Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

LA VERA MODERNITA’ E’ IL PASSATO

Posted by on Mar 12, 2019

LA VERA MODERNITA’ E’ IL PASSATO

Non c’è nulla di più moderno che rivolgersi al passato. Niente di nostalgico, né di retrivo. Anzi. Appena si scrosta, sia pure di poco, la cortina fumogena di una martellante propaganda, le scoperte sono persino sorprendenti. Nel 1890 i Liberisti del Settentrione, fortemente unitari, chiesero ed ottennero il protezionismo.

Il pretesto fu l’importazione nell’allora Regno d’Italia di gelsi cinesi a basso costo?! Gli stessi ambienti contrari al sano protezionismo attuato dai Borbone (applicarono una politica Keynesiana “ante-litteram”) per favorire lo sviluppo del Sud al riparo dall’invasione di merci estere, si convertirono a tale pratica, applicandola peraltro in modo tale da soffocare del tutto l’economia del Sud. La fiorente agricoltura fu completamente rovinata. Oggi chi chiede il protezionismo contro le merci cinesi?

Il più grande e moderno opificio nell’Italia pre-unitaria? A Pietrarsa, nel Napoletano (mille addetti, settemila nell’indotto). Il Sud, nel settore tecnologico era all’avanguardia!

La buona finanza? Nel Sud. Il Regno aveva finanze solide, garantita da un vasto risparmio e da un’adeguata riserva presso il Banco di Napoli, Istituto di emissione. Le finanze piemontesi, per il malgoverno e le continue guerre, erano alla bancarotta.

I coraggiosi e gli impavidi?

Francesco II e Maria Sofia delle Due Sicilie non fuggirono davanti agli invasori, ma difesero l’onore della dinastia e dei meridionali a Gaeta.

I Sabaudi invasero militarmente il Sud, senza dichiarazione di guerra. Il diritto bellico degli antichi romani, nostri avi, indicava tali ipotesi (e le guerre civili) col termine “latrocinium” (brigantaggio): chi furono, dunque, i veri “briganti”?

Le truppe piemontesi, per reprimere il moto, non esitarono a compiere massacri di massa, fucilazioni senza un giudizio, l’incendio di centinaia di ,villaggi, il genocidio dei soldati fatti prigionieri dopo la resa di Francesco II (Furono rinchiusi in lager lombardi e piemontesi da cui pochi uscirono vivi).

I giornali inglesi del tempo affermarono che in soli due mesi, dall’ottobre al dicembre 1861, i bersaglieri passarono per le armi quasi novemila resistenti.

Franco Molfese elenca trecentoottantotto bande di guerriglieri composte da ex ufficiali, da ex soldati borbonici, da ex garibaldini disillusi, da contadini ed artigiani, ognuna delle quali contava da quindici a centocinquanta uomini.

Basterà fare una media per capire che non si trattò di brigantaggio, bensì di una resistenza armata ben più impegnativa della guerra partigiana del 1944/45.

Ciò, senza contare i fiancheggiatori. Per domarla, il Piemonte impegnò parecchie divisioni, per un totale di centoventimila uomini, più di quanti ne schierò sul fronte veneto nella guerra contro l’Austria del 1866.

Antonio Gramsci, insigne intellettuale, era di origine meridionale. Le sue analisi e il suo pensiero, in particolare contro il fascismo e lo stalinismo, s’inquadrano nella sua complessa personalità che ben conosceva le problematiche meridionali (il nonno, Don Gennaro, fu capitano della Guardia Borbonica).

Giuseppe Garibaldi comprese ben presto la reale situazione. Nel 1868 scriveva:

“…gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato odio…”.

Anita Garibaldi, pronipote del generale, ha dichiarato nel 1966: “…Garibaldi capì a che razza di persone stava consegnando l’Italia”.

Si prefigurò le conseguenze dannose dell’insediamento della gretta classe dirigente sabauda nel Regno delle Due Sicilie…

Napoli era la seconda città d’Europa per importanza culturale dopo Parigi: al Sud c’era lavoro, industria e cultura…I fatti gli hanno dato, purtroppo, ragione.

I Sabaudi hanno saccheggiato le immense ricchezze del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia… Da quei saccheggi cominciò la povertà del Sud…”

Quindi ha aggiunto: “…dopo il risorgimento, l’Italia venne distrutta dai funzionarietti e dai burocrati piemontesi che calarono da Torino…”

Piero Ottone, già direttore de “Il Corriere della Sera”, ha recentemente scritto: “…ho espresso, nel passato, il parere che sarebbe stato meglio se l’Italia fosse stata unificata dai Borbone piuttosto che dai Savoia… la dinastia napoletana era più cosmopolita di quella piemontese e Napoli era città, già nell’ottocento, di più largo respiro di Torino…

Basta osservare il risultato e quel che è successo”.

E’ singolare che un autorevole “nordista” (e non solo) sia pervenuto a tali clamorose conclusioni, mentre troppi meridionali (anche quelli mandati a guerreggiare con le scarpe di cartone nei fronti più lontani) ancora si abbeverano a miti del tutto inesistenti.

Giorgio Ciccotti

Unione Autonomista Alto Sagittario – Scanno

fonte https://www.eleaml.org/sud/den_spada/vera_modernita.html

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LA RESISTENZA DUOSICILIANA

Posted by on Feb 14, 2019

LA RESISTENZA DUOSICILIANA

Proprio con la farsa dei plebisciti scoppiarono con grande violenza contro gli invasori piemontesi le prime rivolte, che si propagarono a macchia d’olio in tutto il Sud. Fu una vera e propria guerra che durò piú di dieci anni ed in cui le truppe piemontesi compirono tanti delitti e tali distruzioni che non si erano mai visti in alcuna altra guerra. Le forze militari impegnate dai piemontesi furono di circa 120.000 uomini, ai quali vanno aggiunti 90.000 militi della collaborazionista guardia nazionale. Queste forze, verso il 1865, comprendevano circa 550.000 uomini, quanto gli Americani nel Vietnam.

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Pino Aprile risponde alla nostra domanda sulle carte del brigantaggio

Posted by on Feb 8, 2019

Pino Aprile risponde alla nostra domanda  sulle carte del brigantaggio

Caro Errico,

naturalmente, condivido perfettamente la proposta e qualsiasi altra iniziativa possa rendere facilmente e totalmente consultabili i documenti, di qualsiasi tipo, in grado di far luce (quella possibile) sulla nostra storia. L’idea che gli italiani siano un popolo bambino, incapace di tollerare la verità, perché immaturi e potrebbero farsi male, è un’idea utile solo a chi vuol continuare a trattarli da bambini, per meglio coltivare i propri affari. Al contrario, questa continua negazione di verità e consapevolezza porta prima alla delusione, poi al disinteresse, distruggendo le ragioni della convivenza (e si vede…).

Sciascia diceva che siamo un Paese senza verità; e questo vale per tutte le vicende fondanti della nostra storia, il che vuol dire pretendere di fondare la nostra identità su una serie di menzogne e versioni ammaestrate: vale per il Risorgimento, per le nostre avventure coloniali, per Portella delle Ginestre, per la strategia della tensione, per gli anni di piombo e il delitto Moro, per la P2 e le connessioni fra stato e antistato mafioso e massonico (fra cui cominciano persino a cadere le distinzioni).

Negli archivi concepiti come carcere per la verità è imprigionata la nostra maturità democratica. Apparentemente, tutto è a portata di mano; nei fatti tutto è difficile, contorto, lontano, dispendioso. La Germania è risalita dal suo inferno nazista scarnificandosi dinanzi al mondo intero; negli Stati Uniti, con il Freedom of Information Act, i segreti più segreti vengono divulgati, dall’omicidio Kennedy al Viet Nam. Mentre noi discutiamo di come rendere davvero e agevolmente accessibili documenti di un secolo e mezzo fa.

Quindi, ben vengano tutte le proposte che portano luce nei sotterranei bui della nostra memoria. Possiamo crescere e davvero unirci, solo sapendo. E discutendone, sapendo.

A presto

Pino

DOMANDA PER PINO APRILE

Io penso che lei abbia conseguito col successo del suo libro un notevole peso contrattuale rispetto ai media, mi permetto di suggerire una richiesta che dovrebbe inoltrare in tutti gli incontro che va facendo in Italia:

Il passaggio di tutte le carte del brigantaggio dall’USSME all’archivio di stato e la loro pubblicazione online con relativi codici di decrittazione se necessario per i dispacci militari.

Io personalmente sono rimasto molto colpito da queste parole

L’ultima delusione, poi, ci è data dall’Ufficio storico del Corpo di Stato maggiore; il quale pure aveva destato nel pubblico italiano la speranza della storia. Invece è riuscito un maggiore inganno, perché le sue narrazioni, assumendo per documenti quanto nel tempo si è scritto di adulterato o di addirittura inventato, dimostrano che anche esso ha il fine di consolidare come storia il doppio uragano di glorificazioni al Nord e denigrazioni al Sud, doppio uragano che col pretesto politico non è che sfruttamento economico.

https://www.eleaml.org/sud/stampa2s/razzano_settembrini_2010.html

e se penso che queste parole risalgono a circa 70 anni prima degli articoli sul Calendario del Popolo e su Storia illustrata e della conseguente interrogazione di Angelo Manna c’è da restare allibiti.

Il fascismo prima la Italia resistenziale poi hanno proseguito nella opera di occultamento della verità iniziata dai cosiddetti padri della patria – padani e meridionali.

La ringrazio della risposta,

Mino Errico

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Polibio redivivo!

Posted by on Feb 2, 2019

Polibio redivivo!

Ho appena letto il nuovo msg [in cui si parla di un recente testo che minimizzerebbe l’entità degli eccidi di Pontelandolfo e Casalduni – N d. R.] della rete delle Due Sicilie, ecco come zittire il “grande studioso” !!!

E’ inutile citare uno storico contemporaneo per smentire un altro storico (o presunti tali), se non conoscessi le fonti dell’evento storico in questione, penserei “‘a parola mia, contra ‘a toia, chissà addò stà a’ verità!”

Ma a me risulta, benché non abbia mai scritto alcun libro di storia, che la storia la si fa consultando i documenti dell’epoca che vogliamo trattare, valutandone preventivamente l’attendibilità. Qui riporto alcune testimonianze dirette degli eccidi di Pontelandolfo e Casaladuni. Sottolineo che Melegari, Negri e Margolfo avevano tutto l’interesse a minimizzare l’accaduto, ma se pure avessero raccontato la verità oggettiva, il nostro “Polibio” avrebbe scritto una marea di menzogne, giacché il bersagliere Margolfo ammette: subito incominciato a fucilare preti e uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava”.

Nemmeno un prete fu ucciso ?  Caro Polibio redivivo, credo proprio che il nostro abbia personalmente fucilato almeno un prete… in fondo lo ammette candidamente !!!

 “Briganti arrendetevi” Anonimo (Carlo Melagari), Edizioni Osanna Venosa, 1996, pp. 22-33.

[…] “quando si parlava e si leggeva sui giornali che gli abitanti di Casalduni e Pontelandolfo, unitisi a 400 bri­ganti, dopo le più crudeli sevizie, avevano infamemente massacrato una mezza compagnia e ufficiali del 36°reggimento di linea.”

[…] “Persuaso che nulla poteva accadere d’importante, alla sera mi recai all’adiacente teatro San Carlo, prevenendo il capi­tano più anziano che, in caso di bisogno, mi avesse fatto chiamare. …e mi com­piacevo di poter assistere ad un magnifico spettacolo, come se ne soleva rappresentare in questo gran teatro; la nume­rosa e buona orchestra cominciava ad accordare gli strumenti, quando, volgendo lo sguardo al fondo della platea, vidi un tenente del battaglione che, alzando la destra, indi­cava volere parlarmi. Lasciata la poltrona, l’incontrai nel vestibolo:  “ II generale Cialdini, mi disse, la vuole subito al Comando”.

[…] “Accorsi e trovai invece il generale Piola-Caselli, che, un poco contrariato per il mio ritardo, mi riceve con queste parole: « Ella avrà senza dubbio udito parlare del doloroso ed infame fatto di Casalduni e Pontelandolfo; orbene, il generale Cialdini non ordina, ma desidera che di quei due paesi non rimanga più pietra sopra pietra… Ella è autorizzata a ricorrere a qualun­que mezzo, e non dimentichi che il generale desidera che siano vendicati quei poveri soldati, infliggendo la più seve­ra punizione a quei due paesi. Ha ella ben capito?“

“Generale, risposi io, so benissimo come si devono interpretare i desiderii del generale Cialdini: ho fatto la campagna della Crimea e quella del 1859 sotto i suoi ordi­ni, e so per prova come egli sia uso a comandare e ad essere ubbidito”. Ciò detto m’accomiatai e ritornai al teatro, ove potei ancora godere di due atti degli Ugonotti e del grande ballo“[…]

“Spuntava appena il giorno che il battaglione si trovava schierato di fronte a Casalduni. Immantinenti ordinai di circondare il paese, posto in basso, e di aprire il fuoco di fila fino al mio segnale di cessate-il-fuoco; quindi d’entrare, baionetta in canna, di corsa, compagnia per compagnia per i diversi sbocchi, onde concentrarsi sulla piazza del paese vicino alla chiesa. Le campane suonavano tristemen­te a stormo, pochi colpi di fucile partivano dai campanili e dai terrazzi…. Fui sorpreso di trovare le vie deserte ed un silenzio sepolcrale nelle case. I briganti e gli abitanti, avvertiti dell’avvicinarsi dei bersaglieri….

Era giunto finalmente il momento di vendicare i nostri compagni d’armi, era giunto oramai il momento del tre­mendo castigo. Chiamati a me gli ufficiali delle tre com­pagnie che si trovavano riunite sulla piazza, ove s’ergeva anche la casa del Sindaco, ordinai loro di far atterrare le porte e di appiccare il fuoco alle case, a cominciare da quella del Sindaco. In breve dense nubi di fumo s’elevavano al cielo e l’incendio divampava in diverse parti del paese.

Nella casa del Sindaco già le fiamme, irrompendo dai vani del pian terreno, a guisa di serpenti s’allungavano ed invadevano il piano superiore. Alcuni bersaglieri, udendo strepiti e nitriti, entrati nella scuderia ne tiravano fuori due cavalli furiosi dallo spavento; altri, saliti al primo pia­no, buttavano giù dalle finestre bandiere borboniche, uni­formi, razioni di pane, armi, e fra queste i fucili con le cinghie bianche insanguinate appartenenti ai poveri solda­ti sopraffatti a tradimento e trucidati barbaramente.”

[…] “ L’incendio continuava l’opera sua di distruzio­ne e da una casa si propagava facilmente all’altra “[…]

Abstracts, presi dal web, tratti da: L’invenzione dell’Italia unita di Roberto Martucci

[…] “All’alba del 14  agosto  1861  i soldati, che nel frattempo  hanno  preso  posizione sulle alture circostanti, ricevono l’ordine di aprirsi a ventaglio per investire da più lati l’abitato, con i suoi cinquemila abitanti immersi nel sonno. Come ci conferma il diario del bersagliere Margolfo, i soldati avevano ricevuto l’ ordine di “entrare nel comune di Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno i figli, le donne e gli infermi ed incendiarlo” […]

[…]

 «Entrammo nel paese – scrive il bersagliere Margolfo – subito incominciato a fucilare preti e uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava».

Come non manca di ricordare, assaporandone empio il ricordo, l’ufficiale Angiolo De Witt che, pur non  essendo  presente ai fatti, ricostruisce la strage grazie al racconto  dei commilitoni:

 “Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di bersaglieri fecero a forza snidare dalle case gli impauriti reazionari dell’ieri, e quando dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette di scendere per la via, ivi giunti vi trovavano  delle mezze squadre di soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro.

Molti mordevano il terreno; altri rimasero incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla ventura, ed i superstiti erano obbligati di prendere ogni specie di strame per incendiare con quello le loro stesse catapecchie.

Questa scena di terrore guerresco duro una intiera giornata; il gastigo fu tremendo, ma fu più  tremenda la colpa. Donne oltraggiate, malgrado lo spavento e il terrore che saetta dagli occhi, subiscono violenza da molti, pensando, forse, di averne salva la vita fino a che, pietosa, una baionetta mette fine ai loro giorni. Alle vecchie, solenni negli abiti neri, si strappano dalle orecchie i monili: poi per tutte un gesto di morte, rapida per le più fortunate,  lunga e straziante per le altre.

Nella mozione che gli fu impedito di svolgere alla Camera, Marzio  Proto, duca di Maddaloni, aggiunge particolari agghiaccianti; vi sono donne che, temendo lo stupro, preferiscono rimanere nelle case in fiamme: Nei vortici di fiamme che divoravano il vecchio ed adusto Pontelandolfo udivansi alcune voci di donne cantanti litanie e miserere.

Certi Uffiziali si avanzarono verso l’abituro onde veniva quel suono, ed apersero l’uscio, e videro cinque donne che scapigliate e ginocchioni stavano  attorno  di un  tavolo  su  cui era una Croce con  molti ceri ivi accesi. Volevano; ma quelle gridando: Indietro… maledetti! indietro… non  ci toccate, lasciateci morire incontaminate, si ritrassero tutte in un cantuccio, e tosto profondò il piano superiore e furono peste le loro ossa, e la fiamma consumò le innocenti. “

Il legittimista Giacinto De Sivo si dirà incapace di descrivere «lo  spavento  tra la morte e le fiamme di quella città infelice, bruttata da italici rigeneratori» che «impotenti co’ tedeschi, con gli inermi son prodi».

Qualora i giudizi espressi da un borbonico possano risultare ancora oggi sospetti, proviamo a leggere cosa scrive nel suo diario inedito, con una prosa zoppicante ma efficace, il bersagliere Margolfo:

«quale desolazione, non si poteva stare d’intorno per il gran calore: e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti e chi sotto le rovine delle case»

Ma questa partecipazione al dolore è quasi certamente frutto di una rielaborazione successiva, dato  che, quasi a voler sottolineare l’estraneità dei soldati al loro massacro di donne, bambini, vegliardi, Carlo Margolfo sente di dover aggiungere: «noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava», a parte 1’appetito, distrutto «per la gran stanchezza della marcia di 13 ore»

 I morti? La strage non  ha una contabilità ufficiale, ma considerato  che Pontelandolfo e Casalduni nell’insieme contavano  circa 12.000 abitanti, non  ci sbaglieremmo  di molto  ipotizzando  che le vite stroncate siano  state parecchie centinaia, forse anche un paio di migliaia.

Il tenente Gaetano Negri parlò dell’eccidio in una lettera indirizzata al padre:

“Probabilmente anche i giornali nostri avranno parlato degli orrori di Ponte Landolfo. Gli abitanti di questo villaggio  commisero  il più  nero  tradimento  e degli atti di mostruosa barbarie; ma la punizione che gli venne inflitta, quantunque meritata, non fu  per questo meno  barbara. Un battaglione di bersaglieri entrò  nel paese, uccise quanti vi erano rimasti, saccheggiò  tutte le case e poi mise il fuoco  al villaggio  intero, che venne completamente distrutto. La stessa sorte toccò a Casaldone i cui abitanti si etano riuniti a quelli di Ponte Landolfo.”

Lo storico legittimista Giacinto De Sivo, pochi anni dopo i fatti, scrive: “quattrocento piemontesi da San Lupo, con seguito di mascalzoni, guidati da quel tristo del Jacobelli, credendo  sorprendere la popolazione, entrarono  da più  parti in  Casalduni, sparando all’aria, spaventando quei pochi di vecchi e donne e fanciulli rimasti. Un Tommaso Lucente da Sepino […] precedeva i soldati, indicando le case da ardere, prima quella del sindaco  Ursini.

In  ogni parte sacco, lascivia, incendi; nudi i cittadini fuggivano  dalle fiamme; chi bastonato  era, chi ammazzato.

Un  Lorenzo  d’Urso, là venuto  per faccende, fattosi sull’uscio a salutare i soldati, è spento; e poi la casa col cadavere sono arsi. Il vecchio arciprete fugge in  camicia, e ne more indi a poco. Un  malato, rizzandosi sul letto  per ispavento  è ucciso.

Ugual ruina che a Ponte Landolfo, ma meno  sangue, perché quasi, deserto il luogo, e più pochi gli assassini. Stigmatizzata dal «Times» di Londra in una corrispondenza del settembre 1861, denunciata con parole roventi alle cancellerie europee da Pietro Calà d’Ulloa duca di Lauria, ministro di Francesco II nell’esilio romano, della strage non si sarebbe mai saputo nulla – vista la mancata iscrizione all’ordine del giorno  dell’interpellanza Proto  de120  novembre – se la questione non  fosse stata sollevata alla Camera dei deputati da Giuseppe Ferrari.

Prende la parola il 2 dicembre 1861… :

Nel turbinio degli avvenimenti […] la confusione giunge a tal punto che io a Napoli non  poteva sapere come Ponte Landolfo, una città di 5.000 abitanti fosse stata trattata. Io ho dovuto intraprendere un viaggio per verificare il fatto cogli occhi miei. Ma io non potrò mai esprimere i sentimenti che mi agitarono in presenza di quella città incendiata. Mi avanzo con pochi amici, e non vedo alcuno; pochi paesani ci guardano incerti; sopravviene il sindaco; sorprendiamo qualche abitante incatenato alla sua casa rovinata dall’amore della terra, e ci inoltriamo in mezzo a vie abbandonate. A destra, a sinistra le mura erano vuote e annerite, si era dato il fuoco ai mobili ammucchiati nelle stanze terrene e la fiamma aveva divorato il tetto; dalle finestre vedevasi il cielo. Qua e là incontravasi un mucchio di sassi crollati; poi mi fu vietato il progredire; gli edifizi puntellati minacciavano di cadere ad ogni istante.

L’implacabile Giuseppe Ferrarii, impolitico  e indignato, non  aveva tregua e con pathos infinito rievocava una tragedia paradigmatica:

E quando Volli vedere più addentro lo spettacolo ce1ato delle afflizioni domestiche, mi trassero dinanzi il signor Rinaldi, e fui atterrito. Pallido era, alto e distinto della persona, nobile il volto; ma gli occhi semispenti lo rivelavano colpito da calamità superiore ad ogni umana consolazione.

Appena osai mormorare che non  così s’intendeva da noi la libertà italiana.

Nulla io chiedo, disse egli, e noi ammutimmo tutti. Aveva due figli, l’uno avvocato, l’altro negoziante, ed entrambi avevano vagheggiato da lontano la libertà del Piemonte, ed all’udire che approssimavansi i piemontesi, che così chiamasi nel paese la truppa italiana, correvano ad incontrarli. Mentre la truppa procede militarmente, i saccomanni la seguono, la straripano, l’oltrepassano, e i due Rinaldi sono presi, forzati a riscattarsi, poi, dopo tolto il danaro, condannati ad istantanea fucilazione.

L’uno di essi cade morto; l’altro viveva ancora con  nove palle nel corpo; e un  capitano  gittavasi a ginocchio  dinanzi ai fucilatori per implorare pietà; ma il Dio della guerra non ascoltava parole umane e l’infelice periva sotto il decimo colpo tirato alla baionetta.

Rinaldi possedeva due case, e l’una di esse spariva tra le fiamme, e appena gli uffiziali potevano spegnere l’incendio che divorava l’altra casa. Rinaldi possedeva altre ricchezze, e gli erano  rapite; aveva altro… e qui devo  tacermi, come tacevano dinanzi a lui tutti i suoi conterranei. Quante scene d’orrore!

Qui due vecchie periscono  nell’incendio; là alcuni sono  fucilati, giustamente, se volete, ma sono  fucilati; gli orecchini sono  strappati alle donne; i saccomanni frugano ogni angolo; il generale, l’uffiziale non possono essere dappertutto: si è in  mezzo  alle fiamme, si sente la voce terribile: piastre! piastre! e da lontano si vede l’incendio di Casalduni, come se l’orizzonte dell’esterminazione non dovesse avere limite

Su quelle ed altre efferatezze, un alto magistrato, Pietro Calà d’Ulloa, già consigliere della Corte suprema di Napoli, poi a Gaeta e a Roma con Francesco  II, avrebbe cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica europea, chiosando un lungo elenco di abusi con un richiamo alle vecchie e nuove pratiche coloniali: «non facevan le stesse cose gli inglesi in India, i francesi in Algeria, non avevano agito con la medesima accortezza gli spagnoli nel Messico e nel Perù contro i barbari.”

Cordialmente

FDV

P. S.

Ci avete fatto caso? Melegari ha l’ordine di massacrare degli inermi mentre stava al San Carlo, dove poi ritorna subito dopo, come se niente fosse. Eppure qualcuno mi accusa di delirare, quando sostengo che certi personaggi hanno profanato la nostra Terra e i monumenti a loro dedicati, e continuano a farlo !!!

fonte https://www.eleaml.org/sud/briganti/polibio_redivivo.html

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Roberto Saviano e le colpe dei Borbone

Posted by on Gen 27, 2019

Roberto Saviano e le colpe dei Borbone

Propaganda liberale e coscienza nazionale


Chi segue questo sito sa che Saviano non ci ha mai entusiasmato – ovviamente ci riferiamo alla sua opera (abbiamo letto il libro “Gomorra” e abbiamo visto anche il film che ad esso si è ispirato) e non alla persona, per la quale abbiamo tutta la comprensione umana possibile. Ciononostante venerdì sera – L’era glaciale in onda su Raidue alle 23.40 del 25 settembre 2009, intervista con Daria Bignardi – siamo rimasti colpiti dall’astio mostrato dai ragazzi di Casal di Principe nei confronti dello scrittore. Sono le stesse risposte date tempo fa da ragazzi diversi di quel comune, ma stavolta i toni erano ancora più rancorosi e pieni di livore. …………

articolo in pdf scaricabile

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LA CALATA DEGLI OSTROGOTI di NICOLA ZITARA

Posted by on Gen 25, 2019

LA CALATA DEGLI OSTROGOTI di NICOLA ZITARA

La parola italianità significa, più o meno,  che qualcosa o qualcuno, per il suo atteggiarsi, porta i segni dell’appartenenza alla cultura, al costume, al carattere degli italiani. Ma l’Italia, il paese che detta agli uomini o alle cose il suo segno, qual è? Quella del Sud o quella del Nord? Perché, in effetti, è chiaro a tutti, che di Italie ce ne sono due: quella degli itagliani e quella dei taliani.

La confusione è cominciata al tempo di Roma repubblicana, allorché gli italici erano romani per i doveri militari e non lo erano per l’arricchimento provenienti dai saccheggi che illustrano (anche se non lo si dice) la civiltà romana. La confusione è andata così avanti che è difficile stabilire se furono i Romani a conquistare l’Italia o se furono gli Italici a conquistare Roma.

Comunque una certa alterità (o doppiezza) tra chi sta dentro l’Itaglia a pieno titolo e chi non possiede il titolo pieno, ma solo una specie di usufrutto, c’è sempre stata. Pensate al significato etnico e politico della frase “Temo i Greci e i doni che essi portano” (o quando portano doni. Esattamente: Timeo Danaos et dona ferentes), che circolava a Roma-urbe al tempo di Scipione l’Emiliano.

Ora, questi Greci della  frase erano essenzialmente taliani del Sud, i quali, vinti e sottomessi dai Romani, portavano doni ai vincitori e padroni, al fine di ingraziarseli in vista di un lavoro o di un favore (al tempo di Cicerone si diceva clientes, da cui l’itagliano clientela, in taliano ‘amici’). In buona sostanza, i Romani, non paghi di esercitare una padronanza sui Taliani, li giudicavano anche male.

La cosa si è ampiamente ripetuta dopo l’unità cavourrista. Raffaele Cadorna, intrepido generale milanese, nel 1866, assediò, bombardò, conquistò  e sottomise Palermo insorta contro l’unità. Nella sottostoria d’Itaglia, Palermo non fu la prima città bombardata, ma la seconda dopo Genova (dal grande Lamarmora Alfonso, inventore dei bersaglieri).

La quarta fu Gaeta (un tempo città, anche se oggi è un insignificante borgo taliano), la quarta Reggio Calabria, la quinta  – non appena Caldiroli avrà assunto il comando dello Stato Maggior Generale (ed anche Ammiraglio), sicuramente Napoli. Non tutta, però; solo quella abitata dai Taliani. Perché, come tutti sanno, a Napoli ci sono anche molti Itagliani (Bassolino, Jervolina, Pomicino, Mussolina, etc.). Il seguito si vedrà. Forse Augusta, forse Mazara del Vallo, forse Agrigento, non so.

Anche al tempo dell’eroico Cadorna c’erano ambivalenze italiche. Palermitani nemici della patria e palermitani patrioti. Leoluca Orlando Cascio non era ancora nato, ma viveva e operava un suo antenato e precursore come sindaco di una città (e forse antenato anche nel senso proprio di stipite familiare), il quale patriotticamente guidò la mafia nell’opera di liberazione della decaduta capitale federiciana, in ciò seguendo l’esempio del Generale Garibaldi, che pochi anni prima, alla testa di venti idealisti, 980 avanzi di galera, un assegno scoperto e 3000 mafiosi (per pudore detti ‘picciotti’, ancorché analfabeti e non capaci di capire altro se non il tintinnio delle piastre – chissà perché turche? – generosamente distribuite dai consoli inglesi di stanza), aveva liberato l’intera Sicilia dall’odiato Borbone.

Qualche decennio dopo, il  marchese Di Rudinì fu elevato per i suoi meriti a presidente del consiglio dei ministri itagliano e taliano, aprendo la strada a un mafioso più illustre ancora, un componente della seconda generazione di patrioti, il prof. Vittorio Emanuele Orlando,  presidente della vittoria nel 1918. 

Cornuti e mazziati, il nome dell’illustre guerriero, generale Cadorna,  ce lo ritroviamo nella toponomastica dei nostri paesi e città bombardate, insieme a quello del Generale Lamarmora, che non pago della carneficina di Genova, si esibì nella patriottica opera di liquidare i briganti taliani.

Leggo su Corriere Economia del 7 febbraio 2005 il fondo di Edoardo Segantini dal titolo “Quella cosa del Sud che nessuno vuole dire”.

A lettura fatta, mi resta da capire se sono taliano o itagliano. Infatti, io vivo immerso nella mafia, che sicuramente non è cosa italiana, in quanto l’italianità è definita dall’aeroporto della Malpensa, dall’EuroStar (non so se “E’ bello Star in Europa” o se Stella d’Europa), dalla Scala, da Giuseppe Verdi, da Maria Callas e, perché no, anche da Giovanni Verga e dall’Opera palermitana dei Pupi.

Tuttavia potrei anche essere itagliano anch’io, perché sono stato prima fascista e poi antifascista, subito dopo, forse per redimermi, ho fatto  l’emigrazione a Melano, sono transitato per Piazza Cairoli e accanto alla Scala, quando vi cantava la Callas e Toscanini vi dirigeva l’orchestra, e anche accanto  al Piccolo quando era guidato da Strehler. Insomma sono mezzo taliano e mezzo Itagliano. Ma non tutto Itagliano, come Segantini.      

La mafia è taliana e non conosce l’itagliano. E tuttavia intrattiene gran rapporti d’amicizia  con i banchieri e i costruttori di Milano, che, come ben si sa, sono Itagliani cosmopoliti (o forse Itagliani apolidi), comunque parlano una lingua EuroUNiversal).

Per combatterla, il collega Segantini suggerisce l’invio dell’esercito. Personalmente sono d’accordo. La  mafia, o la si vince militarmente o i vari De Gasperi, Einaudi, La Malfa, Saragat e i Comitati di Liberazione Alta e Bassa Italia continueranno a nasconderla nel sottoscala.

Resta il tema dei Dona Ferentes, dei regali o regalie (o anche sportule o tangenti, vulgo intrallazzi). Cioè il tema di Benetton, Zonin, Melagatti, Pelagatti, Filogatti, Carlusconi, Bruttusconi, Perlusconi, Merlusconi, Pittusconi, che stanno comprando le case a Ortigia e le terre viticole della mafiosa Sicilia, come insegna lo stesso numero di Corriere Economia in altra pagina. Quo vadis, Domine?  Questa è la strada maestra dell’itaglianità. Lo anticipai nel 1971, ma nessuno mi credette.

Predissi (L’unità d’Italia, nascita di una colonia) che per redimerci pienamente, gli avremmo venduto   la terra come i nostri megaellenici progenitori,  e portato doni che li avrebbero messi in sospetto. “Cu nesci, arrinesci”, chi va fuori fa fortuna, cita il Corriere. Stiamo nescendu, anzi nescsimu da 150 anni. Però non pensavo di vivere tanto da fare in tempo a vendere la casa avita a un Serluschese del Trecento. Ecce Domine!

PS. Secondo me, la perfetta talianità dei meridionali si ha con Totò Riina e con questo Cuffaro, di cui – chiedo scusa – mi sfugge il nome di battesimo. Quella degli Itagliani, di edificare dei taliani simili a loro è un pio e cavourristico proponimento, che mai potrà realizzarsi, perché la talianità è dell’Oriente mentre l’itaglianità è dell’Occidente. Se e quando i taliani si faranno anche loro le fabbriche, tutt’al più torneranno a essere come i Danaos prima che intraprendessero l’esercizio di portare doni, non mai Itagliani.

Perché c’è il risvolto dei Dona Ferentes. Anche questo in latino: Graecia capta ferum vincitore cepit, frase che tradotta a senso (storico) dice: i taliani – i quali non vollero combattere a loro difesa, e perciò noi Romani li abbiamo vinti e assoggettati – con i loro artifici (o altro) stanno mettendosi sotto gli Itagliani.  Le case, la terra, prendete anche questo. I nobili prediligono gli ambienti storici.

Senza il citato Cadorna, Giovanni Paolo II benedirebbe  i credenti dal balcone del Quirinale. Ma i preti, bene o male, furono pagati. A Napoli e in Sicilia, i sabaudi si beccarono non meno di una decina di regge, senza sborsare un centesimo. Il nostro lavoro se prendono già, pagandolo male. Il nostro sottosuolo è loro sin dal maledetto giorno dell’unità. Adesso anche le case, le spiagge, il sole, la terra. 

L’attuale caduta della capacità d’acquisto, per salariati e stipendiati, a questo mira. Ma il giorno in cui non vi porteremo più doni (forse) non è lontano.

Nicola Zitara

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