spirituale unica nella storia.
L’impresa di Colombo s’inserisce nel quadro dell’espansione europea dei secoli XIII-XVI, che vede protagonisti soprattutto portoghesi e spagnoli, i quali solcano con entusiasmo mari sconosciuti e affrontano i pericoli dei viaggi verso l’ignoto, animati anzitutto dal desiderio di ampliare le frontiere della Cristianità. Nell’ammiraglio genovese e in coloro che lo seguono non sono da trascurare le motivazioni economiche e la ricerca di orizzonti più ampi, anche in relazione al serrarsi del Mediterraneo Orientale per l’avanzata dei turchi ottomani, ma un peso notevole hanno pure le aspirazioni religiose, cioè il desiderio di convertire gli indigeni e di reperire fondi per la riconquista di Gerusalemme. Se il progetto crociato del grande navigatore non viene realizzato, non si può dimenticare che l’oro del Nuovo Mondo servirà a finanziare la resistenza contro i turchi.
La spedizione guidata da Colombo segue immediatamente il compimento della Reconquista, cioè del processo di liberazione della penisola iberica dai musulmani, iniziato nel secolo VIII e concluso con la presa di Granada, il 2 gennaio 1492. L’entusiasmo per la vittoria spiega anche perché i Re Cattolici, Isabella di Castiglia (1451-1504) e Ferdinando d’Aragona (1452-1516), consapevoli della grande missione della Spagna – difendere e diffondere il messaggio cristiano in Europa e nel mondo – accogliessero il progetto, apparentemente irrealizzabile, del navigatore genovese: andare dalla Spagna alle Indie “passando il Mare Oceano a Ponente”.

VINTI I MORI, RICONQUISTATA LA SPAGNA, SI PASSA ALL’EVANGELIZZAZIONE DI NUOVI MONDI
A partire dal secondo viaggio di Colombo – realizzato fra il 1493 e il 1496 – la visione idilliaca delle Indie, che aveva caratterizzato fino ad allora le relazioni degli scopritori, viene meno tragicamente con l’uccisione di tutti i compagni dell’ammiraglio da parte degli indios. Ha inizio la conquista, il cui fine principale è sempre l’evangelizzazione, che prevale su altri fini del tutto leciti, come l’onore e la grandezza della Spagna, nonché la ricerca di ricchezze e di profitti materiali. L’ideale missionario, applicato alle nuove terre, costituisce l’humus dal quale scaturisce un tipo umano forse irripetibile, quello dei conquistadores. Figli di una terra dove si era appena conclusa la crociata contro i mori, ma in cui sopravviveva lo spirito che l’aveva ispirata, molti di essi attraversano l’oceano animati da un sogno di conquista e di gloria, fondato sulla volontà di ampliare i confini della fede cristiana e i domìni della Corona spagnola.
La conquista, soprattutto nella fase iniziale, è una sorpresa per tutti, risultando come la conseguenza non di un piano preciso, ma di una serie di reazioni di fronte a situazioni impreviste o d’iniziative di pochi audaci, come quella di Hernán Cortés (1485-1547) nei territori dell’attuale Messico. Inoltre, solo per le comunità del Centroamerica e dell’America andina si può parlare di vera e propria conquista, perché i nuovi arrivati non si misurano con organizzazioni primitive, ma con autentici Stati, caratterizzati peraltro da inspiegabili assenze sul piano economico e tecnologico – la ruota, l’allevamento, la lavorazione del ferro, l’arco e la volta nelle costruzioni – o da presenze sinistre, come il cannibalismo, i sacrifici umani, la schiavitù. Questi elementi spiegano sia l’intransigenza e il furore dei conquistadores – che inorridiscono di fronte a oscure idolatrie, nei cui templi scorreva sempre sangue -, sia la facilità della conquista. Infatti, i regni e gli imperi indigeni, costruiti a prezzo di guerre sanguinosissime e fondati sulla tirannia e sulla crudeltà, portavano in sé i germi della propria distruzione: l’inaridimento culturale e l’instabilità politica, a causa della turbolenza dei popoli sottomessi, la cui presenza a fianco degli spagnoli capovolge le sorti della guerra e la trasforma in una carneficina.
Una diffusa letteratura antispagnola e anticattolica – nata nel Cinquecento in ambienti protestanti e alimentata ancor oggi da movimenti indianisti ed ecologisti, gruppi neomarxisti e terzomondisti, nonché frange cattoliche progressiste – continua a presentare la conquista come un “genocidio”, ma la storiografia ha mostrato la falsità di questa leggenda nera. “Usciti troppo bruscamente dal loro isolamento – scrive lo storico francese e calvinista Pierre Chaunu -, gli Indiani d’America non soccombettero sotto i colpi delle spade in acciaio di Toledo, ma sotto lo choc microbico e virale”. La catastrofe demografica dei popoli amerindi ha la sua causa nelle grandi epidemie, provocate dal contatto fra due realtà biologiche estranee, e non in una presunta politica razzista e di sterminio messa in opera dagli spagnoli, i quali, invece, avevano tutto l’interesse a garantire la sopravvivenza dei nativi e favoriscono la fusione fra vincitori e vinti. Significativamente l’Iberoamerica è la sola delle Americhe dove, ancor oggi, la razza indiana e i suoi meticci costituiscono la grande maggioranza della popolazione, dimostrando fra l’altro, grazie all’irrisorietà dell’insediamento di neri africani, che la Spagna ricorse in modo molto limitato all’importazione di schiavi nel Nuovo Mondo. Anche le denunce del domenicano Bartolomé de Las Casas (1474-1566) – subito confutate dal missionario francescano Toribio da Benavente (1490 ca.-1569) – si sono rivelate eccessive e inaffidabili, così da non poter essere utilizzate come fonti storiche esclusive e attendibili.
In realtà, nella conquista non colpiscono tanto gli abusi e gli errori iniziali – caratteristici di tutte le vicende umane – quanto la grande capacità di autocritica, unica nella storia della colonizzazione mondiale, che era la conseguenza di una profonda coscienza cristiana. Di fronte alle deviazioni la voce della Chiesa si leva dal primo momento attraverso la denuncia da parte dei missionari, le elaborazioni dottrinali dei teologi e dei giuristi, la sollecitudine dei sovrani spagnoli, che prendono numerosi provvedimenti in difesa degli indios, anzitutto le leggi di Burgos, promulgate dall’imperatore Carlo V d’Asburgo (1500-1558) nel 1519, due anni prima delle denunce di padre Las Casas. In particolare, la testimonianza della Scuola di Salamanca e le celebri relazioni sugli indios, del domenicano Francisco de Vitoria (1483-1546), rappresentano un encomiabile sforzo di porre i fondamenti teologici e filosofici di una colonizzazione secondo princìpi ispirati all’etica cristiana.

LA REGINA ISABELLA SPERA DI CONDURRE ALTRI POPOLI ALLA VERA FEDE
Al momento di finanziare l’impresa di Colombo la regina Isabella spera di condurre altri popoli alla vera fede e non bada né a spese né a difficoltà per onorare gli impegni assunti con Papa Alessandro VI (1492-1503), il famoso Papa Borgia, che aveva concesso ai sovrani il diritto di patronato sulle nuove terre in cambio di precisi doveri di evangelizzazione. Ne consegue uno spiegamento missionario senza precedenti, che dà presto una nuova configurazione alla realtà ecclesiale universale, proprio nel momento in cui le convulsioni religiose in Europa provocavano gravi divisioni nella Cristianità, e che costituisce, secondo le parole di Papa Giovanni Paolo II, “una delle pagine più belle di tutta la storia dell’evangelizzazione portata a compimento dalla Chiesa”.
Protagonisti di questa epopea sono innanzitutto i missionari – altamente selezionati e dotati di grande libertà d’iniziativa di fronte alle autorità civili -, quindi la Corona spagnola, cioè i sovrani e gli organi di governo, fra cui il Consiglio delle Indie, infine tutti gli spagnoli giunti nel continente – conquistadores e coloni -, i quali, nonostante i limiti del loro operato, erano consapevoli di aprire la strada alla diffusione del messaggio di Cristo.
L’azione evangelizzatrice opera in tre direzioni convergenti: l’irradiazione della fede e della cultura cristiana, il salvataggio delle lingue e delle tradizioni del continente americano, la civilizzazione delle popolazioni locali. Sotto il primo aspetto i missionari fanno fruttificare i semi di religiosità presenti nelle credenze dei popoli indigeni attraverso l’elaborazione di nuovi metodi di catechesi, la creazione di parrocchie di indios, dove costoro venivano istruiti nella verità della fede cristiana e ricevevano i sacramenti, e la preparazione di catechismi bilingui o pittografici.
Di fronte al lento progresso dell’evangelizzazione dei primi anni, rivolta a popoli idolatri e lontani culturalmente dalla mentalità europea, i missionari comprendono che è necessario conoscere a fondo la mentalità e la cultura indigena per presentare il Vangelo nel modo più adeguato. Con un lavoro di autentica premessa all’inculturazione essi studiano le istituzioni, gli usi e i costumi degli indios, raccolgono con amore le testimonianze culturali amerinde più antiche, dando inizio alla moderna etnografia, e apprendono gli idiomi locali, dedicandosi anche alla stesura di grammatiche, di vocabolari e di frasari di conversazione. In questo modo fanno compiere alle lingue indigene, fino ad allora soltanto orali, un incommensurabile salto qualitativo, elevandole all’astrazione della scrittura alfabetica, che dà loro la possibilità di superare l’arcaica struttura che le caratterizzava e di pervenire alla cultura riflessiva.
Infine, i conquistadores e i missionari procedono a un vero e proprio atto di fondazione, erigendo città e creando istituzioni di governo, e realizzano una fondamentale opera di civilizzazione, analoga a quella compiuta dalla Chiesa in Europa durante il Medioevo cristiano. Costruiscono case e chiese, promuovono l’agricoltura e l’allevamento degli animali, creano scuole di arti e mestieri, aprono ospedali – il primo di questi, fondato in Messico da Cortés, nel 1521, è attivo ancor oggi – e numerosissimi centri di carità, fondano collegi e università, la prima delle quali a Santo Domingo, nel 1538, a meno di cinquant’anni dalla scoperta.

L’OPERA DI EVANGELIZZAZIONE AIUTATA DALLA MADONNA DI GUADALUPE
L’opera di evangelizzazione e di civilizzazione degli indigeni favorisce anche la creazione di un grande patrimonio artistico, frutto dell’incontro fra la cultura cattolica e la sensibilità delle popolazioni locali. Il monastero medioevale del secolo XVI, la cattedrale rinascimentale del secolo XVII e la chiesa barocca del secolo XVIII illustrano le tappe dello sviluppo architettonico nel continente americano, così come alcuni capolavori pittorici, soprattutto quadri raffiguranti soggetti originali, come le Vergini mulatte e gli arcangeli archibugieri di Cuzco, in Perú, e le statue dei dodici profeti nel santuario del Bom Jesús, a Congonhas do Campo, in Brasile, opera dell’architetto e scultore Antonio Francisco Lisboa (1730-1814), raffigurano visivamente tale incontro fra l’iconografia cristiana e le tradizioni di quei popoli. L’integrazione fra vincitori e vinti è annunciata dall’apparizione della Vergine Maria all’indio Juan Diego (1474-1544) nel dicembre 1531, sulla collina di Tepeyac, presso Città di Messico, appena dieci anni dopo l’impresa di Cortés. Il volto meticcio della Vergine di Guadalupe prefigura la nascita di una nuova e originale civiltà, esito non di una violenta sovrapposizione ma di una felice sintesi, che si realizza sotto il segno del cattolicesimo, senza incontrare le difficoltà proprie della colonizzazione di marca protestante. Si compie così la fondazione dell’Iberoamerica, una realtà nuova, generata dalla fusione delle tradizioni greco-romana, iberica e cattolica con gli elementi più vitali del mondo precolombiano. I paesi del Nuovo Mondo non costituiranno infatti colonie ma province d’oltremare del regno di Spagna che, insieme con l’impero portoghese, come sottolinea il pensatore e giurista brasiliano José Pedro Galvão de Sousa (1912-1992), perpetuerà per alcuni secoli la tradizione dell’impero missionario medioevale. Oggi la metà dei membri della Chiesa cattolica abita il continente iberoamericano, definito da Papa Giovanni Paolo II – nella lettera apostolica Los caminos del Evangelio, del 29 giugno 1990 – “il Continente della speranza”.

Nota di BastaBugie: il seguente video (durata: 1 ora e mezzo) contiene un buon cartone animato, istruttivo e facile da seguire, molto adatto per avvicinare i bambini ad un personaggio fondamentale della storia come Cristoforo Colombo. Ovviamente l’adulto dovrà poi spiegare la motivazione religiosa che spinse all’impresa di aprire nuove vie verso nuovi mondi da evangelizzare. Il cartone animato mostra tutta la vita di Cristoforo Colombo da quanto era ragazzo fino al giorno della partenza per il viaggio che porterà alla scoperta dell’America.

Francesco Pappalardo

fonte http://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=5633

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I progetti politici unitari del Risorgimento e la loro caratteristica elitaria

Posted by on Mar 13, 2019

I progetti politici unitari del Risorgimento e la loro caratteristica elitaria

Così, anche nella Penisola, nella prima metà dell’800, a livello di ristrette e colte elites, borghesi ed intellettuali, divenne sempre più presente e forte la convinzione dell’esistenza di un’unica Nazione Italiana che si faceva ascendere da alcuni all’impero romano, da altri al Medioevo; ad essa si facevano risalire i fasti del Rinascimento con il suo primato culturale indiscusso (che coincideva, con apparente paradosso, col punto più basso della rilevanza politica dell’Italia nel contesto europeo). Giovani universitari, avvocati, medici, giornalisti, scrittori, avevano formato il loro pensiero leggendo le opere di Foscolo, Berchet, Giusti, Giannone, Manzoni, Poerio, Pellico, Cuoco, D’Azeglio, Balbo, Botta e Gioberti (solo per citarne alcuni) e credettero fosse arrivato il momento di battersi per dare a questa Nazione uno Stato unitario; erano una esigua minoranza anche perchè solo pochissimi italiani sapevano leggere e scrivere (persino al momento dell’unità il loro numero superava a malapena il 20%).

Questa aspirazione ad un’unione statale della Penisola divenne il loro ideale da realizzarsi però tramite quattro progetti politici molto diversi e in palese conflitto tra loro: quello repubblicano-centralistico di Mazzini: repubblica e stato fortemente centralizzato; quello repubblicano-federale di Cattaneo il quale affermava che “gli italiani senza federalismo saranno sempre discordi, invidiosi, infelici[1]; quello monarchico-federale a guida papale di Gioberti, il quale, in antitesi al pensiero di Mazzini, faceva notare che “il popolo italiano“ non può essere soggetto d’azio­ne politica perché non è ancora altro che «un desiderio e non un fat­to, un presupposto e non una realtà, un nome e non una cosa», per questo motivo la guida del risorgimento nazionale deve essere «monarchica ed aristocratica, cioè risedente nei prìncipi e avvalorata dal concorso degl’ingegni più eccellenti, che sono il patriziato naturale e perpetuo delle nazioni»; infine, quello monarchico-centralistico, il “tutto mio” dei Savoia. Alberto Banti, a proposito delle incompatibilità tra i quattro progetti politici unitari, scrive [2]:“Le fratture che correvano all’interno del mo­vimento nazionale erano di un tipo tale per cui chi avesse vinto la partita, avrebbe vinto tutto, e chi avesse perso sarebbe rimasto con un pugno di mosche in mano, in posizione politica (e spesso anche personale) del tutto marginale“. Anche per questo i massimi esponenti delle varie correnti di pensiero, si detestavano a vicenda, ad esempio Cavour affermava: ”Ciò che manca a Mazzini per essere un sommo rivoluzionario è il coraggio morale, l’intrepidità a fronte dei pericoli, il disprezzo della morte”, gli dava, insomma, del codardo, accusa peraltro ribadita da molti che criticavano “l’agiatissimo esilio” del Genovese e la sua contemporanea accesa retorica che spingeva altri soggetti a prendere le armi in pugno e a morire; “infame cospiratore e autentico capo di assassini” rincarava Cavour; di contro Mazzini gli rispondeva che “Io vi sapevo, da lungo tempo, tenero alla monarchia piemontese più assai che della patria comune; adoratore materialista del fatto più che di ogni santo, eterno principio…perciò se io prima non vi amavo, ora vi sprezzo”. Garibaldi, a sua volta, chiese a più riprese a Vittorio Emanuele II di liquidare Cavour il quale affermava che “Garibaldi è il più fiero nemico che io abbia”.

Bisogna, inoltre, rimarcare il fatto che “L’ingombrante presenza austriaca della penisolaponeva due ordini di problemi. Innanzi tutto, creava uno squilibrio permanente nei rapporti tra Stati italiani, dato che nessuno di essi aveva il peso ed il prestigio militare sufficienti a bilanciare l’influenza asburgica. In secondo luogo, catalizzava il problema italiano intorno alla parola d’ordine della cacciata dello straniero, ricca di suggestioni emotive …tali da far passare in secondo piano, come minimalista e inadeguato, qualunque programma volto a ottenere riforme costituzionali o amministrative nell’ambito degli ordinamenti esistenti…questa peculiarità italiana fece sì che la dimensione cospirativa di stampo settario (Mazzini)…avesse un peso rilevante[3] anche perché i programmi federalisti del Gioberti e di Cattaneo, rispettivamente monarchico e repubblicano, pur se rispettosi delle realtà secolari degli stati italiani, sostanzialmente fallivano nella soluzione del “problema Austria”.

Tutti questi progetti unitari “raccoglievano ostilità e soprattutto indifferenza nel popolo italiano”[4], nella prima metà dell’Ottocento, infatti, l’idea di un’Italia unita e indipendente non si era formata, com’era del tutto assente una coscienza nazionale; né sono da contrapporre a queste asserzioni le “spontanee insurrezioni popolari unitarie“ che si manifestarono nei vari stati italiani, esse erano notoriamente organizzate da agenti sabaudi, né tanto meno i risultati dei “plebisciti“ confermativi le annessioni piemontesi, che seguirono alla cacciata dei sovrani preunitari, e che nessuna mente intellettualmente onesta può definire, guardando alle modalità del loro svolgimento, libera espressione di volontà popolare.

Persino nel fervore delle guerre di indipendenza il sentimento di appartenenza ad un’unica patria era molto labile: nella prima, del 1848, i soldati piemontesi non mostrarono nessuna aspirazione alla causa unitaria e nazionale tanto che quando Gioberti e Brofferio (due importanti esponenti liberali e unitaristi) si presentarono al loro cospetto e tentarono di istruirli sul significato”risorgimentale” della guerra “le mille imprecazioni dei nostri Ufficiali il fecero desistere dalla sua impresa. [Brofferio] si fece accompagnare in vettura da tre Ufficiali per paura che per strada lo ammazzassero. Gioberti gli toccò la stessa sorte e un soldato finì per tirargli addosso un torsolo di cavolo”[5].

Nella seconda guerra (del 1859) “i soldati dell’esercito sardo, quasi esclusivamente contadini e popolani … non erano ancora ben persuasi che il Piemonte fosse in Italia, tanto è vero che ai volontari provenienti dalle altre regioni d’Italia rivolgevano la domanda: “Vieni dall’Italia?”[6]. Furono solo 10mila i volontari accorsi dalle altre regioni d’Italia (la popolazione complessiva di queste regioni era di 20 milioni di abitanti), un’ulteriore prova, se mai ce ne fosse bisogno, di quanto poco era sentita l’istanza di una unione politica dell’Italia, questo fatto riempì d’indignazione Cavour che si sfogò ripetutamente nella sua corrispondenza privata, i volontari arruolati a Torino, provenienti dalle Due Sicilie, furono 20 [7]. Il conflitto si svolse tra l’avversione del popolo piemontese, oppresso fiscalmente a causa della onerosissima politica estera governativa, l’indifferenza dei lombardi (protagonisti nel marzo del 1848 delle Cinque giornate di Milano) e l’ostilità dei veneti che si batterono valorosamente nelle fila dell’esercito austriaco.

Durante la terza (1866) quando a Lissa il comandante austriaco von Teghethoff annunciò agli equipaggi delle sue navi, composti quasi integralmente da veneti, che la battaglia contro la marina del regno d’Italia era stata vinta, essi lanciarono i berretti in aria in segno di giubilo e gridarono “Viva San Marco” [simbolo di Venezia].

Questo stridente contrasto tra gli ideali di una minoranza e le aspettative della grande maggioranza della popolazione fece causticamente commentare che “Il liberalismo, che pretende di essere l’interprete dei destini nazionali e della volontà popolare, è in realtà una parte che pretende di stare per il tutto, una minoranza ideologica che si autoconferisce l’identità di nazione…Italia fittizia che si sovrappone al Paese reale senza rappresentarlo[8] .

Passando dagli idealisti senza secondi fini, alle persone che invece avevano concreti interessi materiali, non vi è dubbio che dietro l’ideale unitario si creò una alleanza tra la borghesia settentrionale e i latifondisti meridionali; la prima, forte dell’appoggio politico del Piemonte, vedeva nell’unità la possibilità di espandere gli affari a danno di quella meridionale, la seconda patteggiò il sostegno ai Savoia in cambio della futura vendita sotto costo delle terre demaniali ed ecclesiastiche, privando in questo modo i contadini degli usi civici (cioè dell’uso gratuito delle terre dello Stato per la semina e il pascolo). La classe che fu fortemente penalizzata dal Risorgimento fu quella popolare la cui condizione economica peggiorò causando il tragico fenomeno dell’emigrazione “il popolo minuto era per il resto del tutto irrilevante ai fini del movimento nazionale, e ciò giova a spiegare come nessun elemento dirigente di quest’ultimo si prendesse la briga di conquistarne le simpatie[9]. Solo Garibaldi lo fece, ma solo strumentalmente, all’inizio della spedizione dei Mille: promise, con degli editti, le terre a chi lo avesse aiutato nella lotta contro i Borbone, poi, una volta ottenuto l’appoggio dei contadini, egli stesso ordinò la repressione di focolai di rivolte popolari, l’episodio più grave fu quello del paese di Bronte, in Sicilia. Qui ci fu la resa dei conti circa le promesse fatte: il 1° agosto 1860 i contadini, insorti contro i proprietari terrieri; uccisero una decina di “galantuomini”; il Nizzardo, sollecitato dal console inglese che gli intimava di far rispettare le proprietà britanniche lì presenti, e spinto anche dal verificarsi di rivolte contadine simili a Linguaglossa, Randazzo, Centuripe e Castiglione, inviò il 6 Agosto sei compagnie di soldati piemontesi e due battaglioni di cacciatori al comando di Nino Bixio, “una forza atta a sopprimere li disordini che vi sono in Bronte che minacciano le proprietà inglesi[10]. Bixio, arrivato a Bronte, uccise subito a freddo un rivoltoso ed emise un decreto con cui intimava la consegna delle armi, l’esautorazione dell’amministrazione comunale e la condanna a morte dei responsabili più una tassa di guerra per ogni ora trascorsa fino alla “pacificazione” della cittadina; nei giorni successivi incriminò cinque persone, tra cui un insano di mente, le quali dopo un processo farsa furono condannate a morte; gli accusati, che erano innocenti (i responsabili erano scappati prima dell’arrivo di Bixio), furono fucilati il 10 agosto e i loro cadaveri esposti al pubblico insepolti[11]. “Dopo Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi, ed altri villaggi lo [Bixio] videro, sentirono la stretta della sua mano possente, gli gridarono dietro: Belva! Ma niuno osò più muoversi….se no ecco quello che ha scritto:“Con noi poche parole; o voi restate tranquilli, o noi, in nome della giustizia e della patria nostra, vi struggiamo [distruggiamo] come nemici dell’umanità[12].

I “galantuomini” avevano vinto su tutti i fronti e Garibaldi si dimostrò, quindi, come dice Denis Mack Smith, “il più religioso sostegno della proprietà“; lo aveva capito, già all’inizio della spedizione dei Mille, un frate siciliano, padre Carmelo, che declinò l’invito del garibaldino Giuseppe Cesare Abba di unirsi alle camicie rosse dicendogli:”Verrei, se sapessi che farete qualche cosa di grande davvero; ma ho parlato con molti dei vostri, e non mi hanno saputo dir altro che volete unire l’Italia…così è troppo poco.[13]

Marcello Veneziani[14] osserva, inoltre, che il Risorgimento provocò, per la sua preminente matrice liberale ed anticlericale, anche ”la frattura con l’anima religiosa del popolo italiano, la frattura con il mondo rurale e con i valori tipici di una civiltà contadina, la frattura con il Meridione”.

Interessanti, a quest’ultimo proposito, le opinioni di Denis Mack Smith e Paolo Mieli[15], dice il primo: “Contrariamente alla versione raccontata sui libri della storia ufficiale il popolo meridionale non partecipò al Risorgimento“ e aggiunge il secondo: “La stagione risorgimentale e post-risorgimentale è fatta di migliaia di morti, lotte, spari, massacri. Abbiamo vissuto una lunga guerra civile, di reietti contro buoni. Il popolo, soprattutto dell’Italia meridionale, è stato all’opposizione; lo era dai tempi delle invasioni napoleoniche [le cosiddette “insorgenze” contro i francesi che causarono decine di migliaia di vittime], c’erano stati moti molto forti, per diciannove anni, sino al 1815. Il popolo rimase sordamente ostile, perché legato all’autorità borbonica non percepita come nemica e alla Chiesa cattolica, che era una delle fonti istituzionali alle quali abbeverarsi. Il fenomeno ricordato nei nostri manuali come brigantaggio in realtà fu una guerra civile che sconvolse l’intero Sud, gli sconfitti lasciarono le loro terre e alimentarono la gigantesca emigrazione verso l’America “.

Nel giudizio storico sul distacco della popolazione meridionale dagli ideali di lotta allo straniero e di unità nazionale bisogna, al contrario di una superficiale e accusatoria storiografia ufficiale, mettere in conto che, a parte la sparuta minoranza che aveva nell’animo l’ideale unitario senza secondi fini utilitaristici, la massima parte dei meridionali, dal sovrano al più umile dei sudditi erano consapevoli di essere indipendenti da circa 800 anni, tanto contava il regno del Sud come età, e di avere, quindi, già una Patria bella e formata da secoli, lo straniero (l’Austria) era molto distante e non aveva più nessuna influenza, nè poteva minacciare le Due Sicilie.

Ci voleva, quindi, un grosso sforzo di immaginazione per pensare di poter mobilitare e soprattutto motivare uomini in armi per un ideale assolutamente incomprensibile. Il fatto che poi questo ideale unitario abbia prevalso nella realtà dei fatti, non vuol dire assolutamente che fosse l’inevitabile conseguenza del “secolo delle nazionalità”, almeno nel modo in cui si ottenne, tanto che anche molti accesi unitaristi affermarono che l’unità d’Italia era stata, per lo svolgimento degli avvenimenti, come un “terno a lotto” o un cosa che poteva riuscire una volta ogni cento anni…

Giuseppe Ressa


Note

[1] riportato da Alessandro Vitale nel Supplemento al n.10 di “Liberal”, febbraio 2002

[2] “ La nazione del Risorgimento”, Einaudi, 2000

[3] Roberto Martucci, “L’invenzione dell’Italia unita”, Sansoni, 1999

[4] Marcello Veneziani, Processo all’Occidente, ed. Sugarco, 1990, pag.225

[5] Giacomo Brachet Contol, “La formazione di Francesco Faà di Bruno”, citato da Francesco Pappalardo “Il mito di Garibaldi”, Piemme, 2002, pag. 94

[6] Girolamo Arnaldi, L’Italia e i suoi invasori, Laterza, 2003, pag. 179

[7] Gigi Di Fiore, I vinti del Risorgimento, UTET 2004, pag. 264

[8] Civiltà Cattolica serie IV, vol. 7 (30 agosto 1860), p.647 riportata da Giovanni Turco in “Brigantaggio, legittima difesa del Sud”, Il Giglio editore, 2000, pag. XX

[9] Denis Mack Smith, citato da Michele Topa, Così finirono i Borbone di Napoli, Fiorentino, 1990, pag.508

[10] Giuseppe Garibaldi, lettera del 3-8-1860, in Epistolario, vol. V p. 197 citato da Francesco Pappalardo, Il mito di Garibaldi, Piemme 2002, pag. 159

[11] in seguito fu celebrato un nuovo processo presso la Corte di Assise di Catania che nel 1863 comminò altre 37 condanne, di cui molte a vita.

[12] Abba, Da Quarto al Volturno, Oscar Mondadori, 1980, pagg.137-8

[13] ibidem, pag.68-69

[14] citato da F.M.Agnoli, “L’epoca delle Rivoluzioni”, Il Cerchio Itaca, 1999

[15] Dal quotidiano “La Stampa“ del 19 maggio 2001, pag. 23.

fonte http://www.ilportaledelsud.org/mr27.htm

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“Studi Storici” sulle insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica

Posted by on Feb 24, 2019

“Studi Storici” sulle insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica

1. Premessa

Il numero di aprile-giugno del 1998 di Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, di Roma, è interamente dedicato a Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica (1).

Il fascicolo, che si apre con il saggio Introduzione. La questione delle insorgenze italiane (pp. 325-348) di Anna Maria Rao — professore ordinario di Storia Moderna nell’università di Napoli Federico II, membro del comitato di direzione della rivista e coordinatrice dell’iniziativa —, presenta un insieme di monografie di studiosi di varia estrazione — anche se di comune orientamento —, dedicate a episodi e a momenti particolarmente significativi delle insorgenze popolari, verificatesi in Italia nel periodo del dominio napoleonico, fra il 1796 e il 1815.

L’ordine di presentazione è quello geografico. S’inizia infatti con uno studio sulle insorgenze delle province lombarde già sotto dominio veneto, per proseguire con un saggio volto a individuare tratti comuni fra l’insorgenza veronese del 1797 — le cosiddette Pasque Veronesi — e fenomeni coevi simili, a sfondo sociale, verificatisi nel Regno di Sardegna. Seguono uno studio sui moti agrari del Piemonte Meridionale nel 1797 e due saggi rispettivamente dedicati all’insorgenza ligure del 1797 e a quella romagnola del 1796-1797. La rassegna include poi l’analisi di alcuni aspetti di quelle che possono essere considerate le manifestazioni più significative e complesse della resistenza italiana contro la Rivoluzione francese, ovvero il movimento del Viva Maria! in Toscana, l’insorgenza del Lazio — comprendente anche un esame della politica di Papa Pio VII (1799-1821) nei confronti degl’insorgenti dopo la fine della Repubblica Romana e il ritorno del Pontefice a Roma — e la grande rivolta sanfedista nel Regno di Napoli, tutte del 1799.

2. Esposizione

Nello studio introduttivo la Rao mette anzitutto in rilievo l’ampiezza delle “resistenze e insurrezioni contro la rivoluzione e la repubblicanizzazione della penisola” (p. 330), individuandone le cause in motivazioni di medio e di lungo periodo — la crisi economico-sociale della seconda metà del secolo XVIII, la limitazione delle proprietà ecclesiastiche e le conseguenti ripercussioni sulle tradizionali forme d’assistenza, la riduzione delle autonomie locali, l’attaccamento alle tradizioni religiose, minacciate dal riformismo illuministico e dalla Rivoluzione — e in motivi più immediati, legati alle circostanze dell’invasione e dell’occupazione francesi. Si sofferma quindi su due elementi — “la diffusione delle insorgenze sull’insieme del territorio nazionale” (p. 331) e l’assenza di una conflittualità di classe fra contadini “sanfedisti” e borghesia “giacobina” — che ribaltano alcuni luoghi comuni della storiografia, per concludere che […] dai saggi che si presentano l’insorgenza emerge in tutta la sua irriducibile complessità di fenomeno fortemente differenziato nello spazio e nel tempo” (p. 341).

Lo studioso vicentino Paolo Preto — professore ordinario di Storia Moderna nell’università di Padova — ricostruisce in Le valli bergamasche e bresciane fra democratizzazione e rivolta antigiacobina (pp. 349-365) gli avvenimenti del 1797 nelle province venete più occidentali, dalla dichiarazione di neutralità del governo veneziano e dalla sollevazione di nuclei giacobini prima a Bergamo e poi a Brescia — entrambe “democratizzate” con la forza — all’invasione francese del territorio della Repubblica di Venezia, ai soprusi dell’occupazione e alla forzata inerzia delle truppe di San Marco, alla montante collera dei contadini, che esplode nel marzo del 1797. In quel mese le valli bergamasche — Seriana, Cavallina, Gandino e altre — e quelle bresciane — Camonica, Trompia e Sabbia —, unitamente alle popolazioni della riviera gardesana occidentale — in particolare della zona di Salò, un tempo indipendente —, dopo solenni giuramenti formulati nel corso delle tradizionali assemblee comunitarie, si sollevano coralmente contro le città “rivoluzionate” fino a scontrarsi con le neonate milizie “italiche” e con i francesi, dopo aver coltivato inizialmente l’illusione di regolare i conti con i giacobini nella neutralità dell’esercito occupante. Fa parte del quadro anche la cruda repressione perpetrata dalle truppe franco-bresciane — rinforzate da volontari accorsi da altre città italiane, come per esempio Pavia, di recente “democratizzate” — contro i contadini insorti: oltre al cannoneggiamento di Salò dalla parte del lago, vi sono, come rappresaglia, il saccheggio e l’incendio di diversi borghi della montagna bresciana, quali Nozza, Vestone, Barghe e Lavenone. Nel saggio, corredato da una ricca bibliografia, rimangono in ombra i moventi religiosi dell’insurrezione, mentre, fra le cause, viene dato il massimo risalto al legittimismo e alla difesa degli statuti locali da parte delle comunità rurali, preoccupate di perdere autonomia di fronte al nuovo regime a prevalente base cittadina. Nella parte finale dello studio Preto, ampliando la visuale all’insieme dei territori veneti, ritiene di diluire ulteriormente la caratterizzazione ideologica dell’insorgenza esaminata, ponendo l’accento sulla cronicità dei tumulti a sfondo annonario, antifeudali e contro il governo, verificatisi nelle province venete durante il Settecento, ma non sottovaluta il carattere politico dei moti del 1797: le popolazioni — scrive — […] questa volta non tumultuano per la fame ma per difendere le loro autonomie” (p. 365), ovvero l’antico regime nel quale hanno vissuto per secoli.

L’accento sul tema economico-agrario è posto anche da Gian Paolo Romagnani — ricercatore all’università di Verona, docente di Storia della Storiografia — in un saggio che, nonostante il titolo — Dalle “Pasque veronesi” ai moti agrari del Piemonte (pp. 367-399) —, è dedicato esclusivamente ai moti veronesi del 1797 e solo nelle conclusioni ipotizza — riferendosi però ad altri studi — un’unica matrice per le insorgenze dell’Italia Settentrionale durante il Triennio. Dopo una sintesi delle linee storiche e politiche dell’invasione francese dell’Alta Italia, il saggio traccia un profilo — includente anche una rassegna della storiografia sulla vicenda dall’Ottocento a oggi (2) — dell’insurrezione veronese, ricondotta alla crisi agricola che caratterizza il Veneto alla fine del Settecento e alle tensioni sociali che ne derivano, acuite entrambe dalla rapace presenza delle armate francesi. La tesi di fondo è l’esistenza di cause di un disagio economico-sociale generale, che si esprime in moti antifrancesi dove sono presenti le armi straniere e si scaglia invece contro le autorità tradizionali, la monarchia e i feudatari, dove i francesi sono assenti — o solo parzialmente presenti, a presidio di città sedi di fortezze —, come nel caso del Piemonte dopo l’armistizio di Cherasco dell’aprile del 1796. Romagnani ammette peraltro che una lettura politica dei moti piemontesi sarebbe fuorviante, essendo prodotto di una pluralità di fattori, e che in Italia[…] i moti agrari sono una conseguenza diretta della guerra” (p. 398), ovvero dei contraccolpi arrecati dalla stessa a una situazione economico-sociale già critica. Con ciò ricollega quindi le insorgenze piemontesi del 1797 ai drammatici mutamenti indotti non da riforme di struttura, ancora da realizzare, ma dalla guerra rivoluzionaria condotta dall’armata francese, con le sue sfrenate requisizioni militari e con il suo inaudito drenaggio di risorse finanziarie, oltre che artistiche e religiose. Il ventaglio delle cause viene ampliato, considerando pure che “caratteristica del caso italiano è […] l’insofferenza di molti centri minori nei confronti dei centri maggiori” (ibidem) e che “non va infine trascurato il fattore psicologico […] nel determinare il comportamento delle masse” (p. 399). Lo studio contiene anche un parallelo fra la Vandea francese e l’Insorgenza italiana, attribuito soprattutto agli ambienti che hanno celebrato il bicentenario della seconda; ma parallelo alquanto avventato, perché riconosce alla Vandea connotati di rivolta sociale e all’Insorgenza italiana una minore rilevanza rispetto alla prima.

Al Piemonte è dedicato anche l’ampio saggio di Blythe Alice Raviola — dottoranda in Storia della Società Europea all’università di Torino —, Le rivolte del luglio 1797 nel Piemonte meridionale (pp. 401-447), che, partendo dagli studi di Giuseppe Ricuperati (3) e grazie a un’accurata ricerca d’archivio, ricostruisce capillarmente i tumulti e i veri e propri moti che, a causa del rincaro dei prezzi dei generi alimentari di base, oppone le comunità di villaggio del Piemonte Meridionale — il Cuneese e l’Astigiano, con propaggini nell’Alessandrino e nel Monferrato — alle autorità sabaude e ai feudatari locali. Lo studio rivela episodi e aspetti poco noti della vicenda e si situa su una linea interpretativa decisamente socio-economica, che però tiene equilibratamente conto dell’autentica portata dei moti, nonché della difficoltà dell’”innesto” delle avanguardie giacobine piemontesi sulle popolazioni insorgenti, la cui ricezione delle parole d’ordine rivoluzionarie è limitata e che conservano una sostanziale fedeltà alla monarchia e al regime signorile.

Sulle rivolte di Genova e delle valli liguri orientali — Bisagno, Sturla, Aveto, Fontanabuona, Vara e Magra, con propaggini in Val Trebbia e nei feudi imperiali verso la Val Scrivia e l’Alessandrino —, che si manifestano a due riprese, rispettivamente nel maggio-giugno e nell’agosto-settembre del 1797, verte il saggio di Giovanni Assereto — professore associato di Storia Moderna nell’università di Genova — I “Viva Maria” nella Repubblica ligure (pp. 449-471). Più che a descrivere i fatti il saggio sembra inteso a evidenziare e ad affrontare le questioni suscitate dalla reazione della popolazione ligure, mettendo in luce la diversità fra la prima fase dei moti e quella, più intensa e significativa, che segue alla promulgazione della costituzione democratica. L’ipotesi della sobillazione nobiliare e clericale non viene esclusa, ma viene ridimensionata rispetto alla forza con cui tale ipotesi fu avanzata dai francesi e poi da numerosi storici “progressisti”, dimostrando come i processi susseguenti alla repressione non individuino né puniscano alcun nobile o prelato, benché i giacobini tornati al potere instaurino un “clima da caccia alle streghe” (p. 465) e ne abbiano i mezzi e l’intenzione. Viene anche discusso il legame, ipotizzato da alcuni studiosi, con la rivolta antiaustriaca del 1746 — quella di Giovanni Battista Perasso (1729-1781), detto “Balilla” —, nonché il carattere collettivo e corale — le autorità locali si pongono alla testa delle colonne di insorgenti — messo in evidenza dalle rivolte delle valli. Altri nodi affrontati sono il differente atteggiamento fra Levante e Ponente — quest’ultimo tanto fedele alla Repubblica ligure da proporre d’inviare proprie milizie per reprimere l’Insorgenza nel Levante —; la sostanziale refrattarietà popolare all’ideologia rivoluzionaria francese e la violenta avversione al giansenismo — particolarmente accentuata nella zona di Sarzana —, dopo la breve esperienza delle riforme religiose ispirate a mons. Scipione de Ricci (1741-1809), vescovo di Pistoia e di Prato; infine, la breve durata del moto e lo stato di endemica agitazione nelle campagne, che si protrae fino agli anni del Regno napoleonico. Esemplare è il caso di Val Fontanabuona, nell’entroterra di Chiavari, che verrà definita dai francesi la Vandea ligure. Il saggio di Assereto è d’intonazione senz’altro diversa rispetto ai primi della raccolta, perché vi sembrano meno operanti pregiudiziali teoriche. La sua condivisibile conclusione è che l’insorgenza ligure sarebbe stata una reazione difensiva, scatenata dall’intera gamma di realtà raccolte comunemente sotto il nome di Antico Regime — che nella Repubblica di Genova era rimasto sostanzialmente immune da riforme “illuminate” —, di fronte a un tentativo di modernizzazione troppo rapido e dalle modalità disorientanti, come nel caso della missione dei preti “patriottici” giansenisti nelle valli.

Il quadro che Valentino Sani — dottorando in Storia della Società Europea nell’università statale di Milano — in Le rivolte antifrancesi nel Ferrarese (pp. 473-494) traccia degli accadimenti nel Ferrarese e nella Bassa Romagna ha il pregio di spingersi fino agli anni del Regno napoleonico e ai fatti del 1809. Mentre emerge chiaramente che, dal momento dell’invasione fino alla caduta della dominazione francese, la zona non conosce soste nell’agitazione popolare, di essa si possono individuare quattro fasi ad “alta temperatura”: le insorgenze dell’estate del 1796, la più nota e sanguinosa delle quali è quella di Lugo, che coinvolge anche Argenta e Cento; la sollevazione generale del 1799, al momento della temporanea espulsione dei francesi dall’Italia a opera delle truppe imperiali e russe, che vede la partecipazione di milizie d’insorgenti all’assedio di Ferrara e la conquista di Pontelagoscuro, importante emporio padano; le rivolte contro la coscrizione obbligatoria del 1802-1803 e del 1805, quest’ultima culminata nella sommossa del borgo padano di Crespino, che Napoleone Bonaparte (1769-1821) reprime in modo particolarmente pesante; e, infine, i moti nelle campagne conseguenti alla grande insorgenza tirolese del 1809, che interessano ampie aree della Valle Padana. La repressione in quest’ultima è assai sanguinosa, con 63 condanne a morte per “brigantaggio”. L’ampio apparato critico comprende anche riferimenti a non pochi documenti d’archivio. Per Sani, il Leitmotiv delle insorgenze ferraresi — peraltro “fenomeno [non] valutabile in maniera univoca e omogenea” (p. 476) — sarebbero le croniche rivalità fra i municipi e la rivendicazione di privilegi e di autonomie locali, aggravate da disagi e da conflitti sociali originati da problemi economici.

All’insorgenza toscana del Viva Maria!, del 1799-1800, è dedicata la ricerca condotta da Claudio Tosi Il marchese Albergotti colonnello delle bande aretine del 1799 (pp. 495-531). Dopo una breve ma utile rassegna della storiografia in argomento — senz’altro fra le meno esigue, confrontabile solo con quella relativa alla Santa Fede nel Regno di Napoli —, Tosi sostiene che non ci si debba concentrare oltre misura sugli aspetti economici e sociali dell’Insorgenza toscana, ma piuttosto, come le più recenti tendenze storiografiche sembrerebbero confermare, dare — o ridare — spazio all’analisi di tematiche meno “tangibili”, come la sfera della psicologia e delle credenze religiose, il sentimento d’identità collettiva, la mentalità e la sensibilità delle diverse e riccamente differenziate componenti della società d’Antico Regime, come pure vanno approfondite le cause politiche, nel duplice aspetto strategico-internazionale e tattico-locale. In particolare andrebbe intensificata l’indagine sul ceto dirigente di un’insorgenza che presenta caratteri — per la durata e l’estensione, nonché per la presenza di un’élite dirigente non improvvisata — nettamente diversi da quelli di altri movimenti. In questa prospettiva si situa la ricerca condotta da Tosi sulla figura del marchese Giovan Battista Albergotti (1761-1816), leader del moto aretino. Attraverso la ricostruzione della biografia del marchese e di alcuni membri della sua antichissima famiglia — quasi completamente schierata in quegli anni contro la Rivoluzione: solo un membro sceglie infatti la militanza giacobina —, come il fratello Agostino (1755-1825), divenuto poi vescovo della sua città, lo storico si propone d’inquadrare il comportamento della classe dirigente del Viva Maria!, nonché gli eventi di cui essa fu protagonista e le ragioni delle diverse scelte politiche e militari che dovette fare, rilevandone aspetti sicuramente sconosciuti, che arricchiscono e illuminano l’intera vicenda dell’Insorgenza. Emergono così, fra l’altro, l’accortezza politica e l’abilità militare del nobile toscano, nonché le doti umane e cristiane che conducono il governo provvisorio aretino, e poi toscano, da lui presieduto a instaurare rapporti da tempo sconosciuti fra potere e popolo, fra autorità sociali e ceti umili. Lo studio è munito di un nutrito apparato di note, che fanno riferimento a una varietà di fonti, fra cui l’archivio della famiglia Albergotti.

Le premesse, le origini e le vicende delle insorgenze a Roma e nello Stato Pontificio negli anni 1798-1799 costituiscono l’oggetto del saggio di Massimo Cattaneo — dottore di ricerca presso l’università di Napoli Federico II — L’opposizione popolare al “giacobinismo” a Roma e nello Stato pontificio (pp. 533-568). In un rapido schizzo viene descritta in esordio la “battaglia delle idee” combattuta dagli ambienti pontifici ed ecclesiastici romani contro la Rivoluzione francese, anche se di questa propaganda si esagera alquanto la finalità, definita “terroristica”, e sopravvalutata forse la portata, soprattutto se si pensa alla massiccia e pluridecennale operazione di propaganda messa in campo dall’avversario. L’efficacia della “profilassi” poliziesca, attuata dal governo di Papa Pio VI (1775-1799), contro le infiltrazioni giacobine fomentate dagli agenti diplomatici francesi in vista di un rivolgimento autoctono e in preparazione a una possibile invasione francese, si vede però nel fatto che i nuclei giacobini a Roma ammettono[…] nel 1797 di poter contare in città su non più di settecento simpatizzanti, di cui solo sessantotto pronti a rischiare personalmente in un eventuale tentativo rivoluzionario” (p. 538). Particolarmente interessante è la descrizione — anche attraverso la poesia popolare, utilizzata per veicolare princìpi contro-rivoluzionari — della mentalità e dei costumi religiosi della popolazione del rione Trastevere, che sarà l’epicentro del moto del 25 febbraio 1798. Lo svolgimento di questo viene ripercorso tanto nella dinamica dei fatti quanto nelle cause immediate, quanto, infine, nelle modalità di soffocamento e di punizione adottate dai francesi e sfociate in decine di fucilazioni, non tutte comminate da tribunali e per di più eseguite con modalità nuove, cioè senza cornice religiosa, che contribuiscono a sconcertare e a irritare ulteriormente il popolo romano. Il saggio contiene una rassegna della storiografia sull’Insorgenza nei territori pontifici, che ha inizio nel Montefeltro e nelle Marche addirittura al principio del 1797, al momento del primo impatto bellico fra la Repubblica Francese e lo Stato della Chiesa, e massimo sviluppo nel 1799, anno in cui l’Insorgenza nel Basso Lazio si collega, anche se non organicamente, al Viva Maria!, a quella nell’Umbria e al sanfedismo napoletano.

Marina Caffiero — professore associato di Storia Moderna nell’università di Roma La Sapienza — in Perdòno per i giacobini, severità per gli insorgenti: la prima Restaurazione pontificia (pp. 569-602) riporta alla luce aspetti poco noti del periodo rivoluzionario e napoleonico nei domini pontifici. Lo studio — documentato anche con reperti d’archivio — tratta infatti della politica attuata dal governo romano, dopo la restaurazione pontificia del 1800, nei confronti dei partecipanti alla vicenda della Repubblica Romana del 1798-1799 e dell’atteggiamento tenuto dal medesimo verso i conati d’insorgenza che caratterizzano gli Stati del Papa fra l’inizio del secolo e il momento della nuova conquista francese, fra il 1807 e il 1808. Nel primo caso, si palesa un atteggiamento di clemenza che, nonostante gli ammonimenti dei contro-rivoluzionari non occasionali, sfocia in una serie di misure che si spingono fino a reintegrare non solo nei diritti civili ma anche negli uffici o, addirittura, a promuovere a incarichi di responsabilità i protagonisti e i leader giacobini degli anni della repubblica e della guerra civile del 1798-1799. Misure tanto impegnative e indiscriminate che vengono lette come espressione di una condizione di debolezza, peraltro reale a causa della situazione internazionale, caratterizzata dalla forte pressione francese sullo Stato della Chiesa dopo il riaprirsi del conflitto con il confinante Regno borbonico. Nella prospettiva di ristabilire la pace sociale e di stornare da Roma una seconda invasione — poi comunque subita — il vertice romano preferisce mostrarsi acquiescente e collaborativo oltre misura con i francesi e allearsi con gli ex giacobini contro quanti mettevano a repentaglio la sopravvivenza dello status quo, ovvero, da un lato — in accordo con la politica di Parigi —, reprimendo gli elementi più enragés o anarchistes fra i rivoluzionari italiani, dall’altro lato combattendo gl’insorgenti dei vari dipartimenti e le formazioni del ribellismo endemico — il cosiddetto “brigantaggio” —, venutesi a costituire nello scenario di disordine e d’instabilità sociale degli anni napoleonici. Dopo un prodromo in provincia di Frosinone nel 1801, le insorgenze popolari riprendono e si moltiplicano nel 1806 in sintonia e in prossimità della seconda insorgenza generale del Regno di Napoli, riesplosa in grande stile dopo l’occupazione napoleonica. Il governo pontificio giunge a istituire una congregazione speciale con compiti di controllo e di repressione dei movimenti popolari: di essa fanno parte sia elementi antigiacobini sia, significativamente, i maggiori e più noti esponenti del giacobinismo laziale, che si trovano così a giudicare talvolta persone già schierate sul fronte loro opposto nei moti di otto anni prima. L’esame degli atti di questa commissione getta luce su aspetti poco noti della vicenda, sui moventi e sull’appartenenza sociale degl’insorgenti. Tutti questi dati rafforzerebbero la tesi della studiosa secondo cui l’insorgenza laziale, più che esser letta come conflitto a sfondo religioso o puramente economico, andrebbe collocata nel quadro di cronico scontro municipalistico e campanilistico, clientelare e parentale, che caratterizza l’Italia e gli Stati pontifici e che si riacutizza a causa dei problemi indotti dall’occupazione francese.

La panoramica dell’Insorgenza italiana termina con Rivolte popolari e controrivoluzione nel Mezzogiorno continentale (pp. 603-622), una sintesi della reazione popolare nel Regno borbonico tracciata da John A. Davis, del Dipartimento di Storia dell’università del Connecticut. Già noto per altri studi sul medesimo soggetto e buon conoscitore delle fonti storiografiche italiane, anch’egli propende per un’interpretazione dell’Insorgenza meridionale che vada oltre le pure ragioni di ordine economico, spostando il fuoco della ricerca sul mutamento indotto, sovente a forza, nella società di Antico Regime e tenendo conto della grave crisi della monarchia napoletana, che sarebbe all’origine anche dell’opzione di alcuni maggiorenti per la Rivoluzione, allo scopo di garantire comunque l’ordine civile. Attenzione particolare andrebbe riservata alle vicende micro-sociali, perché sarebbero i municipi — con le loro storie e con i retaggi infiniti di rivalità e di conflitti, che trovano nuovo alimento nella situazione di “rottura” di un equilibrio negli anni napoleonici — a sostanziare, più delle macro-strutture istituzionali, l’Insorgenza meridionale. Davis ritrova questa serie di problemi nelle scelte operate dal leader della Santa Fede, il cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827), analizzandone accuratamente la condotta durante e dopo l’insorgenza.

3. Qualche considerazione

Il fascicolo di Studi Storici fornisce contributi sostanziosi e sufficientemente obiettivi, e sembra rappresentare un promettente inizio di riflessione sul fenomeno dell’Insorgenza italiana, ma evidenzia anche un atteggiamento di fondo che si presta a non pochi rilievi.

La principale osservazione è che un po’ tutti i contributi tendano a persuadere il lettore dell’esistenza di una ricerca — e di non trascurabile spessore — sull’Insorgenza stessa, che viene data addirittura per scontata; anzi, si lascia intendere che, al suo interno, vi sarebbero articolazioni, correnti e scuole diverse, su cui peraltro s’innesterebbe al presente un tanto vigoroso quanto esecrato “revisionismo” — i cui contributi sarebbero per lo più scadenti sotto il profilo scientifico —, promosso strumentalmente da ambienti ideologizzati in senso nostalgico-reazionario e mirante a inquinare il ricupero d’identità in corso nel mondo culturale e politico italiano.

Già nel 1995 Giuseppe Galasso, uno dei maggiori storici italiani contemporanei, ha sostenuto sulle colonne della rubrica culturale del più autorevole quotidiano nazionale (4) esser “sciocchezze” le pretese di quanti lamentano che le insorgenze siano state sottoposte all’“oblio e al disconoscimento [da parte di] una gretta storiografia nazionale, liberale, democratica” (5). Al contrario — sosteneva il professore napoletano — […] i movimenti controrivoluzionari sono stati in Italia largamente studiati in opere e saggi dovuti spesso ad autori anche illustri” (6); e poi, […] nessuno ha mai disconosciuto l’”eroismo” di quelle Vandee italiane” (7). Vien da dire: altro che “sferzante giudizio” sul “revisionismo”, quale lo reputa, citandolo, Cattaneo (p. 568, nota 94)! Si tratta invece di affermazioni che, nella più benevola delle ipotesi, suonano superficiali, quando non mistificanti. Le cose stanno in realtà assai diversamente e non riesco a persuadermi che lo ignori il curatore di una delle più prestigiose collane di storia d’Italia.

L’Insorgenza non è stata per nulla “largamente” studiata. Mancano di essa tuttora quattro dimensioni essenziali. In primo luogo la ricerca e l’analisi delle fonti primarie — anzitutto documenti degli archivi civili e religiosi —, capillarmente estesa al territorio italiano, come richiede lo studio di una realtà così disaggregata e legata a fattori locali. Poi è del tutto assente un’elaborazione a livello generale delle fonti e, dunque, una storiografia di respiro nazionale sul tema. Quindi non si può nemmeno parlare di una tradizione o di una scuola storiografica, neanche di esiguo spessore, sulla quale potersi innestare. Infine — per tacere dell’informazione culturale, ossia dei mezzi di comunicazione sociale — manca il necessario “travaso” delle acquisizioni storiografiche sul piano della formazione culturale del cittadino medio, ovvero nei programmi scolastici. Non è solo in questione la mancanza di “un aggiornato quadro d’insieme”, come rileva la Rao nel saggio d’apertura (p. 326) — che non è solo colpa “della frammentazione e dispersione delle fonti documentarie degli Stati preunitari” (p. 325) —: è in questione la conoscenza tout court del fenomeno, che dipende in buona sostanza dalla non volontà di dar rilievo, nei fatti e nelle interpretazioni, a questa pagina non secondaria della biografia della nazione italiana. Forse solo per il Mezzogiorno — e concordo qui in parte con la studiosa lucana — si può parlare di una storiografia di una qualche portata: ma l’Insorgenza nell’Italia Meridionale ha avuto tratti talmente macroscopici da rendere impossibile ignorarne o affievolirne la memoria. Anche in questo caso la ricerca scientifica si è mostrata finora carente e stereotipata, almeno nelle interpretazioni, benché forse si profilino segnali di cambiamento: la prospettiva accennata nel saggio di Davis — il legame fra Insorgenza e crisi generale della monarchia borbonica — costituisce per esempio una pista di ricerca innovativa e promettente.

E prova di tale condizione è proprio il fatto che gli studiosi della rassegna, invece di limitarsi a “glossare” criticamente studi già esistenti, hanno dovuto “scavare” in archivi assai poco “battuti” e in neglette storie locali, per lo più datate, per raccogliere le informazioni offerte al lettore. Si potrebbe chiedere: dove sono gli autori, l’equivalente dei Saitta, dei Vaccarino, degli Zaghi? dove sono i testi? dove sono gli schemi esplicativi da rimettere in discussione? dov’è la “scolastica” accademica in questo àmbito? Posso personalmente testimoniare che nel 1973, quando iniziai a elaborare la mia tesi di laurea sul tema delle insorgenze nella Lombardia del 1796, al primo accostamento alla materia non riuscii a mettere insieme più di due opere di sintesi, quella di Lumbroso — del 1932, che è parziale e copre il solo Triennio Giacobino (8) — e il volume di Jacques Godechot (1907-1994) La Contre-révolution, doctrine et action (1789-1804), del 1962 — che si ferma al 1804 e che è stato tradotto in italiano solo nel 1988 (9).

Quanto non si vuole ammettere è che siamo in realtà di fronte a una oggettiva rimozione, di origine non recente e tenacemente reiterata — e rafforzata dalla gramsciana conquista dell’egemonia culturale —, di un evento che non è un banale accadimento sporadico, ma, come riconosce ancora — ma perché solo adesso? — la Rao, autrice di molteplici studi sul periodo rivoluzionario in Italia, un fenomeno che […] ebbe un ruolo centrale nella vita politica italiana alla svolta fra Sette e Ottocento, non solo, ma anche negli orientamenti dei repubblicani del triennio 1796-1799 e nella politica napoleonica, e ancor più nell’immaginario e nella riflessione storiografica dell’Ottocento. Basti ricordare il peso che avrebbe esercitato nel pensiero e nell’azione degli uomini del Risorgimento, da Mazzini a Pisacane, nel dibattito sulle vie da seguire per realizzare l’indipendenza e l’unificazione politica italiane” (p. 327) (10). Una realtà, fra l’altro, costata agli italiani, secondo una stima per difetto, in quanto limitata all’inizio del 1799 — che la studiosa del Mezzogiorno suppongo conosca, in quanto fornita da uno dei protagonisti delle vicende della Repubblica Napoletana, il generale francese Paul-Charles Thiébault — almeno sessantamila vittime (11), un dato ancora più impressionante se lo si confronta percentualmente con la popolazione dell’epoca (12) e se si pone mente che non è dovuto a qualche malaugurato evento naturale — un terremoto o un’inondazione —, ma è il prodotto di una volontà umana.

Di fronte a questa obiettiva carenza storica non mi sembra lecito, oltre tutto, squalificare i tentativi — magari anche ideologicamente orientati — di chi, con i mezzi di cui ha potuto avvalersi, non certo comparabili con quelli di cui dispone la storiografia istituzionale, ha cercato di ricostruire la fisionomia di un momento della storia italiana che, come confermano i lavori ospitati da Studi Storici, rivela sempre più nitidamente la sua portata nei fatti e nelle conseguenze.

Non si sa davvero che cosa pensare davanti a un simile “peccato” di omissione riguardo a un fenomeno sul quale non può, come minimo, non “inciampare” qualunque percorso di ricerca serio, né si vede dove possa condurre questo modo di fare storia. Che “magistero” può esercitare? Che futuro può aiutare a costruire? Quale contributo può fornire un atteggiamento scientifico non solo viziato dall’ideologia, ma tendenzialmente ostruzionistico, in un frangente nel quale l’Italia ha bisogno di ogni sforzo volto a farle ricuperare integralmente la propria memoria storica, civile e religiosa per poter così meglio ridefinire la propria identità e per formulare nuove regole con cui perseguire il “bene comune”?

Ma vi sono altri rilievi di merito, che riguardano i giudizi espressi sull’interpretazione generale dell’Insorgenza e sui contributi finora forniti dagli ambienti cosiddetti del “cattolicesimo reazionario e intransigente” (p. 326). La prospettiva delineata da Cattaneo — ovvero il “progetto di incidere nel processo di formazione di un nuovo paradigma repubblicano elaborando una nuova memoria storica nazionale, anche a partire dal recupero di ogni forma di “sanfedismo”, in quanto testimonianza di una rimpianta unità tra valori religiosi e valori pubblici, di una società organicamente “ordinata”, tradizionalista e impermeabile alle detestate ideologie liberali e di sinistra” (p. 568), che trova accoglienza da parte di testate di forze politiche conservatrici, nella fattispecie il Secolo d’Italia, e i cui prodotti confluiscono in “dizionari del pensiero forte” — sembra correttamente ricostruita e, anche se evocata in chiave tendenzialmente polemica, non si vede che cosa vi sia d’illegittimo nel “tentare di incidere” “da destra” nell’elaborazione culturale che prelude alla formulazione di un nuovo assetto repubblicano. Né che cosa vi sia d’ignobile nel rifarsi ai valori evocati, non espungendo dal curriculum del nostro Paese neppure il “sanfedismo” — forse emblema dell’omissione e della contraffazione perpetrate nei confronti dell’Insorgenza —, che certamente va valutato criticamente — e severamente, anche nei suoi aspetti meno “rosei” —, ma riguardo al quale va rifiutata la vera e propria “leggenda nera” — mostrante ogni giorno di più la corda — che è gli è stata costruita addosso nel tempo, sì che l’aggettivo “sanfedista” viene utilizzato ancor oggi più come “clava” ideologica che per designare una posizione ideale.

Riguardo invece al “revisionismo” che affliggerebbe la storiografia sviluppata nella prospettiva predetta — tendente a “sollecitare una totale riscrittura della storia italiana ed europea dal XVIII al XX secolo “dal punto di vista degli sconfitti”” (p. 367) e che viene evocata a più riprese nei vari saggi, ancora in veste di giudizio di merito e con intenti non del tutto benevoli —, occorre subito premettere che anche in questo caso una definizione comunemente accettata di questo termine non esiste. Proprio nel 1998 Ernst Nolte, il “padre” del revisionismo contemporaneo, ne ha fornito una definizione a mio avviso “aurea”, scrivendo: […] considero tratti distintivi di ogni revisionismo serio e perlomeno orientato in una direzione scientifica la critica documentata all’unilateralità e alle lacune della veduta “ufficiale” e la volontà di attenersi ad una maggiore obiettività” (13).

Se tale è il “revisionismo”, muoversi in tal senso sarebbe non solo lecito, ma doveroso. Anzi esso dovrebbe assumere quell’atteggiamento “militante”, che viene lamentato ancora da Cattaneo nei confronti dello storico cattolico maceratese Sandro Petrucci (14) — pur da lui apprezzato dal punto di vista “tecnico” —, perché renderebbe “opaco sul piano interpretativo” (p. 561, nota 82) il lavoro di ricerca. Ma non si può non domandarsi a che cosa si dovrebbe applicare nella fattispecie dell’Insorgenza la “revisione” denunciata, ovvero quali paradigmi scientifici unilateralmente invalsi si dovrebbero sottoporre a “revisione”, dato che essi non vi sono. Non che manchino “vedute ufficiali” — che affiorano per esempio quando si rompe il silenzio —, ma esse sono costituite per la gran parte da giudizi non approfonditi, derivati da orientamenti ideologici pregiudizialmente contrari, senza riscontri fattuali, resi superflui dalla maramaldesca consapevolezza che chi ne è oggetto è uno “sconfitto”, sia storico che nella “battaglia delle idee”.

Non sembra, ancora, accettabile ricondurre, come fa lo stesso studioso con un’intentio palesemente squalificante, il “revisionismo” sull’Insorgenza alle prospettive “cattolico-integralista, neo e postfascista, monarchico legittimista” (p. 567), senza fornire definizione di tali realtà. Il cosiddetto revisionismo nasce invece da un atteggiamento di domanda di verità e di obiettività e come spontanea e costruttiva reazione alla percezione di una monumentale ingiustizia inferta a uomini, nostri antenati, le cui scelte vanno giudicate e anche — se necessario — condannate, ma la cui memoria ci appartiene e che dobbiamo riscoprire e recepire con atteggiamento di profonda e amorosa pietas.

Venendo infine alla tesi secondo cui gli storici “revisionisti”, ergo “di destra”, “revisionano” tutto, ma salvano sempre e solo l’opera dello storico nazionalista e fascista Lumbroso (15), viene spontaneo domandarsi a che cosa si poteva riallacciare fattualmente chi volesse conoscere, anche solo ieri, qualcosa della reazione delle popolazioni contro la Rivoluzione francese in Italia, dato che null’altro di fatto esisteva a un primo accostamento, se non l’opera dello storico fiorentino. Ho già avuto modo di mettere in luce questo aspetto nell’introduzione alla riedizione del suo “vecchio e ben noto — ma a quanti? — studio” (p. 325) apparsa nel 1997. In tale sede mi sono altresì sforzato di non operare il minimo “ricupero” né delle prospettive storiografiche — che giudico oggettivamente insufficienti e forzate sotto il profilo ermeneutico, anche se vanno lette nel clima culturale italiano fra le due guerre mondiali — né tanto meno delle prospettive dottrinali di Lumbroso, ma di effettuare solo un’operazione di ricupero documentale. Vedo però purtroppo che il punto è stato frainteso, se Preto sostiene che la mia nota biografica e la mia prefazione al volume […] ribadiscono la prospettiva storico-politica nazionalista (risalente a Niccolò Rodolico [1873-1969])” (p. 350).

Tentando un giudizio d’insieme sui contenuti del fascicolo monografico di Studi Storici, si può osservare che, dal punto di vista delle interpretazioni i diversi studiosi sembrano essere accomunati, oltre che dal rigetto delle forzature nazionalistiche dei primi decenni del secolo, dall’esigenza di guardare al fenomeno con una visuale sempre più ampia e spregiudicata, abbandonando interpretazioni più o meno rigidamente monocausali a sfondo “infrastrutturale” — di cui potrebbe essere modello, nel caso della storia contemporanea, il gramsciano Giorgio Candeloro (1909-1988) — e muovendosi verso una visione maggiormente interdisciplinare, esigita peraltro da una realtà così complessa e disomogenea qual è l’Insorgenza. Se questo cambiamento sia un semplice tentativo di “noyer le poisson” — “annegare il pesce”, ovvero di diluire al massimo una realtà, facendole perdere sostanza —, come sembra stia accadendo riguardo ad altre tematiche (16); sia cioè frutto del prevalere di una visione “debole”, tendenzialmente portata a frammentare e a relativizzare l’interpretazione generale dell’Insorgenza, oppure segno di un progresso salutare, al momento non è possibile affermarlo. Certo, l’assenza di una sintesi di qualche spessore fra i saggi della raccolta, come pure il fatto che l’orizzonte spaziale e temporale evidenziato dagli studiosi sia sempre piuttosto ristretto, sembrerebbero far propendere per la prima ipotesi. Su tale atteggiamento maggiormente “aperto” la convergenza di studiosi di altra origine e collocazione anche militante può già fin da ora essere più ampia, soprattutto da parte di quegli studiosi che, partendo da diverse ipotesi di lavoro e rifacendosi a certa storiografia francese degli ultimi anni — per esempio a Jean Dumont, a Reynald Secher e a Jean Meyer (17) —, ritengono che l’Insorgenza vada letta all’interno della logica del processo di genesi e d’affermazione della modernità in Occidente. Uno schema esplicativo tendenzialmente portato a leggere l’Insorgenza come categoria, piuttosto che come puro fenomeno, e fondamentalmente “forte” — di qui il suo legame con il “pensiero forte” —, apparentemente monocausale, ma in realtà ampiamente sfaccettata. Una visione sufficientemente flessibile per accogliere contributi diversi e più idonea a cogliere la verità di un fenomeno storico multiforme, che, servata distantia, presenta analogie con una realtà di un’altra epoca, il comune medievale, il quale si origina spesso per ragioni le più diverse, non in maniera sincrona nello spazio, ma si afferma più o meno nella stessa epoca in tutto il continente europeo.

Nella massa dei dati proposti è possibile cogliere anche spunti e stimoli meritevoli di ulteriori approfondimenti. Per esempio, la ricerca di Tosi sul Viva Maria! fa scoprire che, anche fra i contro-rivoluzionari, non erano assenti prospettive di mutamento dello status quo e di ricongiunzione alle forme socio-politiche precedenti le riforme illuministiche dei prìncipi settecenteschi. Ancora, lo stesso studio, forse nell’ottica di superare la visione delle “masse” contadine come soggetto indistinto e monolitico, contiene un primo tentativo di biografia di un leader contro-rivoluzionario — quella del marchese Albergotti —, che può costituire un valido esempio per analoghe ricerche.

La rassegna edita dall’Istituto Gramsci presenta anche contenuti, espliciti o impliciti, meno felici.

In primo luogo si rileva in pressoché tutti gli studi una pregiudiziale aprioristicamente negativa verso la componente religiosa nella genesi e nello svolgimento dei vari episodi d’insorgenza, che si traduce nella sua pratica espunzione oppure nella sua “riduzione” o nel suo appiattimento sociologico. Se è vero che il fattore religioso non è stato sempre l’unico movente delle reazioni popolari, è altresì indubbio che esso è sempre e ovunque presente e trascurarlo, oppure posporlo a realtà apparentemente “più profonde”, significa non tener conto dell’assoluta primarietà delle credenze e dei riti nella cultura ancora omogeneamente cristiana delle popolazioni della Penisola alla fine del Settecento, elaborando così interpretazioni quanto meno inadeguate.

Dalla lettura dei diversi saggi, ma soprattutto di quello introduttivo, non emerge poi un aspetto importante dell’Insorgenza italiana, ovvero la sua appartenenza a un quadro europeo. Nel periodo napoleonico la resistenza popolare contro i francesi in difesa delle tradizioni religiose e civili si manifesta in tutte le nazioni cattoliche, all’improvviso esposte a un processo di modernizzazione e di secolarizzazione ad alta intensità, non “preparato”, come altrove, dalla Riforma. Dal Belgio alla Spagna, alla Svizzera, fino all’isola di Malta, ovunque la Rivoluzione francese avanza dietro le armi napoleoniche, le popolazioni, i ceti umili, si sollevano, rialzano i simboli religiosi e le insegne delle “piccole patrie”, dando vita a sollevazioni, come quella spagnola, di vasta portata. Non dare sufficiente rilievo a questa dimensione transnazionale, trascurando gli studi — unici a tracciarne il profilo, anche se in maniera incompleta — di Godechot, significa menomare la possibilità di comprendere adeguatamente l’Insorgenza italiana, rischiando di ridurla a una ripresa di “beghe” fra municipi in perenne e atavico conflitto. A questo riguardo, mentre va osservato che le lotte campanilistiche trovano nuovo vigore — come ha messo in rilievo Petrucci (18) — proprio in conseguenza dello sconvolgimento di equilibri plurisecolari a opera della “totale organizzazione” (19) della società del tempo attuata dalle repubbliche giacobine — nella fattispecie dalla Repubblica Romana —, non si può non ricordare come, almeno per l’Insorgenza nell’Italia Centrale del 1798-1799, non ci si trovi affatto di fronte a episodi — anche numerosi, ma del tutto particolaristici e scoordinati fra loro — di difesa della “piccola patria”, ma si manifesti invece una embrionale unità d’intenti e di lotta fra gl’insorgenti.

Tralascio ogni considerazione sulla liceità — che non viene mai posta in dubbio nella raccolta — da parte della Repubblica Francese di aggredire, di spogliare e di “democratizzare”, violando diritti costituiti plurisecolari, Stati neutrali e pacifici, come pure dell’esproprio di risorse finanziarie e di tesori artistici, cui i francesi sottopongono nel Triennio i popoli italiani. Osservo invece che, mentre nel panorama delineato affiora in più punti la denuncia della “bestiale ferocia” degl’insorgenti — che non è assolutamente né ordinaria, né generalizzata: se ad Arezzo nel 1799 vengono uccisi e bruciati tredici ebrei, nell’insurrezione di Pavia del 1796 i cinquemila contadini insorti non provocano una sola vittima, né fra i giacobini, né fra i francesi —, non emerge sufficientemente, o forse non emerge affatto, quanto brutale siano state la repressione e le rappresaglie perpetrate dai francesi — ma anche dalle milizie cisalpine e “italiche”, evocando immagini di diversi e più recenti collaborazionismi — contro una popolazione il più delle volte inerme. Le loro vittime sono forse da considerare ovvi e dovuti “contributi” al “riscatto” delle popolazioni italiane? Che cosa pensare dell’assordante silenzio sulle sofferenze dei tanti minores — perché privi della cultura riflessa e dei mezzi per far conoscere le proprie ragioni — e il rilievo tributato ad avvenimenti oggettivamente insignificanti, ma di diverso segno “politico”? Si tace delle migliaia di morti dell’Insorgenza a Milano, a Pavia, a Verona, a Lugo di Romagna, a Firenze, a Roma, a Napoli, in Abruzzo, nelle Calabrie e si assorda invece il cittadino con quelle, pur reali, ma incomparabilmente più lievi, per far un esempio, dei “quattro” “martiri dello Spielberg”. Eppure la fase finale dell’Insorgenza precede solo di pochi anni quest’ultima vicenda.

In conclusione, se il numero monografico di Studi Storici rappresenta, com’è lecito credere, una “galleria” delle ultime tendenze della ricerca — almeno di una certa “scuola”, ma non poco significativa — in merito alle insorgenze popolari nel periodo napoleonico, se ne trae l’impressione e l’auspicio che la storiografia sul tema esca finalmente dalla minorità e si avvii verso una maggiore consapevolezza. Soprattutto pare che l’Insorgenza abbia trovato spiragli d’interesse in una parte del mondo accademico. È questa, se non l’unica, almeno la via decisiva per giungere a una conoscenza adeguata del fenomeno. L’importante è che questo interesse non venga inquinato e fuorviato dalle sopravvivenze ideologiche — magari travestite da pensiero “debole” —, e che iniziative private o non istituzionali, invece di essere declassate o combattute, trovino incremento e sostegno da parte di chi è istituzionalmente preposto a “fare storia” e a promuovere la cultura. La prossimità della ricorrenza del secondo centenario della fase clou dell’Insorgenza italiana e della sua, anche se temporanea, vittoria, il 1799 — in vista della quale va senz’altro collocata l’iniziativa realizzata da Studi Storici —, può essere un’opportunità da non perdere.

Oscar Sanguinetti

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(1) Cfr. Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, numero monografico di Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, anno 39, n. 2, aprile-giugno 1998, pp. 325-622, Dedalo, Bari 1998. Tutti i riferimenti senza rimando sono tratti da questo volume e la paginazione è indicata fra parentesi.

(2) La rassegna contiene alcune affermazioni inesatte sullo storico Giacomo Lumbroso (1897-1944), che viene detto attivo “agli inizi di questo secolo” (p. 376), il che pare difficile, essendo egli nato nel 1897, e definito […] un intelligente conservatore di matrice positivista che ci ha lasciato alcune ricerche assai ben documentate sulle insorgenze antinapoleoniche nella pianura padana” (ibidem). A riguardo, mentre è condivisibile il giudizio relativo all’“intelligente conservatore”, non è evidente da dove si possa dedurre una matrice positivista in Lumbroso; né sono note ricerche “assai ben documentate” dello stesso sulla pianura padana, avendo egli trattato tale argomento nel quadro della sua — peraltro unica — opera di sintesi I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800) (2a ed. rivista, a cura di Oscar Sanguinetti, Minchella, Milano 1997; 1a ed., Le Monnier, Firenze 1932; cfr. la recensione di Paolo Martinucci, in Cristianità, anno XXVI, n. 277, maggio 1998, pp. 24-26), dedicata alle insurrezioni dell’intera Penisola, nella quale dà invece più spazio, come doveroso, all’Insorgenza nell’Italia Centrale e nel Regno di Napoli.

(3) Cfr. Giuseppe Ricuperati, Il Settecento, in Pierpaolo Merlin, Claudio Rosso, Geoffrey Symcox e Giuseppe Ricuperati, Il Piemonte sabaudo. Stato e territori in età moderna, in Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, UTET, Torino 1994, vol. VIII*, pp. 441-834.

(4) Cfr. G. Galasso, Un’eroica Vandea non si nega a nessuno, in Corriere della Sera, 13-9-1995; cfr. anche ISIN. Istituto per la Storia delle Insorgenze, Perché l’attenzione all’Insorgenza, comunicato del 2-12-1996, in Cristianità, anno XXIV, n. 260, dicembre 1996, p. 6.

(5) G. Galasso, art. cit.

(6) Ibidem.

(7) Ibidem.

(8) Cfr. G. Lumbroso, op. cit.; tale tesi è all’origine del mio Le insorgenze contro-rivoluzionarie in Lombardia nel primo anno della dominazione napoleonica. 1796, con una prefazione di Marco Tangheroni, Cristianità, Piacenza 1996; cfr. recensione di Marco Invernizzi, in Cristianità, anno XXV, n. 261-262, gennaio-febbraio 1997, pp. 26 e 30.

(9) Jacques Godechot, La contre-révolution, doctrine et action (1789-1804), PUF, Parigi 1961, trad. it. sulla 2a ed. francese, La controrivoluzione. Dottrina e azione (1789-1804), Mursia, Milano 1988.

(10) Viene irresistibile chiedere: ma in quale liceo o aula accademica s’insegna, non solo che Giuseppe Mazzini (1805-1872) si sia posto il problema delle insorgenze del periodo napoleonico nel quadro della sua elaborazione teorica, ma che esse siano esistite tout court? La stessa Rao, in un precedente studio — Mezzogiorno e rivoluzione: trent’anni di storiografia, in Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, anno 37, n. 4, ottobre-dicembre 1996, pp. 981-1041 —, ha avuto modo di farsi portavoce della tesi di Galasso nel contesto della valutazione — peraltro incidentale — di un breve profilo delle Insorgenze contro-rivoluzionarie da me tracciato e comparso nel volume collettaneo Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 1994, pp. 373-407). E la valutazione risulta del seguente tenore: mentre le mie poche righe vengono rubricate sotto la voce […] impudenti ricorrenti recriminazioni dei reazionari di turno prontamente recepite e amplificate dai mezzi di comunicazione su un’insorgenza negletta e incompresa” (ibid., p. 1010), a carico di chi scrive viene detto che […] solo l’incoscienza può spingere a spaziare in poco più di trenta pagine dalla Vandea del 1793 al Messico del 1926, e solo l’ignoranza può sorreggere nell’affermazione che il fenomeno delle insorgenze popolari controrivoluzionarie sia stato fino a non molti anni fa […] poco esplorato in ambiente di ricerca” (ibid., nota 108). A riguardo mi limito solo a rilevare il tono alquanto scomposto della reazione della docente mentre, sotto il profilo sostanziale, mi permetto di osservare che esistono sintesi di poche pagine riguardo a periodi e a fenomeni storici ben più ampi. Come ben sa, il “taglio” del contributo dipende dal contesto in cui deve situarsi e non sempre l’autore può sceglierlo; anzi, ritengo che le sintesi, per di più del respiro di un articolo di rivista, siano fra le modalità espressive più difficili. O forse il mio contributo, così esiguo, ha acutizzato, traducendolo in un improvviso e violento accesso, l’idiosincrasia per le interpretazioni “unitarie” dell’Insorgenza da cui la professoressa Rao sembra essere affetta? Mi sfugge invece totalmente come la studiosa abbia potuto riscontrare che le tesi dei “reazionari” vengano prontamente recepite e amplificate dai mezzi di comunicazione: a me pare, al contrario, che le poche volte in cui viene rotto il silenzio da parte dei mass media sui “reazionari” — e si veda proprio la sortita di Galasso sopra ricordata e peraltro reiterata in successiva occasione — è quando occorre parlarne per “batterne in breccia”, facendo sparare magari “cannoni” di grosso calibro, le argomentazioni e le azioni. Last but not least, non rilevo fra quelli addotti dalla studiosa alcun elemento che imponga di rivedere la mia asserzione, e devo quindi ribadirla, soprattutto alla luce dei primi risultati di ricerche che l’ISIN, l’Istituto per la Storia dele Insorgenze, ha promosso relativamente all’Italia Settentrionale. Anzi, il dotto e nutritissimo studio bibliografico della Rao sulla Rivoluzione nel Mezzogiorno d’Italia rafforza ulteriormente la mia convinzione, quando confronto l’esiguità dei riferimenti a opere dedicate alla maggiore delle insorgenze della Penisola, quella del Regno di Napoli — mentre si afferma contraddittoriamente che occorre […] comprendere […] come mai tanto ampie e diffuse furono le resistenze e le reazioni popolari contro i francesi e i loro sostenitori “giacobini”” (ibid., p. 997) —, con la dovizia dei titoli relativi alla Rivoluzione.

(11) Cfr. Generale Paul-Charles Thiébault, Mémoires du Général Baron Thiébault publiées sous les auspices de sa fille M.lle Claire Thiébault d’après le manuscript original par Fernand Calmettes, Parigi 1893-1895, vol. II, p. 325.

(12) Cfr. Athos Bellettini (1921-1983), La popolazione italiana. Un profilo storico, a cura di Franco Tassinari, con un’introduzione di Marino Berengo, Einaudi, Torino 1987, che valuta la popolazione a circa 15,5 milioni nel 1750 e a circa 18 milioni nel 1800 (cfr. tabella I, p. 14).

(13) Ernst Nolte, Verità e leggenda del revisionismo, in nuova Storia Contemporanea. Bimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea, anno II, n. 5, settembre-ottobre 1998, Luni, Milano 1998, p. 11.

(14) Il riferimento è a Sandro Petrucci, Insorgenti marchigiani. Il Trattato di Tolentino e i moti antifrancesi del 1797, con una prefazione di M. Tangheroni, SICO, Macerata 1996; cfr. la recensione di Francesco Pappalardo, in Cristianità, anno XXIV, n. 259, novembre 1996, pp. 25-26.

(15) Cfr. alcune notizie sulla vita e l’opera di Lumbroso in O. Sanguinetti, saggio introduttivo a G. Lumbroso, op. cit.

(16) Cfr., a riguardo, Alberto Indelicato — cui per inciso debbo l’efficace espressione “noyer le poisson” —, Revisionismo e giustificazionismo, in nuova Storia Contemporanea. Bimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea, cit., pp. 143-150.

(17) Cfr. Jean Dumont, I falsi miti della Rivoluzione francese, con una prefazione di Giovanni Cantoni, trad. it., Effedieffe, Milano 1989; Reynald Secher, Il genocidio vandeano, con una prefazione di Jean Meyer e una presentazione di Pierre Chaunu, Effedieffe, Milano 1989; e Jean Meyer, La Cristiada, 4a ed. riveduta, 3 voll., Siglo Ventuno, Mexico-Madrid-Buenos Aires 1976.

(18) Cfr. S. Petrucci, L’insorgenza nell’Italia Centrale negli anni 1797-1798, in Nota informativa (dell’Istituto per la Storia delle Insorgenze di Milano), anno II, n. 8, gennaio-aprile 1998, pp. 7-24.

(19 ) Ibid., p. 13: l’espressione è tratta da un documento “romano” dell’epoca.

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1. Premessa

Il numero di aprile-giugno del 1998 di Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, di Roma, è interamente dedicato a Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica (1).

Il fascicolo, che si apre con il saggio Introduzione. La questione delle insorgenze italiane (pp. 325-348) di Anna Maria Rao — professore ordinario di Storia Moderna nell’università di Napoli Federico II, membro del comitato di direzione della rivista e coordinatrice dell’iniziativa —, presenta un insieme di monografie di studiosi di varia estrazione — anche se di comune orientamento —, dedicate a episodi e a momenti particolarmente significativi delle insorgenze popolari, verificatesi in Italia nel periodo del dominio napoleonico, fra il 1796 e il 1815.

L’ordine di presentazione è quello geografico. S’inizia infatti con uno studio sulle insorgenze delle province lombarde già sotto dominio veneto, per proseguire con un saggio volto a individuare tratti comuni fra l’insorgenza veronese del 1797 — le cosiddette Pasque Veronesi — e fenomeni coevi simili, a sfondo sociale, verificatisi nel Regno di Sardegna. Seguono uno studio sui moti agrari del Piemonte Meridionale nel 1797 e due saggi rispettivamente dedicati all’insorgenza ligure del 1797 e a quella romagnola del 1796-1797. La rassegna include poi l’analisi di alcuni aspetti di quelle che possono essere considerate le manifestazioni più significative e complesse della resistenza italiana contro la Rivoluzione francese, ovvero il movimento del Viva Maria! in Toscana, l’insorgenza del Lazio — comprendente anche un esame della politica di Papa Pio VII (1799-1821) nei confronti degl’insorgenti dopo la fine della Repubblica Romana e il ritorno del Pontefice a Roma — e la grande rivolta sanfedista nel Regno di Napoli, tutte del 1799.

2. Esposizione

Nello studio introduttivo la Rao mette anzitutto in rilievo l’ampiezza delle “resistenze e insurrezioni contro la rivoluzione e la repubblicanizzazione della penisola” (p. 330), individuandone le cause in motivazioni di medio e di lungo periodo — la crisi economico-sociale della seconda metà del secolo XVIII, la limitazione delle proprietà ecclesiastiche e le conseguenti ripercussioni sulle tradizionali forme d’assistenza, la riduzione delle autonomie locali, l’attaccamento alle tradizioni religiose, minacciate dal riformismo illuministico e dalla Rivoluzione — e in motivi più immediati, legati alle circostanze dell’invasione e dell’occupazione francesi. Si sofferma quindi su due elementi — “la diffusione delle insorgenze sull’insieme del territorio nazionale” (p. 331) e l’assenza di una conflittualità di classe fra contadini “sanfedisti” e borghesia “giacobina” — che ribaltano alcuni luoghi comuni della storiografia, per concludere che […] dai saggi che si presentano l’insorgenza emerge in tutta la sua irriducibile complessità di fenomeno fortemente differenziato nello spazio e nel tempo” (p. 341).

Lo studioso vicentino Paolo Preto — professore ordinario di Storia Moderna nell’università di Padova — ricostruisce in Le valli bergamasche e bresciane fra democratizzazione e rivolta antigiacobina (pp. 349-365) gli avvenimenti del 1797 nelle province venete più occidentali, dalla dichiarazione di neutralità del governo veneziano e dalla sollevazione di nuclei giacobini prima a Bergamo e poi a Brescia — entrambe “democratizzate” con la forza — all’invasione francese del territorio della Repubblica di Venezia, ai soprusi dell’occupazione e alla forzata inerzia delle truppe di San Marco, alla montante collera dei contadini, che esplode nel marzo del 1797. In quel mese le valli bergamasche — Seriana, Cavallina, Gandino e altre — e quelle bresciane — Camonica, Trompia e Sabbia —, unitamente alle popolazioni della riviera gardesana occidentale — in particolare della zona di Salò, un tempo indipendente —, dopo solenni giuramenti formulati nel corso delle tradizionali assemblee comunitarie, si sollevano coralmente contro le città “rivoluzionate” fino a scontrarsi con le neonate milizie “italiche” e con i francesi, dopo aver coltivato inizialmente l’illusione di regolare i conti con i giacobini nella neutralità dell’esercito occupante. Fa parte del quadro anche la cruda repressione perpetrata dalle truppe franco-bresciane — rinforzate da volontari accorsi da altre città italiane, come per esempio Pavia, di recente “democratizzate” — contro i contadini insorti: oltre al cannoneggiamento di Salò dalla parte del lago, vi sono, come rappresaglia, il saccheggio e l’incendio di diversi borghi della montagna bresciana, quali Nozza, Vestone, Barghe e Lavenone. Nel saggio, corredato da una ricca bibliografia, rimangono in ombra i moventi religiosi dell’insurrezione, mentre, fra le cause, viene dato il massimo risalto al legittimismo e alla difesa degli statuti locali da parte delle comunità rurali, preoccupate di perdere autonomia di fronte al nuovo regime a prevalente base cittadina. Nella parte finale dello studio Preto, ampliando la visuale all’insieme dei territori veneti, ritiene di diluire ulteriormente la caratterizzazione ideologica dell’insorgenza esaminata, ponendo l’accento sulla cronicità dei tumulti a sfondo annonario, antifeudali e contro il governo, verificatisi nelle province venete durante il Settecento, ma non sottovaluta il carattere politico dei moti del 1797: le popolazioni — scrive — […] questa volta non tumultuano per la fame ma per difendere le loro autonomie” (p. 365), ovvero l’antico regime nel quale hanno vissuto per secoli.

L’accento sul tema economico-agrario è posto anche da Gian Paolo Romagnani — ricercatore all’università di Verona, docente di Storia della Storiografia — in un saggio che, nonostante il titolo — Dalle “Pasque veronesi” ai moti agrari del Piemonte (pp. 367-399) —, è dedicato esclusivamente ai moti veronesi del 1797 e solo nelle conclusioni ipotizza — riferendosi però ad altri studi — un’unica matrice per le insorgenze dell’Italia Settentrionale durante il Triennio. Dopo una sintesi delle linee storiche e politiche dell’invasione francese dell’Alta Italia, il saggio traccia un profilo — includente anche una rassegna della storiografia sulla vicenda dall’Ottocento a oggi (2) — dell’insurrezione veronese, ricondotta alla crisi agricola che caratterizza il Veneto alla fine del Settecento e alle tensioni sociali che ne derivano, acuite entrambe dalla rapace presenza delle armate francesi. La tesi di fondo è l’esistenza di cause di un disagio economico-sociale generale, che si esprime in moti antifrancesi dove sono presenti le armi straniere e si scaglia invece contro le autorità tradizionali, la monarchia e i feudatari, dove i francesi sono assenti — o solo parzialmente presenti, a presidio di città sedi di fortezze —, come nel caso del Piemonte dopo l’armistizio di Cherasco dell’aprile del 1796. Romagnani ammette peraltro che una lettura politica dei moti piemontesi sarebbe fuorviante, essendo prodotto di una pluralità di fattori, e che in Italia[…] i moti agrari sono una conseguenza diretta della guerra” (p. 398), ovvero dei contraccolpi arrecati dalla stessa a una situazione economico-sociale già critica. Con ciò ricollega quindi le insorgenze piemontesi del 1797 ai drammatici mutamenti indotti non da riforme di struttura, ancora da realizzare, ma dalla guerra rivoluzionaria condotta dall’armata francese, con le sue sfrenate requisizioni militari e con il suo inaudito drenaggio di risorse finanziarie, oltre che artistiche e religiose. Il ventaglio delle cause viene ampliato, considerando pure che “caratteristica del caso italiano è […] l’insofferenza di molti centri minori nei confronti dei centri maggiori” (ibidem) e che “non va infine trascurato il fattore psicologico […] nel determinare il comportamento delle masse” (p. 399). Lo studio contiene anche un parallelo fra la Vandea francese e l’Insorgenza italiana, attribuito soprattutto agli ambienti che hanno celebrato il bicentenario della seconda; ma parallelo alquanto avventato, perché riconosce alla Vandea connotati di rivolta sociale e all’Insorgenza italiana una minore rilevanza rispetto alla prima.

Al Piemonte è dedicato anche l’ampio saggio di Blythe Alice Raviola — dottoranda in Storia della Società Europea all’università di Torino —, Le rivolte del luglio 1797 nel Piemonte meridionale (pp. 401-447), che, partendo dagli studi di Giuseppe Ricuperati (3) e grazie a un’accurata ricerca d’archivio, ricostruisce capillarmente i tumulti e i veri e propri moti che, a causa del rincaro dei prezzi dei generi alimentari di base, oppone le comunità di villaggio del Piemonte Meridionale — il Cuneese e l’Astigiano, con propaggini nell’Alessandrino e nel Monferrato — alle autorità sabaude e ai feudatari locali. Lo studio rivela episodi e aspetti poco noti della vicenda e si situa su una linea interpretativa decisamente socio-economica, che però tiene equilibratamente conto dell’autentica portata dei moti, nonché della difficoltà dell’”innesto” delle avanguardie giacobine piemontesi sulle popolazioni insorgenti, la cui ricezione delle parole d’ordine rivoluzionarie è limitata e che conservano una sostanziale fedeltà alla monarchia e al regime signorile.

Sulle rivolte di Genova e delle valli liguri orientali — Bisagno, Sturla, Aveto, Fontanabuona, Vara e Magra, con propaggini in Val Trebbia e nei feudi imperiali verso la Val Scrivia e l’Alessandrino —, che si manifestano a due riprese, rispettivamente nel maggio-giugno e nell’agosto-settembre del 1797, verte il saggio di Giovanni Assereto — professore associato di Storia Moderna nell’università di Genova — I “Viva Maria” nella Repubblica ligure (pp. 449-471). Più che a descrivere i fatti il saggio sembra inteso a evidenziare e ad affrontare le questioni suscitate dalla reazione della popolazione ligure, mettendo in luce la diversità fra la prima fase dei moti e quella, più intensa e significativa, che segue alla promulgazione della costituzione democratica. L’ipotesi della sobillazione nobiliare e clericale non viene esclusa, ma viene ridimensionata rispetto alla forza con cui tale ipotesi fu avanzata dai francesi e poi da numerosi storici “progressisti”, dimostrando come i processi susseguenti alla repressione non individuino né puniscano alcun nobile o prelato, benché i giacobini tornati al potere instaurino un “clima da caccia alle streghe” (p. 465) e ne abbiano i mezzi e l’intenzione. Viene anche discusso il legame, ipotizzato da alcuni studiosi, con la rivolta antiaustriaca del 1746 — quella di Giovanni Battista Perasso (1729-1781), detto “Balilla” —, nonché il carattere collettivo e corale — le autorità locali si pongono alla testa delle colonne di insorgenti — messo in evidenza dalle rivolte delle valli. Altri nodi affrontati sono il differente atteggiamento fra Levante e Ponente — quest’ultimo tanto fedele alla Repubblica ligure da proporre d’inviare proprie milizie per reprimere l’Insorgenza nel Levante —; la sostanziale refrattarietà popolare all’ideologia rivoluzionaria francese e la violenta avversione al giansenismo — particolarmente accentuata nella zona di Sarzana —, dopo la breve esperienza delle riforme religiose ispirate a mons. Scipione de Ricci (1741-1809), vescovo di Pistoia e di Prato; infine, la breve durata del moto e lo stato di endemica agitazione nelle campagne, che si protrae fino agli anni del Regno napoleonico. Esemplare è il caso di Val Fontanabuona, nell’entroterra di Chiavari, che verrà definita dai francesi la Vandea ligure. Il saggio di Assereto è d’intonazione senz’altro diversa rispetto ai primi della raccolta, perché vi sembrano meno operanti pregiudiziali teoriche. La sua condivisibile conclusione è che l’insorgenza ligure sarebbe stata una reazione difensiva, scatenata dall’intera gamma di realtà raccolte comunemente sotto il nome di Antico Regime — che nella Repubblica di Genova era rimasto sostanzialmente immune da riforme “illuminate” —, di fronte a un tentativo di modernizzazione troppo rapido e dalle modalità disorientanti, come nel caso della missione dei preti “patriottici” giansenisti nelle valli.

Il quadro che Valentino Sani — dottorando in Storia della Società Europea nell’università statale di Milano — in Le rivolte antifrancesi nel Ferrarese (pp. 473-494) traccia degli accadimenti nel Ferrarese e nella Bassa Romagna ha il pregio di spingersi fino agli anni del Regno napoleonico e ai fatti del 1809. Mentre emerge chiaramente che, dal momento dell’invasione fino alla caduta della dominazione francese, la zona non conosce soste nell’agitazione popolare, di essa si possono individuare quattro fasi ad “alta temperatura”: le insorgenze dell’estate del 1796, la più nota e sanguinosa delle quali è quella di Lugo, che coinvolge anche Argenta e Cento; la sollevazione generale del 1799, al momento della temporanea espulsione dei francesi dall’Italia a opera delle truppe imperiali e russe, che vede la partecipazione di milizie d’insorgenti all’assedio di Ferrara e la conquista di Pontelagoscuro, importante emporio padano; le rivolte contro la coscrizione obbligatoria del 1802-1803 e del 1805, quest’ultima culminata nella sommossa del borgo padano di Crespino, che Napoleone Bonaparte (1769-1821) reprime in modo particolarmente pesante; e, infine, i moti nelle campagne conseguenti alla grande insorgenza tirolese del 1809, che interessano ampie aree della Valle Padana. La repressione in quest’ultima è assai sanguinosa, con 63 condanne a morte per “brigantaggio”. L’ampio apparato critico comprende anche riferimenti a non pochi documenti d’archivio. Per Sani, il Leitmotiv delle insorgenze ferraresi — peraltro “fenomeno [non] valutabile in maniera univoca e omogenea” (p. 476) — sarebbero le croniche rivalità fra i municipi e la rivendicazione di privilegi e di autonomie locali, aggravate da disagi e da conflitti sociali originati da problemi economici.

All’insorgenza toscana del Viva Maria!, del 1799-1800, è dedicata la ricerca condotta da Claudio Tosi Il marchese Albergotti colonnello delle bande aretine del 1799 (pp. 495-531). Dopo una breve ma utile rassegna della storiografia in argomento — senz’altro fra le meno esigue, confrontabile solo con quella relativa alla Santa Fede nel Regno di Napoli —, Tosi sostiene che non ci si debba concentrare oltre misura sugli aspetti economici e sociali dell’Insorgenza toscana, ma piuttosto, come le più recenti tendenze storiografiche sembrerebbero confermare, dare — o ridare — spazio all’analisi di tematiche meno “tangibili”, come la sfera della psicologia e delle credenze religiose, il sentimento d’identità collettiva, la mentalità e la sensibilità delle diverse e riccamente differenziate componenti della società d’Antico Regime, come pure vanno approfondite le cause politiche, nel duplice aspetto strategico-internazionale e tattico-locale. In particolare andrebbe intensificata l’indagine sul ceto dirigente di un’insorgenza che presenta caratteri — per la durata e l’estensione, nonché per la presenza di un’élite dirigente non improvvisata — nettamente diversi da quelli di altri movimenti. In questa prospettiva si situa la ricerca condotta da Tosi sulla figura del marchese Giovan Battista Albergotti (1761-1816), leader del moto aretino. Attraverso la ricostruzione della biografia del marchese e di alcuni membri della sua antichissima famiglia — quasi completamente schierata in quegli anni contro la Rivoluzione: solo un membro sceglie infatti la militanza giacobina —, come il fratello Agostino (1755-1825), divenuto poi vescovo della sua città, lo storico si propone d’inquadrare il comportamento della classe dirigente del Viva Maria!, nonché gli eventi di cui essa fu protagonista e le ragioni delle diverse scelte politiche e militari che dovette fare, rilevandone aspetti sicuramente sconosciuti, che arricchiscono e illuminano l’intera vicenda dell’Insorgenza. Emergono così, fra l’altro, l’accortezza politica e l’abilità militare del nobile toscano, nonché le doti umane e cristiane che conducono il governo provvisorio aretino, e poi toscano, da lui presieduto a instaurare rapporti da tempo sconosciuti fra potere e popolo, fra autorità sociali e ceti umili. Lo studio è munito di un nutrito apparato di note, che fanno riferimento a una varietà di fonti, fra cui l’archivio della famiglia Albergotti.

Le premesse, le origini e le vicende delle insorgenze a Roma e nello Stato Pontificio negli anni 1798-1799 costituiscono l’oggetto del saggio di Massimo Cattaneo — dottore di ricerca presso l’università di Napoli Federico II — L’opposizione popolare al “giacobinismo” a Roma e nello Stato pontificio (pp. 533-568). In un rapido schizzo viene descritta in esordio la “battaglia delle idee” combattuta dagli ambienti pontifici ed ecclesiastici romani contro la Rivoluzione francese, anche se di questa propaganda si esagera alquanto la finalità, definita “terroristica”, e sopravvalutata forse la portata, soprattutto se si pensa alla massiccia e pluridecennale operazione di propaganda messa in campo dall’avversario. L’efficacia della “profilassi” poliziesca, attuata dal governo di Papa Pio VI (1775-1799), contro le infiltrazioni giacobine fomentate dagli agenti diplomatici francesi in vista di un rivolgimento autoctono e in preparazione a una possibile invasione francese, si vede però nel fatto che i nuclei giacobini a Roma ammettono[…] nel 1797 di poter contare in città su non più di settecento simpatizzanti, di cui solo sessantotto pronti a rischiare personalmente in un eventuale tentativo rivoluzionario” (p. 538). Particolarmente interessante è la descrizione — anche attraverso la poesia popolare, utilizzata per veicolare princìpi contro-rivoluzionari — della mentalità e dei costumi religiosi della popolazione del rione Trastevere, che sarà l’epicentro del moto del 25 febbraio 1798. Lo svolgimento di questo viene ripercorso tanto nella dinamica dei fatti quanto nelle cause immediate, quanto, infine, nelle modalità di soffocamento e di punizione adottate dai francesi e sfociate in decine di fucilazioni, non tutte comminate da tribunali e per di più eseguite con modalità nuove, cioè senza cornice religiosa, che contribuiscono a sconcertare e a irritare ulteriormente il popolo romano. Il saggio contiene una rassegna della storiografia sull’Insorgenza nei territori pontifici, che ha inizio nel Montefeltro e nelle Marche addirittura al principio del 1797, al momento del primo impatto bellico fra la Repubblica Francese e lo Stato della Chiesa, e massimo sviluppo nel 1799, anno in cui l’Insorgenza nel Basso Lazio si collega, anche se non organicamente, al Viva Maria!, a quella nell’Umbria e al sanfedismo napoletano.

Marina Caffiero — professore associato di Storia Moderna nell’università di Roma La Sapienza — in Perdòno per i giacobini, severità per gli insorgenti: la prima Restaurazione pontificia (pp. 569-602) riporta alla luce aspetti poco noti del periodo rivoluzionario e napoleonico nei domini pontifici. Lo studio — documentato anche con reperti d’archivio — tratta infatti della politica attuata dal governo romano, dopo la restaurazione pontificia del 1800, nei confronti dei partecipanti alla vicenda della Repubblica Romana del 1798-1799 e dell’atteggiamento tenuto dal medesimo verso i conati d’insorgenza che caratterizzano gli Stati del Papa fra l’inizio del secolo e il momento della nuova conquista francese, fra il 1807 e il 1808. Nel primo caso, si palesa un atteggiamento di clemenza che, nonostante gli ammonimenti dei contro-rivoluzionari non occasionali, sfocia in una serie di misure che si spingono fino a reintegrare non solo nei diritti civili ma anche negli uffici o, addirittura, a promuovere a incarichi di responsabilità i protagonisti e i leader giacobini degli anni della repubblica e della guerra civile del 1798-1799. Misure tanto impegnative e indiscriminate che vengono lette come espressione di una condizione di debolezza, peraltro reale a causa della situazione internazionale, caratterizzata dalla forte pressione francese sullo Stato della Chiesa dopo il riaprirsi del conflitto con il confinante Regno borbonico. Nella prospettiva di ristabilire la pace sociale e di stornare da Roma una seconda invasione — poi comunque subita — il vertice romano preferisce mostrarsi acquiescente e collaborativo oltre misura con i francesi e allearsi con gli ex giacobini contro quanti mettevano a repentaglio la sopravvivenza dello status quo, ovvero, da un lato — in accordo con la politica di Parigi —, reprimendo gli elementi più enragés o anarchistes fra i rivoluzionari italiani, dall’altro lato combattendo gl’insorgenti dei vari dipartimenti e le formazioni del ribellismo endemico — il cosiddetto “brigantaggio” —, venutesi a costituire nello scenario di disordine e d’instabilità sociale degli anni napoleonici. Dopo un prodromo in provincia di Frosinone nel 1801, le insorgenze popolari riprendono e si moltiplicano nel 1806 in sintonia e in prossimità della seconda insorgenza generale del Regno di Napoli, riesplosa in grande stile dopo l’occupazione napoleonica. Il governo pontificio giunge a istituire una congregazione speciale con compiti di controllo e di repressione dei movimenti popolari: di essa fanno parte sia elementi antigiacobini sia, significativamente, i maggiori e più noti esponenti del giacobinismo laziale, che si trovano così a giudicare talvolta persone già schierate sul fronte loro opposto nei moti di otto anni prima. L’esame degli atti di questa commissione getta luce su aspetti poco noti della vicenda, sui moventi e sull’appartenenza sociale degl’insorgenti. Tutti questi dati rafforzerebbero la tesi della studiosa secondo cui l’insorgenza laziale, più che esser letta come conflitto a sfondo religioso o puramente economico, andrebbe collocata nel quadro di cronico scontro municipalistico e campanilistico, clientelare e parentale, che caratterizza l’Italia e gli Stati pontifici e che si riacutizza a causa dei problemi indotti dall’occupazione francese.

La panoramica dell’Insorgenza italiana termina con Rivolte popolari e controrivoluzione nel Mezzogiorno continentale (pp. 603-622), una sintesi della reazione popolare nel Regno borbonico tracciata da John A. Davis, del Dipartimento di Storia dell’università del Connecticut. Già noto per altri studi sul medesimo soggetto e buon conoscitore delle fonti storiografiche italiane, anch’egli propende per un’interpretazione dell’Insorgenza meridionale che vada oltre le pure ragioni di ordine economico, spostando il fuoco della ricerca sul mutamento indotto, sovente a forza, nella società di Antico Regime e tenendo conto della grave crisi della monarchia napoletana, che sarebbe all’origine anche dell’opzione di alcuni maggiorenti per la Rivoluzione, allo scopo di garantire comunque l’ordine civile. Attenzione particolare andrebbe riservata alle vicende micro-sociali, perché sarebbero i municipi — con le loro storie e con i retaggi infiniti di rivalità e di conflitti, che trovano nuovo alimento nella situazione di “rottura” di un equilibrio negli anni napoleonici — a sostanziare, più delle macro-strutture istituzionali, l’Insorgenza meridionale. Davis ritrova questa serie di problemi nelle scelte operate dal leader della Santa Fede, il cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827), analizzandone accuratamente la condotta durante e dopo l’insorgenza.

3. Qualche considerazione

Il fascicolo di Studi Storici fornisce contributi sostanziosi e sufficientemente obiettivi, e sembra rappresentare un promettente inizio di riflessione sul fenomeno dell’Insorgenza italiana, ma evidenzia anche un atteggiamento di fondo che si presta a non pochi rilievi.

La principale osservazione è che un po’ tutti i contributi tendano a persuadere il lettore dell’esistenza di una ricerca — e di non trascurabile spessore — sull’Insorgenza stessa, che viene data addirittura per scontata; anzi, si lascia intendere che, al suo interno, vi sarebbero articolazioni, correnti e scuole diverse, su cui peraltro s’innesterebbe al presente un tanto vigoroso quanto esecrato “revisionismo” — i cui contributi sarebbero per lo più scadenti sotto il profilo scientifico —, promosso strumentalmente da ambienti ideologizzati in senso nostalgico-reazionario e mirante a inquinare il ricupero d’identità in corso nel mondo culturale e politico italiano.

Già nel 1995 Giuseppe Galasso, uno dei maggiori storici italiani contemporanei, ha sostenuto sulle colonne della rubrica culturale del più autorevole quotidiano nazionale (4) esser “sciocchezze” le pretese di quanti lamentano che le insorgenze siano state sottoposte all’“oblio e al disconoscimento [da parte di] una gretta storiografia nazionale, liberale, democratica” (5). Al contrario — sosteneva il professore napoletano — […] i movimenti controrivoluzionari sono stati in Italia largamente studiati in opere e saggi dovuti spesso ad autori anche illustri” (6); e poi, […] nessuno ha mai disconosciuto l’”eroismo” di quelle Vandee italiane” (7). Vien da dire: altro che “sferzante giudizio” sul “revisionismo”, quale lo reputa, citandolo, Cattaneo (p. 568, nota 94)! Si tratta invece di affermazioni che, nella più benevola delle ipotesi, suonano superficiali, quando non mistificanti. Le cose stanno in realtà assai diversamente e non riesco a persuadermi che lo ignori il curatore di una delle più prestigiose collane di storia d’Italia.

L’Insorgenza non è stata per nulla “largamente” studiata. Mancano di essa tuttora quattro dimensioni essenziali. In primo luogo la ricerca e l’analisi delle fonti primarie — anzitutto documenti degli archivi civili e religiosi —, capillarmente estesa al territorio italiano, come richiede lo studio di una realtà così disaggregata e legata a fattori locali. Poi è del tutto assente un’elaborazione a livello generale delle fonti e, dunque, una storiografia di respiro nazionale sul tema. Quindi non si può nemmeno parlare di una tradizione o di una scuola storiografica, neanche di esiguo spessore, sulla quale potersi innestare. Infine — per tacere dell’informazione culturale, ossia dei mezzi di comunicazione sociale — manca il necessario “travaso” delle acquisizioni storiografiche sul piano della formazione culturale del cittadino medio, ovvero nei programmi scolastici. Non è solo in questione la mancanza di “un aggiornato quadro d’insieme”, come rileva la Rao nel saggio d’apertura (p. 326) — che non è solo colpa “della frammentazione e dispersione delle fonti documentarie degli Stati preunitari” (p. 325) —: è in questione la conoscenza tout court del fenomeno, che dipende in buona sostanza dalla non volontà di dar rilievo, nei fatti e nelle interpretazioni, a questa pagina non secondaria della biografia della nazione italiana. Forse solo per il Mezzogiorno — e concordo qui in parte con la studiosa lucana — si può parlare di una storiografia di una qualche portata: ma l’Insorgenza nell’Italia Meridionale ha avuto tratti talmente macroscopici da rendere impossibile ignorarne o affievolirne la memoria. Anche in questo caso la ricerca scientifica si è mostrata finora carente e stereotipata, almeno nelle interpretazioni, benché forse si profilino segnali di cambiamento: la prospettiva accennata nel saggio di Davis — il legame fra Insorgenza e crisi generale della monarchia borbonica — costituisce per esempio una pista di ricerca innovativa e promettente.

E prova di tale condizione è proprio il fatto che gli studiosi della rassegna, invece di limitarsi a “glossare” criticamente studi già esistenti, hanno dovuto “scavare” in archivi assai poco “battuti” e in neglette storie locali, per lo più datate, per raccogliere le informazioni offerte al lettore. Si potrebbe chiedere: dove sono gli autori, l’equivalente dei Saitta, dei Vaccarino, degli Zaghi? dove sono i testi? dove sono gli schemi esplicativi da rimettere in discussione? dov’è la “scolastica” accademica in questo àmbito? Posso personalmente testimoniare che nel 1973, quando iniziai a elaborare la mia tesi di laurea sul tema delle insorgenze nella Lombardia del 1796, al primo accostamento alla materia non riuscii a mettere insieme più di due opere di sintesi, quella di Lumbroso — del 1932, che è parziale e copre il solo Triennio Giacobino (8) — e il volume di Jacques Godechot (1907-1994) La Contre-révolution, doctrine et action (1789-1804), del 1962 — che si ferma al 1804 e che è stato tradotto in italiano solo nel 1988 (9).

Quanto non si vuole ammettere è che siamo in realtà di fronte a una oggettiva rimozione, di origine non recente e tenacemente reiterata — e rafforzata dalla gramsciana conquista dell’egemonia culturale —, di un evento che non è un banale accadimento sporadico, ma, come riconosce ancora — ma perché solo adesso? — la Rao, autrice di molteplici studi sul periodo rivoluzionario in Italia, un fenomeno che […] ebbe un ruolo centrale nella vita politica italiana alla svolta fra Sette e Ottocento, non solo, ma anche negli orientamenti dei repubblicani del triennio 1796-1799 e nella politica napoleonica, e ancor più nell’immaginario e nella riflessione storiografica dell’Ottocento. Basti ricordare il peso che avrebbe esercitato nel pensiero e nell’azione degli uomini del Risorgimento, da Mazzini a Pisacane, nel dibattito sulle vie da seguire per realizzare l’indipendenza e l’unificazione politica italiane” (p. 327) (10). Una realtà, fra l’altro, costata agli italiani, secondo una stima per difetto, in quanto limitata all’inizio del 1799 — che la studiosa del Mezzogiorno suppongo conosca, in quanto fornita da uno dei protagonisti delle vicende della Repubblica Napoletana, il generale francese Paul-Charles Thiébault — almeno sessantamila vittime (11), un dato ancora più impressionante se lo si confronta percentualmente con la popolazione dell’epoca (12) e se si pone mente che non è dovuto a qualche malaugurato evento naturale — un terremoto o un’inondazione —, ma è il prodotto di una volontà umana.

Di fronte a questa obiettiva carenza storica non mi sembra lecito, oltre tutto, squalificare i tentativi — magari anche ideologicamente orientati — di chi, con i mezzi di cui ha potuto avvalersi, non certo comparabili con quelli di cui dispone la storiografia istituzionale, ha cercato di ricostruire la fisionomia di un momento della storia italiana che, come confermano i lavori ospitati da Studi Storici, rivela sempre più nitidamente la sua portata nei fatti e nelle conseguenze.

Non si sa davvero che cosa pensare davanti a un simile “peccato” di omissione riguardo a un fenomeno sul quale non può, come minimo, non “inciampare” qualunque percorso di ricerca serio, né si vede dove possa condurre questo modo di fare storia. Che “magistero” può esercitare? Che futuro può aiutare a costruire? Quale contributo può fornire un atteggiamento scientifico non solo viziato dall’ideologia, ma tendenzialmente ostruzionistico, in un frangente nel quale l’Italia ha bisogno di ogni sforzo volto a farle ricuperare integralmente la propria memoria storica, civile e religiosa per poter così meglio ridefinire la propria identità e per formulare nuove regole con cui perseguire il “bene comune”?

Ma vi sono altri rilievi di merito, che riguardano i giudizi espressi sull’interpretazione generale dell’Insorgenza e sui contributi finora forniti dagli ambienti cosiddetti del “cattolicesimo reazionario e intransigente” (p. 326). La prospettiva delineata da Cattaneo — ovvero il “progetto di incidere nel processo di formazione di un nuovo paradigma repubblicano elaborando una nuova memoria storica nazionale, anche a partire dal recupero di ogni forma di “sanfedismo”, in quanto testimonianza di una rimpianta unità tra valori religiosi e valori pubblici, di una società organicamente “ordinata”, tradizionalista e impermeabile alle detestate ideologie liberali e di sinistra” (p. 568), che trova accoglienza da parte di testate di forze politiche conservatrici, nella fattispecie il Secolo d’Italia, e i cui prodotti confluiscono in “dizionari del pensiero forte” — sembra correttamente ricostruita e, anche se evocata in chiave tendenzialmente polemica, non si vede che cosa vi sia d’illegittimo nel “tentare di incidere” “da destra” nell’elaborazione culturale che prelude alla formulazione di un nuovo assetto repubblicano. Né che cosa vi sia d’ignobile nel rifarsi ai valori evocati, non espungendo dal curriculum del nostro Paese neppure il “sanfedismo” — forse emblema dell’omissione e della contraffazione perpetrate nei confronti dell’Insorgenza —, che certamente va valutato criticamente — e severamente, anche nei suoi aspetti meno “rosei” —, ma riguardo al quale va rifiutata la vera e propria “leggenda nera” — mostrante ogni giorno di più la corda — che è gli è stata costruita addosso nel tempo, sì che l’aggettivo “sanfedista” viene utilizzato ancor oggi più come “clava” ideologica che per designare una posizione ideale.

Riguardo invece al “revisionismo” che affliggerebbe la storiografia sviluppata nella prospettiva predetta — tendente a “sollecitare una totale riscrittura della storia italiana ed europea dal XVIII al XX secolo “dal punto di vista degli sconfitti”” (p. 367) e che viene evocata a più riprese nei vari saggi, ancora in veste di giudizio di merito e con intenti non del tutto benevoli —, occorre subito premettere che anche in questo caso una definizione comunemente accettata di questo termine non esiste. Proprio nel 1998 Ernst Nolte, il “padre” del revisionismo contemporaneo, ne ha fornito una definizione a mio avviso “aurea”, scrivendo: […] considero tratti distintivi di ogni revisionismo serio e perlomeno orientato in una direzione scientifica la critica documentata all’unilateralità e alle lacune della veduta “ufficiale” e la volontà di attenersi ad una maggiore obiettività” (13).

Se tale è il “revisionismo”, muoversi in tal senso sarebbe non solo lecito, ma doveroso. Anzi esso dovrebbe assumere quell’atteggiamento “militante”, che viene lamentato ancora da Cattaneo nei confronti dello storico cattolico maceratese Sandro Petrucci (14) — pur da lui apprezzato dal punto di vista “tecnico” —, perché renderebbe “opaco sul piano interpretativo” (p. 561, nota 82) il lavoro di ricerca. Ma non si può non domandarsi a che cosa si dovrebbe applicare nella fattispecie dell’Insorgenza la “revisione” denunciata, ovvero quali paradigmi scientifici unilateralmente invalsi si dovrebbero sottoporre a “revisione”, dato che essi non vi sono. Non che manchino “vedute ufficiali” — che affiorano per esempio quando si rompe il silenzio —, ma esse sono costituite per la gran parte da giudizi non approfonditi, derivati da orientamenti ideologici pregiudizialmente contrari, senza riscontri fattuali, resi superflui dalla maramaldesca consapevolezza che chi ne è oggetto è uno “sconfitto”, sia storico che nella “battaglia delle idee”.

Non sembra, ancora, accettabile ricondurre, come fa lo stesso studioso con un’intentio palesemente squalificante, il “revisionismo” sull’Insorgenza alle prospettive “cattolico-integralista, neo e postfascista, monarchico legittimista” (p. 567), senza fornire definizione di tali realtà. Il cosiddetto revisionismo nasce invece da un atteggiamento di domanda di verità e di obiettività e come spontanea e costruttiva reazione alla percezione di una monumentale ingiustizia inferta a uomini, nostri antenati, le cui scelte vanno giudicate e anche — se necessario — condannate, ma la cui memoria ci appartiene e che dobbiamo riscoprire e recepire con atteggiamento di profonda e amorosa pietas.

Venendo infine alla tesi secondo cui gli storici “revisionisti”, ergo “di destra”, “revisionano” tutto, ma salvano sempre e solo l’opera dello storico nazionalista e fascista Lumbroso (15), viene spontaneo domandarsi a che cosa si poteva riallacciare fattualmente chi volesse conoscere, anche solo ieri, qualcosa della reazione delle popolazioni contro la Rivoluzione francese in Italia, dato che null’altro di fatto esisteva a un primo accostamento, se non l’opera dello storico fiorentino. Ho già avuto modo di mettere in luce questo aspetto nell’introduzione alla riedizione del suo “vecchio e ben noto — ma a quanti? — studio” (p. 325) apparsa nel 1997. In tale sede mi sono altresì sforzato di non operare il minimo “ricupero” né delle prospettive storiografiche — che giudico oggettivamente insufficienti e forzate sotto il profilo ermeneutico, anche se vanno lette nel clima culturale italiano fra le due guerre mondiali — né tanto meno delle prospettive dottrinali di Lumbroso, ma di effettuare solo un’operazione di ricupero documentale. Vedo però purtroppo che il punto è stato frainteso, se Preto sostiene che la mia nota biografica e la mia prefazione al volume […] ribadiscono la prospettiva storico-politica nazionalista (risalente a Niccolò Rodolico [1873-1969])” (p. 350).

Tentando un giudizio d’insieme sui contenuti del fascicolo monografico di Studi Storici, si può osservare che, dal punto di vista delle interpretazioni i diversi studiosi sembrano essere accomunati, oltre che dal rigetto delle forzature nazionalistiche dei primi decenni del secolo, dall’esigenza di guardare al fenomeno con una visuale sempre più ampia e spregiudicata, abbandonando interpretazioni più o meno rigidamente monocausali a sfondo “infrastrutturale” — di cui potrebbe essere modello, nel caso della storia contemporanea, il gramsciano Giorgio Candeloro (1909-1988) — e muovendosi verso una visione maggiormente interdisciplinare, esigita peraltro da una realtà così complessa e disomogenea qual è l’Insorgenza. Se questo cambiamento sia un semplice tentativo di “noyer le poisson” — “annegare il pesce”, ovvero di diluire al massimo una realtà, facendole perdere sostanza —, come sembra stia accadendo riguardo ad altre tematiche (16); sia cioè frutto del prevalere di una visione “debole”, tendenzialmente portata a frammentare e a relativizzare l’interpretazione generale dell’Insorgenza, oppure segno di un progresso salutare, al momento non è possibile affermarlo. Certo, l’assenza di una sintesi di qualche spessore fra i saggi della raccolta, come pure il fatto che l’orizzonte spaziale e temporale evidenziato dagli studiosi sia sempre piuttosto ristretto, sembrerebbero far propendere per la prima ipotesi. Su tale atteggiamento maggiormente “aperto” la convergenza di studiosi di altra origine e collocazione anche militante può già fin da ora essere più ampia, soprattutto da parte di quegli studiosi che, partendo da diverse ipotesi di lavoro e rifacendosi a certa storiografia francese degli ultimi anni — per esempio a Jean Dumont, a Reynald Secher e a Jean Meyer (17) —, ritengono che l’Insorgenza vada letta all’interno della logica del processo di genesi e d’affermazione della modernità in Occidente. Uno schema esplicativo tendenzialmente portato a leggere l’Insorgenza come categoria, piuttosto che come puro fenomeno, e fondamentalmente “forte” — di qui il suo legame con il “pensiero forte” —, apparentemente monocausale, ma in realtà ampiamente sfaccettata. Una visione sufficientemente flessibile per accogliere contributi diversi e più idonea a cogliere la verità di un fenomeno storico multiforme, che, servata distantia, presenta analogie con una realtà di un’altra epoca, il comune medievale, il quale si origina spesso per ragioni le più diverse, non in maniera sincrona nello spazio, ma si afferma più o meno nella stessa epoca in tutto il continente europeo.

Nella massa dei dati proposti è possibile cogliere anche spunti e stimoli meritevoli di ulteriori approfondimenti. Per esempio, la ricerca di Tosi sul Viva Maria! fa scoprire che, anche fra i contro-rivoluzionari, non erano assenti prospettive di mutamento dello status quo e di ricongiunzione alle forme socio-politiche precedenti le riforme illuministiche dei prìncipi settecenteschi. Ancora, lo stesso studio, forse nell’ottica di superare la visione delle “masse” contadine come soggetto indistinto e monolitico, contiene un primo tentativo di biografia di un leader contro-rivoluzionario — quella del marchese Albergotti —, che può costituire un valido esempio per analoghe ricerche.

La rassegna edita dall’Istituto Gramsci presenta anche contenuti, espliciti o impliciti, meno felici.

In primo luogo si rileva in pressoché tutti gli studi una pregiudiziale aprioristicamente negativa verso la componente religiosa nella genesi e nello svolgimento dei vari episodi d’insorgenza, che si traduce nella sua pratica espunzione oppure nella sua “riduzione” o nel suo appiattimento sociologico. Se è vero che il fattore religioso non è stato sempre l’unico movente delle reazioni popolari, è altresì indubbio che esso è sempre e ovunque presente e trascurarlo, oppure posporlo a realtà apparentemente “più profonde”, significa non tener conto dell’assoluta primarietà delle credenze e dei riti nella cultura ancora omogeneamente cristiana delle popolazioni della Penisola alla fine del Settecento, elaborando così interpretazioni quanto meno inadeguate.

Dalla lettura dei diversi saggi, ma soprattutto di quello introduttivo, non emerge poi un aspetto importante dell’Insorgenza italiana, ovvero la sua appartenenza a un quadro europeo. Nel periodo napoleonico la resistenza popolare contro i francesi in difesa delle tradizioni religiose e civili si manifesta in tutte le nazioni cattoliche, all’improvviso esposte a un processo di modernizzazione e di secolarizzazione ad alta intensità, non “preparato”, come altrove, dalla Riforma. Dal Belgio alla Spagna, alla Svizzera, fino all’isola di Malta, ovunque la Rivoluzione francese avanza dietro le armi napoleoniche, le popolazioni, i ceti umili, si sollevano, rialzano i simboli religiosi e le insegne delle “piccole patrie”, dando vita a sollevazioni, come quella spagnola, di vasta portata. Non dare sufficiente rilievo a questa dimensione transnazionale, trascurando gli studi — unici a tracciarne il profilo, anche se in maniera incompleta — di Godechot, significa menomare la possibilità di comprendere adeguatamente l’Insorgenza italiana, rischiando di ridurla a una ripresa di “beghe” fra municipi in perenne e atavico conflitto. A questo riguardo, mentre va osservato che le lotte campanilistiche trovano nuovo vigore — come ha messo in rilievo Petrucci (18) — proprio in conseguenza dello sconvolgimento di equilibri plurisecolari a opera della “totale organizzazione” (19) della società del tempo attuata dalle repubbliche giacobine — nella fattispecie dalla Repubblica Romana —, non si può non ricordare come, almeno per l’Insorgenza nell’Italia Centrale del 1798-1799, non ci si trovi affatto di fronte a episodi — anche numerosi, ma del tutto particolaristici e scoordinati fra loro — di difesa della “piccola patria”, ma si manifesti invece una embrionale unità d’intenti e di lotta fra gl’insorgenti.

Tralascio ogni considerazione sulla liceità — che non viene mai posta in dubbio nella raccolta — da parte della Repubblica Francese di aggredire, di spogliare e di “democratizzare”, violando diritti costituiti plurisecolari, Stati neutrali e pacifici, come pure dell’esproprio di risorse finanziarie e di tesori artistici, cui i francesi sottopongono nel Triennio i popoli italiani. Osservo invece che, mentre nel panorama delineato affiora in più punti la denuncia della “bestiale ferocia” degl’insorgenti — che non è assolutamente né ordinaria, né generalizzata: se ad Arezzo nel 1799 vengono uccisi e bruciati tredici ebrei, nell’insurrezione di Pavia del 1796 i cinquemila contadini insorti non provocano una sola vittima, né fra i giacobini, né fra i francesi —, non emerge sufficientemente, o forse non emerge affatto, quanto brutale siano state la repressione e le rappresaglie perpetrate dai francesi — ma anche dalle milizie cisalpine e “italiche”, evocando immagini di diversi e più recenti collaborazionismi — contro una popolazione il più delle volte inerme. Le loro vittime sono forse da considerare ovvi e dovuti “contributi” al “riscatto” delle popolazioni italiane? Che cosa pensare dell’assordante silenzio sulle sofferenze dei tanti minores — perché privi della cultura riflessa e dei mezzi per far conoscere le proprie ragioni — e il rilievo tributato ad avvenimenti oggettivamente insignificanti, ma di diverso segno “politico”? Si tace delle migliaia di morti dell’Insorgenza a Milano, a Pavia, a Verona, a Lugo di Romagna, a Firenze, a Roma, a Napoli, in Abruzzo, nelle Calabrie e si assorda invece il cittadino con quelle, pur reali, ma incomparabilmente più lievi, per far un esempio, dei “quattro” “martiri dello Spielberg”. Eppure la fase finale dell’Insorgenza precede solo di pochi anni quest’ultima vicenda.

In conclusione, se il numero monografico di Studi Storici rappresenta, com’è lecito credere, una “galleria” delle ultime tendenze della ricerca — almeno di una certa “scuola”, ma non poco significativa — in merito alle insorgenze popolari nel periodo napoleonico, se ne trae l’impressione e l’auspicio che la storiografia sul tema esca finalmente dalla minorità e si avvii verso una maggiore consapevolezza. Soprattutto pare che l’Insorgenza abbia trovato spiragli d’interesse in una parte del mondo accademico. È questa, se non l’unica, almeno la via decisiva per giungere a una conoscenza adeguata del fenomeno. L’importante è che questo interesse non venga inquinato e fuorviato dalle sopravvivenze ideologiche — magari travestite da pensiero “debole” —, e che iniziative private o non istituzionali, invece di essere declassate o combattute, trovino incremento e sostegno da parte di chi è istituzionalmente preposto a “fare storia” e a promuovere la cultura. La prossimità della ricorrenza del secondo centenario della fase clou dell’Insorgenza italiana e della sua, anche se temporanea, vittoria, il 1799 — in vista della quale va senz’altro collocata l’iniziativa realizzata da Studi Storici —, può essere un’opportunità da non perdere.

Oscar Sanguinetti

***

(1) Cfr. Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, numero monografico di Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, anno 39, n. 2, aprile-giugno 1998, pp. 325-622, Dedalo, Bari 1998. Tutti i riferimenti senza rimando sono tratti da questo volume e la paginazione è indicata fra parentesi.

(2) La rassegna contiene alcune affermazioni inesatte sullo storico Giacomo Lumbroso (1897-1944), che viene detto attivo “agli inizi di questo secolo” (p. 376), il che pare difficile, essendo egli nato nel 1897, e definito […] un intelligente conservatore di matrice positivista che ci ha lasciato alcune ricerche assai ben documentate sulle insorgenze antinapoleoniche nella pianura padana” (ibidem). A riguardo, mentre è condivisibile il giudizio relativo all’“intelligente conservatore”, non è evidente da dove si possa dedurre una matrice positivista in Lumbroso; né sono note ricerche “assai ben documentate” dello stesso sulla pianura padana, avendo egli trattato tale argomento nel quadro della sua — peraltro unica — opera di sintesi I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800) (2a ed. rivista, a cura di Oscar Sanguinetti, Minchella, Milano 1997; 1a ed., Le Monnier, Firenze 1932; cfr. la recensione di Paolo Martinucci, in Cristianità, anno XXVI, n. 277, maggio 1998, pp. 24-26), dedicata alle insurrezioni dell’intera Penisola, nella quale dà invece più spazio, come doveroso, all’Insorgenza nell’Italia Centrale e nel Regno di Napoli.

(3) Cfr. Giuseppe Ricuperati, Il Settecento, in Pierpaolo Merlin, Claudio Rosso, Geoffrey Symcox e Giuseppe Ricuperati, Il Piemonte sabaudo. Stato e territori in età moderna, in Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, UTET, Torino 1994, vol. VIII*, pp. 441-834.

(4) Cfr. G. Galasso, Un’eroica Vandea non si nega a nessuno, in Corriere della Sera, 13-9-1995; cfr. anche ISIN. Istituto per la Storia delle Insorgenze, Perché l’attenzione all’Insorgenza, comunicato del 2-12-1996, in Cristianità, anno XXIV, n. 260, dicembre 1996, p. 6.

(5) G. Galasso, art. cit.

(6) Ibidem.

(7) Ibidem.

(8) Cfr. G. Lumbroso, op. cit.; tale tesi è all’origine del mio Le insorgenze contro-rivoluzionarie in Lombardia nel primo anno della dominazione napoleonica. 1796, con una prefazione di Marco Tangheroni, Cristianità, Piacenza 1996; cfr. recensione di Marco Invernizzi, in Cristianità, anno XXV, n. 261-262, gennaio-febbraio 1997, pp. 26 e 30.

(9) Jacques Godechot, La contre-révolution, doctrine et action (1789-1804), PUF, Parigi 1961, trad. it. sulla 2a ed. francese, La controrivoluzione. Dottrina e azione (1789-1804), Mursia, Milano 1988.

(10) Viene irresistibile chiedere: ma in quale liceo o aula accademica s’insegna, non solo che Giuseppe Mazzini (1805-1872) si sia posto il problema delle insorgenze del periodo napoleonico nel quadro della sua elaborazione teorica, ma che esse siano esistite tout court? La stessa Rao, in un precedente studio — Mezzogiorno e rivoluzione: trent’anni di storiografia, in Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, anno 37, n. 4, ottobre-dicembre 1996, pp. 981-1041 —, ha avuto modo di farsi portavoce della tesi di Galasso nel contesto della valutazione — peraltro incidentale — di un breve profilo delle Insorgenze contro-rivoluzionarie da me tracciato e comparso nel volume collettaneo Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 1994, pp. 373-407). E la valutazione risulta del seguente tenore: mentre le mie poche righe vengono rubricate sotto la voce […] impudenti ricorrenti recriminazioni dei reazionari di turno prontamente recepite e amplificate dai mezzi di comunicazione su un’insorgenza negletta e incompresa” (ibid., p. 1010), a carico di chi scrive viene detto che […] solo l’incoscienza può spingere a spaziare in poco più di trenta pagine dalla Vandea del 1793 al Messico del 1926, e solo l’ignoranza può sorreggere nell’affermazione che il fenomeno delle insorgenze popolari controrivoluzionarie sia stato fino a non molti anni fa […] poco esplorato in ambiente di ricerca” (ibid., nota 108). A riguardo mi limito solo a rilevare il tono alquanto scomposto della reazione della docente mentre, sotto il profilo sostanziale, mi permetto di osservare che esistono sintesi di poche pagine riguardo a periodi e a fenomeni storici ben più ampi. Come ben sa, il “taglio” del contributo dipende dal contesto in cui deve situarsi e non sempre l’autore può sceglierlo; anzi, ritengo che le sintesi, per di più del respiro di un articolo di rivista, siano fra le modalità espressive più difficili. O forse il mio contributo, così esiguo, ha acutizzato, traducendolo in un improvviso e violento accesso, l’idiosincrasia per le interpretazioni “unitarie” dell’Insorgenza da cui la professoressa Rao sembra essere affetta? Mi sfugge invece totalmente come la studiosa abbia potuto riscontrare che le tesi dei “reazionari” vengano prontamente recepite e amplificate dai mezzi di comunicazione: a me pare, al contrario, che le poche volte in cui viene rotto il silenzio da parte dei mass media sui “reazionari” — e si veda proprio la sortita di Galasso sopra ricordata e peraltro reiterata in successiva occasione — è quando occorre parlarne per “batterne in breccia”, facendo sparare magari “cannoni” di grosso calibro, le argomentazioni e le azioni. Last but not least, non rilevo fra quelli addotti dalla studiosa alcun elemento che imponga di rivedere la mia asserzione, e devo quindi ribadirla, soprattutto alla luce dei primi risultati di ricerche che l’ISIN, l’Istituto per la Storia dele Insorgenze, ha promosso relativamente all’Italia Settentrionale. Anzi, il dotto e nutritissimo studio bibliografico della Rao sulla Rivoluzione nel Mezzogiorno d’Italia rafforza ulteriormente la mia convinzione, quando confronto l’esiguità dei riferimenti a opere dedicate alla maggiore delle insorgenze della Penisola, quella del Regno di Napoli — mentre si afferma contraddittoriamente che occorre […] comprendere […] come mai tanto ampie e diffuse furono le resistenze e le reazioni popolari contro i francesi e i loro sostenitori “giacobini”” (ibid., p. 997) —, con la dovizia dei titoli relativi alla Rivoluzione.

(11) Cfr. Generale Paul-Charles Thiébault, Mémoires du Général Baron Thiébault publiées sous les auspices de sa fille M.lle Claire Thiébault d’après le manuscript original par Fernand Calmettes, Parigi 1893-1895, vol. II, p. 325.

(12) Cfr. Athos Bellettini (1921-1983), La popolazione italiana. Un profilo storico, a cura di Franco Tassinari, con un’introduzione di Marino Berengo, Einaudi, Torino 1987, che valuta la popolazione a circa 15,5 milioni nel 1750 e a circa 18 milioni nel 1800 (cfr. tabella I, p. 14).

(13) Ernst Nolte, Verità e leggenda del revisionismo, in nuova Storia Contemporanea. Bimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea, anno II, n. 5, settembre-ottobre 1998, Luni, Milano 1998, p. 11.

(14) Il riferimento è a Sandro Petrucci, Insorgenti marchigiani. Il Trattato di Tolentino e i moti antifrancesi del 1797, con una prefazione di M. Tangheroni, SICO, Macerata 1996; cfr. la recensione di Francesco Pappalardo, in Cristianità, anno XXIV, n. 259, novembre 1996, pp. 25-26.

(15) Cfr. alcune notizie sulla vita e l’opera di Lumbroso in O. Sanguinetti, saggio introduttivo a G. Lumbroso, op. cit.

(16) Cfr., a riguardo, Alberto Indelicato — cui per inciso debbo l’efficace espressione “noyer le poisson” —, Revisionismo e giustificazionismo, in nuova Storia Contemporanea. Bimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea, cit., pp. 143-150.

(17) Cfr. Jean Dumont, I falsi miti della Rivoluzione francese, con una prefazione di Giovanni Cantoni, trad. it., Effedieffe, Milano 1989; Reynald Secher, Il genocidio vandeano, con una prefazione di Jean Meyer e una presentazione di Pierre Chaunu, Effedieffe, Milano 1989; e Jean Meyer, La Cristiada, 4a ed. riveduta, 3 voll., Siglo Ventuno, Mexico-Madrid-Buenos Aires 1976.

(18) Cfr. S. Petrucci, L’insorgenza nell’Italia Centrale negli anni 1797-1798, in Nota informativa (dell’Istituto per la Storia delle Insorgenze di Milano), anno II, n. 8, gennaio-aprile 1998, pp. 7-24.

(19 ) Ibid., p. 13: l’espressione è tratta da un documento “romano” dell’epoca.

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Domenico Petromasi, Alla riconquista del Regno. La marcia del Cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli

Posted by on Dic 26, 2018

Domenico Petromasi, Alla riconquista del Regno. La marcia del Cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli

La ricorrenza bicentenaria del Triennio Giacobino in Italia (1796-1799) offre l’occasione per meditare sull’origine delle insorgenze anti-rivoluzionarie e per rileggere con spirito critico quegli avvenimenti, che si pongono agli albori dell’unità italiana. Queste considerazioni valgono in modo particolare per l’insorgenza meridionale, per l’epopea della Santa Fede, che, rispetto ad altre simili vicende italiche, può essere assunta come modello per l’ampiezza del fenomeno, per la minore frammentarietà degli avvenimenti e per la presenza di un nucleo dirigente che, per quanto piccolo, sa coordinare la generosa reazione popolare. La lettura storica di quell’episodio è inquinata dalle interpretazioni di parte liberal-progressista e marxista, che ignorano la matrice religiosa delle insorgenze e riconducono il fallimento della Rivoluzione alla “immaturità” delle popolazioni. Per parte sua, la storiografia di ispirazione cattolica o legittimista ha avuto fortuna breve, anche e soprattutto in conseguenza della manipolazione del patrimonio culturale della nazione compiuta dai “vincitori”, cosicché sono stati relegati nell’oblio avvenimenti e personaggi particolarmente significativi.

La Storia della spedizione dell’Eminentissimo Cardinale D. Fabrizio Ruffo allora Vicario Generale per S. M. nel Regno di Napoli e degli avvenimenti e fatti d’armi accaduti nel riacquisto del medesimo compilata da D. Domenico Petromasi commissario di guerra e tenente colonnello de’ Reali Eserciti di S. M. Siciliana, la cui unica edizione risale al 1801, a Napoli, per i tipi di Vincenzo Manfredi, viene ripresentata con il titolo Alla riconquista del Regno. La marcia del Cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli.

Il volume si apre con un’introduzione (pp. V-XVII) di Silvio Vitale, uomo politico napoletano nonché editore de L’Alfiere. Pubblicazione napoletana tradizionalista e animatore dell’Editoriale il Giglio. Silvio Vitale, dopo un breve riepilogo delle vicende della Repubblica Napoletana e dell’impresa vittoriosa del card. Fabrizio Ruffo, passa in rassegna la copiosa produzione storica ottocentesca sull’argomento e ricostruisce la polemica storiografica fra i due opposti schieramenti, individuando nell’infelice “autocensura” borbonica le radici della sconfitta culturale dei sostenitori del Trono e dell’Altare. Infatti è re Ferdinando IV a proibire, dopo la prima restaurazione, la pubblicazione di opere sul periodo repubblicano e sulla spedizione della Santa Fede, cioè […] su una vicenda che, seppur vittoriosa, considerava legata agli eccessi di una guerra fratricida e il cui ricordo, a suo avviso, non avrebbe fatto altro che rinfocolare rancori nefasti” (p. XIV). Dopo la spedizione dei Mille, invece, sono gli “unitari” a imporre il silenzio agli storici di parte borbonica, cosicché le vicende del 1799 sono ricordate tuttora secondo la vulgata rivoluzionaria.

Infine, Silvio Vitale traccia una breve biografia di Domenico Leopoldo Petromasi, sulla cui vita si sa poco. Nato ad Augusta, in Sicilia, da famiglia nobile, egli segue il card. Fabrizio Ruffo dall’inizio della sua impresa, ricoprendo la carica di commissario di guerra per le attività logistiche e ottenendo dal re, al termine del conflitto, il grado di tenente colonnello come riconoscimento per l’opera svolta.

Domenico Petromasi si colloca nella schiera dei cronisti di parte regia. La sua intenzione è quella di ampliare la narrazione del domenicano Antonino Cimbalo (La lunga marcia del cardinale Ruffo alla riconquista del regno di Napoli, Borzi, Roma 1967), di cui […] si fece spaccio di tutte le copie” (p. XIX), e di descrivere non soltanto la marcia dell’esercito della Santa Fede dalle Calabrie a Napoli, della quale era stato “testimonio di veduta” (ibidem), ma anche le operazioni militari che avevano portato alla liberazione del Regno e dello Stato Pontificio.

Attenzione particolare è da lui dedicata agli aspetti logistici dell’impresa — dalla confezione delle uniformi all’improvvisazione dell’armamento, dall’organizzazione della tesoreria all’approntamento degli ospedali da campo e della tipografia, fino alla costituzione di una banda musicale —, che danno il senso delle difficoltà affrontate dall’Armata Cristiana e Reale. Rifulgono in quei frangenti la forza d’animo e le capacità organizzative del card. Fabrizio Ruffo, la sua familiarità con i soldati, l’intensa opera di animazione e di direzione, tutti elementi determinanti ai fini della riuscita vittoriosa dell’impresa. Uomo di molte capacità, amministratore sagace, “di rari talenti dotato dalla natura, e di straordinario coraggio fornito dal Cielo” (p. 1), il cardinale possedeva le qualità del condottiero: era risoluto, ponderato e aveva un innato senso del limite e del momento opportuno. Fin dall’inizio la sua azione è molto energica e presto la sua mano organizzatrice si fa sentire. Durante l’avanzata concede alleggerimenti fiscali ai contadini e mostra un volto austero di giustizia, confiscando i terreni di quei nobili, fra i quali suo fratello Vincenzo, che avevano abbandonato il loro posto; d’altro canto, è inflessibile nel reprimere gli attacchi alla legittima proprietà, fino a ordinare la fucilazione dei predatori e dei violenti. Attento alle esigenze della popolazione, si presta volentieri a ricevere “con pubblica giornaliera udienza” tutti coloro che avevano problemi e controversie da risolvere, […] ed ognuno pago rimane di quella giustizia […]. Un tal sistema non lasciò di praticarsi per l’intero corso della Campagna, onde le popolazioni tutte del Regno fossero servite nel miglior modo che si dovea, e poteano permetterlo le circostanze del tempo” (p. 9). Al termine del conflitto, egli si adopera invano affinché la pacificazione auspicata da tutti non sia il frutto di un compromesso con i rivoluzionari, ma miri a ricostituire concretamente il tessuto sociale lacerato e, soprattutto, possa far leva sulla preparazione dottrinale della classe dirigente e sulla messa in guardia della popolazione contro la penetrazione settaria. Ma re Ferdinando IV, che voleva accentuare il dispotismo dell’”assolutismo illuminato”, perde l’occasione di una restaurazione integrale e il cardinale viene emarginato appena possibile. E purtroppo le calunnie hanno degradato fin da allora la nobile figura del card. Fabrizio Ruffo, presentato come generale predone, capo di orde di briganti e di galeotti; la storiografia ufficiale ha tramandato soltanto gli eccessi dei suoi uomini, ingigantiti dal tempo, cosicché lui e la Santa Fede hanno finito con il soffrire da parte dei posteri più ingiusti giudizi che dai loro contemporanei.

La ricostruzione di Domenico Petromasi rende giustizia a quei valorosi e restituisce alla loro impresa il carattere di un’autentica epopea nazionale; inoltre ricorda che i volontari napoletani, per iniziativa del card. Fabrizio Ruffo, sono i primi a entrare, da liberatori, nella città di Roma — anch’essa occupata l’anno precedente dai rivoluzionari francesi —, ponendo il regno di Napoli in una condizione di parità morale nei confronti dei più potenti alleati inglesi, russi e austriaci. Tuttavia il cronista non si addentra nei risvolti politici e culturali dello scontro militare in atto, che rappresentava non più l’ennesima lotta fra case regnanti ma un conflitto fra due irriducibili concezioni del mondo e il primo attacco rivoluzionario al principio della legittimità monarchica. Invece il carattere di radicale novità del conflitto sarà colto, sul versante rivoluzionario, soprattutto da Vincenzo Cuoco, che pubblica, nel 1800, il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli — nel quale individuava le ragioni del fallimento della Repubblica Napoletana proprio nella frattura operata nei confronti della storia e delle tradizioni del regno — e, nel campo legittimista, da Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, che nel 1834 raccoglie le sue riflessioni nella Epistola ovvero riflessioni critiche sulla moderna storia del reame di Napoli del generale Pietro Colletta (ora ristampata integralmente in Silvio Vitale, Il Principe di Canosa e l’Epistola contro Pietro Colletta, Berisio, Napoli 1969).

Ma la diligente ricostruzione di Domenico Petromasi conserva il valore della testimonianza diretta di un suddito leale che, di fronte all’indubbia radicalità del conflitto, sceglie con naturalezza il suo posto di combattimento e vuole tramandare ai posteri la “storica narrazione” di quegli avvenimenti affinché possano “inferirsi delle utili riflessioni in vantaggio della gente tutta” (p. 76).

Francesco Pappalardo

fonte www.alleanzacattolica.org

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