Ovvero quando i bambini molisani, e non solo, erano “venduti” per miseria ed erano la vergogna d’Italia.
Quella che vado a raccontare è una storia sconosciuta ai più. È, senza dubbio, la pagina più drammatica dell’emigrazione molisana e laborina. Vide per protagonisti tantissimi bambini provenienti dal Circondario di Isernia, specificatamente dalla valle del Volturno e da San Polo Matese, territori accomunati dalla tradizione della zampogna. L’ho ricostruita sulla base di documenti conservati negli archivi che ci raccontano della “vendita” , da parte dei genitori, dei propri figli a quelli che venivano definiti “padroni”.
Con note introduttive sulla storia dell’Avvocatura
L’Italia è universalmente riconosciuta come la culla del diritto e Roma viene celebrata come la fucina dove le regole del vivere civile venivano costruite e codificate per diventare, nel tempo, patrimonio dell’umanità.
In questa ottava parte del volume “…
e nel mese di maggio del 1860 la Sicilia diventò Colonia”, Giuseppe
Scianò
elenca le prese di posizione di alcuni storici e commentatori. Dalle
dichiarazioni sincere – ma anche dalle bugie – emerge con chiarezza il ruolo
degli Inglesi, che avevano preparato lo ‘sbarco dei mille’ con meticolosità. Ed
viene fuori, soprattutto, il ruolo dei ‘picciotti’ di mafia
di Giuseppe Scianò
Commenti e
testimonianze sullo Sbarco dei garibaldini avvenuto a Marsala l’11 maggio 1860 – Sulle vicende di Marsala si
è scritto parecchio e si è detto tutto ed il contrario di tutto. La verità che
si sia trattato di un colpo di mano inglese, non occasionale, ma inserito in un
piano ben preciso, tuttavia, emerge a poco a poco e in modo inoppugnabile dalle
tante dichiarazioni sincere e, paradossalmente, anche dalle tante bugie. Si
tratta di testimonianze tirate in ballo, le une e le altre, da coloro che, da
diversi punti di vista e talvolta con interessi contrapposti, si sono occupati,
volontariamente o involontariamente, delle vicende risorgimentali siciliane.
Non
potendole citare tutte, abbiamo riportato le testimonianze più significative,
citandone di volta in volta le fonti.
Indro Montanelli – Un unitario e risorgimentalista
impenitente, Indro Montanelli, il quale già in altre occasioni aveva fatto
qualche battuta a proposito dell’accoglienza che i Siciliani avevano riservato
a Garibaldi ed ai suoi Mille a proposito dello sbarco così ebbe modo di
esprimersi:
«Gli
inizi non furono promettenti. L’unico che diede un caldo benvenuto ai volontari
fu il Console inglese. La popolazione si chiude in casa. E lo stesso vuoto
incontrò la colonna l’indomani, quando si mise in marcia. Solo a Salemi,
Garibaldi fu accolto con entusiasmo, perché a lui si unì una banda di
“picciuotti” comandata dal Barone Sant’Anna. Se un “pezzo di novanta” come lui
si schierava con Garibaldi, voleva dire che su costui c’era da fare
affidamento». (13)
Ci
sentiamo in dovere di precisare che le virgolette sono nostre. Non ne potevamo
fare a meno, soprattutto nel momento in cui appaiono i picciotti di mafia ed il
loro pezzo da novanta, Barone Sant’Anna.
Non
ci pare nemmeno corretto che il Console di S.M. Britannica sia lì, in piazza, a
farsi in quattro per festeggiare l’inizio dell’invasione di quel Regno delle
Due Sicilie, presso il quale egli stesso ha svolto e continua a svolgere compiti
di rappresentanza diplomatica (si fa per dire, perché è fin troppo evidente il
suo ruolo di agente del Governo di Londra incaricato di agevolare azioni
destabilizzanti di ogni tipo). Analoga considerazione vale per il Console
Sabaudo. Ma Montanelli non si preoccupa di evidenziare questo particolare.
Va
tutto bene lo stesso? No, certamente. Ma è sufficiente constatare che il famoso
Indro abbia ammesso che a Marsala la gente si chiuse in casa e vi restò chiusa
anche durante la partenza di Garibaldi alla volta di Salemi. Ed
il Montanelli parla chiaramente anche dell’apporto della mafia.
E non è poco… per un unitario di ferro.
Giuseppe
Cesare Abba
– Persino l’Abba è costretto a parlare delle bandiere Inglesi. Si vede che
erano veramente molte. Anzi: troppe! A sbarco già avvenuto, scrive nelle sue
noterelle, proprio con la data dell’11 maggio 1860:
«Siedo
sopra un sasso, dinanzi al fascio di armi della mia compagnia, in questa
piazzetta squallida, solitaria, paurosa».
Dopo
qualche osservazione sul Capitano Alessandro Ciaccio, che piange di gioia e
dopo aver fatto qualche altro piccolo riferimento di cronaca, il nostro Autore
aggiunge:
«Su
molte case sventolano bandiere di altre nazioni. Le più sono Inglesi. Che vuol
dire questo?». (14)
Si
è detto che l’Abba pone un quesito al quale crediamo di avere risposto
abbondantemente. Ma riteniamo che gli avessero già risposto esaurientemente
quasi subito altri autori. E riteniamo altresì che l’Abba si sia risposto da
sé, nel momento in cui è costretto ad ammettere che sventola una grande
quantità di bandiere Inglesi.
Un
fatto strano, comunque. Per un cantore, per un apologeta dell’impresa
garibaldina, per un operatore di disinformazione storica e politica del
Risorgimento, è senza dubbio un sacrificio dare spazio a questo scorcio di
verità. Ma non può farne a meno: il fenomeno è dilagante e si ripeterà a
Palermo, a Catania, a Messina. Ovunque in Sicilia.
Va
da sé un’altra considerazione. L’Abba non afferma di aver visto
bandiere italiane. Ci fa quindi dedurre che non ve ne siano. Neppure una.
Non si tratta di un fatto secondario. Se infatti un agiografo come l’Abba
avesse visto a Marsala un solo fazzoletto tricolore, lo avrebbe moltiplicato
per cento… Saranno poi i pittori, i pennaioli ed i poeti (incaricati dal
Governo di Vittorio Emanuele o mossi dalla voglia di far carriera o dalla
necessità di sopravvivere) che faranno miracoli, descrivendo folle osannanti,
talvolta in ginocchio, che accolgono il Duce dei Mille fin dal molo del porto,
in un tripudio di gigantesche bandiere tricolori.
Dobbiamo
tuttavia ricordare che uno dei più famosi commentatori del libro di Abba, in
una nota, cerca di mettere una pezza alla testimonianza in questione. Ed
infatti scrive:
«(La
bandiera inglese significa) che molti Inglesi vi si trovavano per l’industria
vinicola. La bandiera metteva al riparo dal bombardamento». (15)
È
appena il caso di fare rilevare che il bombardamento vero e proprio, per la
verità, non vi era mai stato. E che si trattava di pochissime cannonate a vuoto
e puramente simboliche che peraltro erano già terminate. Mentre – come abbiamo
già puntualizzato – le bandiere Inglesi e le tabelle con la scritta domicilio
inglese si sarebbero viste (e mantenute a lungo) anche in altre città della
Sicilia, dove non vi erano industrie vinicole degli Inglesi… e neppure gli
Inglesi stessi.
Bandiere
e tabelle sarebbero servite in verità a moltissime famiglie siciliane per
mettersi al sicuro (o meglio, per tentare di mettersi al sicuro) dai saccheggi,
dalle violenze e dagli stupri, che non sarebbero certamente mancati. E che,
anzi, in non poche occasioni, avrebbero caratterizzato il comportamento dei
liberatori, nonché dei banditi e dei malfattori locali loro alleati.
Abbiamo
già ricordato che l’11 maggio 1860, a Piazza della Loggia, a Marsala, durante
la parata garibaldina si era rimediata a stento la sola bandiera italiana che
Giorgio Manin aveva tirato fuori da un apposito astuccio. Questo fatto la dice
lunga, troppo lunga… E conferma che le bandiere italiane non esistevano
nel maggio 1860. Né a Marsala, né in tante città della Sicilia. Fatte salve
ovviamente quelle poche eccezioni che confermano la regola.
Faremmo un torto a
G. C. Abba se non dicessimo che egli stesso si incarica di fare qualche
affermazione atta a compensare, probabilmente, gli
effetti negativi di alcune considerazioni, in apparenza ingenue, o di qualche
lapsus freudiano. Come quando, ad esempio, ha fatto cenno alla «piazzetta,
squallida, solitaria, paurosa». La compensazione avviene allorché, per
restare in tema, fa appunto una poco credibile descrizione dei festeggiamenti
(probabilmente inventati ed idealizzati nel lungo periodo di tempo trascorso
fra la sua partecipazione all’impresa ed il momento in cui avrebbe curato
l’ultima stesura della sua opera) dei quali nemmeno Garibaldi in persona ed il
suo fedele ufficiale Bandi fanno cenno, come vedremo.
Così
scrive Cesare Abba:
«Ora la
città è nostra. Dal porto alle mura corremmo bersagliati di fianco. Nessun male.
Il popolo applaudiva per le vie; frati di ogni colore (sic!) si squarciavano la
gola gridando; donne e fanciulli dai balconi ammiravano. “Beddi! Beddi!” si
sentiva da tutte le parti».
Eppure
poco prima aveva scritto:
«La
città non aveva ancora capito nulla; ma la ragazzaglia era già lì, venuta giù a
turba».(16)
Ci
insospettisce, altresì, ma non più di tanto, il fatto che l’Abba non abbia
detto «alcuni ragazzi» bensì abbia usato il termine, piuttosto dispregiativo,
di «ragazzaglia». Ci dovrebbe far riflettere anche la precedente frase:
«La
città non aveva ancora capito nulla…». (17)
Come
mai la città avrebbe festeggiato se non aveva «capito nulla»? E come mai pur
non avendo capito nulla aveva atteso l’evento liberatore? E come mai, senza
avere ancora capito nulla, secondo quanto attestano le fonti ufficiali,
sarebbero stati proprio i cittadini di Marsala quelli che volevano ad ogni
costo Garibaldi alla testa della loro rivoluzione?
L’agiografia
risorgimentale dell’Abba diventa, insomma, un boomerang per l’eccessivo
entusiasmo patriottico dell’Autore del testo «sacro» Da
Quarto al Volturno.
Non
sottilizziamo ed andiamo ad uno di quegli episodi secondari che però, a tempo e
luogo opportuni, possono assumere ruolo e funzione di testimonianza. L’Abba ci
aveva, sempre nella noterella del giorno undici, parlato di un incontro
interessante:
«Alcuni
frati bianchi ci salutavano coi loro grandi cappelli: ci spalancavano le loro
enormi tabacchiere: e stringendoci le mani, ci domandavano:
“Siete
reduci, emigrati, svizzeri?”».
Francamente
ci sembra strano che i frati, i quali dovevano necessariamente possedere un
bagaglio di cultura e di informazioni politiche (…oltre che di tabacco)
superiore alla media, facessero una domanda del genere e dimostrassero quindi
di non essere coinvolti nell’entusiasmo popolare, del quale lo stesso Abba
parlerà di lì a poco (di cui abbiamo fatto riferimento).
Una cosa, seppur
inquietante, i frati l’avevano comunque confessata. Per loro i Garibaldini
potevano anche essere stranieri. Meglio se svizzeri…
Non li avrebbero comunque conosciuti, né riconosciuti.
Bolton
King. Inglesi a Marsala? Bolton non lo sa… – Nel 1903, Benedetto Croce,
mostro sacro della filosofia e della storiografia italiana, unitario di ferro
(ancorquando meridionale), nel corso della presentazione di una nuova opera di
Bolton King, volle fare cenno a quella che era l’opera più conosciuta in Italia
e sulla quale avrebbero studiato diverse generazioni di docenti, di allievi e
di studiosi: La storia dell’unità
d’Italia, in quattro volumi. La prima edizione della quale era
stata pubblicata in lingua inglese nel 1899.
Ebbene,
il Croce in proposito affermò:
«La
“Storia dell’Unità d’Italia” benché elaborata con conoscenza completa del vasto
materiale erudito di quel periodo, pur non tanto mi era parsa notevole per
l’erudizione quanto per la finezza ed equilibrio del giudizio, che mette sotto
giusta luce uomini ed avvenimenti controversi, e desta quasi di continuo quella
persuasione, quell’intimo assenso, che si esprime con un “così è”». (18)
Ipse
dixit, insomma… L’opera dell’illustre inglese è senza dubbio ponderosa ed
interessante. Parte, però, da alcuni dati che ritiene scontati e certi, ma che
invece a nostro giudizio sono discutibili. Talvolta mai avvenuti.
Il
buon Bolton King, del resto, se in buona fede, non avrebbe mai potuto
immaginare che il materiale erudito da cui avrebbe attinto la conoscenza della
storia d’Italia, in realtà gli avesse fornito una serie di notizie rielaborate
e/o falsificate ab origine. Non sappiamo se, venendo in Italia, visitando i
luoghi del delitto, interrogando i testimoni oculari, lo scrittore inglese
avrebbe smentito se stesso.
Fatto
sta che il King non aveva mai messo piede in Sicilia fino al mese di maggio del
1860 (né lo avrebbe fatto dopo), né in Sicilia, né tantomeno in Italia. A
questo punto abbiamo il sospetto che Bolton King non fosse stato in buona fede
e che anche lui facesse parte della grande congiura della disinformazione per
giustificare e legittimare la grande operazione di conquista del Regno delle Due
Sicilie.
Ecco,
ad esempio, come ci descrive lo Sbarco dei Mille:
«Intanto
con i suoi piroscafi Garibaldi giunse a Marsala l’11 maggio. Era riuscito a
sfuggire ai vascelli Napoletani in alto mare, ma mentre si stava avvicinando a
terra fu avvistato da due incrociatori, che lo inseguirono accanitamente fino
nel porto. Una delle sue navi si incagliò e, se il fuoco aperto dai Napoletani
non fosse stato troppo largo e sparso, una metà dei suoi uomini non sarebbe
certo riuscita a giungere sana e salva sulla terraferma. A Marsala non esisteva
la guarnigione, ma la spedizione corse egualmente il rischio di rimanere
inchiodata in quel lembo dell’isola, per cui Garibaldi decise di marciare
immediatamente su Palermo: salutato con indicibile entusiasmo dalla
popolazione, si proclamò Dittatore dell’isola in nome di Vittorio Emanuele e si
affrettò quindi ad avanzare su Palermo, mentre La Masa incitava gli abitanti
dei villaggi a prendere le armi e mentre le squadre sopravvissute all’impresa
della Gancia si univano alle sue forze».(19)
Così
fu? Non ci pare. Manca peraltro ogni riferimento proprio all’intervento
inglese. Ed invece spunta un entusiasmo che, soprattutto a Marsala, nella
realtà, non era mai esistito. E questa descrizione dei fatti non ci pare
ammissibile per un Autore così importante. Eppure egli aveva scritto:
«La
politica del Governo Palmerston verso l’Italia si proponeva tre obiettivi
fondamentali: soddisfare le aspirazioni italiane cacciando dal Paese gli
austriaci; far cessare l’influenza francese in Italia; indebolire o distruggere
il potere temporale (del Papa)». (20)
Ammetteva
quindi che l’Inghilterra aveva scelto fra i due sovrani (peraltro imparentati
fra loro, Vittorio Emanuele II e Francesco II, legati da vincoli di sangue e di
parentela agli Asburgo), quale dei due buttare giù dalla torre e quale invece
salvare adottandolo ed aiutandolo a crescere. Se non addirittura
costruendolo a suo uso e consumo.
Come
poteva l’Inghilterra rischiare, ormai, che a Marsala il proprio progetto
colasse a picco? Qualcosa doveva fare e doveva già aver pur fatto!… O no? Ma
Bolton King finge di non vedere, di non sapere. Anzi si inventa una sua verità a
totale supporto della propaganda filo-unitaria.
Garibaldi: una
frase che rafforza i sospetti
– Scrive il Rosada:
«Dodici
anni dopo, il Duce dei Mille riconosce lealmente il suo debito scrivendo nelle
sue memorie:
“La
presenza dei due legni da guerra Inglesi influì alquanto sulla determinazione
dei comandanti de’ legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò
diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera di Albione contribuì,
anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; ed, io,
beniamino di cotesti signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro
Protetto”».
Questa
frase di Garibaldi, anziché dissipare insinuazioni e sospetti, li avrebbe rafforzati.
Ne condividiamo il contenuto, perché l’influenza e gli interventi
dell’Inghilterra furono veramente decisivi nei fatti del 1860 e degli anni
immediatamente successivi. Ma la macchina dell’agiografia risorgimentale non
sarebbe stata neppure sfiorata da questo momento di sincerità dell’Eroe dei
Mille.
Se
quest’ultimo avesse capito, fin dall’inizio, dove sarebbe arrivato il suo mito,
probabilmente non si sarebbe lasciato andare ad una confessione così
significativa e compromettente.
(20)
Bolton King, op. cit., vol. III,
pag. 140.
Denis
Mack Smith e Ippolito Nievo
– Sulla scia di Bolton King, uno storico inglese nostro contemporaneo,
Denis Mack Smith, ha avuto un enorme successo in Sicilia con libri di storia
che riguardano appunto la Sicilia. Uno dei più celebri, che è stato anche un
vero best-seller, è La storia della
Sicilia medievale e moderna, edita da Laterza (Bari, 1970). Lo
stile ovviamente è più scorrevole di quello del King, la benevolentia per i
Padri della Patria – da Vittorio Emanuele a Cavour, a Garibaldi, ecc., – rimane
però immutata.
Ci
confronteremo con le opinioni dello Smith nel corso del nostro lavoro. Non è il
caso di farlo adesso. Gli diamo però atto, per il momento, di aver citato, pur
senza condividerne troppo il contenuto, un’acutissima osservazione di Ippolito
Nievo:
«La rivoluzione era
sedata dappertutto o, per dir meglio, non avea (sic!) esistito: solo qualche
banda di semi-briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano
ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del Governo e
qualche paura dei proprietari».
(21)
Un giudizio,
questo, sferzante, quanto mai veritiero ed in controtendenza rispetto al
guazzabuglio di versioni ufficiali e non. Lo stesso Smith ci mette, però, in
guardia dicendo – lui inglese – che il Nievo «vedeva le cose da
settentrionale». Non ci pare un’espressione felice in generale. Ed in
particolare per il Nievo. Costui era, sì, un settentrionale, ma (a prescindere
dalla considerazione che la diversità etnica non ha niente a che vedere con i
fatti) ciò non significa che il grande scrittore non avesse capito meglio di
tanti Meridionali e di tanti Siciliani e – ci sia consentito – di tanti altri
Settentrionali e di tanti Inglesi, di che pasta fosse fatta la maggioranza
degli eroi Garibaldini e dei picciotti di mafia che a questi si aggregavano.
Insomma Nievo parla. (22)
Cosa,
questa, che non potevano fare quanti erano stati complici dei delitti connessi
alla conquista del Sud e della Sicilia, né lo possono fare oggi quanti compiono
il lavoro di omologazione culturale o quanti hanno la necessità di tenere in
piedi il mito garibaldino, scisso dalla verità. Magari in buona fede oppure nel
rispetto della… ragion di Stato.
Ma
per meglio comprendere il valore della testimonianza alla quale abbiamo dato
spazio, dobbiamo ricordare chi era Ippolito Nievo. Di lui così scrive Lorenzo
Bianchi:
«Ippolito
Nievo, padovano (1831-1861), poeta e geniale autore delle ‘Confessioni d’un
ottuagenario’, ammirato dall’Abba (vedi qui, pagg. 88, 149, 279, Storia dei
Mille, pagg.115-116). Era stato delle ‘Guide del 59′, partecipò alla
‘spedizione dei Mille’ (di cui lasciò lettere vivaci e uno scheletrico diario)
come a un sicuro olocausto. Per la sua scrupolosità fu assegnato all’Intendenza
Militare con Giovanni Acerbi (diceva di non possedere che un solo requisito per
fare il cassiere, quello ‘di non saper rubare’). Per l’alto ingegno e il senno
politico appariva destinato a un grande avvenire. Ma ‘spariva dal mondo nel
marzo 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un vapore [l’Ercole] che
fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque. Perì in lui il poeta che avrebbe
cantato davvero l’epopea garibaldina; e un cadavere che fu creduto lui, venne
poi trovato sulla riva d’Ischia, l’isola dei poeti».
Il
Nievo è quindi un testimone di grande prestigio e soprattutto molto sincero,
attendibile. Ancorquando unitario ad ogni costo. Ed è un uomo che ha amato
molto la verità.
Ancora
oggi in Sicilia si sospetta che la sua morte non sia stata accidentale; si
ritiene che «qualcuno», potente e compromesso, avesse avuto interesse a far
fuori il Nievo per impedirgli di denunziare brogli ed ammanchi che, nella sua
qualità di intendente e di ispettore, avrebbe scoperto nell’Amministrazione
«unitaria ed italiana», non più Duosiciliana, quindi, in Sicilia.
Infatti,
dopo aver eseguito diligentemente l’ordine di raccogliere i documenti contabili
(riteniamo scottanti) sui quali aveva indagato, per portarli a Torino (in quel
periodo capitale del Regno d’Italia), il grande scrittore lasciò la Sicilia
diretto a Napoli sul vecchio Ercole il 4 marzo 1861.
Si
può affermare soltanto che il piroscafo non arrivò mai a destinazione e che,
del Nievo, non si ebbe più notizia. Né si conobbero mai con esattezza le vere
cause del naufragio del vapore di Napoli (come veniva chiamato). Non
sopravvisse nessuno. Ippolito Nievo, al momento della morte, aveva appena
trent’anni.
Sulla
tragedia si hanno solo due certezze: la prima è che il Nievo aveva con sé
un’enorme quantità di documenti che provavano gli imbrogli che egli stesso
aveva scoperto, ad iniziare dai prelievi che i Garibaldini avevano effettuato a
man bassa alla Tesoreria dello Stato delle Due Sicilie a Palermo;
l’altra è costituita dal fatto che del piroscafo Ercole fino ad oggi non sono
stati mai rinvenuti relitti, neppure parziali. In pratica non si è mai avuta la
certezza che la causa della scomparsa della nave fosse da attribui- re ad un
naufragio, ad un incendio accidentale oppure ad un attentato…
(13)
Indro Montanelli, L’Italia unita. Da Napoleone alla svolta del Novecento,
Rizzoli, II vol., 2015, pag. 613. Facciamo rilevare che il Montanelli,
scrivendo «picciuotti» adotta la pronunzia di alcuni antichi rioni di Palermo.
In realtà la pronunzia più diffusa in Siciliano è «picciotti». Letteralmente
«picciotto» significa «giovane». In senso lato significa anche «aiutante»,
apprendista, esecutore di ordini, lavoratore manuale, ecc…
Fine ottava
puntata/ continua
Foto
tratta da questionegiustizia.it
(14)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50.
(15)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50, nota 1.
(16)
G. C. Abba, op. cit., pag. 51.
(17)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50.
(18)
Bolton King, Storia dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, 1960, vol. I, pag.
11, introduzione a cura di Ernesto Ragionieri.
Denis Mack Smith e
Ippolito Nievo
– Sulla scia di Bolton King, uno storico inglese nostro contemporaneo,
Denis Mack Smith, ha avuto un enorme successo in Sicilia con libri di storia
che riguardano appunto la Sicilia. Uno dei più celebri, che è stato anche un
vero best-seller, è La storia della
Sicilia medievale e moderna, edita da Laterza (Bari, 1970). Lo
stile ovviamente è più scorrevole di quello del King, la benevolentia per i
Padri della Patria – da Vittorio Emanuele a Cavour, a Garibaldi, ecc., – rimane
però immutata.
Ci
confronteremo con le opinioni dello Smith nel corso del nostro lavoro. Non è il
caso di farlo adesso. Gli diamo però atto, per il momento, di aver citato, pur
senza condividerne troppo il contenuto, un’acutissima osservazione di Ippolito
Nievo:
«La rivoluzione era
sedata dappertutto o, per dir meglio, non avea (sic!) esistito: solo qualche
banda di semi-briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano
ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del Governo e
qualche paura dei proprietari».
(21)
Un
giudizio, questo, sferzante, quanto mai veritiero ed in controtendenza rispetto
al guazzabuglio di versioni ufficiali e non. Lo stesso Smith ci mette, però, in
guardia dicendo – lui inglese – che il Nievo «vedeva le cose da settentrionale».
Non ci pare un’espressione felice in generale. Ed in particolare per il Nievo.
Costui era, sì, un settentrionale, ma (a prescindere dalla considerazione che
la diversità etnica non ha niente a che vedere con i fatti) ciò non significa
che il grande scrittore non avesse capito
meglio di tanti Meridionali e di
tanti Siciliani e – ci sia consentito – di tanti altri Settentrionali e di
tanti Inglesi, di che pasta fosse fatta la maggioranza degli eroi Garibaldini e
dei picciotti di mafia che a questi si aggregavano.
Insomma Nievo parla. (22)
Cosa,
questa, che non potevano fare quanti erano stati complici dei delitti connessi
alla conquista del Sud e della Sicilia, né lo possono fare oggi quanti compiono
il lavoro di omologazione culturale o quanti hanno la necessità di tenere in
piedi il mito garibaldino, scisso dalla verità. Magari in buona fede oppure nel
rispetto della… ragion di Stato.
Ma
per meglio comprendere il valore della testimonianza alla quale abbiamo dato
spazio, dobbiamo ricordare chi era Ippolito Nievo. Di lui così scrive Lorenzo
Bianchi:
«Ippolito
Nievo, padovano (1831-1861), poeta e geniale autore delle ‘Confessioni d’un
ottuagenario’, ammirato dall’Abba (vedi qui, pagg. 88, 149, 279, Storia dei
Mille, pagg.115-116). Era stato delle ‘Guide del 59′, partecipò alla
‘spedizione dei Mille’ (di cui lasciò lettere vivaci e uno scheletrico diario)
come a un sicuro olocausto. Per la sua scrupolosità fu assegnato all’Intendenza
Militare con Giovanni Acerbi (diceva di non possedere che un solo requisito per
fare il cassiere, quello ‘di non saper rubare’). Per l’alto ingegno e il senno
politico appariva destinato a un grande avvenire. Ma ‘spariva dal mondo nel
marzo 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un vapore [l’Ercole] che
fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque.
Perì in
lui il poeta che avrebbe cantato davvero l’epopea garibaldina; e un cadavere
che fu creduto lui, venne poi trovato sulla riva d’Ischia, l’isola dei poeti».
Il
Nievo è quindi un testimone di grande prestigio e soprattutto molto sincero,
attendibile. Ancorquando unitario ad ogni costo. Ed è un uomo che ha amato
molto la verità.
Ancora
oggi in Sicilia si sospetta che la sua morte non sia stata accidentale; si
ritiene che «qualcuno», potente e compromesso, avesse avuto interesse a far
fuori il Nievo per impedirgli di denunziare brogli ed ammanchi che, nella sua
qualità di intendente e di ispettore, avrebbe scoperto nell’Amministrazione
«unitaria ed italiana», non più Duosiciliana, quindi, in Sicilia.
Infatti,
dopo aver eseguito diligentemente l’ordine di raccogliere i documenti contabili
(riteniamo scottanti) sui quali aveva indagato, per portarli a Torino (in quel
periodo capitale del Regno d’Italia), il grande scrittore lasciò la Sicilia
diretto a Napoli sul vecchio Ercole il 4 marzo 1861.
Si
può affermare soltanto che il piroscafo non arrivò mai a destinazione e che,
del Nievo, non si ebbe più notizia. Né si conobbero mai con esattezza le vere
cause del naufragio del vapore di Napoli (come veniva chiamato). Non sopravvisse
nessuno. Ippolito Nievo, al momento della morte, aveva appena trent’anni.
Sulla
tragedia si hanno solo due certezze: la prima è che il Nievo aveva con sé
un’enorme quantità di documenti che provavano gli imbrogli che egli stesso
aveva scoperto, ad iniziare dai prelievi che i Garibaldini avevano effettuato a
man bassa alla Tesoreria dello Stato delle Due Sicilie a Palermo;
l’altra è costituita dal fatto che del piroscafo Ercole fino ad oggi non sono
stati mai rinvenuti relitti, neppure parziali. In pratica non si è mai avuta la
certezza che la causa della scomparsa della nave fosse da attribui- re ad un
naufragio, ad un incendio accidentale oppure ad un attentato…
(13)
Indro Montanelli, L’Italia unita. Da Napoleone alla svolta del Novecento,
Rizzoli, II vol., 2015, pag. 613. Facciamo rilevare che il Montanelli,
scrivendo «picciuotti» adotta la pronunzia di alcuni antichi rioni di Palermo.
In realtà la pronunzia più diffusa in Siciliano è «picciotti». Letteralmente
«picciotto» significa «giovane». In senso lato significa anche «aiutante»,
apprendista, esecutore di ordini, lavoratore manuale, ecc…
Fine ottava
puntata/ continua
(14) G.
C. Abba, op. cit., pag. 50.
(15)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50, nota 1.
(16)
G. C. Abba, op. cit., pag. 51.
(17)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50.
(18)
Bolton King, Storia dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, 1960, vol. I, pag.
11, introduzione a cura di Ernesto Ragionieri.
Il problema della tratta minorile in varie nazioni europee, soprattutto Francia e Inghilterra, era tristemente presente, nella seconda metà dell’ottocento, in varie zone d’Italia. Il territorio dell’attuale provincia di Frosinone, ad esempio, fu coinvolto nell’incetta di fanciulli da impiegare come garzoni nelle vetrerie francesi e non furono pochi i casi di coloro che, per i massacranti turni di lavoro e per la vita di stenti, morirono o si ammalarono gravemente, specialmente di tubercolosi1.
L’epoca seconda di
queste memorie non sarà creduta da’ posteri. Io racconterò fatti incredibili,
ma veri.
Ora cominciano le diserzioni dei soldati e degli uffiziali, la viltà e le
inesplicabili ritirate de’ Generali, ove non si vogliano chiamare
vergognosissimi tradimenti.
Un’anima nobile e
dignitosa rifugge da queste rimembranze: è troppo tristo ricordare come una
prode armata di circa 100,000 uomini fosse stata distrutta non già dal nemico,
ma da varii dei capi stessi, i quali disonorarono il proprio paese, e quella
divisa gallonata, che con tanta burbanza indossavano.
La striscia di sangue
che bagnò la via da Boccadifalco a Gaeta sgorgò solamente dalle vene de’
soldati, i figli del popolo, e dell’ufficialità subalterna e se non fosse stato
per questi, l’onor militare del disgraziato Regno di Napoli sarebbe rotolato
nel fango.
Gli scrittori
garibaldini descrissero pugne omeriche; ma la storia imparziale dirà, che le
bande garibaldine sarebbero valse meno delle bande siciliane, se non fosse
stata l’ignavia, la viltà, e il tradimento di alcuni duci napoletani. I fatti
che racconterò saranno una splendida prova del mio asserto.
Dopo le vicende guerresche di aprile, la truppa era
rientrata ne’ quartieri, e riprendea le sue abitudini, e tutto sembrava quieto.
Il 13 maggio, corse voce, che Garibaldi fosse sbarcato in Marsala con 600
uomini di truppa piemontese.
Questa notizia fu
tenuta per una favoletta, una spiritosa invenzione. Tutti dicevano: l’hanno
detta assai grossa.
Conciosiachè le
relazioni diplomatiche tra Torino e Napoli fossero cordiali, e quindi non era
da supporre che quel Governo volesse tentare un’invasione in un Regno amico,
senza alcuna ragione, almeno apparente, e senza intimazione di guerra, come si
usa ne’ paesi civili.
Tuttavia la sera di
quel giorno 13, la notizia venne confermata ufficialmente, ma corretta in
questo modo: che Garibaldi fosse sbarcato in Marsala con più di 1000 volontari
vestiti con camicia rossa: che i legni di guerra napoletani, cioè la fregata
Partenope, e i due vapori Stromboli, e Capri, non avessero potuto impedire lo
sbarco di quei volontari, perché protetti da due legni di guerra inglesi,
l’Intrepido e l’Argo, partiti due giorni prima dalla rada di Palermo: che
Garibaldi non venisse in Sicilia a far la guerra per ordine del Governo Sardo,
ma per aiutare la rivoluzione siciliana.
Queste notizie furono
accolte con entusiasmo dalla truppa; tutti desideravano essere condotti a
Marsala per combattere Carlobardi, così i soldati chiamavano Garibaldi farsi
onore ed ottenere decorazioni e gradi militari. Vi era pure un certo dispetto,
che uno straniero si venisse ad immischiare nelle nostre lotte politiche.
Garibaldi, in Marsala,
non trovò cordiale accoglienza. Il Municipio andò via, i marsalesi agiati
fuggirono, le vie erano deserte. Di che fortemente indignato fece occupare le
porte della città dai suoi volontarii, e dichiarò lo stato di assedio.
È necessario qui
notare, che Garibaldi appena toccata la terra siciliana, che dovea redimere
dalla schiavitù, per primo atto del suo inqualificabile potere dichiarò lo
stato di assedio in una città non ostile, ma riservata e indifferente alla
libertà e redenzione che volea largirle.
Il 14 maggio, Garibaldi
ed i suoi volontarii partirono per Salemi, paese 20 miglia dentro l’isola, ove
fu incontrato dal celebre padre Pantaleo di Castelvetrano, frate de’ Minori
osservanti, oggi ammogliato e libero pensatore.
Alcuni duci gallonati
di Palermo invece di attendere ed arrestare la marcia di Garibaldi, si
bisticciavano tra loro: aveano perduta la bussola prima di mettersi in mare.
Nondimeno dovendosi decidere a qualche cosa, si decisero pessimamente, cioè
mandarono il generale Landi a combattere Garibaldi. Il Landi era stato
comandante del 9° cacciatori, ed io non avea inteso buone notizie intorno alla
sua delicatezza amministrativa e capacità militare.
Landi partì per Alcamo;
il 14 maggio radunò in quella piccola città più di 3000 uomini di truppa
scelta, avidissima di battersi: avea cannoni, cavalleria, e tutto quello che fa
di bisogno ad un piccolo corpo di esercito in campagna. Il contenersi del
Generale in Alcamo era come se si trattasse di una passeggiata o parata
militare, in che riuscivano mediocri non poca parte de’ duci napoletani. Landi
non prendeva alcuna precauzione, non dava quegli ordini che si richiedevano,
avendo il nemico quasi di fronte: stava inoperoso.
Spinto dagli ordini
urgenti del Luogotenente Castelcicala, si partì d’Alcamo per Calatafimi. Il 15
maggio anche Garibaldi con i suoi volontari, e le squadre siciliane, che avea
raccolte, si spinse verso Calatafimi.
BATTAGLIA DI CALATAFIMI
Garibaldi si fermò prima di giungere a Calatafimi, e
sembrava incerto di ciò che si dovesse risolvere. Vedendo la truppa di fronte,
cercò scansarla; lasciò la via e prese i monti.
Landi per mostrare di far qualche cosa, prima che comparisse Garibaldi, avea
spinto verso Salemi il maggiore Sforza comandante l’8° cacciatori, ma con
quattro sole compagnie, per fare una ricognizione militare, e se attaccato,
ritirarsi.
Giunto lo Sforza non
più lungi di un tiro di fucile da’ garibaldini, vide che lasciavano la via e
prendevano i monti per evitare un combattimento. A questo i soldati non si
contennero e si diedero a gridare che volevano battersi ad ogni costo. Il
comandante Sforza protestò che avea altri ordini dal Generale, ma lo scambio
delle fucilate cominciava, e lo Sforza finì di secondare il desiderio de’ suoi
soldati, spingendosi alla loro testa ed attaccò vigorosamente i garibaldini.
La mischia fu
terribile: i garibaldini si erano appiattati a terra, ed in quellaposizione
facevano un fuoco ben nutrito. Prevalse però la bravura e disciplina delle quattro
compagnie, e le bande rosse furono sgominate ed inseguite.
Menotti Garibaldi che
portava una magnifica bandiera tricolore, venne ferito ad un braccio, ed
obbligato di consegnarla ad uno de’ suoi compagni. Questi fu ucciso da un
soldato napoletano di nome Angelo de Vito, il quale s’impadronì della bandiera
che poi fu portata a Palermo. Era certa la disfatta di Garibaldi; de’ suoi, chi
fuggiva, chi combatteva in disordine.
Il Landi, che
certamente tutto vedea ed osservava da lungi, invece di spingere altri
battaglioni che avea disponibili per compiere la non dubbia vittoria, diede
l’ordine della ritirata, e cominciò a retrocedere verso Alcamo, senza avvertire
il maggiore Sforza, il quale inseguiva i garibaldini. Costui avvertito che la
colonna si ritirava verso Alcamo, non volle crederlo; quando poi si accertò con
i suoi propri occhi, credè prudente anch’egli di ritirarsi, chè già cominciava
a difettare di munizioni.
I garibaldini vedendo quella inesplicabile ed inattesa
ritirata della colonna Landi, presero animo: coadiuvati dalle squadre siciliane
che non aveano preso parte in quel combattimento, diedero addosso a’ regii, e
la scena cambiò totalmente.
In quella disordinatissima ritirata della truppa cadde una mula che portava un
obice. I soldati lo buttarono in un burrone, e di colà fu poi raccolto da’
garibaldini che ne menarono gran vanto.
Nella ritirata di Landi
fu grandissima confusione. I battaglioni disorganizzati marciavano alla
ventura, mischiati con carri, artiglieria o cavalleria: vi era un caos! Giunti
ad Alcamo furono attaccati da’ ribelli che tiravano fucilate dalle finestre e
da’ balconi: i soldati risposero con incendiare molte di quelle case ove si
facea fuoco vivissimo. Lo stesso avvenne al passaggio di Partinico.
Il Landi fuggiva alla testa di quella truppa che avea
disorganizzata, e demoralizzata, e cambiava strada appena avea notizia di
qualche piccola banda che lo inseguiva.
Fu il primo ad arrivare a Palermo, ove fu seguito poi dalla sua colonna in
massimo disordine ed affamata.
Garibaldi a Calatafimi
perdette centodieci volontari. Se le sole compagnie dell’8° Cacciatori,
equivalenti a meno di cinquecento uomini, lo sbaragliarono e gli fecero quel
danno, qual sarebbe stata la fine della temeraria impresa del futuro dittatore
delle Due Sicilie, se Landi si fosse battuto con tutti i suoi?
Ma Garibaldi avea forse
certezza che il duce napoletano si sarebbe condotto come realmente si condusse,
ove si volesse ammettere come vera la notizia non mai smentita, e che io come
semplice cronista riporterò: cioè che Landi avesse ricevuto da Garibaldi per
prezzo della sua condotta, una fede di credito di quattordicimila ducati, che
il Banco di Napoli trovò poi falsa, cioè, era di soli ducati quattordici; e che
ne morì di dolore sorpreso da un colpo apoplettico.
Il fatto d’armi di
Calatafimi segnò la caduta della Dinastia delle Due Sicilie; imperocchè il
generale Landi non fu chiamato a dar conto della sua vergognosissima condotta,
ed inesplicabile ritirata; ma quello che fa più meraviglia si è, che rimase al
comando della brigata che avea disorganizzata e demoralizzata. Questo esempio
incoraggiò i duci, o vili o traditori, a tradire impunemente.
INSEGUIMENTO DI
GARIBALDI
Dopo Calatafimi,
Garibaldi ingrossando sempre le sua bande di nuovi rivoluzionari, marciò per
Alcamo, Partinico, e fece alto in un piccolo villaggio detto il Pioppo, tre
miglia incirca sopra Monreale, meno di sette da Palermo, ove si trovavano
ventimila uomini di buona truppa, e benissimo equipaggiata.
Dopo il fatto d’armi di
Calatafimi il Luogotenente Castelcicala si dimise dall’alta sua carica e partì
per Napoli. Corse voce nell’armata che si sarebbe recato a Palermo con l’alter
ego il Conte generale Giuseppe Statella. Questa notizia fu accolta con
entusiasmo, dapoichè il nome degli Statella era popolarissimo in tutta
l’armata.
Quel Generale nato da
una famiglia assai distinta, e di una antichissima aristocrazia siciliana,
oltre di essere sufficientemente istruito, avea quelle qualità che si
richiedevano alle condizioni dell’Isola: fedeltà incrollabile a’ Borboni,
ereditaria nella famiglia Statella, un coraggio da reggere a qualunque prova,
attivissimo, una fermezza di carattere ammirabile, severissimo per la
disciplina militare: del resto uomo semplice e cordiale.
Era un uomo che non
sarebbe venuto meno in qualsiasi difficoltà militare o diplomatica, perché in
que’ casi avrebbe operato sempre alla soldatesca; oso affermare che avrebbe
disubbidito al proprio Sovrano, se costui gli avesse dato un ordine da
compromettere la Dinastia, o la dignità militare. Lo Statella si sarebbe fatto
condannare da un alto consiglio di guerra anzichè eseguire un ordine
pregiudizievole al Regno, alla sua dignità di gentiluomo e di Generale.
Oh! se il generale
Statella fosse andato a comandare l’armata di Sicilia con pieni poteri, oggi
Garibaldi non si chiamerebbe da’ suoi ammiratori liberatore e redentore
dell’Italia Meridionale. Ma la setta che circondava il giovine sovrano, invece
di mandare in Sicilia uno de’ pochissimi Generali che avrebbe salvata la
Dinastia e il Regno, scelse il generale Lanza, che finì di uccidere l’armata di
Palermo.
Il 20 maggio giunse in
Monreale il colonnello Won Meckel col 3° cacciatori esteri, detti svizzeri, ma
erano un’accozzaglia di svizzeri, francesi, boemi e bavaresi, de’ quali molti
aveano combattuto sotto Garibaldi nel Varese.
Giunsero altri
battaglioni e si formò una brigata sotto il comando di Meckel con i seguenti
battaglioni: 3° esteri, 2° cacciatori, comandato dal maggiore Murgante, 9°
cacciatori comandato dal maggiore Bosco, quattro compagnie del 5° di linea
comandate dal maggiore Marra, quattro cannoni di montagna, pochi cacciatori a
cavallo, e la compagnia d’armi di Palermo comandata dal capitano Chinnici.
Tutti incirca quattromila uomini. In Monreale rimasero altri tre battaglioni
sotto il comando del colonnello Buonanno.
Il 21 maggio la brigata
Meckel marciò sul Pioppo. Sopra la Casina di Buarra trovammo gli avamposti di
Garibaldi, erano bande siciliane. Appena cominciò il fuoco coteste bande si
ritirarono sopra la montagna. Io vidi due soldati esteri che conducevano, anzi
strascinavano un prigioniero, un’uomo già disarmato, e tra loro vi era un
diverbio animatissimo.
Temendo che quel
prigioniero patisse qualche sinistro, chiamai due soldati napoletani e corsi ad
incontrare que’ tre. Il malcapitato era un uomo su’ 30 anni, senza cappello, in
gran disordine. Gli aveano strappato il fucile, e se l’avea preso uno dei
soldati esteri:gridava come un energumeno, dicendo: vili satelliti della tirannide,
lasciate libero un cittadino che combatte per la libertà della sua patria, ed
altre parole diceva, contro i soldati e contro il Sovrano.
Fortuna per lui che i
soldati esteri neppure intendevano l’italiano, sebbene i due soldati napoletani
capivano benissimo il dialetto siciliano, ed uno di questi alzò il fucile per
darlo in testa al prigioniero: io lo contenni. Seppi che quel prigioniero
faceva la professione di notaio in un paese vicino, ebbi a pregarlo e
minacciarlo perché tacesse. Egli cercava di convertire i soldati e me con essi:
io gli dissi di nuovo di tacere, altrimenti l’avrei abbandonato al suo destino,
perché i soldati napoletani cominciavano a mormorare contro di me. Persuasi i
soldati esteri a cedermi il prigioniero, lo ricondussi alla retroguardia
raccomandandolo ad un uffiziale mio amico. Forse altri direbbe, quel notaio
prigioniero essere un gran patriota, ed io affermo ch’era un gran fanatico, un
gran pazzo da catena.
La brigata Meckel si
avanzava baldanzosa contro il Pioppo. Una compagnia di cacciatori, comandata
dal capitano Giudice, spiegata da fiancheggiatori, era giunta sopra l’alta
collina che domina il Pioppo. Io vidi che i garibaldini fuggivano in disordine
verso Partinico, e vidi che più di 50 carri di equipaggi aveano presa la stessa
via. In quella sento la nostra tromba battere a ritirata. Io non volea credere
né ai miei occhi, né a’ miei orecchi. Ritirata…! e perché? Vedo venire Bosco
con una faccia che mettea paura: martirizzava il cavallo su cui montava, era al
colmo dell’irritazione. Io che non era soggetto alla disciplina militare quanto
erano soggetti gli uffiziali, ed avendo molto confidenza col Bosco, gli dissi:
ritirarci, e perché? mi rispose con parole sdegnose ed inintellegibili e passò
via.
Non ho avuto mai sicura
certezza della vera causa di quella inesplicabile ritirata. Il Meckel non potea
esser sospetto né di viltà né di tradimento; quindi non si parlò che di un
ordine superiore venuto da Palermo, cui tutti attribuivamo quella ritirata che
sembrava inesplicabile.
Intanto i soldati
mormoravano e cominciavano a profferire la parola tradimento, e non si faticò
poco a farli ritornare alla volta di Monreale.
Il capitano del Giudice
mi dicea: dal sommo della collina, ove mi trovavo, avrei potuto distruggere la
metà de’ garibaldini, facendo scorrere delle grosse pietre sopra di loro, ed
avrei potuto benissimo tagliar la ritirata sopra Palermo: ma fu necessità
ubbidire e ritirarmi.
Si giunse in Monreale;
e lasciato tranquillo il nemico più pericoloso, che ormai avevamo nelle mani,
si risolvette di mandare il capitano del Giudice con la sua compagnia a
sorvegliare la valle di S. Martino ch’è dietro i monti di Monreale al Nord-Est.
Costui giunto in quella valle fu assalito da una moltitudine di bande siciliane
guidate da Rosolino Pilo, il quale fu ucciso in quel conflitto.
Garibaldi al Pioppo
aspettava la rivoluzione di Palermo, e vedendo che non iscoppiava, come gli
aveano promesso, trovandosi seriamente minacciato da’ regii, la notte del 21
maggio, riunì i suoi già dispersi per la paura che aveano avuta del tentato
attacco della colonna Meckel, prese la via de’ monti a destra e marciò
versoParco, piccolo paese fabbricato a metà della costa di una gran montagna,
dirimpetto Monreale dalla parte del Nord-Est.
Fece una divisione in due colonne, una comandata da
lui accampò sull’alta montagna in un luogo detto Pizzodelfico, l’altra
comandata dall’ungarese Turr occupò Parco.
In Monreale era molta truppa e stava in ozio, perché si attendeano gli ordini
da Palermo. Intanto i soldati erano condannati a stare a bracciarmi in quella
che vedeano i garibaldini a Parco o su la montagna, occupati pacificamente alle
manovre militari.
Le mormorazioni de’
soldati cominciavano ad inquietarci, e non avvenne una rivolta militare perché
né Bosco, né Meckel poteano cadere in sospetto di tradimento. Questa condizione
di cose durò tre lunghi giorni. Se quello fu un tempo prezioso per Garibaldi,
io lo lascio pensare a quelli che conoscono i raggiri della setta, e l’attività
del duce nizzardo.
ENTRATA AL PIOPPO E IN
PARCO
Finalmente la sera del
23 venne l’ordine da Palermo di attaccare i garibaldini. La brigata Meckel
marciò la mattina seguente per la via di Renna per prendere i garibaldini di
rovescio. Il generale Colonna partì da Palermo con un’altra brigata per
attaccarli di fronte. Verso le 6 del mattino i soldati di Meckel avevano
raggiunto Pizzodelfico, e si scagliarono contro i garibaldini, ma questi non
opposero che piccola resistenza, e fuggirono inseguiti sulla cima della
montagna, ove soffersero non poco danno a causa de’ luoghi alpestri e scoscesi:
i soldati erano avvezzi a quelle marce, vantaggio che non aveano i nemici.
Un grosso distaccamento
entrò in Parco dalla parte dell’ovest: Turr e i suoi fuggirono sulla montagna.
Il generale Colonna era intanto alle mani con le bande siciliane fortificate
nella semipianura sotto Parco, dalla parte di Palermo; dopo di avere fugate
quelle masse di gente armata che combattea da dentro le case di quella
campagna, si avanzò su Parco, ove non trovò più nemici da combattere.
In cambio d’inseguire
un nemico che fuggiva in disordine, e tanto più che le bande siciliane
cominciavano a sciogliersi, e dar la volta verso i loro paesi, si diede ordine
che la truppa restasse lì ove era; e così il nemico ebbe il tempo di riaversi e
riordinarsi. Si vide che il generale Lanza che comandava da Palermo non volea
far davvero.
Io entrai in Parco, e
trovai che il paese era stato manomesso da’ garibaldini e dalle bande
siciliane. La maggior parte degli abitanti erano fuggiti all’arrivo de’
garibaldini. Le povere donne e i fanciulli rimasti si erano rifugiati nelle
Chiesa madre, altre donne e fanciulli nell’unico monastero che vi era in quel
paese.
Mi diressi a quelle
poche persone che incontrai, e seppi ove si erano rifugiate le donne ed i
fanciulli. Mi recai alla Chiesa, trovai uno spettacolo tristo: il sacro tempio
era gremito di quegli infelici spaventati e piangenti. Io feci di tutto per
confortarli, e li persuasi a seguirmi, assicurando loro che li avrei ricondotti
nelle proprie abitazioni. In fatti mi convenne far molti viaggi per condurli in
diversi punti del paese. Le povere monache mandarono una persona a pregarmi che
mi recassi subito al monastero, ove trovai un’altra scena desolante. La maggior
parte di quelle donne, riparatesi nel monastero, erano ammalate, quali svenute,
tutte spaventate.
Molte di quelle donne
mi seguirono, ed io le condussi alle proprie case. Però le derelitte monache
stavano sempre in gran paura, perché la sera precedente si era tentato scalare
le alte mura del monastero. Io a volerle difendere da qualunque aggressione, me
ne andai subito a pregare il comandante Bosco che mi assegnasse un
distaccamento di soldati da me scelti per guardare quel monastero, per quietare
la paura delle monache. Il Bosco non se lo fece dire, mi diede subito 30
soldati, ed un sergente di mia fiducia, i quali si posero a far la guardia
intorno al monastero.
Ne’ tre giorni che i
garibaldini dimorarono in Parco, furono scassinati non pochi magazzini, in
particolarità quelli che conteneano vino, e tutto era stato messo a saccheggio.
Ladri del paese, garibaldini e squadre siciliane, tutti aveano saccheggiato,
chi più chi meno.
Qui debbo avvertire che
i soldati della brigata Colonna, i quali rimasero nel paese commisero azioni
indegne non solo di chi veste una divisa militare, ma di chi è nato in paesi
civili. Quei soldati istigati da’ ladri del paese, e sommamente digiuni, perché
la truppa tante fiate restava digiuna per la incuria de’ comandanti, finirono
di saccheggiare magazzini già saccheggiati, e ne saccheggiarono altri.
Alcuni compagni d’armi
rubavano pure nelle case deserte de’ proprietarii. La sera del 24 maggio il
Parco era un disordine indescrivibile. I soldati della brigata Colonna erano
quasi tutti ubbriachi, e non sentivano più né preghiere né minacce. Io mi
rivolsi a molti uffiziali perché mi aiutassero a mettere a dovere i soldati, ma
nulla ottennero. Il male lo fecero i duci, i quali lasciarono così affamata la
truppa in un paese mezzo saccheggiato. Io non credo di errare se dico, che
alcuni duci napoletani fomentassero indirettamente que’ disordini per
disonorare la causa del proprio sovrano, che fingevano di difendere.
Fortuna per le povere monache che il distaccamento
datomi da Bosco, vegliò intorno al monastero per tutta quella infausta notte.
Io addolorato e vergognoso di que’ disordini che vedea, e che non potea impedire,
uscì dal paese salì un poco la montagna, e mi recai al Camposanto, ov’era
accampato il 9° cacciatori, ed ivi passai la notte coricato sopra le sepolture.
La mattina del 25 di
buon’ora battè la generale, e tutti partimmo per la piana de’ Greci. La truppa
si riunì tutta sulla montagna, cioè tra le due brigate di Meckel e l’altra di
Colonna, e da lì marciò in ordine di battaglia.
Era, anche, norma che per ogni seggio si scegliesse un eletto tra i sei nominati, (per un totale di sei per le piazze nobili, che si appellavano “capitani dei nobili”, ed uno per il Popolo, detto “capitano di strada Popolare”), con mandato annuale, ai quali si affidavano le chiavi di ogni porta cittadina , una copia ai capitani ed altra all’eletto del Popolo.