Alta Terra di Lavoro

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Il Sud contro i «piemontesi»: brigantaggio o resistenza?

Posted by on Giu 28, 2019

Il Sud contro i «piemontesi»: brigantaggio o resistenza?

Ho letto la sua risposta a proposito del Mezzogiorno e non capisco perché lei si ostini a dare ancora valore alla favola risorgimentale. Ritengo estremamente puerile non voler considerare il «brigantaggio» come una lotta di resistenza contro l’invasione piemontese (prima non esisteva brigantaggio) e, soprattutto, non voler considerare che fu proprio questa invasione l’origine della «questione meridionale». Antonio Pagano, Torri di Quartesolo (Vi),


Caro Pagano,

La sua lettera (troppo lunga, purtroppo, per essere pubblicata interamente) contiene altre considerazioni sulla politica meridionale dei governi italiani, ma il tema del brigantaggio merita d’essere considerato separatamente. Lei sostiene che prima dell’«invasione piemontese » esso non esisteva.


Main un vecchio libro di Ernesto Nathan (sindaco di Roma dal 1907 al 1913) ho trovato un passaggio delle memorie d’infanzia di un uomo politico che era stato sindaco di Cortale in Calabria all’epoca dei Borbone.


Dopo avere ricordato che la posta arrivava generalmente ogni due settimane perché i briganti svaligiavano il procaccia «una volta sì e una volta no», l’ex sindaco scrive.

«Se di notte babbo e mamma confabulavano, quasi cospirassero, era segno, ricordo, di vicino viaggio. E a mezzanotte si mandavano a chiamare gli armigeri (la necessaria scorta di fedeli ora scomparsa); caricavano e scaricavano i fucili, si somministrava loro una misurata dose di acquavite, tutto s’allestiva nel silenzio e nelmistero e si partiva, a cavallo s’intende, appena apparivano i primi chiarori dell’alba. Se la meta era Catanzaro, si pigliava la via di Nicastro, poi ad un certo punto si cambiava rotta per depistare possibili assalitori; ed in ordine sparso, mandando avanti gli esploratori, fra tattica e strategia, si mettevano giornate intere per arrivare là dove con un legnetto si giunge in poche ore (…). Chi doveva recarsi a Napoli non partiva senza prima fare testamento; chi aveva oltrepassato il faro di Messina s’acquistava tale fama in paese da convertire la sua saliva in specifico per la guarigione degli eczemi».


Il fenomeno contro cui le truppe italiane dovettero battersi dopo il collasso del Regno delle Due Sicilie fu certamente più complesso: molti briganti, ma anche numerosi sbandati dell’esercito borbonico e persino un certo numero di volontari stranieri, soprattutto francesi e spagnoli, giunti nel Mezzogiorno per difendere la causa del legittimismo contro il sacrilego e «massonico» Regno d’Italia. Il più coraggioso e sfortunato fu un ufficiale spagnolo, José Borjés, che aveva combattuto con i carlisti nella guerra civile spagnola e sbarcò in Calabria per suscitare una grande rivolta popolare contro gli occupanti.


Fu un Che Guevara del XIX secolo e non ebbe migliore fortuna del medico argentino amico di Castro. Il capo dei briganti nella zona era Carmine Crocco, prima detenuto nelle carceri borboniche, poi volontario con Garibaldi e infine capobanda nelle file della «controrivoluzione borbonica ».


Crocco negò a Borjés il suo aiuto e lo costrinse a fuggire con i suoi uomini verso gli Stati del Papa. Ma nei pressi della frontiera lo spagnolo s’imbatté in un distaccamento di bersaglieri. Combatté, fu catturato e, poche ore dopo, passato per le armi con i suoi compagni. A un tenente italiano che lo scortava disse: «Andavo a dire al re Francesco II che non vi hanno chemiserabili e scellerati per difenderlo, che Crocco è un sacripante e Langleis (un legittimista francese, ndr) è un bruto».


La tesi secondo cui i briganti sarebbero stati militanti d’una lotta di liberazione nacque in ambienti antirisorgimentali prevalentemente marxisti. Un grande storico inglese Eric Hobsbawm sostenne in uno dei suoi libri («I banditi», pubblicato da Einaudi nel 1971)) che il banditismo può essere il primo stadio di una rivolta politico- sociale. Le ricordo, caro Pagano, che questa tesi, con minore finezza, fu sostenuta dalle Brigate Rosse e da altri gruppi negli anni in cui cercavano di reclutare nelle carceri i loro seguaci.

Sergio Romano

Fonte: https://www.corriere.it – Lettere al Corriere – risponde Sergio Romano

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Giuseppe Massari ovvero storia breve di un velino di razza “a common friend with brains and without tongue”

Posted by on Giu 6, 2019

Giuseppe Massari ovvero storia breve di un velino di razza  “a common friend with brains and without tongue”

Di Giuseppe Massari [*] nell’enciclopedia Garzanti si dice solo che nacque a Taranto nel 1821 e mori a Roma nel 1884, che fu un fervente patriota e che fu relatore della Commissione Parlamentare d’inchiesta[1] – magari in qualche testo di storia si precisa che la sua relazione fu coraggiosa e squarciò un vello sulle tristi condizioni delle plebi meridionali che erano all’origine della rivolta, il cosiddetto “brigantaggio”. Praticamente questo è più o meno quello che sanno tutti gli italiani che hanno frequentato le scuole superiori o anche l’università a meno che non si interessino per mestiere o per diletto di storia patria.

Queste scarne notizie costituiscono il bagaglio culturale sul personaggio che ognuno di noi si porta dietro e che fanno da coordinate per ulteriori acquisizioni.

Massari appartiene alla folta schiera di oppositori politici del regime borbonico che trovarono nel Piemonte una sponda per continuare dall’esterno la loro opera di denigrazione del paese meridionale. Per questa loro opera ‘disinteressata’ ebbero generosi riconoscimenti durante l’esilio a Torino e furono i proconsoli piemontesi a Napoli dopo il crollo del regno borbonico. Il che fu una vera iattura per noi meridionali[2].

Proviamo a ripercorrere le tappe della carriera del Massari…

… nel 1838 il calabrese Benedetto Merolino lo sceglie come corriere della Giovane Italia[3].

… nel 1840 lavora come collaboratore in Parigi della “Gazzetta italiana” della Belgioioso[4].

… nel 1846 viene nominato direttore della rivista “Il mondo illustrato”.

… lavora come collaboratore della “Patria” di Firenze.

… nel 1848 viene eletto deputato di Bari al Parlamento di Napoli.

… lavora come collaboratore de “Il Conciliatore” di Firenze.

… nel 1849 si trasferisce a Torino e lavora come redattore di giornali e riviste sia italiani che stranieri: “Saggiatore”, “Rivìsta contemporanea”, “Gazzetta piemontense”, “La Legge”, “Nazionale”, “Cimento”, “L’Indépendence Belge”.

… nel 1851 lo ritroviamo come traduttore e divulgatore in Italia delle famose Lettere del Gladstone, pubblica infatti: “Il signor Gladstone ed il governo napoletano. Raccolta di scritti intorno alla questione napoletana” Tipografia Subalpina, Torino 1851. Come, non ricordate la famosa frase[5] di Gladstone: “la negazione di Dio eretta a sistema di governo”, “This is the negation of God erected into a system of government.”? Se vi può interessare, vi informiamo che delle lettere vi erano state già due pubblicazioni – in lingua originaria ovviamente – una a Londra e una a New York sempre nel 1851[6], poteva mancare Torino[7]?

… lo vediamo segretario di Cavour negli anni decisivi dell’impresa unitaria[8].

… nel 1856 assume la direzione della Gazzetta Ufficiale piemontese.

… nel  1858 viene nominato, per i servigi resi alla corona sabauda, cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro.

… nel 1859 lo ritroviamo a preparare il famoso discorso della corona (discorso ispirato da Napoloene III e a cui era interessato pure il Rothschild[9], toh chissà perché!), quello della famosa frase “non possiamo rimanere insensibili al grido di dolore, che da tante parti d’Italia si leva verso di noi”.

… nel 1861 viene eletto deputato al Parlamento nazionale di Torino.

… nel 1863 legge la relazione della Commissione Parlamentare d’inchiesta in comitato segreto[10] della Camera. Su questo atto che lo ha consegnato alla storia più conosciuta dalla maggioranza degli italiani, vi sono pareri assai discordi. 

In molti ritengono e scrivono che la relazione si caratterizza per “Profondità di diagnosi, esame delle cause remote e recenti, invocazione di rimedi che non fossero soltanto di polizia. In lui, che pure verso il Mezzogiorno non fu tenero, denunciandone in ogni occasione le manchevolezze e la fredda partecipazione al processo unitario, agiva questa volta la medesimezza con quella terra, la coscienza di un malgoverno remoto nei secoli che aveva provocato guasti irreparabili, l’«inveterata corruzione del governo e della burocrazia», le complicità, l’omertà, sollecitata, le connivenze, alimento incessante di malessere e malcontento. Intelligenza e pietà vibrano in quelle pagine, che sarebbero state poi alla base di molti altri studi ed inchieste sulla questione meridionale. Si può richiamare il passo noto in cui si descrivono le condizioni di vita del cafone tentato dal miraggio di una migliore condizione e per ciò stesso sospinto sulla strada del brigantaggio: e gli altri, sulle indiscriminate repressioni, che portavano a inasprire gli animi, con punizioni eccessive anche per reati minori, provocati chiaramente dall’indigenza delle popolazioni.[11] 

In pochi – tra cui chi vi scrive – sostengono invece che le “tesi insulse e addomesticate della Relazione Massari ebbero come risultato la promulgazione della Legge Pica, che impose lo stato d’assedio e la corte marziale a tutte le regioni del Sud e diede veste ufficiale alla repressione militare del brigantaggio, già di fatto praticata sin dall’inizio.”[12]

… fu biografo ufficiale di Cavour, di Vittorio Emanuele e di La Marmora!

[1] Il presidente era Sirtori e ne faceva parte anche Bixio.

[2] “È stato un errore, si sostiene nel 1862 in una memoria … avere affidato il governo napoletano a quei patrioti che, emigrati al cominciare della reazione del 1849, rimasero fuori dalla province Napoletane sino al 1860. ……Sebbene essi siano per ingegno, dottrina e amor patrio la migliore parte di quella eletta schiera di liberali Napoletani, sono i meno adatti a svolgere le mansioni loro affidate dal governo di Torino sia per la poca conoscenza che hanno degli interessi di queste province, da cui sono stati per molti anni assenti, sia per quella passione…mista di vendetta e di disprezzo, di cui sono sempre dominati quelli che dopo un lungo e doloroso esilio ritornano potenti in patria.

Rientrati a Napoli come proconsoli piemontesi, hanno falsato agli occhi del Governo centrale i fabbisogni del paese e hanno consentito che questo venisse ammisserito e spogliato…da estranei a queste provincie…venuti con lo spirito di conquista che non si addice a chi doveva spargervi la luce e il progresso. A causa della loro incapacità a governare, l’amministrazione cade in mano di persone che non sapevano un’ acca e non avevano altro merito se non di godere delle grazie della consorteria.”. Cfr. Giuseppe Ressa, Il ruolo degli esuli e dei parlamentari meridionali – Il Sud e l’unità d’Italia (potete scaricare l’opera completa dal sito: https://www.ilportaledelsud.org)

[3] Cfr. Paolo Mencacci – Storia della Rivoluzione Italiana – Volume Secondo . Parte Prima – Libro Primo.

[4] “Le lettere di Tommaseo. di Gioberti, di de Sinner. di Mamiani, di Massari, di Ricciardi, di Mazzini, inviate da Parigi nel Trenta e nel Quaranta fanno frequente riferimento a colei che negli anni del suo soggiorno parigino, soprattutto i primi anni, fu molto rappresentata, molto descritta, molto nominata («princesse révolutionnaire», «heroi’ne romantique». «princesse malheureuse». «grande italiana», «belle patriote italienne». «savante Uranie», «nouvelle Bradamante», «foemina sexu. genio vir»)”. Cfr. Novella Bellucci, II salotto parigino di Cristina Belgiojoso, “princesse révolutionnaire” – (https://www.disp.let.uniroma1.it/)

[5] Frase fortunata! E pensare che il Gladstone non aveva mai visitato una galera borbonica, questo lo confessò egli stesso a Napoli nel 1888 durante una rimpatriata. Il sussidiario sui cui avete studiato la storia del Risorgimento voi – e pure io – questo non lo sapevano o facevano finta di non saperlo.

“Gladstone, tornato a Napoli nell’anno 1888-1889, fu ossequiato e festeggiato dai maggiorenti del cosi detto Partito Liberale, i quali non mancarono di glorificarlo per le sue famose lettere con la negazione di Dio, che tanto aiutarono la loro rivoluzione; ma a questo punto il Gladstone versò una vera secchia d’acqua gelata sui suoi glorificatori. Confessò che aveva scritto per incarico di lord Palmerston, che egli non era stato in nessun carcere, in nessun ergastolo, che aveva dato per veduto da lui quello che gli avevano detto i nostri rivoluzionari”. Cfr. Carlo Alianello, La conquista del sud, Rusconi Editore.

[6] Two letters to the Earl of Aberdeen, on the state prosecutions of the Neopolitan government. by W E Gladstone – Type: English : Book Publisher: London, J. Murray, 1851.

Two letters to the Earl of Aberdeen, on the state prosecutions of the Neopolitan government. by W E Gladstone – Type: English : Book Publisher: New York, J.S. Nichols, 1851.

[7] “Massari, per il momento, non ancora inserito nel gioco diplomatico, fu abile per la sua parte a cogliere a volo quella opportunità da cui poteva venir bene alla causa, e tradusse subito in bella prosa italiana quella lettere che pubblicò a Torino (Il sig. Gladstone e il governo napoletano), appena dopo che esse erano state divulgate a Londra.

Fu una lungimiranza già quasi cavourriana? Resta il fatto che questo secondo scritto sul Mezzogiorno e gli altri che seguirono, sulla polemica intercorsa tra il governo napoletano ed il Gladstone, così tempestivi e rivolti ai suoi ospiti torinesi, e di lì a tutti gli italiani e amici dell’Italia, non solo risultarono un contributo notevole alla causa risorgimentale, ampliando l’effetto di denuncia nei confronti degli screditati Borboni, ma conferirono al Massari una più precisa collocazione in quel variegato ambiente dell’emigrazione nei cui confronti opinione pubblica e governo piemontese guardavano con non grande simpatia e molte volte con sospetto.”Cfr.

[8] “Era persuaso, come sarà persuaso Cavour, che in questo seppe ben scegliere l’uomo, che la pubblicità della causa italiana e piemontese nella opinione pubblica europea fosse da curare con estrema saggezza e tempestività, e Massari non trascurò una occasione che potesse procacciar simpatie alla causa: Gladstone, gli ambienti liberali inglesi, la cultura e la diplomazia di Francia, de Mazade, con cui avvia un fitto carteggio, gli ambienti vicini a Napoleone III, il gruppo degli intellettuali fiorentini, gli emiliani, i circoli e le personalità milanesi, gli ambienti ufficiali e quelli ufficiosi, i ministri, le ambasciate, i salotti, le redazioni: quel variegato scenario entro cui si «facevano» le sorti d’Italia non è mai descritto con l’intento del narratore, eppure risalta al vivo negli scorci epistolari, nelle notazioni di diario, nelle relazioni.”. Cfr. Michele Dell’aquila, INTELLETTUALI MERIDIONALI ESULI IN PIEMONTE NEL DECENNIO 1849/59: GIUSEPPE MASSARI – La Capitanata – Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia – BOLLETTINO D’INFORMAZIONE della Biblioteca Provinciale di Foggia, Anno XX Gennaio-Giugno 1983 – Parte I – (https://www.bibliotecaprovinciale.foggia.it/)

[9] Cfr. Carmine De Marco, Cavour – dal libro “Revisione della Storia dell’Unità d’Italia” – (https://www.adsic.it/)

[10]L’inchiesta, nota come Massari – Castagnola, già più volte proposta dalla sinistra, avrebbe dovuto anche sollevare il velo di silenzio steso dal governo sugli errori e sugli abusi compiuti dall’esercito nell’opera di repressione. Nel maggio 1863 la Commissione d’Inchiesta concluse i lavori. I risultati, raccolti in una lunga relazione, vennero letti alla Camera in diverse sedute e furono pubblicati in estate sul giornale “Il Dovere”. La relazione evidenziava numerose ragioni economiche e sociali del fenomeno del brigantaggio, ma evitava di parlare delle responsabilità del governo, chiamando, invece, in causa l’attività degli agenti borbonici e clericali. In sostanza, concludeva la relazione, “Roma è l’officina massima del brigantaggio, in tutti i sensi ed in tutti i modi, moralmente e materialmente: moralmente perché il brigantaggio indigeno alle province meridionali ne trae incoraggiamenti continui e efficaci; materialmente perché ivi è il deposito, il quartier generale del brigantaggio d’importazione”. In essa si insisté sull’interpretazione del fenomeno del brigantaggio come frutto di delinquenza comune, retaggio del vecchio regime, e come l’effetto dei tentativi di riconquista delle Due Sicilie, da parte di Francesco II, con la complicità dei preti meridionali legittimisti. Come conseguenza di questa analisi, venne approvata, ad agosto, con procedura d’urgenza, la famigerata legge Pica (che rimase operativa fino al 1865) la quale aboliva qualsiasi garanzia costituzionale; in virtù di essa furono insediati otto speciali Tribunali militari, i collegi di difesa vennero assegnati agli ufficiali e si abolirono i tre gradi di giudizio che erano operativi nell’altra parte d’Italia. In pratica le condanne, che erano inappellabili, variavano dalla fucilazione ai lavori forzati (spesso a vita); venne stabilito il reato generico di “brigantaggio” in virtù del quale ogni sentenza era legittima; anche persone non partecipi alla rivolta persero la vita perché accusate ingiustamente di brigantaggio da loro nemici personali i quali, in questo modo, saldavano sbrigativamente dei conti in sospeso.“ Cfr. Stefania Maffeo, – L’unità d’Italia fece del Sud una colonia da depredare (https://www.storiain.net/)

[11] Cfr. Michele Dell’aquila, INTELLETTUALI MERIDIONALI ESULI IN PIEMONTE NEL DECENNIO 1849/59: GIUSEPPE MASSARI – La Capitanata – Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia – BOLLETTINO D’INFORMAZIONE della Biblioteca Provinciale di Foggia, Anno XX Gennaio-Giugno 1983 – Parte I – (https://www.bibliotecaprovinciale.foggia.it/)

[12] Cfr. Abstract de “Brigantaggio legittima difesa del Sud – gli articoli della Civiltà Cattolica (1861 – 1870)” – introduzione di Giovanni Turco, prima edizione 2000” –  (https://www.editorialeilgiglio.it/)

[*] Pubblichiamo una nota inviataci oggi, 31 luglio 2006, dall’amico Gernone che ringraziamo: “Sull’ascaro Massari aggiungerei che la relazione scritta a mano e poi modificata per ovvie ragioni al largo pubblico della stampa è introvabile, che la CPIB relazionò a porte chiuse in Parlamento… Massari come altri servitori meridionali della conquista piemontese morì solitario a Roma ed è sepolto a Bari. Ciao Nino”.

fonte

https://www.eleaml.org/sud/destra_sinistra/ds_massari.html

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SELVAGGI E FERRARELLI PER LA DIGNITA’ MILITARE DUOSICILIANA

Posted by on Mag 14, 2019

SELVAGGI E FERRARELLI PER LA DIGNITA’ MILITARE DUOSICILIANA

Tra i libri più validi e curati per la conoscenza reale e non retorica – dolosamente retorica da parte dei conquistatori del nostro Sud – segnaliamo  il classico studio di Roberto M. Selvaggi: “NOMI E VOLTI DI UN ESERCITO DIMENTICATO“ – GLI UFFICIALI DELL’ESERCITO NAPOLETANO DEL 1860 – 61 – Napoli, Grimaldi & C. Editori 1990.


La prefazione dell’autore che riportiamo, è un distillato del lavoro meticoloso e certosino che ha contribuito alla restituzione della dignità militare duosiciliana che la vulgata forzatamente indotta dalla educazione della Nazione Italia ha con basso profilo e grande cialtroneria definito  “l’esercito di Franceschiello”.


Accanto a questo segnaliamo il libro di Giuseppe Ferrarelli “Memorie Militari  del Mezzogiorno d’Italia”, pubblicato da Laterza nel 1911 con una prefazione di Benedetto Croce .


Ferrarelli fu un giovane ufficiale borbonico educato alla Nunziatella di Napoli, la prestigiosa accademia militare officina di soldati di gran valore; egli rappresenta emblematicamente quei militari duosiciliani che tradendo il giuramento borbonico, aderirono all’esercito italiano.


Il Ferrarelli ebbe però il raro merito rispetto alla ufficialità camaleontica meridionale di ricredersi e di rifiutare le umiliazioni e derisioni a cui i vincitori graduati piemontesi li sottoposero: si ritirò ancor giovane, denunciò “l’unificazione d’Italia che fu, negli anni seguiti al sessanta, compiuta brutalmente, non fu italiana ma francese e giacobina, senza tener conto delle diversità regionali che sono forze da non dispregiare, distruggendo a furia formazioni storiche che potevano sopravvivere e cooperare efficacemente nella nuova storia italiana…mentre prevalsero il piemontesismo e la livellazione…”.


Lo stesso Ferrarelli quantunque affiancato al criminale generale Pinelli nella campagna di guerra – invero di conquista – del brigantaggio “costretto ad assistere a fucilazioni talvolta precipitose di borghesi, chiese ed ottenne di essere trasferito a Bologna, perché disse francamente al Pinelli ch’egli si era preparato a far la guerra, ma non le fucilazioni.” (1); infine il Ferrarelli trascorse la sua vita nella scrittura e commemorazione dell’esercito borbonico e degli ufficiali educati dalla Nunziatella, seppure una sua mitezza di carattere gli impedì di denunciare in modo netto talune responsabilità degli stessi nella umiliazione di una tradizione militare meridionale, sarebbe stato d’altro canto chiedergli troppo,  egli stesso faceva parte della cordata…

(1) Cit. la prefazione di Benedetto Croce al libro “Memorie Militari…”  e “PAGINE SPARSE” DI Benedetto Croce “Giuseppe Ferrarelli” pp.193-195, Ricciardi Editore Napoli, MCMXLIII.  Croce era nipote di Ferrarelli.




Dal testo di Roberto M. Selvaggi


…Il 20 maggio 1860, Giuseppe Garibaldi, con un migliaio di volontari, sbarcava a Marsala e iniziava la trionfale marcia verso Napoli, dove sarebbe entrato, il 7 settembre 1860, meno di cento giorni più tardi.  Per fronteggiare l’aggressione, il governo napoletano poteva contare sulla prima flotta italiana e su di un esercito di più di cinquantamila uomini.

La truppa, ben addestrata, fedele alla dinastia, era desiderosa di combattere e soprattutto di vincere. L’ufficialità,  a cominciare dalla classe dei generali, veri responsabili dello sgretolamento dell’esercito,  sia in Sicilia che in Calabria, era profondamente divisa fra coloro i quali ritennero di dover contribuire alla disfatta, per agevolare la conquista garibaldina, e fra quelli che ritennero di dover difendere onorevolmente l’indipendenza del regno meridionale e la dinastia regnante.

Nel mezzo di queste due posizioni si collocò una nutrita parte di loro, che non fece nulla, se non attendere passivamente gli eventi per poi decidere, nel momento più opportuno, di passare con il cavallo vincente. in Sicilia, a cominciare dal primo impatto con Garibaldi a Calatafimi, dove il decrepito generale Landi, non impegnò che una  piccola parte delle sue forze, rinunciando alla vittoria sin dal primo momento, pur di garantirsi la ritirata verso Palermo, i soldati si batterono bene quando furono guidati  da ufficiali coraggiosi, come a Catania ed a Milazzo.

I generali non furono all’altezza del compito e, con i primi insuccessi, iniziò a serpeggiare il disfattismo strisciante che  ebbe il suo culmine nello sfacelo delle truppe napoletane in Calabria.

Nel giugno del 1860,  Francesco II concedeva la costituzione perdendo il controllo dell’armata che passava al  ministero della guerra affidato al generale Giuseppe Salvatore Pianell. A lui spettò il compito di organizzare la difesa delle province continentali.

La sua condotta ambigua e  oscillante, la scelta dei comandanti di brigata, la dislocazione dei reparti, i meno affidabili dell’esercito, fece sì che la resistenza non ci fosse affatto e

Garibaldi, in sole diciassette giorni, poté giungere indisturbato a Napoli.

Francesco II decise, riprendendo le sue prerogative, di abbandonare la capitale e la difesa sulla linea  di Salerno. Lo fece per un motivo preciso ignorato dagli storici. Volle poter tentare  un’ultima resistenza, potendo contare su una ufficialità fedele e decisa a giocare le ultime  carte con coraggio e con valore.

Non a caso affidò il comando dell’esercito, forte ancora di  trentamila uomini bene equipaggiati, a un generale, forse non dotato di particolari qualità strategiche, ma sicuramente devoto alla dinastia ed al paese.

Il 7 settembre fu l’ora della  verità per l’ufficialità napoletana e molti preferirono dare le dimissioni dal servizio, molti passarono con Garibaldi e la maggior parte si riunì sulle rive del Volturno dove, con  spirito di sacrificio, affrontò valorosamente l’ultima campagna che si concluse con l’eroica  difesa di Gaeta, chiudendo con onore l’ultima pagina della sua storia.

La storia militare di  quegli ufficiali ebbe termine con la res di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, mentre  iniziava la diaspora voluta dai piemontesi che si comportarono da conquistatori e non da  italiani.

Soltanto i due generali Pianell e Nunziante vennero immediatamente ammessi nell’esercito italiano col grado corrispondente a quello che avevano nell’esercito napoletano.

Tutti gli altri vennero affidati a uno scrutinio selettivo, a seconda del loro grado di italianità o, per meglio dire, di lealtà verso la deposta dinastia. Ad essi  vennero riconosciuti i gradi avuti fino al 7 settembre del 1860, quasi che i successivi atti  di valore e la fedeltà ad un giuramento, fossero motivo di biasimo e di punizione.

Fu così  che uomini valorosi giunti ad aver meritato fino a due promozioni, al termine dell’assedio di  Gaeta, dovettero scegliere tra il congedo e l’umiliante ammissione nell’esercito italiano con il vecchio grado.

Ufficiali di giovane età vennero messi a riposo, non senza averli prima costretti a giurare fedeltà al nuovo governo, in maniera che, se avessero  preso le armi o la semplice parola contro il nuovo ordine di cose, sarebbero stati giudicati da un tribunale militare. Molti varcarono così le porte delle carceri militari del Piemonte  per il solo motivo di essersi rifiutati di prestare giuramento.

Molti subalterni si dettero  alla macchia e parteciparono alla resistenza armata, comunemente battezzata “brigantaggio”,  rischiando la vita davanti ad un plotone di esecuzione. Molti dovettero condurre una vita di  stenti e di miseria.

Quelli poi che furono ammessi come effettivi nell’esercito italiano furono sottoposti allo scherno ed al sarcasmo dei colleghi piemontesi e furono inviati in lontane guarnigioni dell’alta Italia o, peggio, furono destinati alla lotta al “brigantaggio”, trovandosi costretti a combattere contro i propri concittadini per poter  sopravvivere.

A questo amaro destino non si poterono sottrarre nemmeno quelli che avevano  contribuito fattivamente alla conquista garibaldina. Non pochi furono i casi di suicidio e  di espulsione dall’esercito per “viltà” nella lotta al “brigantaggio”. Le istituzioni militari dell’antico regno, come quelle civili, vennero spazzate via dal governo unitario e  con la distruzione sistematica e spesso violenta della memoria, sull’esercito napoletano  cadde un velo d’oblio. 

E’ stato difficile persino poter ricostruire i nomi dei caduti nelle campagne del 1860,  perché ai napoletani non fu consentito di onorarne la memoria. Senza l’acquisizione da parte  dello stato italiano, in tempi ancora recenti, dell’archivio di Francesco II, questo libro  non avrebbe potuto essere scritto perché, il lavoro di distruzione fu meticoloso e completo  nel periodo successivo all’unità.

E’ utile ricordare che negli anni che vanno dal 1861 al 1870, nelle province meridionali, era sufficiente avere in casa un ritratto dei sovrani spodestati o semplicemente una medaglia o una uniforme, per non parlare di una sciabola, per essere processati e incarcerati.

Con un paziente lavoro anagrafico e di ricerca ho cercato di riscrivere quella storia le biografie di quei militari dimenticati, sia di quelli che dettero il loro contributo alla formazione dello stato unitario che di quelli che ritennero di dover difendere l’autonomia meridionale combattendo fino all’ultimo.

La ricerca non ha pretese letterarie e scientifiche ma potrà essere di valido aiuto a chi vorrà approfondire la storia della fine del Regno di Napoli….

Sebastiano Gernone

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La cavalcata della Banca Nazionale sarda

Posted by on Apr 23, 2019

La cavalcata della Banca Nazionale sarda

Nel 1859 la Banca contava due sedi, Genova e Torino, e  cinque succursali: Alessandria, Cagliari, Cuneo, Nizza e Vercelli. Quell’anno, già prima che gli austriaci fossero battuti da Napoleone III, il capitale sociale venne portato a 80 milioni, in modo da concederne un quinto al padronato lombardo[1].


I trentamila caduti a Solferino e San Martino erano ancora insepolti, quando fu  istituita la sede di Milano. La minaccia del dissesto, conseguente al run dei possessori di banconote, si dissolse fra i vapori agostani della Palude Padana, mercé l’oro che i lombardi portarono in dote.


Non so se Wagner si sia mai interessato alle banche, certo è che il dilagare della Banca Nazionale per le cento città d’Italia ricorda l’impeto incalzante de La cavalcata delle Valchirie. Bombrini corse più veloce dei bersaglieri. Tra il giugno del 1859 e il settembre 1860 venne praticamente realizzata  l’occupazione dell’Emilia, delle Romagne, dell’Umbria, delle Marche. Crollate anche le Due Sicilie, furono immediatamente istituite altre due sedi, Napoli e Palermo. Ma non la Toscana.


Nel 1860, Bombrini inaugurò succursali ad Ancona, Bergamo, Bologna, Brescia, Como, Messina, Modena, Parma, Perugia, Porto Maurizio (l’attuale Imperia) e Ravenna;

  • nel 1862 s’insediò a Catania, Cremona, Ferrara, Forlì, Pavia, Piacenza, Reggio Calabria e Sassari;
  • nel 1863 a Bari e Chieti;
  • nel 1864 all’Aquila, Catanzaro, Foggia, Lecce e Savona.

Nel 1865, i toscani scesero a patti, cosicché Bombrini poté aprire  la sede di Firenze. Quell’anno inaugurò succursali anche ad Ascoli Piceno, Carrara, Lodi, Macerata, Pesaro, Reggio Emilia, Siracusa e Vigevano.


Nel 1866 s’insediò a Caltanissetta, Cosenza, Girgenti (Agrigento), Novara, Salerno, Teramo e Trapani.


Nel 1867, acquisito il Veneto ai Savoia, comprò una banca veneziana e la trasformò nella propria sede di Venezia. Aprì inoltre le succursali di Padova, Mantova, Udine e Verona. Al Sud inaugurò la succursale di Avellino. La penetrazione locale proseguì dopo l’annessione di Roma (1870).


Una diffusione così ampia, ad opera di una banca privata, che si era messa in campagna  con appena cinque milioni d’oro in cassa, si spiega soltanto con la fanfara dei bersaglieri. Questa espansione privata, e tuttavia munita del sigillo dello Stato, fu una cosa da Compagnia delle Indie, indegna di un Regno che si autoproclamava fondato sulla  volontà della nazione, oltre che sulla  grazia di Dio.


Evidentemente in quel momento il Sud era coperto di nubi e sfuggiva alla vista e alla grazia di Dio! Per giunta, la consorteria  cavour-bombrinesca inchiodò al remo gli altri istituti di credito esistenti, alcuni dei quali –  sicuramente il Banco delle Due Sicilie e la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde – avrebbero potuto fare d’essa un solo boccone. Persino l’accomodante Di Nardi è costretto ad ammettere che


 “l’espansione [della Banca Nazionale] non avvenne senza contrasti e difficoltà. Negli anti­chi Stati italiani esistevano altre banche […] e potenti isti­tuti di credito radicati nella tradizione locale, che mal volentieri vedevano l’insediamento nelle loro città di un istituto concorrente, che sembrava [sic, zucchero patriottico!, ndr] godesse appoggi e protezioni del governo. Alcune di quelle banche si arresero subito alla rivale piemontese, convinte di non poter reggere a lungo alla lotta con essa sulle stesse piazze. Fu il caso della Banca Parmense e della Banca delle Quattro Legazioni a Bologna, entrambe [da poco, ndr] autorizzate all’emissione di biglietti, che con­cordarono presto la loro fusione con la Banca Nazionale, per cui già nel marzo 1861 le rispettive sedi erano trasformate in succursali della Banca Nazionale. Atteggiamento di resistenza assunsero invece la Banca Nazionale Toscana ed i banchi meridionali. A Firenze la Banca Nazionale ci andò solo nel 1865, quando la sede del governo sì trasferì nella capitale toscana. Nelle provincie meridionali si insediò più presto, ma dovè vincere forti resistenze locali e procedè con ritardo nella fondazione di alcune succursali, per le precarie condizioni  dell’ordine pubblico in quelle provincie, che per alcuni anni furono infestate  dal brigantaggio borbonico” (Di Nardi, pag. 46 e sgg.)[2].

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 Come annotato da Di Nardi nel passo riportato, la Banca Nazionale entrò in Toscana soltanto nel 1865, cioè sette anni dopo l’annessione del Granducato, insieme al re, al governo e al parlamento, allorché la capitale d’Italia venne trasferita da Torino a Firenze. La città dei Bardi e de’ Medici fu l’ultima e sofferta conquista di Bombrini prima della terza guerra cosiddetta d’indipendenza e della conquista del Veneto.


In precedenza i toscani, avendo capito tutto, non avevano permesso che aprisse una delle sue prosciuganti sedi nella loro capitale e delle succursali nelle loro città, insofferenti di dominio forestiero. I banchieri toscani erano consapevoli che per loro sarebbe stato impossibile resistere all’aggressione di un concorrente ammanicato con lo Stato, perciò si difesero sul terreno politico.


Gli storici patrii non sono riusciti a tenere nascosto il contrasto tra toscani e piemontesi. E’ persino divertente il visibile affanno per cercare di addolcirlo con parole melliflue. Non si possono offendere i toscani, perché nessuno in Italia è più italiano dei toscani, ma neppure si può dire male dei piemontesi, essendo essi i padri della patria. Tuttavia fra le contorsioni lessicali, emerge chiaramente che qualcuno, capace di imporre la sua volontà persino al colendissimo e venerato Cavour, vietò a Bombrini di calcare una terra rinascimentale, sacra a ogni forma di usura. E all’usura come opera d’arte.


Infatti la Toscana, fra tante primogeniture, vanta quella  d’aver tenuto a battesimo  la banca moderna. Tuttavia, spenti gli antichi splendori, una sua banca d’emissione era arrivata  ad averla  soltanto nel 1858: la Banca Nazionale Toscana, che era il  prodotto della fusione tra la Banca di Sconto di Firenze e la Banca di Livorno. Plebano e Sanguinetti, gli storici di cose finanziare più accreditati dell’epoca, considerano la Nazionale Toscana una copia della Nazionale Sarda (pag. 114), che l’aveva preceduta di un buon decennio.


Si tratta di un giudizio che mi appare tarato di sabaudismo, in quanto sorvola sul fatto che i biglietti della Banca Toscana erano garantiti dallo Stato, allo stesso modo delle fedi di credito duosiciliane; cosa che non è di poco conto, se si ha presente la funzione sociale e politica della  dalla Banca ligure-piemontese, consistente nel drenaggio del circolante metallico.   


Qualche anno dopo la morte di Cavour, si mise a fare la ruota del gran ministro delle finanze il napoletano Giovanni Manna, uno dei tanti utili idioti che il sistema padano andava mobilitando al suo servizio. E’ probabile che alquanto ingenuamente questi considerasse l’Italia-una una specie di Tavola Rotonda di tutti gli italiani, cosicché immaginò di poter creare un istituto unico d’emissione, più o meno controllato dal padronato di tutte le regioni.


Ovviamente Bombrini, sulle idee dei ministri, specialmente se napoletani, ci faceva la pipì. D’altra parte, piegata la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde, non aveva altro avversario degno d’essere veramente temuto se non il Banco delle Due Sicilie, al cui confronto la Banca Toscana era un ringhioso botoletto aizzato da Ricasoli e dal suo avido contorno. I giochi di Bombrini ormai erano fatti: Firenze si sarebbe data per amore o per altro, e Napoli, prima o poi, si sarebbe arresa per fame. Comunque, alle insistenze del ministro Manna il governatore della Nazionale non poté opporre un aperto rifiuto.


Fu così che tra la Banca Nazionale ex sarda e la Banca Nazionale Tosacana si arrivò a un reclamizzato accordo. Manna portò in senato il  disegno di legge governativo.  Dopo lunghe e ampollose discussioni, il senato lo approvò, ma, quando passò alla camera, questa lo lasciò dormire fra le altre scartoffie, finché non sopraggiunse la scadenza della legislatura.


In apparenza, sia alla camera sia al senato, la maggioranza era contraria alle bramosie della Banca Nazionale; nella sostanza era Bombrini a fomentarle perché  si perdesse tempo, in attesa che la Banca Toscana gli cadesse in grembo come una pera matura. Bombrini voleva mangiare, e non accordarsi sul menù.


Tra attacchi e resistenze, la partita tra Juventus e Fiorentina si protrasse dal 1859 al 1865 – cioè un incalcolabile numero di tempi supplementari. Alla fine la cosa ebbe la sua naturale conclusione: il governo, spostando la capitale del Regno da Torino a Firenze, pretese che la sede centrale della Banca bombrinesca (che era sempre una banca privata) lo seguisse nella nuova capitale.


Bombrini assorbì la Banca Toscana in cambio di 15 milioni di azioni della Banca sarda: 10 a copertura del capitale sociale e 5 come regalia, per tappare la bocca ai verbosi discendenti di Savonarola.

fonte https://www.eleaml.org/sud/den_spada/banca_nazionale.html

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La tratta degli italiani

Posted by on Mar 21, 2019

La tratta degli italiani

Alla fine degli anni ’60 vi erano ufficialmente, sparsi attraverso il mondo, 6 milioni di individui in possesso di passaporto italiano.


Di questi, oltre 2,4 milioni vivevano in Europa: 900 mila in Francia, 700 mila in Svizzera, 400 mila in Germania, 250 mila nel Benelux, 150 mila in Gran Bretagna. In realtà, il numero degli italiani all’estero era allora sensibilmente superiore alla cifra ufficiale, in quanto da essa erano stati esclusi tutti coloro che, nel corso degli anni, avevano rinunciato o dovuto rinunciare alla propria cittadinanza originaria. Innumerevoli quindi sono stati gli italiani costretti a prendere la via dell’esilio per cercare, all’estero, quel pane che veniva loro negato in patria.


Ciò avvenne precisamente da quando, conquistato dai piemontesi il Regno delle due Sicilie, cominciò in nome dell’Unità d’Italia, il pesante saccheggio del più vasto, più potente e più ricco Stato della Penisola; di quello Stato che poteva vantarsi di un’amministrazione pubblica modello e di un patrimonio aureo di poco inferiore al mezzo miliardo di lire oro, più che doppio di quello complessivo degli altri Stati d’Italia. Stato pacifico che, tra l’altro, non conosceva la coscrizione obbligatoria e la leva in massa, e che si era posto all’avanguardia del progresso tecnico; a esso i Borboni avevano dato la prima ferrovia in Italia, la prima nave a vapore, il primo telegrafo elettrico (sia pure sperimentale) e, alla sua capitale, l’illuminazione a gas, con 10 anni d’anticipo sulle altre città della Penisola. Stato dove non attecchì la grande usura, che vide anzi fallire il ramo dei Rothschild che si era stabilito a Napoli.


L’Unità d’Italia, per il Meridione, significò il crollo della sua agricoltura e quello delle sue industrie -già più sviluppate e floride di quelle del Nord – con conseguenze che si fecero sempre più gravi e tragiche per le popolazioni.


L’Unità portò anzitutto alla completa rovina dei contadini, considerati sino alla conquista legalmente inamovibili dalle terre feudali, ecclesiastiche e comunali da loro coltivate, nonché proprietari di quelle coloniche; contadini praticamente esenti da doppie imposizioni e tributi, e da qualsiasi servitù militari.


L’incameramento di queste terre, in ossequio ai nuovi principî, da parte del demanio piemontese, la loro messa in vendita, il loro acquisto, furono il trionfo degli speculatori, degli usurai, dei manipolatori di ogni specie, locali e piovuti dal Nord, i quali – sotto la protezione di un esercito di occupazione forte di 120 mila uomini e che, in 10 anni, bruciando paesi e paesani, massacrò 20 mila contadini in lotta per il pane, gabbandoli per briganti -diventarono, con l’ausilio di leggi non meno infami di coloro che le applicavano, i padroni inesorabili del contadino.


Questi, messo nell’impossibilità materiale di pagare le tasse e i balzelli imposti da un Piemonte in eterno disavanzo finanziario, si vide portare via le scorte, gli attrezzi, la capanna, il campo; e ciò non da un feudatario “spietato”, ma dal borghese “liberale”.


Così il contadino dell’ex reame delle Due Sicilie, il quale dal 1830 al 1860 aveva fruito di una condizione economica assai migliore di quella dei lavoratori della terra del resto della Penisola, si vide con l’Unità depredato addirittura anche del lavoro.


E questo in quanto i nuovi proprietari della terra – introducendo colture industriali (agrumi e ulivo) in sostituzione di quelle che coprivano il fabbisogno alimentare e tessile delle popolazioni locali, contadine e cittadine – non ebbero che una preoccupazione: quella di realizzare sempre maggiori profitti finanziari, pure a totale scapito del lavoro (l’industrializzazione di quei tempi!).


Così le campagne del Mezzogiorno, sacrificate all’industrializzazione agricola locale e tradite dalla politica per lo sviluppo delle manifatture del Nord, non furono più nella possibilità materiale, come lo erano state nei secoli, di assicurare alla popolazione del Sud, anche delle città, neppure la propria alimentazione. E fu lo sfacelo [1]. Si interruppe in conseguenza – tra l’altro – la corrente migratoria della mano d’opera, che sino allora si era spostata dal Nord al Sud, mentre i contadini meridionali, cacciati per fame dalle loro terre, furono costretti alla fuga verso il Nord e l’estero.


Fenomeno che non tardò a trasformare l’intera Penisola in una immane colonia di sfruttamento umano, dove nuovi negrieri razziavano ogni anno, non più africani, ma un crescente contingente di disperati bianchi, il cui numero salì progressivamente da 107 mila – media annua del periodo 1876 -1880 – a 310 mila, media annua del periodo 1896 -1900, a 554 mila, media annua del periodo 1901-1905, a 651 mila, media annua del periodo 1906-1910, a 711 mila nell’anno 1912, a 872 mila nell’anno 1913, anno di vigilia della prima guerra mondiale, che troncò questa tratta, sino alla fine delle ostilità, per fornire carne da cannone, in abbondanza, alle offensive, negazione della strategia, di un altro piemontese.


Nessun documento meglio di queste cifre potrebbe illustrare i risultati economici, sociali e umani della politica della borghesia italiana “liberale” di quegli anni. Borghesia che doveva trovare in Giovanni Giolitti il suo personaggio più rappresentativo, diventato direttamente o – per pochi mesi – tramite i suoi luogotenenti Fortis e Luzzato, dal 1903 al marzo 1914 capo del governo e, attraverso la burocrazia e la corruzione, padrone assoluto del Paese.


Politica che costrinse, nell’ultimo biennio dell’era giolittiana, oltre un milione e mezzo di italiani a emigrare; più della metà dei quali oltre Atlantico, verso l’inferno delle fazende brasiliane, delle miniere e ferriere della Pennsylvania, dei mattatoi di Chicago, degli angiporti e dei bassifondi di Buenos Aires e di New York; caricata per maggior utile degli armatori del Nord, in condizioni di poco meno disumane di quelle fatte all’inizio del secolo scorso dai negrieri agli schiavi portati sui mercati delle due Americhe.


[1] Codificato dalle leggi protezioniste del 1887 a favore delle industrie del Nord.

Fernando Ritter

fonte https://www.eleaml.org/sud/den_spada/tratta_degli_italiani.html

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