Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

La storia dei ‘piccoli disgraziati sanniti’ e i Fanciulli delle Mainarde

Posted by on Mag 16, 2020

La storia dei ‘piccoli disgraziati sanniti’ e i Fanciulli delle Mainarde

Ovvero quando i bambini molisani, e non solo, erano “venduti” per miseria ed erano la vergogna d’Italia.

Quella che vado a raccontare è una storia sconosciuta ai più. È, senza dubbio, la pagina più drammatica dell’emigrazione molisana e laborina. Vide per protagonisti tantissimi bambini provenienti dal Circondario di Isernia, specificatamente dalla valle del Volturno e da San Polo Matese, territori accomunati dalla tradizione della zampogna. L’ho ricostruita sulla base di documenti conservati negli archivi che ci raccontano della “vendita” , da parte dei genitori, dei propri figli a quelli che venivano definiti “padroni”.

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La vera storia dell’impresa dei mille 8/ Anche Indro Montanelli ammette il ruolo della mafia. La misteriosa morte di Ippolito Nievo

Posted by on Mag 5, 2019

La vera storia dell’impresa dei mille 8/ Anche Indro Montanelli ammette il ruolo della mafia. La misteriosa morte di Ippolito Nievo

In questa ottava parte del volume “… e nel mese di maggio del 1860 la Sicilia diventò Colonia”, Giuseppe Scianò elenca le prese di posizione di alcuni storici e commentatori. Dalle dichiarazioni sincere – ma anche dalle bugie – emerge con chiarezza il ruolo degli Inglesi, che avevano preparato lo ‘sbarco dei mille’ con meticolosità. Ed viene fuori, soprattutto, il ruolo dei ‘picciotti’ di mafia  

di Giuseppe Scianò

Commenti e testimonianze sullo Sbarco dei garibaldini avvenuto a Marsala l’11 maggio 1860 – Sulle vicende di Marsala si è scritto parecchio e si è detto tutto ed il contrario di tutto. La verità che si sia trattato di un colpo di mano inglese, non occasionale, ma inserito in un piano ben preciso, tuttavia, emerge a poco a poco e in modo inoppugnabile dalle tante dichiarazioni sincere e, paradossalmente, anche dalle tante bugie. Si tratta di testimonianze tirate in ballo, le une e le altre, da coloro che, da diversi punti di vista e talvolta con interessi contrapposti, si sono occupati, volontariamente o involontariamente, delle vicende risorgimentali siciliane.

Non potendole citare tutte, abbiamo riportato le testimonianze più significative, citandone di volta in volta le fonti.

Indro Montanelli – Un unitario e risorgimentalista impenitente, Indro Montanelli, il quale già in altre occasioni aveva fatto qualche battuta a proposito dell’accoglienza che i Siciliani avevano riservato a Garibaldi ed ai suoi Mille a proposito dello sbarco così ebbe modo di esprimersi:

«Gli inizi non furono promettenti. L’unico che diede un caldo benvenuto ai volontari fu il Console inglese. La popolazione si chiude in casa. E lo stesso vuoto incontrò la colonna l’indomani, quando si mise in marcia. Solo a Salemi, Garibaldi fu accolto con entusiasmo, perché a lui si unì una banda di “picciuotti” comandata dal Barone Sant’Anna. Se un “pezzo di novanta” come lui si schierava con Garibaldi, voleva dire che su costui c’era da fare affidamento». (13)

Ci sentiamo in dovere di precisare che le virgolette sono nostre. Non ne potevamo fare a meno, soprattutto nel momento in cui appaiono i picciotti di mafia ed il loro pezzo da novanta, Barone Sant’Anna.

Non ci pare nemmeno corretto che il Console di S.M. Britannica sia lì, in piazza, a farsi in quattro per festeggiare l’inizio dell’invasione di quel Regno delle Due Sicilie, presso il quale egli stesso ha svolto e continua a svolgere compiti di rappresentanza diplomatica (si fa per dire, perché è fin troppo evidente il suo ruolo di agente del Governo di Londra incaricato di agevolare azioni destabilizzanti di ogni tipo). Analoga considerazione vale per il Console Sabaudo. Ma Montanelli non si preoccupa di evidenziare questo particolare.

Va tutto bene lo stesso? No, certamente. Ma è sufficiente constatare che il famoso Indro abbia ammesso che a Marsala la gente si chiuse in casa e vi restò chiusa anche durante la partenza di Garibaldi alla volta di Salemi. Ed il Montanelli parla chiaramente anche dell’apporto della mafia. E non è poco… per un unitario di ferro.

Giuseppe Cesare Abba – Persino l’Abba è costretto a parlare delle bandiere Inglesi. Si vede che erano veramente molte. Anzi: troppe! A sbarco già avvenuto, scrive nelle sue noterelle, proprio con la data dell’11 maggio 1860:

«Siedo sopra un sasso, dinanzi al fascio di armi della mia compagnia, in questa piazzetta squallida, solitaria, paurosa».

Dopo qualche osservazione sul Capitano Alessandro Ciaccio, che piange di gioia e dopo aver fatto qualche altro piccolo riferimento di cronaca, il nostro Autore aggiunge:

«Su molte case sventolano bandiere di altre nazioni. Le più sono Inglesi. Che vuol dire questo?». (14)

Si è detto che l’Abba pone un quesito al quale crediamo di avere risposto abbondantemente. Ma riteniamo che gli avessero già risposto esaurientemente quasi subito altri autori. E riteniamo altresì che l’Abba si sia risposto da sé, nel momento in cui è costretto ad ammettere che sventola una grande quantità di bandiere Inglesi.

Un fatto strano, comunque. Per un cantore, per un apologeta dell’impresa garibaldina, per un operatore di disinformazione storica e politica del Risorgimento, è senza dubbio un sacrificio dare spazio a questo scorcio di verità. Ma non può farne a meno: il fenomeno è dilagante e si ripeterà a Palermo, a Catania, a Messina. Ovunque in Sicilia.

Va da sé un’altra considerazione. L’Abba non afferma di aver visto bandiere italiane. Ci fa quindi dedurre che non ve ne siano. Neppure una. Non si tratta di un fatto secondario. Se infatti un agiografo come l’Abba avesse visto a Marsala un solo fazzoletto tricolore, lo avrebbe moltiplicato per cento… Saranno poi i pittori, i pennaioli ed i poeti (incaricati dal Governo di Vittorio Emanuele o mossi dalla voglia di far carriera o dalla necessità di sopravvivere) che faranno miracoli, descrivendo folle osannanti, talvolta in ginocchio, che accolgono il Duce dei Mille fin dal molo del porto, in un tripudio di gigantesche bandiere tricolori.

Dobbiamo tuttavia ricordare che uno dei più famosi commentatori del libro di Abba, in una nota, cerca di mettere una pezza alla testimonianza in questione. Ed infatti scrive:

«(La bandiera inglese significa) che molti Inglesi vi si trovavano per l’industria vinicola. La bandiera metteva al riparo dal bombardamento». (15)

È appena il caso di fare rilevare che il bombardamento vero e proprio, per la verità, non vi era mai stato. E che si trattava di pochissime cannonate a vuoto e puramente simboliche che peraltro erano già terminate. Mentre – come abbiamo già puntualizzato – le bandiere Inglesi e le tabelle con la scritta domicilio inglese si sarebbero viste (e mantenute a lungo) anche in altre città della Sicilia, dove non vi erano industrie vinicole degli Inglesi… e neppure gli Inglesi stessi.

Bandiere e tabelle sarebbero servite in verità a moltissime famiglie siciliane per mettersi al sicuro (o meglio, per tentare di mettersi al sicuro) dai saccheggi, dalle violenze e dagli stupri, che non sarebbero certamente mancati. E che, anzi, in non poche occasioni, avrebbero caratterizzato il comportamento dei liberatori, nonché dei banditi e dei malfattori locali loro alleati.

Abbiamo già ricordato che l’11 maggio 1860, a Piazza della Loggia, a Marsala, durante la parata garibaldina si era rimediata a stento la sola bandiera italiana che Giorgio Manin aveva tirato fuori da un apposito astuccio. Questo fatto la dice lunga, troppo lunga… E conferma che le bandiere italiane non esistevano nel maggio 1860. Né a Marsala, né in tante città della Sicilia. Fatte salve ovviamente quelle poche eccezioni che confermano la regola.

Faremmo un torto a G. C. Abba se non dicessimo che egli stesso si incarica di fare qualche affermazione atta a compensare, probabilmente, gli
effetti negativi di alcune considerazioni, in apparenza ingenue, o di qualche
lapsus freudiano. Come quando, ad esempio, ha fatto cenno alla «piazzetta,
squallida, solitaria, paurosa». La compensazione avviene allorché, per
restare in tema, fa appunto una poco credibile descrizione dei festeggiamenti (probabilmente inventati ed idealizzati nel lungo periodo di tempo trascorso fra la sua partecipazione all’impresa ed il momento in cui avrebbe curato l’ultima stesura della sua opera) dei quali nemmeno Garibaldi in persona ed il suo fedele ufficiale Bandi fanno cenno, come vedremo.

Così scrive Cesare Abba:

«Ora la città è nostra. Dal porto alle mura corremmo bersagliati di fianco. Nessun male. Il popolo applaudiva per le vie; frati di ogni colore (sic!) si squarciavano la gola gridando; donne e fanciulli dai balconi ammiravano. “Beddi! Beddi!” si sentiva da tutte le parti».

Eppure poco prima aveva scritto:

«La città non aveva ancora capito nulla; ma la ragazzaglia era già lì, venuta giù a turba».(16)

Ci insospettisce, altresì, ma non più di tanto, il fatto che l’Abba non abbia detto «alcuni ragazzi» bensì abbia usato il termine, piuttosto dispregiativo, di «ragazzaglia». Ci dovrebbe far riflettere anche la precedente frase:

«La città non aveva ancora capito nulla…». (17)

Come mai la città avrebbe festeggiato se non aveva «capito nulla»? E come mai pur non avendo capito nulla aveva atteso l’evento liberatore? E come mai, senza avere ancora capito nulla, secondo quanto attestano le fonti ufficiali, sarebbero stati proprio i cittadini di Marsala quelli che volevano ad ogni costo Garibaldi alla testa della loro rivoluzione?

L’agiografia risorgimentale dell’Abba diventa, insomma, un boomerang per l’eccessivo entusiasmo patriottico dell’Autore del testo «sacro» Da Quarto al Volturno.

Non sottilizziamo ed andiamo ad uno di quegli episodi secondari che però, a tempo e luogo opportuni, possono assumere ruolo e funzione di testimonianza. L’Abba ci aveva, sempre nella noterella del giorno undici, parlato di un incontro interessante:

«Alcuni frati bianchi ci salutavano coi loro grandi cappelli: ci spalancavano le loro enormi tabacchiere: e stringendoci le mani, ci domandavano:

“Siete reduci, emigrati, svizzeri?”».

Francamente ci sembra strano che i frati, i quali dovevano necessariamente possedere un bagaglio di cultura e di informazioni politiche (…oltre che di tabacco) superiore alla media, facessero una domanda del genere e dimostrassero quindi di non essere coinvolti nell’entusiasmo popolare, del quale lo stesso Abba parlerà di lì a poco (di cui abbiamo fatto riferimento).

Una cosa, seppur inquietante, i frati l’avevano comunque confessata. Per loro i Garibaldini potevano anche essere stranieri. Meglio se svizzeri…
Non li avrebbero comunque conosciuti, né riconosciuti.

Bolton King. Inglesi a Marsala? Bolton non lo sa… – Nel 1903, Benedetto Croce, mostro sacro della filosofia e della storiografia italiana, unitario di ferro (ancorquando meridionale), nel corso della presentazione di una nuova opera di Bolton King, volle fare cenno a quella che era l’opera più conosciuta in Italia e sulla quale avrebbero studiato diverse generazioni di docenti, di allievi e di studiosi: La storia dell’unità d’Italia, in quattro volumi. La prima edizione della quale era stata pubblicata in lingua inglese nel 1899.

Ebbene, il Croce in proposito affermò:

«La “Storia dell’Unità d’Italia” benché elaborata con conoscenza completa del vasto materiale erudito di quel periodo, pur non tanto mi era parsa notevole per l’erudizione quanto per la finezza ed equilibrio del giudizio, che mette sotto giusta luce uomini ed avvenimenti controversi, e desta quasi di continuo quella persuasione, quell’intimo assenso, che si esprime con un “così è”». (18)

Ipse dixit, insomma… L’opera dell’illustre inglese è senza dubbio ponderosa ed interessante. Parte, però, da alcuni dati che ritiene scontati e certi, ma che invece a nostro giudizio sono discutibili. Talvolta mai avvenuti.

Il buon Bolton King, del resto, se in buona fede, non avrebbe mai potuto immaginare che il materiale erudito da cui avrebbe attinto la conoscenza della storia d’Italia, in realtà gli avesse fornito una serie di notizie rielaborate e/o falsificate ab origine. Non sappiamo se, venendo in Italia, visitando i luoghi del delitto, interrogando i testimoni oculari, lo scrittore inglese avrebbe smentito se stesso.

Fatto sta che il King non aveva mai messo piede in Sicilia fino al mese di maggio del 1860 (né lo avrebbe fatto dopo), né in Sicilia, né tantomeno in Italia. A questo punto abbiamo il sospetto che Bolton King non fosse stato in buona fede e che anche lui facesse parte della grande congiura della disinformazione per giustificare e legittimare la grande operazione di conquista del Regno delle Due Sicilie.

Ecco, ad esempio, come ci descrive lo Sbarco dei Mille:

«Intanto con i suoi piroscafi Garibaldi giunse a Marsala l’11 maggio. Era riuscito a sfuggire ai vascelli Napoletani in alto mare, ma mentre si stava avvicinando a terra fu avvistato da due incrociatori, che lo inseguirono accanitamente fino nel porto. Una delle sue navi si incagliò e, se il fuoco aperto dai Napoletani non fosse stato troppo largo e sparso, una metà dei suoi uomini non sarebbe certo riuscita a giungere sana e salva sulla terraferma. A Marsala non esisteva la guarnigione, ma la spedizione corse egualmente il rischio di rimanere inchiodata in quel lembo dell’isola, per cui Garibaldi decise di marciare immediatamente su Palermo: salutato con indicibile entusiasmo dalla popolazione, si proclamò Dittatore dell’isola in nome di Vittorio Emanuele e si affrettò quindi ad avanzare su Palermo, mentre La Masa incitava gli abitanti dei villaggi a prendere le armi e mentre le squadre sopravvissute all’impresa della Gancia si univano alle sue forze».(19)

Così fu? Non ci pare. Manca peraltro ogni riferimento proprio all’intervento inglese. Ed invece spunta un entusiasmo che, soprattutto a Marsala, nella realtà, non era mai esistito. E questa descrizione dei fatti non ci pare ammissibile per un Autore così importante. Eppure egli aveva scritto:

«La politica del Governo Palmerston verso l’Italia si proponeva tre obiettivi fondamentali: soddisfare le aspirazioni italiane cacciando dal Paese gli austriaci; far cessare l’influenza francese in Italia; indebolire o distruggere il potere temporale (del Papa)». (20)

Ammetteva quindi che l’Inghilterra aveva scelto fra i due sovrani (peraltro imparentati fra loro, Vittorio Emanuele II e Francesco II, legati da vincoli di sangue e di parentela agli Asburgo), quale dei due buttare giù dalla torre e quale invece salvare adottandolo ed aiutandolo a crescere. Se non addirittura costruendolo a suo uso e consumo.

Come poteva l’Inghilterra rischiare, ormai, che a Marsala il proprio progetto colasse a picco? Qualcosa doveva fare e doveva già aver pur fatto!… O no? Ma Bolton King finge di non vedere, di non sapere. Anzi si inventa una sua verità a totale supporto della propaganda filo-unitaria.

Garibaldi: una frase che rafforza i sospetti – Scrive il Rosada:

«Dodici anni dopo, il Duce dei Mille riconosce lealmente il suo debito scrivendo nelle sue memorie:

“La presenza dei due legni da guerra Inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti de’ legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera di Albione contribuì, anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; ed, io, beniamino di cotesti signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro Protetto”».

Questa frase di Garibaldi, anziché dissipare insinuazioni e sospetti, li avrebbe rafforzati. Ne condividiamo il contenuto, perché l’influenza e gli interventi dell’Inghilterra furono veramente decisivi nei fatti del 1860 e degli anni immediatamente successivi. Ma la macchina dell’agiografia risorgimentale non sarebbe stata neppure sfiorata da questo momento di sincerità dell’Eroe dei Mille.

Se quest’ultimo avesse capito, fin dall’inizio, dove sarebbe arrivato il suo mito, probabilmente non si sarebbe lasciato andare ad una confessione così significativa e compromettente.

(20) Bolton King, op. cit., vol. III, pag. 140.

Denis Mack Smith e Ippolito Nievo – Sulla scia di Bolton King, uno storico inglese nostro contemporaneo, Denis Mack Smith, ha avuto un enorme successo in Sicilia con libri di storia che riguardano appunto la Sicilia. Uno dei più celebri, che è stato anche un vero best-seller, è La storia della Sicilia medievale e moderna, edita da Laterza (Bari, 1970). Lo stile ovviamente è più scorrevole di quello del King, la benevolentia per i Padri della Patria – da Vittorio Emanuele a Cavour, a Garibaldi, ecc., – rimane però immutata.

Ci confronteremo con le opinioni dello Smith nel corso del nostro lavoro. Non è il caso di farlo adesso. Gli diamo però atto, per il momento, di aver citato, pur senza condividerne troppo il contenuto, un’acutissima osservazione di Ippolito Nievo:

«La rivoluzione era sedata dappertutto o, per dir meglio, non avea (sic!) esistito: solo qualche banda di semi-briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del Governo e qualche paura dei proprietari». (21)

Un giudizio, questo, sferzante, quanto mai veritiero ed in controtendenza rispetto al guazzabuglio di versioni ufficiali e non. Lo stesso Smith ci mette, però, in guardia dicendo – lui inglese – che il Nievo «vedeva le cose da settentrionale». Non ci pare un’espressione felice in generale. Ed in particolare per il Nievo. Costui era, sì, un settentrionale, ma (a prescindere dalla considerazione che la diversità etnica non ha niente a che vedere con i fatti) ciò non significa che il grande scrittore non avesse capito meglio di tanti Meridionali e di tanti Siciliani e – ci sia consentito – di tanti altri Settentrionali e di tanti Inglesi, di che pasta fosse fatta la maggioranza degli eroi Garibaldini e dei picciotti di mafia che a questi si aggregavano.
Insomma Nievo parla. (22)

Cosa, questa, che non potevano fare quanti erano stati complici dei delitti connessi alla conquista del Sud e della Sicilia, né lo possono fare oggi quanti compiono il lavoro di omologazione culturale o quanti hanno la necessità di tenere in piedi il mito garibaldino, scisso dalla verità. Magari in buona fede oppure nel rispetto della… ragion di Stato.

Ma per meglio comprendere il valore della testimonianza alla quale abbiamo dato spazio, dobbiamo ricordare chi era Ippolito Nievo. Di lui così scrive Lorenzo Bianchi:

«Ippolito Nievo, padovano (1831-1861), poeta e geniale autore delle ‘Confessioni d’un ottuagenario’, ammirato dall’Abba (vedi qui, pagg. 88, 149, 279, Storia dei Mille, pagg.115-116). Era stato delle ‘Guide del 59′, partecipò alla ‘spedizione dei Mille’ (di cui lasciò lettere vivaci e uno scheletrico diario) come a un sicuro olocausto. Per la sua scrupolosità fu assegnato all’Intendenza Militare con Giovanni Acerbi (diceva di non possedere che un solo requisito per fare il cassiere, quello ‘di non saper rubare’). Per l’alto ingegno e il senno politico appariva destinato a un grande avvenire. Ma ‘spariva dal mondo nel marzo 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un vapore [l’Ercole] che fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque. Perì in lui il poeta che avrebbe cantato davvero l’epopea garibaldina; e un cadavere che fu creduto lui, venne poi trovato sulla riva d’Ischia, l’isola dei poeti».

Il Nievo è quindi un testimone di grande prestigio e soprattutto molto sincero, attendibile. Ancorquando unitario ad ogni costo. Ed è un uomo che ha amato molto la verità.

Ancora oggi in Sicilia si sospetta che la sua morte non sia stata accidentale; si ritiene che «qualcuno», potente e compromesso, avesse avuto interesse a far fuori il Nievo per impedirgli di denunziare brogli ed ammanchi che, nella sua qualità di intendente e di ispettore, avrebbe scoperto nell’Amministrazione «unitaria ed italiana», non più Duosiciliana, quindi, in Sicilia.

Infatti, dopo aver eseguito diligentemente l’ordine di raccogliere i documenti contabili (riteniamo scottanti) sui quali aveva indagato, per portarli a Torino (in quel periodo capitale del Regno d’Italia), il grande scrittore lasciò la Sicilia diretto a Napoli sul vecchio Ercole il 4 marzo 1861.

Si può affermare soltanto che il piroscafo non arrivò mai a destinazione e che, del Nievo, non si ebbe più notizia. Né si conobbero mai con esattezza le vere cause del naufragio del vapore di Napoli (come veniva chiamato). Non sopravvisse nessuno. Ippolito Nievo, al momento della morte, aveva appena trent’anni.

Sulla tragedia si hanno solo due certezze: la prima è che il Nievo aveva con sé un’enorme quantità di documenti che provavano gli imbrogli che egli stesso aveva scoperto, ad iniziare dai prelievi che i Garibaldini avevano effettuato a man bassa alla Tesoreria dello Stato delle Due Sicilie a Palermo; l’altra è costituita dal fatto che del piroscafo Ercole fino ad oggi non sono stati mai rinvenuti relitti, neppure parziali. In pratica non si è mai avuta la certezza che la causa della scomparsa della nave fosse da attribui- re ad un naufragio, ad un incendio accidentale oppure ad un attentato…

(13) Indro Montanelli, L’Italia unita. Da Napoleone alla svolta del Novecento, Rizzoli, II vol., 2015, pag. 613. Facciamo rilevare che il Montanelli, scrivendo «picciuotti» adotta la pronunzia di alcuni antichi rioni di Palermo. In realtà la pronunzia più diffusa in Siciliano è «picciotti». Letteralmente «picciotto» significa «giovane». In senso lato significa anche «aiutante», apprendista, esecutore di ordini, lavoratore manuale, ecc…

Fine ottava puntata/ continua

Foto tratta da questionegiustizia.it

(14) G. C. Abba, op. cit., pag. 50.

(15) G. C. Abba, op. cit., pag. 50, nota 1.

(16) G. C. Abba, op. cit., pag. 51.

(17) G. C. Abba, op. cit., pag. 50.

(18) Bolton King, Storia dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, 1960, vol. I, pag. 11, introduzione a cura di Ernesto Ragionieri.

Denis Mack Smith e Ippolito Nievo – Sulla scia di Bolton King, uno storico inglese nostro contemporaneo, Denis Mack Smith, ha avuto un enorme successo in Sicilia con libri di storia che riguardano appunto la Sicilia. Uno dei più celebri, che è stato anche un vero best-seller, è La storia della Sicilia medievale e moderna, edita da Laterza (Bari, 1970). Lo stile ovviamente è più scorrevole di quello del King, la benevolentia per i Padri della Patria – da Vittorio Emanuele a Cavour, a Garibaldi, ecc., – rimane però immutata.

Ci confronteremo con le opinioni dello Smith nel corso del nostro lavoro. Non è il caso di farlo adesso. Gli diamo però atto, per il momento, di aver citato, pur senza condividerne troppo il contenuto, un’acutissima osservazione di Ippolito Nievo:

«La rivoluzione era sedata dappertutto o, per dir meglio, non avea (sic!) esistito: solo qualche banda di semi-briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del Governo e qualche paura dei proprietari». (21)

Un giudizio, questo, sferzante, quanto mai veritiero ed in controtendenza rispetto al guazzabuglio di versioni ufficiali e non. Lo stesso Smith ci mette, però, in guardia dicendo – lui inglese – che il Nievo «vedeva le cose da settentrionale». Non ci pare un’espressione felice in generale. Ed in particolare per il Nievo. Costui era, sì, un settentrionale, ma (a prescindere dalla considerazione che la diversità etnica non ha niente a che vedere con i fatti) ciò non significa che il grande scrittore non avesse capito

meglio di tanti Meridionali e di tanti Siciliani e – ci sia consentito – di tanti altri Settentrionali e di tanti Inglesi, di che pasta fosse fatta la maggioranza degli eroi Garibaldini e dei picciotti di mafia che a questi si aggregavano.
Insomma Nievo parla. (22)

Cosa, questa, che non potevano fare quanti erano stati complici dei delitti connessi alla conquista del Sud e della Sicilia, né lo possono fare oggi quanti compiono il lavoro di omologazione culturale o quanti hanno la necessità di tenere in piedi il mito garibaldino, scisso dalla verità. Magari in buona fede oppure nel rispetto della… ragion di Stato.

Ma per meglio comprendere il valore della testimonianza alla quale abbiamo dato spazio, dobbiamo ricordare chi era Ippolito Nievo. Di lui così scrive Lorenzo Bianchi:

«Ippolito Nievo, padovano (1831-1861), poeta e geniale autore delle ‘Confessioni d’un ottuagenario’, ammirato dall’Abba (vedi qui, pagg. 88, 149, 279, Storia dei Mille, pagg.115-116). Era stato delle ‘Guide del 59′, partecipò alla ‘spedizione dei Mille’ (di cui lasciò lettere vivaci e uno scheletrico diario) come a un sicuro olocausto. Per la sua scrupolosità fu assegnato all’Intendenza Militare con Giovanni Acerbi (diceva di non possedere che un solo requisito per fare il cassiere, quello ‘di non saper rubare’). Per l’alto ingegno e il senno politico appariva destinato a un grande avvenire. Ma ‘spariva dal mondo nel marzo 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un vapore [l’Ercole] che fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque.

Perì in lui il poeta che avrebbe cantato davvero l’epopea garibaldina; e un cadavere che fu creduto lui, venne poi trovato sulla riva d’Ischia, l’isola dei poeti».

Il Nievo è quindi un testimone di grande prestigio e soprattutto molto sincero, attendibile. Ancorquando unitario ad ogni costo. Ed è un uomo che ha amato molto la verità.

Ancora oggi in Sicilia si sospetta che la sua morte non sia stata accidentale; si ritiene che «qualcuno», potente e compromesso, avesse avuto interesse a far fuori il Nievo per impedirgli di denunziare brogli ed ammanchi che, nella sua qualità di intendente e di ispettore, avrebbe scoperto nell’Amministrazione «unitaria ed italiana», non più Duosiciliana, quindi, in Sicilia.

Infatti, dopo aver eseguito diligentemente l’ordine di raccogliere i documenti contabili (riteniamo scottanti) sui quali aveva indagato, per portarli a Torino (in quel periodo capitale del Regno d’Italia), il grande scrittore lasciò la Sicilia diretto a Napoli sul vecchio Ercole il 4 marzo 1861.

Si può affermare soltanto che il piroscafo non arrivò mai a destinazione e che, del Nievo, non si ebbe più notizia. Né si conobbero mai con esattezza le vere cause del naufragio del vapore di Napoli (come veniva chiamato). Non sopravvisse nessuno. Ippolito Nievo, al momento della morte, aveva appena trent’anni.

Sulla tragedia si hanno solo due certezze: la prima è che il Nievo aveva con sé un’enorme quantità di documenti che provavano gli imbrogli che egli stesso aveva scoperto, ad iniziare dai prelievi che i Garibaldini avevano effettuato a man bassa alla Tesoreria dello Stato delle Due Sicilie a Palermo; l’altra è costituita dal fatto che del piroscafo Ercole fino ad oggi non sono stati mai rinvenuti relitti, neppure parziali. In pratica non si è mai avuta la certezza che la causa della scomparsa della nave fosse da attribui- re ad un naufragio, ad un incendio accidentale oppure ad un attentato…

(13) Indro Montanelli, L’Italia unita. Da Napoleone alla svolta del Novecento, Rizzoli, II vol., 2015, pag. 613. Facciamo rilevare che il Montanelli, scrivendo «picciuotti» adotta la pronunzia di alcuni antichi rioni di Palermo. In realtà la pronunzia più diffusa in Siciliano è «picciotti». Letteralmente «picciotto» significa «giovane». In senso lato significa anche «aiutante», apprendista, esecutore di ordini, lavoratore manuale, ecc…

Fine ottava puntata/ continua

(14) G. C. Abba, op. cit., pag. 50.

(15) G. C. Abba, op. cit., pag. 50, nota 1.

(16) G. C. Abba, op. cit., pag. 51.

(17) G. C. Abba, op. cit., pag. 50.

(18) Bolton King, Storia dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, 1960, vol. I, pag. 11, introduzione a cura di Ernesto Ragionieri.

(19) Bolton King, op. cit., vol. III, pag. 179.

Fonte

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Emigrazione e tratta minorile in Basilicata nella seconda metà dell’Ottocento

Posted by on Mar 24, 2019

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Il problema della tratta minorile in varie nazioni europee, soprattutto Francia e Inghilterra, era tristemente presente, nella seconda metà dell’ottocento, in varie zone d’Italia. Il territorio dell’attuale provincia di Frosinone, ad esempio, fu coinvolto nell’incetta di fanciulli da impiegare come garzoni nelle vetrerie francesi e non furono pochi i casi di coloro che, per i massacranti turni di lavoro e per la vita di stenti, morirono o si ammalarono gravemente, specialmente di tubercolosi1.

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SBARCO DEI MILLE A MARSALA di GIUSEPPE BUTTA’….Cappellano dell’esercito borbonico

Posted by on Feb 7, 2019

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L’epoca seconda di queste memorie non sarà creduta da’ posteri. Io racconterò fatti incredibili, ma veri.
Ora cominciano le diserzioni dei soldati e degli uffiziali, la viltà e le inesplicabili ritirate de’ Generali, ove non si vogliano chiamare vergognosissimi tradimenti.

Un’anima nobile e dignitosa rifugge da queste rimembranze: è troppo tristo ricordare come una prode armata di circa 100,000 uomini fosse stata distrutta non già dal nemico, ma da varii dei capi stessi, i quali disonorarono il proprio paese, e quella divisa gallonata, che con tanta burbanza indossavano.

La striscia di sangue che bagnò la via da Boccadifalco a Gaeta sgorgò solamente dalle vene de’ soldati, i figli del popolo, e dell’ufficialità subalterna e se non fosse stato per questi, l’onor militare del disgraziato Regno di Napoli sarebbe rotolato nel fango.

Gli scrittori garibaldini descrissero pugne omeriche; ma la storia imparziale dirà, che le bande garibaldine sarebbero valse meno delle bande siciliane, se non fosse stata l’ignavia, la viltà, e il tradimento di alcuni duci napoletani. I fatti che racconterò saranno una splendida prova del mio asserto.

Dopo le vicende guerresche di aprile, la truppa era rientrata ne’ quartieri, e riprendea le sue abitudini, e tutto sembrava quieto.
Il 13 maggio, corse voce, che Garibaldi fosse sbarcato in Marsala con 600 uomini di truppa piemontese.

Questa notizia fu tenuta per una favoletta, una spiritosa invenzione. Tutti dicevano: l’hanno detta assai grossa.

Conciosiachè le relazioni diplomatiche tra Torino e Napoli fossero cordiali, e quindi non era da supporre che quel Governo volesse tentare un’invasione in un Regno amico, senza alcuna ragione, almeno apparente, e senza intimazione di guerra, come si usa ne’ paesi civili.

Tuttavia la sera di quel giorno 13, la notizia venne confermata ufficialmente, ma corretta in questo modo: che Garibaldi fosse sbarcato in Marsala con più di 1000 volontari vestiti con camicia rossa: che i legni di guerra napoletani, cioè la fregata Partenope, e i due vapori Stromboli, e Capri, non avessero potuto impedire lo sbarco di quei volontari, perché protetti da due legni di guerra inglesi, l’Intrepido e l’Argo, partiti due giorni prima dalla rada di Palermo: che Garibaldi non venisse in Sicilia a far la guerra per ordine del Governo Sardo, ma per aiutare la rivoluzione siciliana.

Queste notizie furono accolte con entusiasmo dalla truppa; tutti desideravano essere condotti a Marsala per combattere Carlobardi, così i soldati chiamavano Garibaldi farsi onore ed ottenere decorazioni e gradi militari. Vi era pure un certo dispetto, che uno straniero si venisse ad immischiare nelle nostre lotte politiche.

Garibaldi, in Marsala, non trovò cordiale accoglienza. Il Municipio andò via, i marsalesi agiati fuggirono, le vie erano deserte. Di che fortemente indignato fece occupare le porte della città dai suoi volontarii, e dichiarò lo stato di assedio.

È necessario qui notare, che Garibaldi appena toccata la terra siciliana, che dovea redimere dalla schiavitù, per primo atto del suo inqualificabile potere dichiarò lo stato di assedio in una città non ostile, ma riservata e indifferente alla libertà e redenzione che volea largirle.

Il 14 maggio, Garibaldi ed i suoi volontarii partirono per Salemi, paese 20 miglia dentro l’isola, ove fu incontrato dal celebre padre Pantaleo di Castelvetrano, frate de’ Minori osservanti, oggi ammogliato e libero pensatore.

Alcuni duci gallonati di Palermo invece di attendere ed arrestare la marcia di Garibaldi, si bisticciavano tra loro: aveano perduta la bussola prima di mettersi in mare. Nondimeno dovendosi decidere a qualche cosa, si decisero pessimamente, cioè mandarono il generale Landi a combattere Garibaldi. Il Landi era stato comandante del 9° cacciatori, ed io non avea inteso buone notizie intorno alla sua delicatezza amministrativa e capacità militare.

Landi partì per Alcamo; il 14 maggio radunò in quella piccola città più di 3000 uomini di truppa scelta, avidissima di battersi: avea cannoni, cavalleria, e tutto quello che fa di bisogno ad un piccolo corpo di esercito in campagna. Il contenersi del Generale in Alcamo era come se si trattasse di una passeggiata o parata militare, in che riuscivano mediocri non poca parte de’ duci napoletani. Landi non prendeva alcuna precauzione, non dava quegli ordini che si richiedevano, avendo il nemico quasi di fronte: stava inoperoso.

Spinto dagli ordini urgenti del Luogotenente Castelcicala, si partì d’Alcamo per Calatafimi. Il 15 maggio anche Garibaldi con i suoi volontari, e le squadre siciliane, che avea raccolte, si spinse verso Calatafimi.

BATTAGLIA DI CALATAFIMI

Garibaldi si fermò prima di giungere a Calatafimi, e sembrava incerto di ciò che si dovesse risolvere. Vedendo la truppa di fronte, cercò scansarla; lasciò la via e prese i monti.
Landi per mostrare di far qualche cosa, prima che comparisse Garibaldi, avea spinto verso Salemi il maggiore Sforza comandante l’8° cacciatori, ma con quattro sole compagnie, per fare una ricognizione militare, e se attaccato, ritirarsi.

Giunto lo Sforza non più lungi di un tiro di fucile da’ garibaldini, vide che lasciavano la via e prendevano i monti per evitare un combattimento. A questo i soldati non si contennero e si diedero a gridare che volevano battersi ad ogni costo. Il comandante Sforza protestò che avea altri ordini dal Generale, ma lo scambio delle fucilate cominciava, e lo Sforza finì di secondare il desiderio de’ suoi soldati, spingendosi alla loro testa ed attaccò vigorosamente i garibaldini.

La mischia fu terribile: i garibaldini si erano appiattati a terra, ed in quellaposizione facevano un fuoco ben nutrito. Prevalse però la bravura e disciplina delle quattro compagnie, e le bande rosse furono sgominate ed inseguite.

Menotti Garibaldi che portava una magnifica bandiera tricolore, venne ferito ad un braccio, ed obbligato di consegnarla ad uno de’ suoi compagni. Questi fu ucciso da un soldato napoletano di nome Angelo de Vito, il quale s’impadronì della bandiera che poi fu portata a Palermo. Era certa la disfatta di Garibaldi; de’ suoi, chi fuggiva, chi combatteva in disordine.

Il Landi, che certamente tutto vedea ed osservava da lungi, invece di spingere altri battaglioni che avea disponibili per compiere la non dubbia vittoria, diede l’ordine della ritirata, e cominciò a retrocedere verso Alcamo, senza avvertire il maggiore Sforza, il quale inseguiva i garibaldini. Costui avvertito che la colonna si ritirava verso Alcamo, non volle crederlo; quando poi si accertò con i suoi propri occhi, credè prudente anch’egli di ritirarsi, chè già cominciava a difettare di munizioni.

I garibaldini vedendo quella inesplicabile ed inattesa ritirata della colonna Landi, presero animo: coadiuvati dalle squadre siciliane che non aveano preso parte in quel combattimento, diedero addosso a’ regii, e la scena cambiò totalmente.
In quella disordinatissima ritirata della truppa cadde una mula che portava un obice. I soldati lo buttarono in un burrone, e di colà fu poi raccolto da’ garibaldini che ne menarono gran vanto.

Nella ritirata di Landi fu grandissima confusione. I battaglioni disorganizzati marciavano alla ventura, mischiati con carri, artiglieria o cavalleria: vi era un caos! Giunti ad Alcamo furono attaccati da’ ribelli che tiravano fucilate dalle finestre e da’ balconi: i soldati risposero con incendiare molte di quelle case ove si facea fuoco vivissimo. Lo stesso avvenne al passaggio di Partinico.

Il Landi fuggiva alla testa di quella truppa che avea disorganizzata, e demoralizzata, e cambiava strada appena avea notizia di qualche piccola banda che lo inseguiva.
Fu il primo ad arrivare a Palermo, ove fu seguito poi dalla sua colonna in massimo disordine ed affamata.

Garibaldi a Calatafimi perdette centodieci volontari. Se le sole compagnie dell’8° Cacciatori, equivalenti a meno di cinquecento uomini, lo sbaragliarono e gli fecero quel danno, qual sarebbe stata la fine della temeraria impresa del futuro dittatore delle Due Sicilie, se Landi si fosse battuto con tutti i suoi?

Ma Garibaldi avea forse certezza che il duce napoletano si sarebbe condotto come realmente si condusse, ove si volesse ammettere come vera la notizia non mai smentita, e che io come semplice cronista riporterò: cioè che Landi avesse ricevuto da Garibaldi per prezzo della sua condotta, una fede di credito di quattordicimila ducati, che il Banco di Napoli trovò poi falsa, cioè, era di soli ducati quattordici; e che ne morì di dolore sorpreso da un colpo apoplettico.

Il fatto d’armi di Calatafimi segnò la caduta della Dinastia delle Due Sicilie; imperocchè il generale Landi non fu chiamato a dar conto della sua vergognosissima condotta, ed inesplicabile ritirata; ma quello che fa più meraviglia si è, che rimase al comando della brigata che avea disorganizzata e demoralizzata. Questo esempio incoraggiò i duci, o vili o traditori, a tradire impunemente.

INSEGUIMENTO DI GARIBALDI

Dopo Calatafimi, Garibaldi ingrossando sempre le sua bande di nuovi rivoluzionari, marciò per Alcamo, Partinico, e fece alto in un piccolo villaggio detto il Pioppo, tre miglia incirca sopra Monreale, meno di sette da Palermo, ove si trovavano ventimila uomini di buona truppa, e benissimo equipaggiata.

Dopo il fatto d’armi di Calatafimi il Luogotenente Castelcicala si dimise dall’alta sua carica e partì per Napoli. Corse voce nell’armata che si sarebbe recato a Palermo con l’alter ego il Conte generale Giuseppe Statella. Questa notizia fu accolta con entusiasmo, dapoichè il nome degli Statella era popolarissimo in tutta l’armata.

Quel Generale nato da una famiglia assai distinta, e di una antichissima aristocrazia siciliana, oltre di essere sufficientemente istruito, avea quelle qualità che si richiedevano alle condizioni dell’Isola: fedeltà incrollabile a’ Borboni, ereditaria nella famiglia Statella, un coraggio da reggere a qualunque prova, attivissimo, una fermezza di carattere ammirabile, severissimo per la disciplina militare: del resto uomo semplice e cordiale.

Era un uomo che non sarebbe venuto meno in qualsiasi difficoltà militare o diplomatica, perché in que’ casi avrebbe operato sempre alla soldatesca; oso affermare che avrebbe disubbidito al proprio Sovrano, se costui gli avesse dato un ordine da compromettere la Dinastia, o la dignità militare. Lo Statella si sarebbe fatto condannare da un alto consiglio di guerra anzichè eseguire un ordine pregiudizievole al Regno, alla sua dignità di gentiluomo e di Generale.

Oh! se il generale Statella fosse andato a comandare l’armata di Sicilia con pieni poteri, oggi Garibaldi non si chiamerebbe da’ suoi ammiratori liberatore e redentore dell’Italia Meridionale. Ma la setta che circondava il giovine sovrano, invece di mandare in Sicilia uno de’ pochissimi Generali che avrebbe salvata la Dinastia e il Regno, scelse il generale Lanza, che finì di uccidere l’armata di Palermo.

Il 20 maggio giunse in Monreale il colonnello Won Meckel col 3° cacciatori esteri, detti svizzeri, ma erano un’accozzaglia di svizzeri, francesi, boemi e bavaresi, de’ quali molti aveano combattuto sotto Garibaldi nel Varese.

Giunsero altri battaglioni e si formò una brigata sotto il comando di Meckel con i seguenti battaglioni: 3° esteri, 2° cacciatori, comandato dal maggiore Murgante, 9° cacciatori comandato dal maggiore Bosco, quattro compagnie del 5° di linea comandate dal maggiore Marra, quattro cannoni di montagna, pochi cacciatori a cavallo, e la compagnia d’armi di Palermo comandata dal capitano Chinnici. Tutti incirca quattromila uomini. In Monreale rimasero altri tre battaglioni sotto il comando del colonnello Buonanno.

Il 21 maggio la brigata Meckel marciò sul Pioppo. Sopra la Casina di Buarra trovammo gli avamposti di Garibaldi, erano bande siciliane. Appena cominciò il fuoco coteste bande si ritirarono sopra la montagna. Io vidi due soldati esteri che conducevano, anzi strascinavano un prigioniero, un’uomo già disarmato, e tra loro vi era un diverbio animatissimo.

Temendo che quel prigioniero patisse qualche sinistro, chiamai due soldati napoletani e corsi ad incontrare que’ tre. Il malcapitato era un uomo su’ 30 anni, senza cappello, in gran disordine. Gli aveano strappato il fucile, e se l’avea preso uno dei soldati esteri:gridava come un energumeno, dicendo: vili satelliti della tirannide, lasciate libero un cittadino che combatte per la libertà della sua patria, ed altre parole diceva, contro i soldati e contro il Sovrano.

Fortuna per lui che i soldati esteri neppure intendevano l’italiano, sebbene i due soldati napoletani capivano benissimo il dialetto siciliano, ed uno di questi alzò il fucile per darlo in testa al prigioniero: io lo contenni. Seppi che quel prigioniero faceva la professione di notaio in un paese vicino, ebbi a pregarlo e minacciarlo perché tacesse. Egli cercava di convertire i soldati e me con essi: io gli dissi di nuovo di tacere, altrimenti l’avrei abbandonato al suo destino, perché i soldati napoletani cominciavano a mormorare contro di me. Persuasi i soldati esteri a cedermi il prigioniero, lo ricondussi alla retroguardia raccomandandolo ad un uffiziale mio amico. Forse altri direbbe, quel notaio prigioniero essere un gran patriota, ed io affermo ch’era un gran fanatico, un gran pazzo da catena.

La brigata Meckel si avanzava baldanzosa contro il Pioppo. Una compagnia di cacciatori, comandata dal capitano Giudice, spiegata da fiancheggiatori, era giunta sopra l’alta collina che domina il Pioppo. Io vidi che i garibaldini fuggivano in disordine verso Partinico, e vidi che più di 50 carri di equipaggi aveano presa la stessa via. In quella sento la nostra tromba battere a ritirata. Io non volea credere né ai miei occhi, né a’ miei orecchi. Ritirata…! e perché? Vedo venire Bosco con una faccia che mettea paura: martirizzava il cavallo su cui montava, era al colmo dell’irritazione. Io che non era soggetto alla disciplina militare quanto erano soggetti gli uffiziali, ed avendo molto confidenza col Bosco, gli dissi: ritirarci, e perché? mi rispose con parole sdegnose ed inintellegibili e passò via.

Non ho avuto mai sicura certezza della vera causa di quella inesplicabile ritirata. Il Meckel non potea esser sospetto né di viltà né di tradimento; quindi non si parlò che di un ordine superiore venuto da Palermo, cui tutti attribuivamo quella ritirata che sembrava inesplicabile.

Intanto i soldati mormoravano e cominciavano a profferire la parola tradimento, e non si faticò poco a farli ritornare alla volta di Monreale.

Il capitano del Giudice mi dicea: dal sommo della collina, ove mi trovavo, avrei potuto distruggere la metà de’ garibaldini, facendo scorrere delle grosse pietre sopra di loro, ed avrei potuto benissimo tagliar la ritirata sopra Palermo: ma fu necessità ubbidire e ritirarmi.

Si giunse in Monreale; e lasciato tranquillo il nemico più pericoloso, che ormai avevamo nelle mani, si risolvette di mandare il capitano del Giudice con la sua compagnia a sorvegliare la valle di S. Martino ch’è dietro i monti di Monreale al Nord-Est. Costui giunto in quella valle fu assalito da una moltitudine di bande siciliane guidate da Rosolino Pilo, il quale fu ucciso in quel conflitto.

Garibaldi al Pioppo aspettava la rivoluzione di Palermo, e vedendo che non iscoppiava, come gli aveano promesso, trovandosi seriamente minacciato da’ regii, la notte del 21 maggio, riunì i suoi già dispersi per la paura che aveano avuta del tentato attacco della colonna Meckel, prese la via de’ monti a destra e marciò versoParco, piccolo paese fabbricato a metà della costa di una gran montagna, dirimpetto Monreale dalla parte del Nord-Est.

Fece una divisione in due colonne, una comandata da lui accampò sull’alta montagna in un luogo detto Pizzodelfico, l’altra comandata dall’ungarese Turr occupò Parco.
In Monreale era molta truppa e stava in ozio, perché si attendeano gli ordini da Palermo. Intanto i soldati erano condannati a stare a bracciarmi in quella che vedeano i garibaldini a Parco o su la montagna, occupati pacificamente alle manovre militari.

Le mormorazioni de’ soldati cominciavano ad inquietarci, e non avvenne una rivolta militare perché né Bosco, né Meckel poteano cadere in sospetto di tradimento. Questa condizione di cose durò tre lunghi giorni. Se quello fu un tempo prezioso per Garibaldi, io lo lascio pensare a quelli che conoscono i raggiri della setta, e l’attività del duce nizzardo.

ENTRATA AL PIOPPO E IN PARCO

Finalmente la sera del 23 venne l’ordine da Palermo di attaccare i garibaldini. La brigata Meckel marciò la mattina seguente per la via di Renna per prendere i garibaldini di rovescio. Il generale Colonna partì da Palermo con un’altra brigata per attaccarli di fronte. Verso le 6 del mattino i soldati di Meckel avevano raggiunto Pizzodelfico, e si scagliarono contro i garibaldini, ma questi non opposero che piccola resistenza, e fuggirono inseguiti sulla cima della montagna, ove soffersero non poco danno a causa de’ luoghi alpestri e scoscesi: i soldati erano avvezzi a quelle marce, vantaggio che non aveano i nemici.

Un grosso distaccamento entrò in Parco dalla parte dell’ovest: Turr e i suoi fuggirono sulla montagna. Il generale Colonna era intanto alle mani con le bande siciliane fortificate nella semipianura sotto Parco, dalla parte di Palermo; dopo di avere fugate quelle masse di gente armata che combattea da dentro le case di quella campagna, si avanzò su Parco, ove non trovò più nemici da combattere.

In cambio d’inseguire un nemico che fuggiva in disordine, e tanto più che le bande siciliane cominciavano a sciogliersi, e dar la volta verso i loro paesi, si diede ordine che la truppa restasse lì ove era; e così il nemico ebbe il tempo di riaversi e riordinarsi. Si vide che il generale Lanza che comandava da Palermo non volea far davvero.

Io entrai in Parco, e trovai che il paese era stato manomesso da’ garibaldini e dalle bande siciliane. La maggior parte degli abitanti erano fuggiti all’arrivo de’ garibaldini. Le povere donne e i fanciulli rimasti si erano rifugiati nelle Chiesa madre, altre donne e fanciulli nell’unico monastero che vi era in quel paese.

Mi diressi a quelle poche persone che incontrai, e seppi ove si erano rifugiate le donne ed i fanciulli. Mi recai alla Chiesa, trovai uno spettacolo tristo: il sacro tempio era gremito di quegli infelici spaventati e piangenti. Io feci di tutto per confortarli, e li persuasi a seguirmi, assicurando loro che li avrei ricondotti nelle proprie abitazioni. In fatti mi convenne far molti viaggi per condurli in diversi punti del paese. Le povere monache mandarono una persona a pregarmi che mi recassi subito al monastero, ove trovai un’altra scena desolante. La maggior parte di quelle donne, riparatesi nel monastero, erano ammalate, quali svenute, tutte spaventate.

Molte di quelle donne mi seguirono, ed io le condussi alle proprie case. Però le derelitte monache stavano sempre in gran paura, perché la sera precedente si era tentato scalare le alte mura del monastero. Io a volerle difendere da qualunque aggressione, me ne andai subito a pregare il comandante Bosco che mi assegnasse un distaccamento di soldati da me scelti per guardare quel monastero, per quietare la paura delle monache. Il Bosco non se lo fece dire, mi diede subito 30 soldati, ed un sergente di mia fiducia, i quali si posero a far la guardia intorno al monastero.

Ne’ tre giorni che i garibaldini dimorarono in Parco, furono scassinati non pochi magazzini, in particolarità quelli che conteneano vino, e tutto era stato messo a saccheggio. Ladri del paese, garibaldini e squadre siciliane, tutti aveano saccheggiato, chi più chi meno.

Qui debbo avvertire che i soldati della brigata Colonna, i quali rimasero nel paese commisero azioni indegne non solo di chi veste una divisa militare, ma di chi è nato in paesi civili. Quei soldati istigati da’ ladri del paese, e sommamente digiuni, perché la truppa tante fiate restava digiuna per la incuria de’ comandanti, finirono di saccheggiare magazzini già saccheggiati, e ne saccheggiarono altri.

Alcuni compagni d’armi rubavano pure nelle case deserte de’ proprietarii. La sera del 24 maggio il Parco era un disordine indescrivibile. I soldati della brigata Colonna erano quasi tutti ubbriachi, e non sentivano più né preghiere né minacce. Io mi rivolsi a molti uffiziali perché mi aiutassero a mettere a dovere i soldati, ma nulla ottennero. Il male lo fecero i duci, i quali lasciarono così affamata la truppa in un paese mezzo saccheggiato. Io non credo di errare se dico, che alcuni duci napoletani fomentassero indirettamente que’ disordini per disonorare la causa del proprio sovrano, che fingevano di difendere.

Fortuna per le povere monache che il distaccamento datomi da Bosco, vegliò intorno al monastero per tutta quella infausta notte.
Io addolorato e vergognoso di que’ disordini che vedea, e che non potea impedire, uscì dal paese salì un poco la montagna, e mi recai al Camposanto, ov’era accampato il 9° cacciatori, ed ivi passai la notte coricato sopra le sepolture.

La mattina del 25 di buon’ora battè la generale, e tutti partimmo per la piana de’ Greci. La truppa si riunì tutta sulla montagna, cioè tra le due brigate di Meckel e l’altra di Colonna, e da lì marciò in ordine di battaglia.

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Il governo dei Nobili a Napoli: Autonomismo, decentramento, partecipazione governativa dei Seggi cittadini. (decimo primo)

Posted by on Ott 1, 2017

Il governo dei Nobili a Napoli: Autonomismo, decentramento, partecipazione governativa dei Seggi cittadini. (decimo primo)

Era, anche, norma che per ogni seggio si scegliesse un eletto tra i sei nominati, (per un totale di sei per le piazze nobili, che si appellavano “capitani dei nobili”, ed uno per il Popolo, detto “capitano di strada Popolare”), con mandato annuale, ai quali si affidavano le chiavi di ogni porta cittadina , una copia ai capitani ed altra all’eletto del Popolo.

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