Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

MARSALA NON SARA’ L’INIZIO MA LA FINE !

Posted by on Nov 3, 2019

MARSALA NON SARA’ L’INIZIO MA LA FINE !

L’Altra Sicilia, associazione di diritto internazionale a tutela della Sicilia e dei Siciliani “al di qua ed al di là del Faro”, prende atto con rammarico che l’Amministrazione Comunale di Marsala ha deciso di non partecipare più alla Festa dell’Autonomia in programma a Mazara nei prossimi 13, 14 e 15 maggio. Tale defezione sarebbe dettata dalla sovrapposizione di un altro festeggiamento: l’11, 12 e 13 maggio ricorre il 145° dello sbarco dei Mille e quindi della conquista garibaldina della Sicilia.


Il sindaco di Marsala, col pieno rispetto delle sue idee, ancora ritiene evento epocale, l’impresa di Garibaldi e dei suoi “mille scriteriati”. Personalmente mi pare azzardato e ritengo sia antistorico continuare a celebrare l’opera di Garibaldi, quando anche a Venezia ed in molti degli stati preunitari, manifestanti contestano i Savoia, il plebiscito del 1866 e l’annessione successiva che ci portò, nei “79 anni di troneggiamento” ad un livello economico sociale e civile che fu il più basso della nostra storia, ed anzi significò l’inizio della nostra fine come nazione, popolo, storia, dignità ed orgoglio..


Cominceranno fra poco le celebrazioni e la commemorazione dell’anniversario dello sbarco dei Mille, atto fondamentale con cui iniziò la “liberazione” del Regno delle due Sicilie dalla tirannide borbonica. Mi chiedo cosa ci sia da festeggiare e celebrare in quella che fra tutte le dominazioni subite dal Sud, fu la più nefasta, crudele, oppressiva e sanguinosa.


I Piemontesi vennero nel sud per non lasciare inascoltato il “grido di dolore che si levava dall’italia tutta”; vorrei sapere chi li indicò e li investì del ruolo di “liberatori”. Io so solo che l’unico stato nell’Italia preunitaria, che guerreggiava senza fine era il loro, il Regno di Sardegna, che di volta in volta era in guerra con gli stati limitrofi con la tendenza ad espandersi a macchia d’olio fagocitando quegli stati che ebbero la sventura di essere loro confinanti.


Prima di loro non risulta in alcun modo, nel periodo che stiamo considerando, che gli stati preunitari lottassero l’uno contro l’altro armato.


Addirittura, Re Ferdinando II ricusò al congresso di Bologna del 1833 la possibilità di avere sotto la sua corona l’Italia unita, in quanto non avrebbe mai potuto e voluto combattere contro gli altri principi a lui legati da vincoli di sangue e di amicizia. Tali valori non tennero a freno i Savoia.


 Ma fare tante guerre costava tanti soldi, ed il Regno delle due Sicilie di soldi ne aveva tanti; figurarsi che dopo la spoliazione garibaldesca del Banco di Sicilia e di Napoli, dopo il plebiscito, il Regno poté contribuire con più dei due terzi al tesoro dello stato unitario.


E fu questo, quello della rapina l’incentivo più forte, ed assieme alle brame politiche di Francia ed Inghilterra, il motivo scatenante di questa occupazione fatta, cosa eccezionale anche per quei tempi, senza alcuna formale dichiarazione di guerra. Fu una turpe conquista coloniale, nonostante la probabile adesione di Siciliani che lottavano per l’indipendenza da Napoli e per la confederazione con l’Italia. Di emancipazione sociale ed economica non ne portò alcuna e i “morti di Bronte” lo dimostrano; quanto all’emancipazione politica fu tradita non convocando il legittimo Parlamento di Sicilia, illudendo i Siciliani per qualche anno col governo della Luogotenenza e poi tradendo negli anni successivi definitivamente ogni illusione.

Morirono per via diretta o indiretta (brigantaggio, deportazione, emigrazione) più di ottocentomila regnicoli nei dieci anni successivi alla conquista.


Fu operata una damnatio memoriae a livello radicale e senza precedenti. Furono cancellati i monumenti, le lapidi, le ricorrenze, la toponomastica e tutto quanto poteva ricordare l’antico ed odiato Regno; su tutto fu imposta la croce sabauda!.


Avere in casa il ritratto di un re Borbone o un cimelio che li ricordasse, era motivo di essere passati per le armi, senza pietà.

La conquista del regno per molti versi può essere confrontata con quella di Troia


La conquista del regno, è ormai acclarato, fu il risultato non di epiche battaglie, non di volontà popolari, non di eroismi di condottieri, non di volere di compassionevoli dei, ma come quella di Troia fu il risultato di inganno, tradimento e ferocia conquistatrice. Lì valse la furbizia, l’astuzia e l’assenza di scrupoli di Ulisse e del suo cavallo, che sotto l’aspetto di dono portava morte e rovina -Timeo Danaos et dona ferentes . L’eroismo di Ettore, il valore di Achille, la grandezza di Aiace, l’amore per Patroclo diventano valori solo a contorno nella vicenda di Troia. Alla fine incombe il tradimento e la viltà che vincono e sovrastano in un finale che non è più epico i grandi valori umani e trascinano tutto in lutti e rovina, definitivi e senza appello.


Da noi l’ebbe vinta la corruzione, l’inganno, le false amicizie  e perché no, il manto di buone intenzioni false fin dall’origine che coprirono per molto tempo la realtà ed i fini.


Altro che soccorrere il popolo anelante alla libertà. Il nostro fu l’assassinio di un Regno, la prevaricazione di un popolo, un genocidio senza pari, una rapina senza scrupoli.


Ma si sa che la storia la scrivono i vincitori.


In Italia questo è più ve­ro che altrove. Forse perché, come ogni popolo ha bisogno di una mitolo­gia in cui riconoscersi; forse perché non abbiamo mai avuto una scuola di storici emancipati dalla politica; oppure perché siamo fatti così, semplicemente faziosi.


E questo è dimostrato considerando che su questioni come ri­sorgimento, fascismo, comunismo, resistenza,, ecc., sono state scrit­te intere biblioteche che hanno dato, e continuano a dare, da una parte e dall’altra, una vi­sione parziale dei fatti, a volte distorta, altre volte del tutto falsa.

Come aveva preconizzato Francesco II, l’eroe di Gaeta, con la conquista del sud e la sua fagocitazione in quell’entità artificiale e disarticolata che fu detta Italia, a noi meridionali non restarono nemmeno gli occhi per piangere; il Sud fu retrocesso a colonia periferica e Napoli e Palermo iniziarono ad essere governate da prefetti venuti dal nord.


 E tutto questo dura ancora!


Per cui, nei panni del sindaco di Marsala, mi chiederei cosa ci sia di onorevole nel celebrare e ricordare gli invasori e colonizzatori della nostra terra e non privilegiare invece quanti si riuniscono per ricordare e celebrarne la dignità.

Antonio Nicoletta

fonte https://www.eleaml.org/sud/borbone/nicoletta07.html

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E li chiamavano briganti: cronaca di una unificazione

Posted by on Ott 18, 2019

E li chiamavano briganti: cronaca di una unificazione

E li chiamavano briganti: cronaca di una unificazione

Perché dedicheremo una serata ad un argomento che ai più potrebbe sembrare inutile, stantìo, velleitario, senza possibilità di incidere sulla nostra vita?
E’ una domanda che mi è già stata rivolta ed alla quale ho risposto e rispondo.
Forse non mi sarebbe stato posto lo stesso interrogativo se l’argomento prescelto fosse stato la dominazione Araba, i Normanni, Federico II, i vespri siciliani…episodi e dominazioni entrati nell’immaginario comune come fatti positivi, come fatti di cui andare orgogliosi.
In questa mia ricerca trovo il conforto di alcuni compagni di viaggio di tutto rispetto che con la professionalità e la competenza che viene loro riconosciuta nobilitano di fatto queste nuove interpretazioni, e mi riferisco a Paolo mieli, con la sua “Aa storie, le storie”, a Giordano Bruno Guerri con la sua ” Antistoria degli italiani”, a Roberto Martucci, professore ordinario di storia delle istituzioni politiche presso la facoltà di scienze politiche dell’Università di Macerata con la sua “L’invenzione dell’Italia unita.”, ad Angelantonio Spagnoletti docente di storia degli antichi stati italiani all’Università di Bari, col suo recente “Storia del Regno delle Due Sicilie”, a Lorenzo del Boca, Presidente nazionale dell’ordine dei giornalisti con “Maledetti Savoia”, Fulvio Izzo con “I lager dei Savoia”, con Angela Pellicciari, docente di storia e filosofia, autrice di “Risorgimento da riscrivere” “L’altro risorgimento”. citeremo di passaggio autori dell’epoca e moderni, quale Giacinto De sivo, M. De Sangro, A. Capece Minutolo, Harold Acton, Topa, Cucinotta, Zitara, Scarpino, Campolieti, De Fiore, Alianello, Dennis Mack Smith.
Tratteremo queste cose perché anche questa è la nostra storia, anzi, questa è la nostra storia, la storia dei nostri antenati e della nostra terra, dove è nato e fermentato l’humus della nostra cultura, del nostro carattere, del nostro modo di essere, una storia che in mezzo a luci ed ombre – non solo ombre – ha dato al nostro popolo un grande stato, retto da una grande dinastia, che ha dato grandi impulsi alla politica, alla scienza, all’economia, alle arti, al diritto. parleremo di queste cose perché dopo 142 anni di propaganda esercitata proponendo schemi falsi e calunniosi, riteniamo sia giunto il momento che ognuno di noi, nel suo piccolo, rilegga questa storia, riveda il proprio passato e ponga fine ad un martellamento che nel tempo si è trasformato in campagna antimeridionalistica, consapevoli del fatto che qualunque rinascita del nostro popolo non possa avvenire se non passando attraverso la riacquisizione del nostro passato e del nostro orgoglio di essere meridionali. porgeremo ora, di seguito, senza aver l’intenzione di voler imporre ad alcuno il nostro punto di vista, citando quanto più è possibile le fonti, alcune considerazioni che tenteranno di risolvere alcuni dubbi, di spiegare alcuni fatti, riprendendo il discorso dalla fine, dal proclama di Francesco II da Gaeta:
……sparisce sotto i colpi de’ vostri dominatori l’antica monarchia di Ruggiero e di Carlo III; e le Due Sicilie sono state dichiarate Provincie di un regno lontano. Napoli e Palermo saranno governati da prefetti venuti da Torino.. “

Con queste parole il giovane Francesco ricorda il calvario del suo breve regno, in questo suo ultimo proclama emanato da Gaeta assediata, l’8 dicembre 1860.
Nel frattempo nell’intero regno iniziava la sollevazione popolare; iniziava la resistenza disperata che doveva insanguinare le nostre contrade per ben dieci anni.
Dai vincitori con disprezzo fu chiamata “brigantaggio”.
E’ norma che ha diritto alla dignità di partigiano chi vince, mentre è bandito, brigante, chi perde .
Come e perché si arrivò a quei giorni?.
Come e perché la cultura ufficiale ha condannato i Borbone ed il Regno delle Due Sicilie, in una condanna severa e senza appello?
Non è certo scopo di questa conversazione sovvertire le conoscenze storiche ufficiali; non c’è né il tempo, né la competenza. si cercherà solo di aprire uno spiraglio, di suscitare un dubbio, di sollecitare la curiosità.
Esistono ormai, come già detto, parecchie pubblicazioni che trattano anche questo argomento, e concordo che c’è da mediare fra tesi opposte, “navigando fra il perfetto disaccordo che deriva dalla lettura comparata dei vari testi, superando da una parte la tendenza agiografica nei confronti dei Savoia e la divinizzazione ad oltranza del risorgimento, che innalza certi fatti a miti, certe opinioni a culti, certi personaggi ad eroi e dopo morti, a monumenti.”
Mentre dall’altra parte occorre superare il sentimento nostalgico e dorato dei legittimisti e dei tradizionalisti.
E’ ormai chiaro che lo sbarco dei garibaldini in Sicilia è uno degli atti destinati alla conquista del sud la cui preparazione fu lunga e meticolosa; Vittorio Emanuele, Cavour, Garibaldi – protagonisti della storia cosiddetta risorgimentale – furono in realtà strumenti della politica imperialistica britannica e della massoneria ad essa collegata.


Cominciò, si rafforzò, una continua e serrata campagna di diffamazione, e voglio ricordare solo la lettera di Gladstone a Palmerston nella quale si definisce il governo borbonico “la negazione di dio fatta sistema”. tale lettera ebbe una grande amplificazione e diffusione in tutta Europa. confesserà poi Gladstone che non era presente ai fatti che riferisce ma questa sua correzione passerà sotto silenzio.
Tutto questo può spiegare il comportamento dell’esercito che in fondo era composto di oltre 100.000 uomini, con battaglioni di svizzeri e bavaresi ed al di là delle mitologie e degli aneddoti, ben addestrato e agguerrito.
Quando poterono combattere, sul Volturno, a Caiazzo, a Capua, a Gaeta i soldati borbonici seppero dimostrare di che pasta erano fatti, anche contro truppe numericamente superiori. (cosa che del resto gli austriaci avevano già avuto occasione di provare avendoli contro, a Curtatone e montanara, quando il loro intervento, a fianco delle truppe piemontesi, seppe rovesciare l’esito della battaglia).
Garibaldi a Calatafimi perdette centoventi volontari: se le sole quattro compagnie dell’8° cacciatori, equivalenti a meno di cinquecento uomini, lo sbaragliarono e gli fecero quel danno, quale sarebbe stata la fine della temeraria impresa del futuro dittatore delle Due Sicilie, se Landi si fosse battuto con tutti i suoi?
Cercheremo a questo punto, di aprire un piccolo squarcio, piccolo, dato il tempo a disposizione, sul regno, immediatamente prima dell’occupazione e vedremo di capire cosa ci hanno tolto ed in cambio di che cosa.
Per il regno delle Due Sicilie alla vigilia della spedizione dei mille si poteva parlare di “miracolo economico”. aveva la terza flotta mercantile d’Europa, una delle monete più solide, un debito pubblico pressoché irrisorio, praticamente inesistente l’emigrazione” – (questa comincerà ed assumerà aspetti drammatici dopo l’unificazione). il suo complesso siderurgico di Pietrarsa vantava un fatturato di gran lunga superiore a quello di analoghe strutture nel resto d’Italia.
Aveva inoltre la prima ferrovia della penisola (la famosa Napoli Portici; ma non solo, perché la rete si estese ben presto per più di duecento chilometri, ed erano pronti i progetti per allargarla a tutto il Regno).

Nelle casse statali infine, c’era quasi il doppio di quello che possedevano tutti gli altri stati della penisola messi assieme.
Riportiamo a questo proposito un estratto da “Scienze delle finanze” di Francesco Saverio Nitti:

Le monete degli antichi Stati Italiani al momento dell’annessione ammontavano a 660 milioni così ripartiti:

Stati preunitari
Milioni
Regno delle Due Sicilie
Lombardia
Ducato di Modena
Parma e Piacenza
Rmagna, marche e umbria
Roma
Sardegna
Toscana
Venezia
totale
 443,2
   8,1
   0,4
   1,2
  55,3
  35,3
  27,0
  85,2
  12,7
 668,4

Durante una conversazione, il mio occasionale interlocutore ribatté ad alcune mie precisazioni dicendo: “cosa vuole, io sull’argomento so solo quello che mi hanno insegnato a scuola”.
Ed infatti, ancora oggi a scuola non si insegna. negli anni in cui il programma prevede lo studio della storia moderna, ed in particolare del risorgimento, fra i nomi delle varie battaglie, Curtatone, Montanara, Solferino, San Martino, Bezzecca, Novara, e dei vari personaggi, Cavour, Napoleone III, Silvio Pellico, Ciro Menotti, Amatore Sciesa, Garibaldi, sbuca all’improvviso l’episodio della spedizione dei Mille, contro un Re usurpatore, tiranno e liberticida di un regno la cui connotazione è vaga e misteriosa quasi fosse ai confini della terra, spedizione guidata da un eroe fulgido, biondo che mette in fuga un esercito di diavoli neri e sporchi, vili, al servizio di un Belzebù viscido, tentennante e poi la liberazione e l’annessione in un tripudio di tricolori e peana di trionfo, con la gente del sud che osanna finalmente libera e italiana.
Chiudiamo con un’ultima considerazione sul grande odio dei Savoia verso i Borbone, odio che continuò a manifestarsi con imponenti azioni di cancellazione di ogni memoria, perpetrata con la distruzione dei monumenti, delle lapidi e della toponomastica che li ricordava.
Ma alle nuove generazioni, ai nostri figli, ai figli dei nostri figli, occorrerà raccontarla questa storia, occorrerà che sia raccontata e ricordata, affinché sia recuperato il nostro passato che è un passato di grandezza, di cui andare orgogliosi e non vergognarsi.

abstract della conferenza di Antonio Nicoletta

https://www.eleaml.org/sud/borbone/abstract.html

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Un passato che non passa…..di Zenone di Elea

Posted by on Lug 29, 2019

Un passato che non passa…..di Zenone di Elea

Un passato che non passa, in tutti i sensi. Perché ne subiamo le conseguenze ancora oggi, basta guardare le migliaia di persone che ogni anno abbandonano il Sud-Italia e perché non passa nelle teste delle persone, dei meridionali in primo luogo.

Leggendo la lettera del ragazzo di Gioiosa con le sue domande e la risposta che gli dà Zitara sentiamo che sono due mondi incomunicabili, che non riescono a dialogare. Sinceramente ci viene lo sconforto, pensando che forse non vi riusciranno mai.

Eppure sta tutto qui, in questo dialogo tra sordi il nostro dramma: l’incapacità assoluta di creare un soggetto politico autonomo che faccia effettivamente, per la prima volta nella storia dell’Italia unita, gli interessi del “Mezzogiorno”.

Le parole del ragazzo sono anche le nostre, di tanti anni fa, agli inizi degli anni settanta, quando frequentavamo l’ultimo anno delle scuole superiori in un pesino del Cilento e, nonostante del famoso ’68 sapessimo ben poco, volevamo cambiare il mondo, addirittura farlo diventare “socialista” perché solo così si sarebbero risolti tutti i mali passati e presenti del nostro Sud. Mali che costituivano l’atavico retaggio di una monarchia retriva e corrotta, quella borbonica, se non degli spagnoli o dei latifondisti romani e chi più ne ha più ne metta.

Almeno così ci indottrinavano a scuola.

Col tempo ci siamo resi conto, a fatica diciamolo francamente, che di balle ce ne avevano raccontate tante. Che non venivano da un paese senza storia, che quel paese una storia ce l’aveva, non era poi così male e che una guerra civile, in cui eravamo gli sconfitti, l’aveva cancellata.

Ora che non beviamo più alla fonte delle frottole, vorremmo che anche altri lo facessero. Non solo noi lo vorremmo, tanti amici sparsi per i vari continenti e altri residenti al Sud, come l’amico Zitara che ha speso tutta la sua vita per chiudere quel rubinetto di fandonie, lo vorrebbero.

Con l’acqua di quel rubinetto siamo cresciuti, sono state forgiate le coordinate interpretative della nostra storia, liberarcene è impresa ardua.

Quando noi che abbiamo saltato il fosso delle menzogne sentiamo o scriviamo certi nomi patrii, tipo Cavour o Garibaldi o Savoia, pensiamo alle migliaia di contadini morti oppure alle officine di Pietrarsa chiuse dopo l’unità, ma quando li sentono gli altri (ricordiamocelo, questi altri rappresentano il 99,9%) pensano ai padri della patria e nel migliore dei casi a roba vecchia, ottocentesca.

Che c’azzecca Garibaldi con la mafia e la criminalità organizzata, per esempio?
Che c’azzeccano i Savoia col malcostume meridionale?
Che c’azzecca Cavour con la mancanza di iniziativa imprenditoriale?

Se passiamo al termine “borbone” a noi viene in mente che Ferdinando II tramutò tutte le condanne capitali, che si inimicò gli Inglesi con la questione degli zolfi, agli altri viene in mente la bufala delle bufale ovvero quel falso storico della “negazione di Dio” del Gladstone, ‘gentiluomo’ inglese che non aveva mai visto una galera borbonica e lo ammise egli stesso, ma questa precisazione sui libri si storia non è mai passata.

Potremmo continuare all’infinito con i soliti luoghi comuni. Vallo a spiegare al ragazzo di Gioiosa che in Sicilia la mafia fece il primo salto di qualità appoggiando l’avanzata dell’eroe dei due mondi e che l’ordine pubblico nella Napoli garibaldina fu appaltato ai camorristi.

Magari ti obietta che bisogna guardare avanti, non al passato. Come possiamo fargli capire che è proprio in quel passato che non passa il nostro dramma maggiore, che se non ne prendiamo coscienza saremo sempre dei lacchè, dei senza patria, senza passato e senza futuro?

Noi che da anni, nel nostro piccolo, con estenuanti e infeconde discussioni con decine di amici e conoscenti, abbiamo provato a farlo, ci siamo resi conto che non è una questione culturale. Non si tratta più di riscrivere libri, di partecipare a convegni, di rendere omaggio ai nostri morti dimenticati.

Si tratta di semplice politica.

Solo un soggetto politico nuovo, unitario, può provocare un diffuso risveglio delle coscienze. Sta in noi che quel salto lo abbiamo fatto, la responsabilità di abbandonare tutte le diatribe, i personalismi, le piccole invidie e il nostro orticello e cercare di volare alto.

Qualche segnale in questi giorni lo abbiamo colto, speriamo che non si riveli effimero. Tanti “ragazzi di Locri” di varie età, sparsi per l’intera penisola e in altre parti del mondo, attendono quel segnale.

Solo così potremo riprenderci quello che – in un editoriale da leggere della rivista “L’Alfiere” – Edoardo Vitale definisce con una felice metafora “le chiavi di casa”.

Questo/a opera è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

Bibiografia essenziale
L’UNITÀ TRUFFALDINA, Nicola Zitara – e-book (edizione elettronica)
IL SUD E L’UNITÀ D’ITALIA, Giuseppe RESSA – e-book (edizione elettronica)
LA STORIA PROIBITA – AAVV (Introduzione di Nicola Zitara)
L’UNITÀ D’ITALIA: NASCITA DI UNA COLONIA, Nicola Zitara
PER LA CRITICA DEL SOTTOSVILUPPO MERIDIONALE di E. M. Capecelatro e A. Carlo
STORIA DEL BRIGANTAGGIO DOPO L’UNITÀ di Franco Molfese
ITALIANI, BRAVA GENTE? di Angelo Del Boca – Editore Neri Pozza, 2005
L’UNITÀ D’ITALIA: GUERRA CONTADINA E NASCITA… di M. R. Cutrufelli
I SAVOIA E IL MASSACRO DEL SUD, Antonio Ciano, Grandmelò
L’IMBROGLIO NAZIONALE, Aldo Servidio, Guida Editore
LA CONQUISTA DEL SUD, Carlo Alianello, Rusconi Editore
L’eredità della priora, Carlo Alianello, Feltrinelli, 1963
I LAGER DEI SAVOIA, Fulvio Izzo, Controcorrente, Napoli
DUE SICILIE, 1830 – 1880, Antonio Pagano, Capone, Lecce
I NAPOLITANI AL COSPETTO DELLE NAZIONI CIVILI di Giacinto de Sivo
STUDI SUL MEZZOGIORNO REPUBBLICANO di Luca Bussotti
LA RAZZA MALEDETTA di Vito Teti
II RISORGIMENTO VISTO DALL’ALTRA SPONDA di Cesare Bertoletti
IL BRIGANTAGGIO IN IMMAGINI di Carlo Palestina
Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno 1860-1870 (Catalogo Macchiaroli, 1985)
Cattivi esempi – Storie dimenticate dell’Italia “perbene” (Mario Pacelli)

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STORIA DELL’ITALIA CENTRALE DOPO LA PACE DI ZURIGO DELLA GUERRA DI SICILIA E DEI FATTI POSTERIORI 2^

Posted by on Lug 25, 2019

STORIA DELL’ITALIA CENTRALE DOPO LA PACE DI ZURIGO DELLA GUERRA DI SICILIA E DEI FATTI POSTERIORI 2^

CORREDATA DI TAVOLE LITOGRAFICHE E NARRATA COLL’ESPOSIZIONE DEI DOCUMENTI ORIGINALI da far seguito alla Guerra d’Italia del 1859 DELL’AVVOCATO DOMENICO VALENTE

SECONDA PARTE – CAPITOLI I – IX

PARTE SECONDA LA GUERRA DI SICILIA ED I FATTI POSTERIORI CAPITOLO

La Sicilia sino alla proclamazione della Costituzione del 1812.

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STORIA DELL’ITALIA CENTRALE DOPO LA PACE DI ZURIGO DELLA GUERRA DI SICILIA E DEI FATTI POSTERIORI

Posted by on Lug 24, 2019

STORIA DELL’ITALIA CENTRALE DOPO LA PACE DI ZURIGO DELLA GUERRA DI SICILIA E DEI FATTI POSTERIORI

Valente fu presidente di una commissione elettorale per il plebiscito a Napoli. Egli era, quindi, un liberale, avverso ai Borbone. A differenza, però, di altri libri dell’epoca che trasudano odio per i re napoletani, Valente cerca di dimostrare come essi fossero fuori dalla storia e che fossero pertanto destinati a soccombere. Di fronte all’incalzare dei tempi nuovi, densi di elementi morali superiori. La sua opera, documentatissima, descrive bene l’opera di emarginazione prima e di sostituzione poi dei vecchi governanti da parte dei Savoia, in centro Italia prima e nelle provincie meridionali poi. Ovviamente lo mostra come una conseguenza del loro essere lontani dallo spirito dei tempi e quindi incapaci di resistere all’urto dei movimenti di opposizione che anelavano alla unità d’Italia. Si guarda bene dal riferire che quei movimenti furono finanziati se non diretti da agenti pagati da Cavour; dai suoi resoconti, però, si intravvede esattamente come un meccanismo – ben oliato che si basava sulla votazione e pubblicizzazione dei cosiddetti “indirizzi” a favore di una annessione al Piemonte – sia stato il grimaldello per spianare la strada alla costruzione di una Italia sabauda. Ovviamente, per l’autore, il Regno delle Due Sicilie fu sordi ai buoni consigli provenienti dal Piemonte. Citiamo alcuni stralci per darvene una idea: Epperò dei due principi, l’uno si trovava già in una via, che bisognava soltanto proseguire, l’altro messosi in una strada falsa, non volle cambiarla; l’uno fu sincero, vide ch’egli sarebbe stato chiamato ad estollersi sulle rovine dell’altro, e glielo avverti, gli espose il pericolo, che correva, e la inevitabile alternativa, in cui egli stesso si sarebbe trovato o di sconoscere i suoi costanti principii o di assidersi sul soglio dell’altro. Il primo raccoglieva il frutto di una politica illuminata, onesta, preveggente eperseverante; l’altro giungeva là ove la via prescelta lo menava; n’era avvertito quando il precipizio già si manifestava, e sordo e cieco disdegnava l’avvertimento, e continuava. Aveva egli dritto ad accusar altri che se stesso? Eran giuste le sue doglianze contra di chi lo aveva avvertito. ed era stato rigettato? Ma tale si fu sempre il sistema prescelto; contrariare la potenza dei fatti e rovesciare poi sugli altri la responsabilità delle proprie colpe. Cialdini, come abbiam narrato, aveva accordato senza difficoltà una sospensione di ostilità per seppellire i morti e dissotterrare i feriti ed aveva puranco offerto degli aiuti per questi; egli vi aveva messo una soia giustissima e ragionevole condizione, e questa condizione fu violata. Indegnato, non si vuol prestare ad ulteriore sospensione di ostilità, ma offre una capitolazione come quella, che abbiamo riferita, dichiarando non averne altra, e questa capitolazione è rifiutata. Ebbene, il generale Casella scriveva agli agenti diplomatici presso le nazioni estere: — «Ma i fatti, che da parte dei Piemontesi hanno accompagnati i negoziati hanno un carattere, che importa di segnalare. Il generale Cialdini ha ricusato di sospendere le ostilità duranti i negoziati. Per tre giorni copri la piazza di bombe e d’obici. Tutte le condizioni erano fissate; non mancava, onde la capitolazione fosse compiuta, che la copia del testo di questo lungo documento e le formatità della sottoscrizione, e le batterie piemontesi spandevano ancora la morte in Gaeta, e lo scoppio di un’altra polveriera seppelliva sotto le sue rovine officiali e soldati.» Buona letture. Zenone di Elea – Agosto 2017

di seguito il la prima parte del testo

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La tratta degli italiani di Fernando Ritter

Posted by on Lug 17, 2019

La tratta degli italiani  di Fernando Ritter

Alla fine degli anni ’60 vi erano ufficialmente, sparsi attraverso il mondo, 6 milioni di individui in possesso di passaporto italiano. Di questi, oltre 2,4 milioni vivevano in Europa: 900 mila in Francia, 700 mila in Svizzera, 400 mila in Germania, 250 mila nel Benelux, 150 mila in Gran Bretagna. In realtà, il numero degli italiani all’estero era allora sensibilmente superiore alla cifra ufficiale, in quanto da essa erano stati esclusi tutti coloro che, nel corso degli anni, avevano rinunciato o dovuto rinunciare alla propria cittadinanza originaria. Innumerevoli quindi sono stati gli italiani costretti a prendere la via dell’esilio per cercare, all’estero, quel pane che veniva loro negato in patria. Ciò avvenne precisamente da quando, conquistato dai piemontesi il Regno delle due Sicilie, cominciò in nome dell’Unità d’Italia, il pesante saccheggio del più vasto, più potente e più ricco Stato della Penisola; di quello Stato che poteva vantarsi di un’amministrazione pubblica modello e di un patrimonio aureo di poco inferiore al mezzo miliardo di lire oro, più che doppio di quello complessivo degli altri Stati d’Italia. Stato pacifico che, tra l’altro, non conosceva la coscrizione obbligatoria e la leva in massa, e che si era posto all’avanguardia del progresso tecnico; a esso i Borboni avevano dato la prima ferrovia in Italia, la prima nave a vapore, il primo telegrafo elettrico (sia pure sperimentale) e, alla sua capitale, l’illuminazione a gas, con 10 anni d’anticipo sulle altre città della Penisola. Stato dove non attecchì la grande usura, che vide anzi fallire il ramo dei Rothschild che si era stabilito a Napoli. L’Unità d’Italia, per il Meridione, significò il crollo della sua agricoltura e quello delle sue industrie -già più sviluppate e floride di quelle del Nord – con conseguenze che si fecero sempre più gravi e tragiche per le popolazioni. L’Unità portò anzitutto alla completa rovina dei contadini, considerati sino alla conquista legalmente inamovibili dalle terre feudali, ecclesiastiche e comunali da loro coltivate, nonché proprietari di quelle coloniche; contadini praticamente esenti da doppie imposizioni e tributi, e da qualsiasi servitù militari. L’incameramento di queste terre, in ossequio ai nuovi principî, da parte del demanio piemontese, la loro messa in vendita, il loro acquisto, furono il trionfo degli speculatori, degli usurai, dei manipolatori di ogni specie, locali e piovuti dal Nord, i quali – sotto la protezione di un esercito di occupazione forte di 120 mila uomini e che, in 10 anni, bruciando paesi e paesani, massacrò 20 mila contadini in lotta per il pane, gabbandoli per briganti -diventarono, con l’ausilio di leggi non meno infami di coloro che le applicavano, i padroni inesorabili del contadino. Questi, messo nell’impossibilità materiale di pagare le tasse e i balzelli imposti da un Piemonte in eterno disavanzo finanziario, si vide portare via le scorte, gli attrezzi, la capanna, il campo; e ciò non da un feudatario “spietato”, ma dal borghese “liberale”. Così il contadino dell’ex reame delle Due Sicilie, il quale dal 1830 al 1860 aveva fruito di una condizione economica assai migliore di quella dei lavoratori della terra del resto della Penisola, si vide con l’Unità depredato addirittura anche del lavoro. E questo in quanto i nuovi proprietari della terra – introducendo colture industriali (agrumi e ulivo) in sostituzione di quelle che coprivano il fabbisogno alimentare e tessile delle popolazioni locali, contadine e cittadine – non ebbero che una preoccupazione: quella di realizzare sempre maggiori profitti finanziari, pure a totale scapito del lavoro (l’industrializzazione di quei tempi!). Così le campagne del Mezzogiorno, sacrificate all’industrializzazione agricola locale e tradite dalla politica per lo sviluppo delle manifatture del Nord, non furono più nella possibilità materiale, come lo erano state nei secoli, di assicurare alla popolazione del Sud, anche delle città, neppure la propria alimentazione. E fu lo sfacelo [1]. Si interruppe in conseguenza – tra l’altro – la corrente migratoria della mano d’opera, che sino allora si era spostata dal Nord al Sud, mentre i contadini meridionali, cacciati per fame dalle loro terre, furono costretti alla fuga verso il Nord e l’estero. Fenomeno che non tardò a trasformare l’intera Penisola in una immane colonia di sfruttamento umano, dove nuovi negrieri razziavano ogni anno, non più africani, ma un crescente contingente di disperati bianchi, il cui numero salì progressivamente da 107 mila – media annua del periodo 1876 -1880 – a 310 mila, media annua del periodo 1896 -1900, a 554 mila, media annua del periodo 1901-1905, a 651 mila, media annua del periodo 1906-1910, a 711 mila nell’anno 1912, a 872 mila nell’anno 1913, anno di vigilia della prima guerra mondiale, che troncò questa tratta, sino alla fine delle ostilità, per fornire carne da cannone, in abbondanza, alle offensive, negazione della strategia, di un altro piemontese. Nessun documento meglio di queste cifre potrebbe illustrare i risultati economici, sociali e umani della politica della borghesia italiana “liberale” di quegli anni. Borghesia che doveva trovare in Giovanni Giolitti il suo personaggio più rappresentativo, diventato direttamente o – per pochi mesi – tramite i suoi luogotenenti Fortis e Luzzato, dal 1903 al marzo 1914 capo del governo e, attraverso la burocrazia e la corruzione, padrone assoluto del Paese. Politica che costrinse, nell’ultimo biennio dell’era giolittiana, oltre un milione e mezzo di italiani a emigrare; più della metà dei quali oltre Atlantico, verso l’inferno delle fazende brasiliane, delle miniere e ferriere della Pennsylvania, dei mattatoi di Chicago, degli angiporti e dei bassifondi di Buenos Aires e di New York; caricata per maggior utile degli armatori del Nord, in condizioni di poco meno disumane di quelle fatte all’inizio del secolo scorso dai negrieri agli schiavi portati sui mercati delle due Americhe.

[1] Codificato dalle leggi protezioniste del 1887 a favore delle industrie del Nord.

fonte https://www.eleaml.org/sud/den_spada/tratta_degli_italiani.html

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