Ho letto la sua risposta a
proposito del Mezzogiorno e non capisco perché lei si ostini a
dare ancora valore alla favola risorgimentale. Ritengo estremamente
puerile non voler considerare il «brigantaggio» come una
lotta di resistenza contro l’invasione piemontese (prima non esisteva
brigantaggio) e, soprattutto, non voler considerare che fu proprio
questa invasione l’origine della «questione meridionale».
Antonio Pagano,
Torri di Quartesolo (Vi),
Caro Pagano,
La sua lettera (troppo lunga, purtroppo,
per essere pubblicata
interamente) contiene altre considerazioni sulla politica meridionale
dei governi italiani, ma il tema del brigantaggio merita d’essere
considerato separatamente. Lei sostiene che prima dell’«invasione
piemontese » esso non esisteva.
Main un vecchio libro di Ernesto Nathan (sindaco di Roma dal 1907 al
1913) ho trovato un passaggio delle memorie d’infanzia di un uomo
politico che era stato sindaco di Cortale in Calabria all’epoca dei
Borbone.
Dopo avere ricordato che la posta arrivava generalmente ogni due
settimane perché i briganti svaligiavano il procaccia «una
volta sì e una volta no», l’ex sindaco scrive.
«Se di notte babbo e mamma
confabulavano, quasi cospirassero,
era segno, ricordo, di vicino viaggio. E a mezzanotte si mandavano a
chiamare gli armigeri (la necessaria scorta di fedeli ora scomparsa);
caricavano e scaricavano i fucili, si somministrava loro una misurata
dose di acquavite, tutto s’allestiva nel silenzio e nelmistero e si
partiva, a cavallo s’intende, appena apparivano i primi chiarori
dell’alba. Se la meta era Catanzaro, si pigliava la via di Nicastro,
poi ad un certo punto si cambiava rotta per depistare possibili
assalitori; ed in ordine sparso, mandando avanti gli esploratori, fra
tattica e strategia, si mettevano giornate intere per arrivare
là dove con un legnetto si giunge in poche ore (…). Chi doveva
recarsi a Napoli non partiva senza prima fare testamento; chi aveva
oltrepassato il faro di Messina s’acquistava tale fama in paese da
convertire la sua saliva in specifico per la guarigione degli
eczemi».
Il fenomeno contro cui le truppe italiane dovettero battersi dopo il
collasso del Regno delle Due Sicilie fu certamente più
complesso: molti briganti, ma anche numerosi sbandati dell’esercito
borbonico e persino un certo numero di volontari stranieri, soprattutto
francesi e spagnoli, giunti nel Mezzogiorno per difendere la causa del
legittimismo contro il sacrilego e «massonico» Regno
d’Italia. Il più coraggioso e sfortunato fu un ufficiale
spagnolo, José Borjés, che aveva combattuto con i
carlisti nella guerra civile spagnola e sbarcò in Calabria per
suscitare una grande rivolta popolare contro gli occupanti.
Fu un Che Guevara del XIX secolo e non ebbe migliore fortuna del medico
argentino amico di Castro. Il capo dei briganti nella zona era Carmine
Crocco, prima detenuto nelle carceri borboniche, poi volontario con
Garibaldi e infine capobanda nelle file della «controrivoluzione
borbonica ».
Crocco negò a Borjés il suo aiuto e lo costrinse a
fuggire con i suoi uomini verso gli Stati del Papa. Ma nei pressi della
frontiera lo spagnolo s’imbatté in un distaccamento di
bersaglieri. Combatté, fu catturato e, poche ore dopo, passato
per le armi con i suoi compagni. A un tenente italiano che lo scortava
disse: «Andavo a dire al re Francesco II che non vi hanno
chemiserabili e scellerati per difenderlo, che Crocco è un
sacripante e Langleis (un legittimista francese, ndr) è un
bruto».
La tesi secondo cui i briganti sarebbero stati militanti d’una lotta di
liberazione nacque in ambienti antirisorgimentali prevalentemente
marxisti. Un grande storico inglese Eric Hobsbawm sostenne in uno dei
suoi libri («I banditi», pubblicato da Einaudi nel 1971))
che il banditismo può essere il primo stadio di una rivolta
politico- sociale. Le ricordo, caro Pagano, che questa tesi, con minore
finezza, fu sostenuta dalle Brigate Rosse e da altri gruppi negli anni
in cui cercavano di reclutare nelle carceri i loro seguaci.
Di Giuseppe Massari [*]
nell’enciclopedia Garzanti si dice solo che nacque a Taranto nel 1821 e mori a
Roma nel 1884, che fu un fervente patriota e che fu relatore della Commissione
Parlamentare d’inchiesta[1] – magari in qualche testo di storia si
precisa che la sua relazione fu coraggiosa e squarciò un vello sulle tristi
condizioni delle plebi meridionali che erano all’origine della rivolta, il
cosiddetto “brigantaggio”. Praticamente questo è più o meno quello che sanno
tutti gli italiani che hanno frequentato le scuole superiori o anche
l’università a meno che non si interessino per mestiere o per diletto di storia
patria.
Queste
scarne notizie costituiscono il bagaglio culturale sul personaggio che ognuno
di noi si porta dietro e che fanno da coordinate per ulteriori acquisizioni.
Massari
appartiene alla folta schiera di oppositori politici del regime borbonico che
trovarono nel Piemonte una sponda per continuare dall’esterno la loro opera di
denigrazione del paese meridionale. Per questa loro opera ‘disinteressata’
ebbero generosi riconoscimenti durante l’esilio a Torino e furono i proconsoli
piemontesi a Napoli dopo il crollo del regno borbonico. Il che fu una vera
iattura per noi meridionali[2].
Proviamo
a ripercorrere le tappe della carriera del Massari…
…
nel 1838 il calabrese Benedetto Merolino lo sceglie come corriere della Giovane
Italia[3].
…
nel 1840 lavora come collaboratore in Parigi della “Gazzetta italiana” della
Belgioioso[4].
…
nel 1846 viene nominato direttore della rivista “Il mondo illustrato”.
…
lavora come collaboratore della “Patria” di Firenze.
…
nel 1848 viene eletto deputato di Bari al Parlamento di Napoli.
…
lavora come collaboratore de “Il Conciliatore” di Firenze.
…
nel 1849 si trasferisce a Torino e lavora come redattore di giornali e riviste
sia italiani che stranieri: “Saggiatore”, “Rivìsta contemporanea”, “Gazzetta
piemontense”, “La Legge”, “Nazionale”, “Cimento”, “L’Indépendence Belge”.
… nel 1851 lo
ritroviamo come traduttore e divulgatore in Italia delle famose Lettere del
Gladstone, pubblica infatti: “Il signor Gladstone ed il governo napoletano.
Raccolta di scritti intorno alla questione napoletana” Tipografia Subalpina,
Torino 1851. Come, non ricordate la famosa frase[5] di Gladstone: “la negazione di Dio
eretta a sistema di governo”, “This is the negation of God erected
into a system of government.”? Se vi può interessare, vi informiamo
che delle lettere vi erano state già due pubblicazioni – in lingua originaria
ovviamente – una a Londra e una a New York sempre nel 1851[6], poteva mancare Torino[7]?
…
lo vediamo segretario di Cavour negli anni decisivi dell’impresa unitaria[8].
…
nel 1856 assume la direzione della Gazzetta Ufficiale piemontese.
… nel 1858 viene
nominato, per i servigi resi alla corona sabauda, cavaliere dei SS. Maurizio e
Lazzaro.
… nel 1859 lo
ritroviamo a preparare il famoso discorso della corona (discorso ispirato da
Napoloene III e a cui era interessato pure il Rothschild[9], toh chissà perché!), quello della famosa
frase “non possiamo rimanere insensibili al grido di dolore, che da tante
parti d’Italia si leva verso di noi”.
…
nel 1861 viene eletto deputato al Parlamento nazionale di Torino.
…
nel 1863 legge la relazione della Commissione Parlamentare d’inchiesta in
comitato segreto[10] della Camera. Su questo atto che lo ha
consegnato alla storia più conosciuta dalla maggioranza degli italiani, vi sono
pareri assai discordi.
In molti ritengono e
scrivono che la relazione si caratterizza per “Profondità di diagnosi, esame
delle cause remote e recenti, invocazione di rimedi che non fossero soltanto di
polizia. In lui, che pure verso il Mezzogiorno non fu tenero, denunciandone in
ogni occasione le manchevolezze e la fredda partecipazione al processo
unitario, agiva questa volta la medesimezza con quella terra, la coscienza di
un malgoverno remoto nei secoli che aveva provocato guasti irreparabili,
l’«inveterata corruzione del governo e della burocrazia», le complicità,
l’omertà, sollecitata, le connivenze, alimento incessante di malessere e
malcontento. Intelligenza e pietà vibrano in quelle pagine, che sarebbero state
poi alla base di molti altri studi ed inchieste sulla questione meridionale. Si
può richiamare il passo noto in cui si descrivono le condizioni di vita del
cafone tentato dal miraggio di una migliore condizione e per ciò stesso
sospinto sulla strada del brigantaggio: e gli altri, sulle indiscriminate
repressioni, che portavano a inasprire gli animi, con punizioni eccessive anche
per reati minori, provocati chiaramente dall’indigenza delle popolazioni.”[11]
In pochi – tra cui chi
vi scrive – sostengono invece che le “tesi insulse e addomesticate della
Relazione Massari ebbero come risultato la promulgazione della Legge Pica, che
impose lo stato d’assedio e la corte marziale a tutte le regioni del Sud e
diede veste ufficiale alla repressione militare del brigantaggio, già di fatto
praticata sin dall’inizio.”[12]
… fu biografo ufficiale di Cavour, di Vittorio Emanuele e di La Marmora!
[1]
Il
presidente era Sirtori e ne faceva parte anche Bixio.
[2]“È stato un errore, si sostiene nel 1862
in una memoria … avere
affidato il governo napoletano a quei patrioti che, emigrati al
cominciare
della reazione del 1849, rimasero fuori dalla province Napoletane sino
al 1860.
……Sebbene essi siano per ingegno, dottrina e amor
patrio la migliore parte di
quella eletta schiera di liberali Napoletani, sono i meno adatti a
svolgere le
mansioni loro affidate dal governo di Torino sia per la poca conoscenza
che
hanno degli interessi di queste province, da cui sono stati per molti
anni
assenti, sia per quella passione…mista di vendetta e di
disprezzo, di cui sono
sempre dominati quelli che dopo un lungo e doloroso esilio ritornano
potenti in
patria.
Rientrati
a Napoli
come proconsoli piemontesi, hanno falsato agli occhi del Governo
centrale i
fabbisogni del paese e hanno consentito che questo venisse ammisserito
e
spogliato…da estranei a queste provincie…venuti
con lo spirito di conquista che
non si addice a chi doveva spargervi la luce e il progresso. A causa
della loro
incapacità a governare, l’amministrazione cade in
mano di persone che non
sapevano un’ acca e non avevano altro merito se non di godere
delle grazie
della consorteria.”. Cfr. Giuseppe Ressa,
Il ruolo degli esuli e dei
parlamentari meridionali – Il Sud e l’unità
d’Italia (potete scaricare l’opera
completa dal sito: https://www.ilportaledelsud.org)
[4]“Le lettere di Tommaseo. di Gioberti, di de
Sinner. di Mamiani, di
Massari, di Ricciardi, di Mazzini, inviate da Parigi nel Trenta e nel
Quaranta
fanno frequente riferimento a colei che negli anni del suo soggiorno
parigino,
soprattutto i primi anni, fu molto rappresentata, molto descritta,
molto nominata
(«princesse révolutionnaire»,
«heroi’ne romantique». «princesse
malheureuse».
«grande italiana», «belle patriote
italienne». «savante Uranie»,
«nouvelle
Bradamante», «foemina sexu. genio
vir»)”. Cfr. Novella Bellucci,
II
salotto parigino di Cristina Belgiojoso, “princesse
révolutionnaire”
– (https://www.disp.let.uniroma1.it/)
[5]
Frase
fortunata! E pensare che il Gladstone non aveva mai visitato una galera
borbonica, questo lo confessò egli stesso a Napoli nel 1888
durante una
rimpatriata. Il sussidiario sui cui avete studiato la storia del
Risorgimento
voi – e pure io – questo non lo sapevano o facevano
finta di non saperlo.
“Gladstone,
tornato a
Napoli nell’anno 1888-1889, fu ossequiato e festeggiato dai
maggiorenti del
cosi detto Partito Liberale, i quali non mancarono di glorificarlo per
le sue
famose lettere con la negazione di Dio, che tanto aiutarono la loro
rivoluzione; ma a questo punto il Gladstone versò una vera
secchia d’acqua
gelata sui suoi glorificatori. Confessò che aveva scritto
per incarico di lord
Palmerston, che egli non era stato in nessun carcere, in nessun
ergastolo, che
aveva dato per veduto da lui quello che gli avevano detto i nostri
rivoluzionari”. Cfr. Carlo Alianello, La
conquista del sud, Rusconi
Editore.
[6] Two letters to the Earl of
Aberdeen, on the state prosecutions of the Neopolitan government. by W
E
Gladstone – Type: English : Book Publisher: London, J. Murray, 1851.
Two
letters to the Earl of Aberdeen, on the state prosecutions of the
Neopolitan
government. by W E Gladstone – Type: English : Book Publisher: New
York, J.S.
Nichols, 1851.
[7]“Massari, per il momento, non ancora
inserito nel gioco diplomatico, fu
abile per la sua parte a cogliere a volo quella opportunità
da cui poteva venir
bene alla causa, e tradusse subito in bella prosa italiana quella
lettere che
pubblicò a Torino (Il sig. Gladstone e il governo
napoletano), appena dopo che
esse erano state divulgate a Londra.
Fu
una lungimiranza
già quasi cavourriana? Resta il fatto che questo secondo
scritto sul
Mezzogiorno e gli altri che seguirono, sulla polemica intercorsa tra il
governo
napoletano ed il Gladstone, così tempestivi e rivolti ai
suoi ospiti torinesi,
e di lì a tutti gli italiani e amici dell’Italia, non solo
risultarono un
contributo notevole alla causa risorgimentale, ampliando l’effetto di
denuncia
nei confronti degli screditati Borboni, ma conferirono al Massari una
più
precisa collocazione in quel variegato ambiente dell’emigrazione nei
cui
confronti opinione pubblica e governo piemontese guardavano con non
grande
simpatia e molte volte con sospetto.”Cfr.
[8]“Era persuaso, come sarà
persuaso Cavour, che in questo seppe ben
scegliere l’uomo, che la pubblicità della causa italiana e
piemontese nella
opinione pubblica europea fosse da curare con estrema saggezza e
tempestività,
e Massari non trascurò una occasione che potesse procacciar
simpatie alla
causa: Gladstone, gli ambienti liberali inglesi, la cultura e la
diplomazia di
Francia, de Mazade, con cui avvia un fitto carteggio, gli ambienti
vicini a
Napoleone III, il gruppo degli intellettuali fiorentini, gli emiliani,
i
circoli e le personalità milanesi, gli ambienti ufficiali e
quelli ufficiosi, i
ministri, le ambasciate, i salotti, le redazioni: quel variegato
scenario entro
cui si «facevano» le sorti d’Italia non
è mai descritto con l’intento del
narratore, eppure risalta al vivo negli scorci epistolari, nelle
notazioni di
diario, nelle relazioni.”. Cfr. Michele
Dell’aquila, INTELLETTUALI
MERIDIONALI ESULI IN PIEMONTE NEL DECENNIO 1849/59: GIUSEPPE MASSARI –
La
Capitanata – Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia –
BOLLETTINO
D’INFORMAZIONE della Biblioteca Provinciale di Foggia, Anno XX
Gennaio-Giugno
1983 – Parte I – (https://www.bibliotecaprovinciale.foggia.it/)
[9]
Cfr. Carmine
De Marco, Cavour – dal libro “Revisione della Storia
dell’Unità
d’Italia” – (https://www.adsic.it/)
[10]
“L’inchiesta, nota come Massari
– Castagnola, già più volte proposta
dalla sinistra, avrebbe dovuto anche sollevare il velo di silenzio
steso dal
governo sugli errori e sugli abusi compiuti dall’esercito
nell’opera di
repressione. Nel maggio 1863 la Commissione d’Inchiesta
concluse i lavori. I
risultati, raccolti in una lunga relazione, vennero letti alla Camera
in
diverse sedute e furono pubblicati in estate sul giornale “Il
Dovere”. La
relazione evidenziava numerose ragioni economiche e sociali del
fenomeno del
brigantaggio, ma evitava di parlare delle responsabilità del
governo,
chiamando, invece, in causa l’attività degli
agenti borbonici e clericali. In
sostanza, concludeva la relazione, “Roma è
l’officina massima del brigantaggio,
in tutti i sensi ed in tutti i modi, moralmente e materialmente:
moralmente
perché il brigantaggio indigeno alle province meridionali ne
trae
incoraggiamenti continui e efficaci; materialmente perché
ivi è il deposito, il
quartier generale del brigantaggio d’importazione”.
In essa si insisté
sull’interpretazione del fenomeno del brigantaggio come
frutto di delinquenza
comune, retaggio del vecchio regime, e come l’effetto dei
tentativi di
riconquista delle Due Sicilie, da parte di Francesco II, con la
complicità dei
preti meridionali legittimisti. Come conseguenza di questa analisi,
venne
approvata, ad agosto, con procedura d’urgenza, la famigerata
legge Pica (che
rimase operativa fino al 1865) la quale aboliva qualsiasi garanzia
costituzionale;
in virtù di essa furono insediati otto speciali Tribunali
militari, i collegi
di difesa vennero assegnati agli ufficiali e si abolirono i tre gradi
di
giudizio che erano operativi nell’altra parte
d’Italia. In pratica le condanne,
che erano inappellabili, variavano dalla fucilazione ai lavori forzati
(spesso
a vita); venne stabilito il reato generico di
“brigantaggio” in virtù del quale
ogni sentenza era legittima; anche persone non partecipi alla rivolta
persero
la vita perché accusate ingiustamente di brigantaggio da
loro nemici personali
i quali, in questo modo, saldavano sbrigativamente dei conti in sospeso.“ Cfr. Stefania Maffeo, – L’unità
d’Italia fece del Sud una colonia da
depredare (https://www.storiain.net/)
[11]
Cfr. Michele Dell’aquila, INTELLETTUALI MERIDIONALI ESULI IN PIEMONTE
NEL
DECENNIO 1849/59: GIUSEPPE MASSARI – La Capitanata – Rassegna di vita e
di
studi della Provincia di Foggia – BOLLETTINO D’INFORMAZIONE della
Biblioteca
Provinciale di Foggia, Anno XX Gennaio-Giugno 1983 – Parte I
– (https://www.bibliotecaprovinciale.foggia.it/)
[12]
Cfr. Abstract de “Brigantaggio legittima difesa del Sud – gli
articoli della
Civiltà Cattolica (1861 – 1870)” –
introduzione di Giovanni Turco, prima
edizione 2000” – (https://www.editorialeilgiglio.it/)
[*] Pubblichiamo una nota inviataci oggi, 31 luglio 2006, dall’amico Gernone che ringraziamo: “Sull’ascaro Massari aggiungerei che la relazione scritta a mano e poi modificata per ovvie ragioni al largo pubblico della stampa è introvabile, che la CPIB relazionò a porte chiuse in Parlamento… Massari come altri servitori meridionali della conquista piemontese morì solitario a Roma ed è sepolto a Bari. Ciao Nino”.
I brani di autori riportati, che ci danno un quadra molto significativo della situazione della nostra regione, sono di grande aiuto per cercare di far luce sul male endemico del brigantaggio, che e affiorato tante volte lungo il corso della storia, ma che e esploso in tutta la sua virulenza dopo il conseguimento dell’unita d’Italia.
Tra i libri più validi e curati per la conoscenza reale e non retorica –
dolosamente retorica da parte dei conquistatori del nostro Sud –
segnaliamo il classico studio di Roberto M. Selvaggi: “NOMI E VOLTI DI UN
ESERCITO DIMENTICATO“ – GLI UFFICIALI DELL’ESERCITO NAPOLETANO DEL 1860 – 61 –
Napoli, Grimaldi & C. Editori 1990.
La prefazione dell’autore che riportiamo, è un distillato del lavoro meticoloso
e certosino che ha contribuito alla restituzione della dignità militare
duosiciliana che la vulgata forzatamente indotta dalla educazione della Nazione
Italia ha con basso profilo e grande cialtroneria definito
“l’esercito di Franceschiello”.
Accanto a questo segnaliamo il libro di Giuseppe Ferrarelli “Memorie
Militari del Mezzogiorno d’Italia”, pubblicato da Laterza nel 1911 con
una prefazione di Benedetto Croce .
Ferrarelli fu un giovane ufficiale borbonico educato alla Nunziatella di
Napoli, la prestigiosa accademia militare officina di soldati di gran valore;
egli rappresenta emblematicamente quei militari duosiciliani che tradendo il
giuramento borbonico, aderirono all’esercito italiano.
Il Ferrarelli ebbe però il raro merito rispetto alla ufficialità camaleontica
meridionale di ricredersi e di rifiutare le umiliazioni e derisioni a cui i
vincitori graduati piemontesi li sottoposero: si ritirò ancor giovane, denunciò
“l’unificazione d’Italia che fu, negli anni seguiti al sessanta, compiuta
brutalmente, non fu italiana ma francese e giacobina, senza tener conto delle
diversità regionali che sono forze da non dispregiare, distruggendo a furia
formazioni storiche che potevano sopravvivere e cooperare efficacemente nella
nuova storia italiana…mentre prevalsero il piemontesismo e la livellazione…”.
Lo stesso Ferrarelli quantunque affiancato al criminale generale Pinelli nella
campagna di guerra – invero di conquista – del brigantaggio “costretto ad
assistere a fucilazioni talvolta precipitose di borghesi, chiese ed ottenne di
essere trasferito a Bologna, perché disse francamente al Pinelli ch’egli si era
preparato a far la guerra, ma non le fucilazioni.” (1); infine il Ferrarelli
trascorse la sua vita nella scrittura e commemorazione dell’esercito borbonico
e degli ufficiali educati dalla Nunziatella, seppure una sua mitezza di
carattere gli impedì di denunciare in modo netto talune responsabilità degli
stessi nella umiliazione di una tradizione militare meridionale, sarebbe stato
d’altro canto chiedergli troppo, egli stesso faceva parte della cordata…
(1) Cit. la
prefazione di Benedetto Croce al libro “Memorie Militari…” e “PAGINE
SPARSE” DI Benedetto Croce “Giuseppe Ferrarelli” pp.193-195, Ricciardi Editore
Napoli, MCMXLIII. Croce era nipote di Ferrarelli.
Dal
testo di Roberto M. Selvaggi
…Il 20 maggio
1860, Giuseppe Garibaldi, con un migliaio di volontari, sbarcava a Marsala e
iniziava la trionfale marcia verso Napoli, dove sarebbe entrato, il 7 settembre
1860, meno di cento giorni più tardi. Per fronteggiare l’aggressione, il
governo napoletano poteva contare sulla prima flotta italiana e su di un
esercito di più di cinquantamila uomini.
La truppa, ben
addestrata, fedele alla dinastia, era desiderosa di combattere e soprattutto di
vincere. L’ufficialità, a cominciare dalla classe dei generali, veri
responsabili dello sgretolamento dell’esercito, sia in Sicilia che in
Calabria, era profondamente divisa fra coloro i quali ritennero di dover
contribuire alla disfatta, per agevolare la conquista garibaldina, e fra quelli
che ritennero di dover difendere onorevolmente l’indipendenza del regno
meridionale e la dinastia regnante.
Nel mezzo di
queste due posizioni si collocò una nutrita parte di loro, che non fece nulla,
se non attendere passivamente gli eventi per poi decidere, nel momento più opportuno,
di passare con il cavallo vincente. in Sicilia, a cominciare dal primo impatto
con Garibaldi a Calatafimi, dove il decrepito generale Landi, non impegnò che
una piccola parte delle sue forze, rinunciando alla vittoria sin dal
primo momento, pur di garantirsi la ritirata verso Palermo, i soldati si
batterono bene quando furono guidati da ufficiali coraggiosi, come a
Catania ed a Milazzo.
I generali non
furono all’altezza del compito e, con i primi insuccessi, iniziò a serpeggiare
il disfattismo strisciante che ebbe il suo culmine nello sfacelo delle
truppe napoletane in Calabria.
Nel giugno del
1860, Francesco II concedeva la costituzione perdendo il controllo
dell’armata che passava al ministero della guerra affidato al generale
Giuseppe Salvatore Pianell. A lui spettò il compito di organizzare la difesa
delle province continentali.
La sua condotta
ambigua e oscillante, la scelta dei comandanti di brigata, la
dislocazione dei reparti, i meno affidabili dell’esercito, fece sì che la
resistenza non ci fosse affatto e
Garibaldi, in
sole diciassette giorni, poté giungere indisturbato a Napoli.
Francesco II
decise, riprendendo le sue prerogative, di abbandonare la capitale e la difesa
sulla linea di Salerno. Lo fece per un motivo preciso ignorato dagli
storici. Volle poter tentare un’ultima resistenza, potendo contare su una
ufficialità fedele e decisa a giocare le ultime carte con coraggio e con
valore.
Non a caso
affidò il comando dell’esercito, forte ancora di trentamila uomini bene
equipaggiati, a un generale, forse non dotato di particolari qualità
strategiche, ma sicuramente devoto alla dinastia ed al paese.
Il 7 settembre
fu l’ora della verità per l’ufficialità napoletana e molti preferirono
dare le dimissioni dal servizio, molti passarono con Garibaldi e la maggior
parte si riunì sulle rive del Volturno dove, con spirito di sacrificio,
affrontò valorosamente l’ultima campagna che si concluse con l’eroica
difesa di Gaeta, chiudendo con onore l’ultima pagina della sua storia.
La storia
militare di quegli ufficiali ebbe termine con la res di Gaeta, Messina e
Civitella del Tronto, mentre iniziava la diaspora voluta dai piemontesi
che si comportarono da conquistatori e non da italiani.
Soltanto i due
generali Pianell e Nunziante vennero immediatamente ammessi nell’esercito
italiano col grado corrispondente a quello che avevano nell’esercito
napoletano.
Tutti gli altri
vennero affidati a uno scrutinio selettivo, a seconda del loro grado di
italianità o, per meglio dire, di lealtà verso la deposta dinastia. Ad
essi vennero riconosciuti i gradi avuti fino al 7 settembre del 1860,
quasi che i successivi atti di valore e la fedeltà ad un giuramento,
fossero motivo di biasimo e di punizione.
Fu così
che uomini valorosi giunti ad aver meritato fino a due promozioni, al termine
dell’assedio di Gaeta, dovettero scegliere tra il congedo e l’umiliante
ammissione nell’esercito italiano con il vecchio grado.
Ufficiali di
giovane età vennero messi a riposo, non senza averli prima costretti a giurare
fedeltà al nuovo governo, in maniera che, se avessero preso le armi o la
semplice parola contro il nuovo ordine di cose, sarebbero stati giudicati da un
tribunale militare. Molti varcarono così le porte delle carceri militari del
Piemonte per il solo motivo di essersi rifiutati di prestare giuramento.
Molti subalterni
si dettero alla macchia e parteciparono alla resistenza armata,
comunemente battezzata “brigantaggio”, rischiando la vita
davanti ad un plotone di esecuzione. Molti dovettero condurre una vita di
stenti e di miseria.
Quelli poi che
furono ammessi come effettivi nell’esercito italiano furono sottoposti allo
scherno ed al sarcasmo dei colleghi piemontesi e furono inviati in lontane
guarnigioni dell’alta Italia o, peggio, furono destinati alla lotta al
“brigantaggio”, trovandosi costretti a combattere contro i propri
concittadini per poter sopravvivere.
A questo amaro
destino non si poterono sottrarre nemmeno quelli che avevano contribuito
fattivamente alla conquista garibaldina. Non pochi furono i casi di suicidio
e di espulsione dall’esercito per “viltà” nella lotta al
“brigantaggio”. Le istituzioni militari dell’antico regno, come
quelle civili, vennero spazzate via dal governo unitario e con la distruzione
sistematica e spesso violenta della memoria, sull’esercito napoletano
cadde un velo d’oblio.
E’ stato
difficile persino poter ricostruire i nomi dei caduti nelle campagne del
1860, perché ai napoletani non fu consentito di onorarne la memoria.
Senza l’acquisizione da parte dello stato italiano, in tempi ancora
recenti, dell’archivio di Francesco II, questo libro non avrebbe potuto
essere scritto perché, il lavoro di distruzione fu meticoloso e completo
nel periodo successivo all’unità.
E’ utile
ricordare che negli anni che vanno dal 1861 al 1870, nelle province
meridionali, era sufficiente avere in casa un ritratto dei sovrani spodestati o
semplicemente una medaglia o una uniforme, per non parlare di una sciabola, per
essere processati e incarcerati.
Con un paziente
lavoro anagrafico e di ricerca ho cercato di riscrivere quella storia le
biografie di quei militari dimenticati, sia di quelli che dettero il loro
contributo alla formazione dello stato unitario che di quelli che ritennero di
dover difendere l’autonomia meridionale combattendo fino all’ultimo.
La ricerca non ha pretese letterarie e scientifiche ma potrà essere di valido aiuto a chi vorrà approfondire la storia della fine del Regno di Napoli….
Nel 1859 la Banca contava due sedi, Genova
e Torino, e cinque succursali: Alessandria, Cagliari, Cuneo, Nizza e
Vercelli. Quell’anno, già prima che gli austriaci fossero battuti da Napoleone
III, il capitale sociale venne portato a 80 milioni, in modo da concederne un
quinto al padronato lombardo[1].
I trentamila caduti a Solferino e San Martino erano ancora insepolti, quando
fu istituita la sede di Milano. La minaccia del dissesto, conseguente al
run dei possessori di banconote, si dissolse fra i vapori agostani della Palude
Padana, mercé l’oro che i lombardi portarono in dote.
Non so se Wagner si sia mai interessato alle banche, certo è che il dilagare
della Banca Nazionale per le cento città d’Italia ricorda l’impeto incalzante
de La cavalcata delle Valchirie. Bombrini corse più veloce dei bersaglieri. Tra
il giugno del 1859 e il settembre 1860 venne praticamente realizzata
l’occupazione dell’Emilia, delle Romagne, dell’Umbria, delle Marche. Crollate
anche le Due Sicilie, furono immediatamente istituite altre due sedi, Napoli e
Palermo. Ma non la Toscana.
Nel 1860, Bombrini inaugurò succursali ad Ancona, Bergamo, Bologna, Brescia,
Como, Messina, Modena, Parma, Perugia, Porto Maurizio (l’attuale Imperia) e
Ravenna;
nel 1862
s’insediò a Catania, Cremona, Ferrara, Forlì, Pavia, Piacenza, Reggio Calabria
e Sassari;
nel 1863 a Bari
e Chieti;
nel 1864
all’Aquila, Catanzaro, Foggia, Lecce e Savona.
Nel 1865, i toscani scesero a patti,
cosicché Bombrini poté aprire la sede di Firenze. Quell’anno inaugurò
succursali anche ad Ascoli Piceno, Carrara, Lodi, Macerata, Pesaro, Reggio
Emilia, Siracusa e Vigevano.
Nel 1866 s’insediò a Caltanissetta, Cosenza, Girgenti (Agrigento), Novara,
Salerno, Teramo e Trapani.
Nel 1867, acquisito il Veneto ai Savoia, comprò una banca veneziana e la
trasformò nella propria sede di Venezia. Aprì inoltre le succursali di Padova,
Mantova, Udine e Verona. Al Sud inaugurò la succursale di Avellino. La
penetrazione locale proseguì dopo l’annessione di Roma (1870).
Una diffusione così ampia, ad opera di una banca privata, che si era messa in
campagna con appena cinque milioni d’oro in cassa, si spiega soltanto con
la fanfara dei bersaglieri. Questa espansione privata, e tuttavia munita del
sigillo dello Stato, fu una cosa da Compagnia delle Indie, indegna di un Regno
che si autoproclamava fondato sulla volontà della nazione, oltre che
sulla grazia di Dio.
Evidentemente in quel momento il Sud era coperto di nubi e sfuggiva alla vista
e alla grazia di Dio! Per giunta, la consorteria cavour-bombrinesca
inchiodò al remo gli altri istituti di credito esistenti, alcuni dei quali
– sicuramente il Banco delle Due Sicilie e la Cassa di Risparmio delle
Provincie Lombarde – avrebbero potuto fare d’essa un solo boccone. Persino
l’accomodante Di Nardi è costretto ad ammettere che
“l’espansione [della Banca Nazionale] non avvenne senza contrasti
e difficoltà. Negli antichi Stati italiani esistevano altre banche […] e
potenti istituti di credito radicati nella tradizione locale, che mal
volentieri vedevano l’insediamento nelle loro città di un istituto concorrente,
che sembrava [sic, zucchero patriottico!, ndr] godesse appoggi e protezioni del
governo. Alcune di quelle banche si arresero subito alla rivale piemontese,
convinte di non poter reggere a lungo alla lotta con essa sulle stesse piazze.
Fu il caso della Banca Parmense e della Banca delle Quattro Legazioni a
Bologna, entrambe [da poco, ndr] autorizzate all’emissione di biglietti, che
concordarono presto la loro fusione con la Banca Nazionale, per cui già nel
marzo 1861 le rispettive sedi erano trasformate in succursali della Banca
Nazionale. Atteggiamento di resistenza assunsero invece la Banca Nazionale
Toscana ed i banchi meridionali. A Firenze la Banca Nazionale ci andò solo nel
1865, quando la sede del governo sì trasferì nella capitale toscana. Nelle
provincie meridionali si insediò più presto, ma dovè vincere forti resistenze
locali e procedè con ritardo nella fondazione di alcune succursali, per le
precarie condizioni dell’ordine pubblico in quelle provincie, che per
alcuni anni furono infestate dal brigantaggio borbonico” (Di Nardi,
pag. 46 e sgg.)[2].
Come annotato da Di Nardi nel passo riportato, la Banca Nazionale entrò
in Toscana soltanto nel 1865, cioè sette anni dopo l’annessione del Granducato,
insieme al re, al governo e al parlamento, allorché la capitale d’Italia venne
trasferita da Torino a Firenze. La città dei Bardi e de’ Medici fu l’ultima e
sofferta conquista di Bombrini prima della terza guerra cosiddetta
d’indipendenza e della conquista del Veneto.
In precedenza i toscani, avendo capito tutto, non avevano permesso che aprisse
una delle sue prosciuganti sedi nella loro capitale e delle succursali nelle
loro città, insofferenti di dominio forestiero. I banchieri toscani erano
consapevoli che per loro sarebbe stato impossibile resistere all’aggressione di
un concorrente ammanicato con lo Stato, perciò si difesero sul terreno
politico.
Gli storici patrii non sono riusciti a tenere nascosto il contrasto tra toscani
e piemontesi. E’ persino divertente il visibile affanno per cercare di
addolcirlo con parole melliflue. Non si possono offendere i toscani, perché
nessuno in Italia è più italiano dei toscani, ma neppure si può dire male dei
piemontesi, essendo essi i padri della patria. Tuttavia fra le contorsioni
lessicali, emerge chiaramente che qualcuno, capace di imporre la sua volontà
persino al colendissimo e venerato Cavour, vietò a Bombrini di calcare una
terra rinascimentale, sacra a ogni forma di usura. E all’usura come opera
d’arte.
Infatti la Toscana, fra tante primogeniture, vanta quella d’aver tenuto a
battesimo la banca moderna. Tuttavia, spenti gli antichi splendori, una
sua banca d’emissione era arrivata ad averla soltanto nel 1858: la
Banca Nazionale Toscana, che era il prodotto della fusione tra la Banca
di Sconto di Firenze e la Banca di Livorno. Plebano e Sanguinetti, gli storici
di cose finanziare più accreditati dell’epoca, considerano la Nazionale Toscana
una copia della Nazionale Sarda (pag. 114), che l’aveva preceduta di un buon
decennio.
Si tratta di un giudizio che mi appare tarato di sabaudismo, in quanto sorvola
sul fatto che i biglietti della Banca Toscana erano garantiti dallo Stato, allo
stesso modo delle fedi di credito duosiciliane; cosa che non è di poco conto,
se si ha presente la funzione sociale e politica della dalla Banca
ligure-piemontese, consistente nel drenaggio del circolante
metallico.
Qualche anno dopo la morte di Cavour, si mise a fare la ruota del gran ministro
delle finanze il napoletano Giovanni Manna, uno dei tanti utili idioti che il
sistema padano andava mobilitando al suo servizio. E’ probabile che alquanto
ingenuamente questi considerasse l’Italia-una una specie di Tavola Rotonda di
tutti gli italiani, cosicché immaginò di poter creare un istituto unico
d’emissione, più o meno controllato dal padronato di tutte le regioni.
Ovviamente Bombrini, sulle idee dei ministri, specialmente se napoletani, ci
faceva la pipì. D’altra parte, piegata la Cassa di Risparmio delle Provincie
Lombarde, non aveva altro avversario degno d’essere veramente temuto se non il
Banco delle Due Sicilie, al cui confronto la Banca Toscana era un ringhioso
botoletto aizzato da Ricasoli e dal suo avido contorno. I giochi di Bombrini
ormai erano fatti: Firenze si sarebbe data per amore o per altro, e Napoli,
prima o poi, si sarebbe arresa per fame. Comunque, alle insistenze del ministro
Manna il governatore della Nazionale non poté opporre un aperto rifiuto.
Fu così che tra la Banca Nazionale ex sarda e la Banca Nazionale Tosacana si
arrivò a un reclamizzato accordo. Manna portò in senato il disegno di
legge governativo. Dopo lunghe e ampollose discussioni, il senato lo
approvò, ma, quando passò alla camera, questa lo lasciò dormire fra le altre
scartoffie, finché non sopraggiunse la scadenza della legislatura.
In apparenza, sia alla camera sia al senato, la maggioranza era contraria alle
bramosie della Banca Nazionale; nella sostanza era Bombrini a fomentarle perché
si perdesse tempo, in attesa che la Banca Toscana gli cadesse in grembo come
una pera matura. Bombrini voleva mangiare, e non accordarsi sul menù.
Tra attacchi e resistenze, la partita tra Juventus e Fiorentina si protrasse
dal 1859 al 1865 – cioè un incalcolabile numero di tempi supplementari. Alla
fine la cosa ebbe la sua naturale conclusione: il governo, spostando la
capitale del Regno da Torino a Firenze, pretese che la sede centrale della
Banca bombrinesca (che era sempre una banca privata) lo seguisse nella nuova
capitale.
Bombrini assorbì la Banca Toscana in cambio di 15 milioni di azioni della Banca sarda: 10 a copertura del capitale sociale e 5 come regalia, per tappare la bocca ai verbosi discendenti di Savonarola.
Alla fine degli anni ’60 vi erano ufficialmente,
sparsi attraverso il mondo, 6 milioni di individui in possesso di passaporto
italiano.
Di questi, oltre 2,4 milioni vivevano in Europa: 900 mila in Francia, 700 mila
in Svizzera, 400 mila in Germania, 250 mila nel Benelux, 150 mila in Gran
Bretagna. In realtà, il numero degli italiani all’estero era allora
sensibilmente superiore alla cifra ufficiale, in quanto da essa erano stati
esclusi tutti coloro che, nel corso degli anni, avevano rinunciato o dovuto
rinunciare alla propria cittadinanza originaria. Innumerevoli quindi sono stati
gli italiani costretti a prendere la via dell’esilio per cercare, all’estero,
quel pane che veniva loro negato in patria.
Ciò avvenne precisamente da quando, conquistato dai piemontesi il Regno delle
due Sicilie, cominciò in nome dell’Unità d’Italia, il pesante saccheggio del
più vasto, più potente e più ricco Stato della Penisola; di quello Stato che
poteva vantarsi di un’amministrazione pubblica modello e di un patrimonio aureo
di poco inferiore al mezzo miliardo di lire oro, più che doppio di quello
complessivo degli altri Stati d’Italia. Stato pacifico che, tra l’altro, non
conosceva la coscrizione obbligatoria e la leva in massa, e che si era posto
all’avanguardia del progresso tecnico; a esso i Borboni avevano dato la prima
ferrovia in Italia, la prima nave a vapore, il primo telegrafo elettrico (sia
pure sperimentale) e, alla sua capitale, l’illuminazione a gas, con 10 anni d’anticipo
sulle altre città della Penisola. Stato dove non attecchì la grande usura, che
vide anzi fallire il ramo dei Rothschild che si era stabilito a Napoli.
L’Unità d’Italia, per il Meridione, significò il crollo della sua agricoltura e
quello delle sue industrie -già più sviluppate e floride di quelle del Nord –
con conseguenze che si fecero sempre più gravi e tragiche per le popolazioni.
L’Unità portò anzitutto alla completa rovina dei contadini, considerati sino
alla conquista legalmente inamovibili dalle terre feudali, ecclesiastiche e
comunali da loro coltivate, nonché proprietari di quelle coloniche; contadini
praticamente esenti da doppie imposizioni e tributi, e da qualsiasi servitù
militari.
L’incameramento di queste terre, in ossequio ai nuovi principî, da parte del
demanio piemontese, la loro messa in vendita, il loro acquisto, furono il
trionfo degli speculatori, degli usurai, dei manipolatori di ogni specie,
locali e piovuti dal Nord, i quali – sotto la protezione di un esercito di occupazione
forte di 120 mila uomini e che, in 10 anni, bruciando paesi e paesani, massacrò
20 mila contadini in lotta per il pane, gabbandoli per briganti -diventarono,
con l’ausilio di leggi non meno infami di coloro che le applicavano, i padroni
inesorabili del contadino.
Questi, messo nell’impossibilità materiale di pagare le tasse e i balzelli
imposti da un Piemonte in eterno disavanzo finanziario, si vide portare via le
scorte, gli attrezzi, la capanna, il campo; e ciò non da un feudatario
“spietato”, ma dal borghese “liberale”.
Così il contadino dell’ex reame delle Due Sicilie, il quale dal 1830 al 1860
aveva fruito di una condizione economica assai migliore di quella dei
lavoratori della terra del resto della Penisola, si vide con l’Unità depredato
addirittura anche del lavoro.
E questo in quanto i nuovi proprietari della terra – introducendo colture
industriali (agrumi e ulivo) in sostituzione di quelle che coprivano il
fabbisogno alimentare e tessile delle popolazioni locali, contadine e cittadine
– non ebbero che una preoccupazione: quella di realizzare sempre maggiori
profitti finanziari, pure a totale scapito del lavoro (l’industrializzazione di
quei tempi!).
Così le campagne del Mezzogiorno, sacrificate all’industrializzazione agricola
locale e tradite dalla politica per lo sviluppo delle manifatture del Nord, non
furono più nella possibilità materiale, come lo erano state nei secoli, di
assicurare alla popolazione del Sud, anche delle città, neppure la propria
alimentazione. E fu lo sfacelo [1]. Si interruppe in conseguenza – tra l’altro
– la corrente migratoria della mano d’opera, che sino allora si era spostata
dal Nord al Sud, mentre i contadini meridionali, cacciati per fame dalle loro
terre, furono costretti alla fuga verso il Nord e l’estero.
Fenomeno che non tardò a trasformare l’intera Penisola in una immane colonia di
sfruttamento umano, dove nuovi negrieri razziavano ogni anno, non più africani,
ma un crescente contingente di disperati bianchi, il cui numero salì
progressivamente da 107 mila – media annua del periodo 1876 -1880 – a 310 mila,
media annua del periodo 1896 -1900, a 554 mila, media annua del periodo
1901-1905, a 651 mila, media annua del periodo 1906-1910, a 711 mila nell’anno
1912, a 872 mila nell’anno 1913, anno di vigilia della prima guerra mondiale,
che troncò questa tratta, sino alla fine delle ostilità, per fornire carne da
cannone, in abbondanza, alle offensive, negazione della strategia, di un altro
piemontese.
Nessun documento meglio di queste cifre potrebbe illustrare i risultati
economici, sociali e umani della politica della borghesia italiana
“liberale” di quegli anni. Borghesia che doveva trovare in Giovanni
Giolitti il suo personaggio più rappresentativo, diventato direttamente o – per
pochi mesi – tramite i suoi luogotenenti Fortis e Luzzato, dal 1903 al marzo
1914 capo del governo e, attraverso la burocrazia e la corruzione, padrone
assoluto del Paese.
Politica che costrinse, nell’ultimo biennio dell’era giolittiana, oltre un
milione e mezzo di italiani a emigrare; più della metà dei quali oltre
Atlantico, verso l’inferno delle fazende brasiliane, delle miniere e ferriere
della Pennsylvania, dei mattatoi di Chicago, degli angiporti e dei bassifondi
di Buenos Aires e di New York; caricata per maggior utile degli armatori del
Nord, in condizioni di poco meno disumane di quelle fatte all’inizio del secolo
scorso dai negrieri agli schiavi portati sui mercati delle due Americhe.
[1] Codificato dalle leggi protezioniste del 1887 a favore delle industrie del Nord.