Cenni Storici Monte Trocchio a Cervaro
L’ Associazione culturale Santa Lucia prende il nome dalla contrada omonima in cui opera.
Fino al 1850, però, la contrada si chiamava Trocchio, giacché si stende, tra vigneti e oliveti, sul dolce declivio del versante est di monte Trocchio. Questo in realtà è una collina, essendo alto solo 420 metri sul livello del mare, ma, forse per la sua natura prevalentemente rocciosa, o forse per la sua sagoma, che dalla piana di Cassino si erge , quasi improvvisa e incombente nel suo versante ovest, come un’altura a picco sulla zona sottostante, è chiamata correntemente monte Trocchio.
La sagoma particolare, cioè dolcemente degradante a est e invece erta a sud, e con la prolungata dorsale nord-sud, si spiega con le sue origini preistoriche.
Prima degli sconvolgimenti tellurici dell’era neozoica, la pianura di Cassino era il fondo di un lago, sbarrato al mare dal vulcano di Roccamonfine, e anche Trocchio lo era, evidentemente con la parte che ora è esposta a est, dove oggi è facilissimo trovare fossili di una conchiglia equivalve, la “ pecten”, sulle rocce erose dal tempo. Ma quando terremoti ed eruzioni sconvolsero la terra, dandole un nuovo assetto, la nostra zona apparve trasformata: il vulcano di Roccamonfina eruttò e si spense definitivamente, aprì il varco al lago di Cassino verso il mare; l’acqua defluì scavando il letto dei fiumi, mentre monte Trocchio, come rompendo una crosta lungo una fessura, come un gigante che si sveglia e si alza all’improvviso, si sollevò dal fondo lacustre, evidentemente, solo dal lato che ora guarda Cassino, giacché qui è raro trovare i fossili.
Col nome Trocchio, o meglio, Torrocolo, la zona ha subito tutte le traversie che nei secoli hanno sconvolto la “terra di San Benedetto”. Lo testimoniano i ruderi di un castello sulla sommità e di una chiesa sul versante orientale, la chiesa di Santa Maria di Trocchio, ambedue risalenti al x secolo.
Il nome Torrocolo si trova menzionato la prima volta nella donazione che, nel 744, il duca di Benevento, il longobardo Gisolfo II, elargì a favore dei monaci di Montecasssino. Per riparare ai danni compiuti dal suo predecessore Zotone, che aveva scacciato i monaci per impadronirsi di quella roccaforte naturale che era l‘abbazia. Gisolfo non solo restituì ai monaci l’amato sito fondato da San Benedetto, ma donò loro tutte le terre circostanti: Cassino, S. Angelo, S. Elia, S. Ambrogio, S. Apollinare, S. Andrea, S. Giorgio,S. Biagio, S. Vittore, S. Pietro (tutte “celle” fondate dai monaci benedettini) Pignataro, Piumarola, Vallerotonda, Viticuso, Vallemaio, Acquafondata, Cervaro e Torrocolo, il nostro Trocchio.
Tutte queste zone facevano parte della Terra di San Benedetto, all’epoca un vasto latifondo, ricco di cervi, gazzelle, lupi. orsi, cinghiali, coperto di boscaglie, acque stagnanti, popolato da pochi abitanti, a cui Gisolfo comandò di aiutare i monaci nei lavori dei campi.
Ma un pericolo si profilava all’orizzonte: i Saraceni.
Feroci e spavaldi, dapprima si rivolsero alle città costiere, come Amalfi, Gaeta, Sperlonga, Formia, in cui rimangono ancora oggi le torri di avvistamento, poi, sempre più audaci e temerari, si infiltrarono nelle foci dei fiumi, il Tevere, l’Arno, per tentare l’assalto delle città internamente.
Anche il Garigliano fu risalito fino a Suio, cioè fin dove il fiume era navigabile.
Qui si accamparono per quaranta lunghi anni, fino al 949, facendo razzie e scempi nei paesi limitrofi, spargendo terrore, morte e distruzione ovunque. Immaginiamo che vita conducevano allora gli abitanti delle nostre zone!
Nell’884 i Saraceni ebbero l’ardire di assalire anche l’abbazia di Montecassino, la misero a ferro e fuoco e uccisero l’abate Bertario (poi santificato). Solo alcuni monaci riuscirono a fuggire e si ritirarono nelle città di Teano e Capua.
Tornarono intorno al 949 e fu allora che l’abate Aligerno decise di fortificare tutte le alture della Terra di San Benedetto: tra queste Torrocolo. E’ documentato che, il 7 giugno 967, i principi di Capua, Pandolfo I e Landolfo II, dietro richiesta dell’abate Aligerno, concessero un privilegio con l’attribuzione e la conferma al monastero dei castelli e delle torri che fino ad allora erano stati costruiti (Rocca Janula, castello di Sant’Angelo in Theodice, torre di San Giorgio) o che sarebbero stati costruiti.
Quindi il nostro castello è di poco posteriore a quella data.
Seguirono altri abati: Giovanni, Atenolfo, Teobaldo e in tutto il dominio baziale furono costruite nuove chiese e fondati nuovi borghi. A questo periodo, infatti, risale il ripopolamento della Terra di San Benedetto: i banditori benedettini portavano i “banni” dell’abate nella Marsica, in Molise, in Puglia, in Basilicata, offrendo condizioni vantaggiose a chi fosse venuto a colonizzare le nostre zone e cioè la terra in enfiteusi per 29 anni, col solo pagamento della decima parte del grano e delle biade e la settima parte dell’olio e del vino.
Vennero in molti a ripopolare, attirati dall’offerta vantaggiosa di usufruire di un pezzo di terra da coltivare.
Non si sa da dove provenissero i coloni a cui furono assegnate le terre di Torrocolo. Si sa per certo che quelli che venivano da Bari furono mandati a Cervaro, per cui si spiega la particolarità del dialetto cervarese, del tutto simile a quello barese.
Da allora i “banni” furono l’unico modo di comunicare con la gente: “voce praeconia,ut moris est,”cioè “alla voce da banditore, come è usanza” tutta la popolazione si doveva riunire in un posto stabilito per ascoltare le disposizioni dell’abate.
Interessante e curiosa è la precisione certosina, minuziosa, quasi bizantina, con cui venivano descritte le decime di ogni castello. Ecco quelle di Torrocolo:
- 1. La settima parte del grano dell’orzo e del miglio.
- 2. Il decimo del raccolto delle fave e delle olive.
- 3. La settima parte dell’uva delle vigne e delle viti appoggiate ad alberi o ad altri sostegni.
- 4. La quindicesima parte dei proventi degli orti, irrigati o non irrigati.
- 5. La quindicesima parte dei frutti degli alberi.
- 6. La decima parte degli agnelli che mangiano l’erbatico. (ratione erbatici).
- 7. La trentesima parte della canapa e del lino dovunque coltivati (ratione acquatici).
- 8. Quattro grani per la scrofa e il porco grande (ratione glandatici). Per il porco destinato ai bisogni della famiglia è dovuta una spalla; per la porcastra che non ha figli, due grani; per i porci piccoli che vanno a pascolare con i grandi, finché non raggiungono l’età di un anno, sono dovuti due grani nella festività di Santa Maria di mezz’agosto; prima che vadano a pascolare, nulla è dovuto.
- 9. Chi ha un paio di buoi deve prestare quattro giornate di lavoro all’anno, con gli stessi buoi, due per arare, due per seminare e tre opere manuali: due per mietere e una per trebbiare.
- 10. Per ogni casa in cui si accende il fuoco (ratione fuocatici), chi ha i buoi deve dare ogni anno a Natale due galline e una spalla di porco, se ha il porco; se non ha il porco, è tenuto a dare le due galline e, al posto della spalla, due pani. A Pasqua, chi ha i buoi deve dare due altre galline, una caciata e due pani; se non ha i buoi, deve dare una sola gallina a Natale, per la casa, una spalla di porco, se ha il porco e un’altra gallina a Pasqua, nonchè una caciata con due pani.
La decima che riguarda porci, buoi e agnelli era così particolareggiata solamente a Torrocolo, forse perchè zona ricca di pascoli e querceti.
Se ne trascrive qualche riga in originale, sia per pura curiosità, sia per far notare che i nostri antenati parlavano e capivano il latino. Era certamente un latino che si avviava lentamente alla trasformazione in lingua volgare, per cui è facilmente decifrabile anche da chi oggi è profano di questa lingua.
“Ille qui habet boves tenetur annuatim prestare duas gallinas et unam spallam porci. si habet porcum, in Nativitate domini.
Si vero caret porco, tenetur ad predictas duas gallinas et in Resurrectione Domini tenetur prestare alias duas gallinas et casatam unam et duos panes.
Si autem caret bubus, tenetur prestare gallinam unam in nativitate domini pro domo sua et spallam unam porci si habet porcum et aliam unam gallinam in resurrectione domini et casatam cum predictis duobus panibus.
Item homines qui habent porcos tenentur prestare glandaticum: quatuor grana pro scrofa et pro porco magno quatuor grana, excepto de illo porco quem habet deputatum et destinatum pro domo sua …
Item redunt glandaticum de porci parvulis qui vadunt extra cum porcis magnis ad pascendum, duo grana in festo Sancte Marie de augusto.
Ante vero quam vadant extra ad pascendum nihil solvunt”.
Questo testo è tratto dal “Registro” dell’abate Bernardo Ayglerio e precisamente è intitolato “Inquisitio facta in Torocolo.”
Le inquisizioni erano delle indagini fatte fare dall’abate per rintracciare i titoli di proprietà abbaziali che, dopo la lunga guerra tra Gregorio IX e Federico II, svoltasi nella Terra di S Benedetto, erano contestati o elusi, forse nella speranza che passassero i famosi 29 anni di enfiteusi, oltre i quali i possessori sarebbero diventati proprietari.
Per riordinare, dunque, il feudo benedettino, sconvolto e dissestato dalla guerra, un certo maestro Bruno, arcidiacono di S.Germano, si recò nel nostro castello e, sotto il controllo di Landone Giovanni di Raimondo, sindaco di Torrocolo, interrogò un anziano del castello, Giovanni di Notario, sui diritti e doveri dei cittadini e questi riferì con particolare meticolosità le suindicate decime, perchè ottantenne, mentre un testimone, certo Nicola Marrosa, dixit se nihil scire nisi ex auditu quia iuvenis erat “disse che non sapeva niente, se non per averlo sentito, perchè era giovane.”
Nel documento originale sono trascritti anche i nomi degli altri testimoni, il che può essere piacevole da conoscere: Lando, Simeone di Floretta, Benedetto Giovanni di Alfonso, Nicola di Alfosso, il presbitero Matteo, Nicola di Onofrio, Leonardo di Lorenzo, Matteo di Notario, Giovanni di Palmer Matteo di Mainardo, Giacomo di Antonio.
Ma ritorniamo alla elencazione delle decime ,valide per tutti i castelli.
Ai possessori di terre era fatto divieto di portare via dalle aie le vettovaglie trebbiate, senza la presenza dei terraticari o decimarii (i monaci controllori della terra e delle decime), come pure di pigiare le uve o estrarre il mosto dai tini o portare alle loro case o nei frantoi le olive.
Tutto questo insieme di oneri, terratici, decimi, censi, servizi, onoranze, acquatico, erbatico, ghiandatico, fuocatico era diventato una consuetudine che aveva forza di legge. Infatti, in tutti i documenti di concessione da parte del monastero, di vendita, di alienazione o di successione per testamento, ricorreva la clausola “quod usum a parte monasteri S. Benedicti”.
Le terre concesse potevano passare agli eredi per testamento o potevano essere vendute ad altri, sempre con tutti gli oneri inerenti, secondo quanto recitava la predetta formula. In caso di vendita, però, la terza parte del prezzo ricavato doveva essere versata al monastero, quasi a risarcire la perdita dei servizi che il trasferimento della famiglia comportava.
Questa imposta, che aveva carattere pubblicistico, ossia di vero e proprio diritto pubblico, era chiamata “tertiaria” e aveva l’intento di frenare la migrazione degli abitanti e l’alienazione dei beni. Infatti, nel dominio del monastero, che pure era un dominio feudale, non c’erano, come negli altri feudi, servi della gleba, a cui era vietato di abbandonare la terra che lavoravano, ma vi era libertà sia di disporre dei beni posseduti che di trasferirsi altrove su terre di altri signori. E siccome le braccia costituivano la principale ricchezza dell’economia agraria, si tentava con questo rimedio di porre freno all’esodo degli abitanti.
Ce n’era anche un altro di rimedio: se qualcuno abbandonava, senza autorizzazione della Curia del castello, la casa con tutta la famiglia e si trasferiva altrove, fuori della Terra di San Benedetto, per un anno, un mese, una settimana e un giorno, senza tornare mai nel castello, la Curia incamerava i suoi beni.
Sembra un provvedimento drastico ma, riflettendoci, era pur sempre indice di libertà, perchè significa che, nonostante fossero gravati da oneri vari, i nostri antichi antenati non furono mai ridotti alla condizione di servi della gleba e vissero tranquillamente sotto la protezione di una signoria benigna e paterna.
La prima volta che Torrocolo compare in un documento scritto è il 1057, in un privilegio di papa Vittore II, che riconosce all’abate di Montecassino la potestà su alcuni paesi e castelli fortificati.
E’ lo storico Erasmo Gattula che lo riporta nella sua “Historia abbatiae casinensis” “Inter alia vero coenobio nostro castella haec confirmat: in primis ad pedem montis S.Salvatoris, quod est S.Germani, S.Petri, Piniatari, Plumbarola, S.Stephani, S.Georgii, S.Apollinaris, Vallisfrigida, S.Andreae, Bantra, Junctura, S.Angeli, TURRUCULUM, S.Victoris, S.Petri in flia, Cervara, Vallis Rotunda, S.Heliac, Sarraceniscum…”
“Fra le altre cose conferma al giusto nostro cenobio questi castelli: per primo S. Salvatore, ai piedi del monte, lo stesso è S.Germano, S.Pietro, Pignataro, Piumarola, S.Stefano, S.Giorgio, S.Apollinare, Vallefredda, Vandra, Giuntura, S.Angelo, TORROCOLO, S.Vittore, S.Pietro in fine, Cervaro, Vallerotonda, S.Elia, S.Biagio Saracinesco…
Con la costruzione del castello, edificato perchè gli abitanti della zona ci si potessero rifugiare in caso di pericolo, rinasce demograficamente l’Università di Torrocolo.
E’ quindi a quest’epoca che si può riferire la chiesa di Santa Maria di Trocchio, sulla costa orientale del monte omonimo. Dalle pitture affrescate sulle pareti e che ora sono custodite a Montecassino, (sono visibili, a richiesta, nell’abside a sinistra, dopo aver salito la scalinata della Loggia del Paradiso) si deduce che la costruzione della chiesa risale al periodo aureo dell’abate Desiderio (1058-1087), il quale si dedicò al rifacimento architettonico dell’abbazia di Montecassino.
L’abate Desiderio, amante dell’arte, richiamava artisti da ogni parte e aprì nel monastero scuole di ogni tipo. Per abbellire la basilica e farne un luogo unico al mondo, fece prelevare dal foro romano, distrutto dai barbari nei secoli precedenti e in stato di abbandono, le colonne marmoree e i monoliti preziosi semisepolti, che venivano trasportati con le navi attraverso il Tevere, il Mar Tirreno e, risalendo il Garigliano, fino a Suio. Da qui, dove il letto del fiume cominciava ad innalzarsi, le colonne venivano trasportate con le chiatte fino al Rapido e poi su per la strada che porta all’abbazia, con i carri tirati dai buoi (in queste occasioni i villici erano tenuti a dare le famose giornate con i buoi, contemplate da una decima).
Desiderio fece altresì fondere a Costantinopoli le due porte di bronzo ancora oggi sistemate sul frontale della basilica, una delle quali porta impresso il nome di tutte le località appartenenti a Montecassino e tra queste TOROCCLU è ben visibile nel terzo pannello a sinistra, segno inequivocabile che il castello esisteva.
La chiesa di Santa Maria di Trocchio, dunque, è quasi certo che è frutto del fervore ricostruttivo dell’abate Desiderio (futuro Papa Vittore III).Anche il suo nome figura, come Trocchio, nell’elenco delle dipendenze di Montecassino; precisamente è inciso sulla terza lamina del battente di destra.
Non fosse altro che per l’antichità di questa chiesa, ora ridotta ad un rudere, ne dovrebbe essere presa in considerazione la ristrutturazione. Dovrebbe essere curato il recupero della muratura, con quel bel pietrame del luogo che si confonde con le rocce circostanti, così pure dei resti del campanile davanti alla facciata su cui si apriva la porta d’ingresso, delle finestre a sesto acuto e del l’abside, che era affrescata con la famosa Ascensione, ora a Montecassino…
Tanti studiosi d’arte ,anche d’oltralpe, si sono interessati ai suoi affreschi, ritenendoli opera di qualche artista (“un valente maestro, un artista in pieno possesso dei mezzi espressivi, non uno stanco riecheggiatore di motivi tradizionali” lo definisce il Pantoni ), vissuto all’epoca dell’abate Desiderio, quasi un millennio fa !Ed era pur sempre una chiesa madre nel 1200!
Ancora il Pantoni, nel suo libro “Montecassino – scritti di archeologia e arte“, mentre auspica “il salvataggio di una così preziosa reliquia“, riferisce che, “a seguito di un sopralluogo, eseguito a cura della Soprintendenza all’arte medioevale del Lazio, è stato riconosciuto ulteriormente il pregio di queste pitture e la possibilità di un loro salvataggio.
Le foto d’assieme dell’abside, così difficili ad essere riprese date le condizioni dell’affresco, sono dovute a cortese concessione della Frick Art Reference Library di New-York”!
Vien proprio da chiedersi come noi, cervaresi del terzo millennio, possiamo abbandonare all’offesa del tempo un’opera così vetusta! E’ una trascuratezza che offende la nostra intelligenza e la nostra cultura!
Si sa altresì, da documenti datati nel 1200, che dalla chiesa matrix di S. Maria, retta da un arciprete, dipendevano le chiese di S. Nicola, S. Martino, S. Cecilia, S. Croce e S. Lucia.
Certamente, più che di chiese, si trattava di cappelle sorte nei nuclei abitativi più densamente popolati, per rispondere alle esigenze spirituali della popolazione sparsa intorno a monte Trocchio.
La chiesetta di S. Nicola (se ne parla nel già citato registro dell’abate Bernardo I, in un documento datato 7 settembre 1273, più avanti trascritto) si ergeva nella piazza del castello, con una pianta rettangolare di metri 6,90 per 10,40, uno spessore muratura di metri 0,60, una copertura a capanna, come si rivela dal muro di fondo ancora integro, ben visibile dalla contrada Foresta, una cripta sotterranea (forse un nascondiglio?) e una porta di comunicazione con il locale adiacente.
La collocazione topografica di S. Cecilia, S. Croce e S. Martino, invece, si può solo arguire dalla toponomastica della zona.
La chiesetta di S. Cecilia forse sorgeva in una zona che ancora oggi viene chiamata cosi e cioè una collinetta nei pressi dell’ex zoo D’Aliesio.
La chiesetta di S. Croce certamente si innalzava in quella località di Trocchio tuttora così denominata, dove si trovano spesso, tra le caratteristiche pietre piatte sfaldate, numerosi cocci, residui di mattoni o tegoloni di terracotta.
La chiesetta di S. Martino, forse, sempre da testimonianze orali, era situata in una zona di S. Maria di Trocchio, che qualche anziano ancora chiama “Sant Martino” e dove furono rinvenute, durante l’ampliamento di una casa, parecchie ossa umane.
Per la chiesetta di S. Lucia non ci sono dubbi: sorgeva certamente nel luogo dove sorge oggi l’odierna chiesa. La certezza è data dal ritrovamento di un quadro su tavola, raffigurante la santa protettrice degli occhi, che un pastorello trovò nel 1850, mentre pascolava le pecore. La zona era tutta un rudere impervio e ricoperto di spine. Chissà da quanti anni era in stato di abbandono!
Quindi, nel territorio di Trocchio, esistevano ben sei chiese, le quali naturalmente vennero coinvolte dagli avvenimenti che si svolgevano intorno..
Abbiamo alcune notizie che riguardano la nostra terra.
Nel 1199 Torrocolo fu incendiato (come pure Cervaro, San Vittore, S. Pietro Infine e S. Elia) dalle truppe di Marqualdo, uno dei baroni tedeschi lasciati in Italia da Enrico VI per osteggiare Federico II, e le mura bruciacchiate del castello rimasero per lungo tempo a testimoniare la “matta bestialitade” degli invasori.
Nel 1231 tutto il territorio benedettino fu scosso da un terribile cataclisma e “chiese e torri e castella con orribile fracasso rovinarono e dai monti rotolarono al piano enormi massi”.
Un documento datato 7 dicembre 1270 è l’inquisizione già riportata nelle pagine precedenti.
Un altro documento è datato 15 marzo 1271 ed è intitolato “Libellus Torroculi” dove è scritto: “Confermiamo a voi tutti uomini del nostro castello di Torrocolo, nostri fedeli abitanti dentro e fuori le mura, tutti i possedimenti che tenete per ventinove anni.”
Un altro documento è datato 7 settembre 1273 ed è intitolato “Sentenza stipulata nell’università di Trocchio.” Dice, testualmente tradotto dal latino,: “Bartolomeo di Palmerio, giudice di Torrocolo, Iacopo notaio di S. Elia, che ha scritto lo strumento davanti alla chiesa di S. Nicola, il 20 agosto, testimoni Girardo di Riccardo, Matteo di Notario, Iacopo di Puglia, Benedetto Giovanni Alfuso, Nicola Marrosa, Filippo di Sire Tommaso di Torrocolo dichiarano che il signore Paolo, vescovo di Carinola, si è condotto personalmente nel castello di Torrocolo e, davanti alla porta della chiesa di S. Nicola, a tutta la popolazione da lui assemblata, ha voluto che fosse resa pubblica e letta detta citazione: l’università ha eletto suoi sindaci Nicola Marroso e Benedetto di Alfuso…”
Un altro documento è del 1288, tratto dal registro dell’abate Tommaso, nel quale è scritto che il prete della chiesa di S. Lucia e i preti delle chiese limitrofe di S. Nicola, S. Martino, S. Cecilia e S. Croce, formavano il capitolo ecclesiastico di Trocchio e che, insieme con l’arciprete di Santa Maria di Trocchio, erano incaricati di amministrare spiritualmente e materialmente i beni parrocchiali di S. Maria di Trocchio.
Dunque nel 1288 questa chiesa di S.Lucia esisteva.
Ma cosa succedeva in quel periodo nella zona?
Le lotte tra papato e impero, con tutti quei nomi tramandatici dalla storia, familiari e tuttavia intrecciati in confusione nelle menti di chi pure la storia l’ha studiata: Costanza, Tancredi, Enrico VI, Federico II, Gregorio IX… si svolsero anche qui e immaginiamoci con quale sfacelo!
Le nostre campagne erano calpestate in lungo e in largo e terribili carestie seguivano il passaggio convulso e rabbioso degli eserciti.
Come se ciò non bastasse, nel 1348, scorazzavano nella zona gli Ungheri,ai quale si unì un certo Jacopo Papone di Pignataro e i possedimenti benedettini, tra cui Trocchio, furono i primi paesi a subire vessazioni, ruberie, devastazioni, prepotenze, uccisioni…
Nè mancarono terremoti, che fecero crollare miseramente le povere abitazioni e spopolarono i castelli.
Nel 1349 ce ne fu uno così tremendo che, dice l’Anonimo Cassinese: “Non essere stato dal principio del mondo sommovimento di terra pari a quello…”. Circa un terzo degli abitanti di S. Germano morì per il tragico evento!
Un altro documento storico sull’esistenza della chiesa di S. Lucia è datato 1466 ed è quello contenuto nel manoscritto del celebre archivista cassinese Fraja Frangipane, il quale afferma che questa chiesa, insieme a quelle di S. Cecilia, S. Nicola, S. Croce e S. Martino, era amministrata da un certo don Nicola, nativo di S. Vittore.
In questo secolo XV, le nostre terre erano devastate dalla lotta per la conquista del Regno di Napoli tra i D’Angiò e i D’Aragona, per cui le zone circostanti, in particolare Cervaro e Trocchio, data la loro posizione strategica, furono occupate dagli Aragonesi e dagli Angioini in fasi alterne.
Fu un secolo di profonda miseria: i raccolti andarono miseramente perduti o perchè razziati o perchè dati cinicamente alle fiamme, per non lasciarli al nemico.
Fame, carestia, un altro tremendo terremoto nel 1456 e ancora scontri e conflitti dettero colpi tremendi all’economia prevalentemente agricola degli abitanti di Trocchio.
Nel 1500 arrivarono gli spagnoli, per conquistare il Regno di Napoli.
Si scontrarono con i francesi e naturalmente attraversarono le nostre contrade, occuparono S. Germano, Trocchio, Cervaro e S. Elia e, quando gli eserciti se ne furono andati, oltre a macerie, morti e distruzioni, lasciarono dietro di loro, a mietere vittime tra la popolazione già grama e macilenta,la peste!
L’ultimo documento, riguardante la chiesa di S. Lucia in questo secolo, è del 1597. In esso si dice che i proventi della chiesa di S. Lucia, insieme con quelli delle altre chiese, servirono al sindaco Giovannello di Beatrice per la riparazione di S. Maria di Trocchio. Se ne deduce che in quel documento la chiesa è considerata “grancia”, ossia convento o casolare con annessi fattoria e poderi.
Da quell’anno non ci sono più notizie.
Sappiamo solo che nel 1601 Trocchio, ormai decimato dalle pestilenze e dalla fame, ridotto a pochi “fuochi”, una quindicina di famiglie, si unì a Cervaro in un unico comune, con “Istrumento Pubblico” del 13 maggio 1601.
In esso era espressamente dichiarato che tutti i beni posseduti dall’università di Torrocolo, fondi, piazze, molini, acque, gabelle, censi e qualsiasi altra cosa passata o futura, dovessero stare comuni all’università di Cervaro. L’unione fu approvata con il regio assenso del vicerè di Napoli e i sindaci di Trocchio consegnarono a quelli di Cervaro un privilegio libertario del monte Trocchio, in membrana con sigillo e ceralacca, concesso dall’abate di Montecassino.
In questo secolo XVII Montecassino e le zone limitrofe e quindi anche Trocchio, risultarono fortemente danneggiate da una serie infinita di terremoti, uragani, fulmini, grandinate, nubifragi.
Erasmo Gattola, archivista di Montecassino, racconta che la terra tremò nel 1622, 1628, 1642, 1646, 1650, 1654, 1678, 1679, 1680, 1681, 1687, 1688, 1692, 1693, 1694.
Figuriamoci come precipitarono le condizioni già disastrate e miserevoli dei nostri terrazzani!
Ecco, con lo spopolamento del castello, la chiesa di S. Maria e le altre chiesette viciniore persero importanza. La cura spirituale della poca gente rimasta intorno a Trocchio fu affidata all’arciprete di Cervaro e risulta, da un documento del 1788 dell’arciprete Giovanni Bordone, che egli, dai diritti di mensa a lui spettanti, doveva detrarre e poi versare a Montecassino 13 scudi per il “cattedratico” di S. Lucia di Trocchio. Forse, quindi, ancora esisteva presso questa chiesetta qualche monaco che si occupava dell’istruzione rudimentale delle anime. E se le altre chiesette di S.Cecilia, S. Martino,S. Croce e S. Nicola non sono menzionate significa che erano già in rovina e abbandonate.
Arrivarono implacabili altri terremoti.
Nel 1804 ce ne fu uno terribile, che evidentemente fece crollare, insieme a tante povere abitazioni, anche le chiese di S. Maria e S. Lucia. Ma, mentre la prima fu travolta dai massi, che ne impedirono l’accesso agevole fino al 1980 (quando è stata fatta la strada per la galleria dell’acquedotto campano), i resti della chiesa di S. Lucia furono ricoperti da rovi, lasciati all’incuria del tempo fino a che, e questa è storia tramandata dagli abitanti, un certo Vincenzino D’Aguanno, pascolando le pecore in quella zona, trovò sotto le macerie una tavola dipinta, raffigurante S. Lucia.
Era il 1850. La terra su cui fu ritrovato il dipinto apparteneva al barone Luigi Aceti di Piedimonte S. Germano, il quale l’aveva acquistata quando, con la legge 13 febbraio 1807 del Re di Napoli, Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, le terre di Montecassino erano state espropriate, confiscate dai “Reali Demani” e poi vendute all’asta. Per i residenti della zona, che nel frattempo era cresciuta demograficamente, il ritrovamento fu il segno inequivocabile che lì, nel passato, era esistita una chiesa intestata alla Santa siracusana, per cui decisero di ricostruire sullo stesso luogo, nel frattempo generosamente concesso dal Barone Aceti, una chiesa. Si sa, sempre per tradizione orale, che la gente portava, in testa o sulle spalle, una pietra, ogni volta che veniva a messa. Evidentemente quel posto del ritrovamento fu subito considerato un luogo sacro e vi veniva celebrata messa la domenica.
Una leggenda, tramandata oralmente dagli abitanti, dice che il barone rivendicò il possesso del quadro, perchè rinvenuto sulla sua proprietà, e con la prepotenza se ne impossessò. Però, dopo un certo periodo, cominciò ad avere seri disturbi alla vista e rimase quasi cieco. I suoi familiari lo costrinsero a restituire il quadro, che secondo loro era la causa dell’improvvisa cecità. Lo fecero salire su un calesse e lo accompagnarono nella zona. Arrivati al bivio Cistroni, dove è stata eretta nel 1967 una cappelletta dedicata a Santa Lucia, proprio in ricordo di questo avvenimento, il barone riebbe la vista e gridando disse che vedeva una luce che si propagava da dove era stato ritrovato il quadro. Era la prima domenica del settembre 1850 ed è per questo che da quell’anno viene festeggiata Santa Lucia, oltre che il 13 dicembre, anche la prima domenica di settembre.
Per questa chiesa, diventata ben presto luogo di devozione e meta di pellegrinaggi, la zona sul versante est di Trocchio fu chiamata, dietro espressa richiesta degli abitanti, Santa Lucia
Questa è la storia della nostra terra, tratta dal libro “LA CHIESA NOSTRA, storia della chiesa di S. Lucia di Cervaro”, di Anna Maria Arciero, edito a cura del Comitato Festa di S. Lucia.
Con queste foto si vuole rinnovare l’auspicio che una costruzione così particolare, così unica per la sua posizione strategica, qual è il castello di Trocchio,venga restaurata alla stregua di ciò che si sta facendo a Cassino per la Rocca Janula, solo di qualche decennio più antica.
Osservando quelle mura, passando per un antico sentiero, o solo guardando una “macera”, ognuno di noi può sentire nel suo intimo il messaggio che viene dalle memorie passate, messaggio di vite spese nella fatica, di tempi legati ai ritmi della natura, di rassegnazione e di pianto, di fronte a prepotenze e soprusi, di generosa alacrità di uomini che hanno lasciato una traccia, pur essendo vissuti in epoche di turbolenze
Documento del 1275
A titolo di curiosità, si trascrive uno strumento notarile, trovato nel libro di Anselmo Maria Caplet, archivista di Montecassino, vissuto nel secolo XVIII, il quale riordinò tutte le inquisizioni e gli atti notarili del tempo del governo abbaziale di Bernardo Ayglerio, intitolando l’opera “Fragmenta Regesti Bernardo I”.
Riportare questo documento può interessare per la toponomastica dei luoghi, per i nomi e i cognomi (in genere era il nome del padre o del luogo di origine), per i riscontri che si possono fare con le notizie fin qui riportate e, perchè no, per un certo orgoglio che ci procura l’apprendere … frammenti della nostra storia!
Ecco il testo tradotto dal latino di quel tempo, ossia un latino già volgareggiante, in cui, curiosamente, compaiono gli articoli.
In Torrocolo, per il signore Paolo, Vescovo di Carinola.
Con questo strumento, redatto in S.Elia da Abraimante, notaio di Montecassino e S.Germano e presente il giudice Gentile di S.Elia, sono confermati gli acquisti fatti, in diversi luoghi, dal predetto Paolo, che da queste buone compere aveva versato la terziaria, che si credeva dovesse essere data integralmente, ma ora sulla predetta terziaria è esonerato per sempre ed è liberato con i suoi eredi.
Ora, nello strumento di vendita, anno 1275, mese di marzo, redatto dal notaio Nicola di Teano, il contadino soldato Nicola, figlio del sig. Tommaso, contadino soldato, abitante di Teano, presenti il giudice Blasio, il notaio Nicola e come testimoni letterati (che sanno scrivere) il maestro Bonimene, l’abate Donato e Ruggiero, cede, vende e trasferisce a detto vescovo di Carinola col consenso di suo padre Tommaso tutti i suoi beni immobili e i suoi vassalli in Torrocolo e suo territorio con tutti i diritti che ha o può avere, non riservandosi nessun diritto, e prende 55 once d’oro, obbligandosi con gli eredi, se si fossero opposti, a versare 110 once d’oro e ponendo se stesso come garante.
I beni poi sono:
– Alcuni posti in detto castello, vicino alle case di Gerardo, di Giovanni, di Matteo e la pubblica via;
– Un posto in montagna, con orto, vicino alla via pubblica e alla terra di Pietro maestro Filippo;
– un mulino “ubi dicitur” (dove si dice) “ai piedi del colle di Lindone,“vicino alla via pubblica e agli eredi di Nicola Liglone“;
– una terra con ulivi, “ubi dicitur valle”, vicino alla via pubblica, alle terre di Matteo Ferraino e agli eredi di Giovanni di Gueto;
– una fortezza “ubi dicitur colle S.Martino”, vicino alla via pubblica e alla terra della Chiesa di S.Martino;
– una terra “ubi dicitur le fossata“, vicino alla via pubblica, alle terre di Matteo Mainardo e agli eredi di Arminia, vicino al fossato antico e alla terra del maestro Teodino di Pietro di S.Germano;
– una terra “ubi dicitur Colle regina”, vicino alle terre di Leonardo di Lorenzo e di donna Mendula, moglie di Pandolfo;
– una terra presso il ruscello Renirio (Renidio ?), vicino alla terra di Giovanni di Simonetta;
– una terra “ubi dicitur ad li dodili”, vicino a detto ruscello e alla via pubblica;
– una terra ubi dicitur ad limata”, vicino alla terra di Matteo Mainardi ;
– una terra “ubi dicitur ad le mogia”, vicino alla terra di Nicola Manusso ;
– quattro piante di ulivi , ai piedi dellla pianura , vicino alla via pubblica;
– la metà di tre piante di ulivi, in comune, nell’orto di Giovanni di Adelando;
– tre piante di ulivi posti sopra alla proprietà di Giovanni di Nicola;
– la metà di una pianta di ulivo nello stesso posto;
– la metà di tre piante di olivi, in comune, presso la proprietà di Gregorio;
-la metà di tre piante di olivi, in comune, sopra alla chiesa di S. Maria
-la metà di quattro piante di olivi, in comune, in località “ad le natali”;
-la metà di un’altra pianta di olivo, sopra la proprietà di Pandolfo della signora Giovanna;
-un’ altra metà di una pianta di olivo,situata in località “alberta”;
-una terra con olivi “ubi dicitur lo ficoritu”, vicino al bosco tagliato (prope cesam) di Matteo Mainardo;
-una terra “ubi dicitur pantanelle Romanu”(l’ odierna via Romanelle?),vicino alla terra degli eredi di Teodini del maestro Pietro.
-I vassalli in verità sono:
-i fratelli Gregorio, Filippo e Angelo, figli di un certo Tommaso di Necta;
-i fratelli Bartolomeo, Cristoforo e Luca , figli di un certo Pandolfo di Necta
-Nicola di Giovanni di Necta;
-I fratelli Desiderio, Jacopo e Nicola, figli di Pietro di Puglia;
-Giovanni Russo di Pietro Mainardo;
-Benencasa,erede di Leonardo di Perrone di Torrocolo.
fonte
http://www.santaluciacervaro.it/public/index.php?pid=5