Alta Terra di Lavoro

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Charlot segreto di Alfredo Saccoccio

Posted by on Dic 17, 2018

Charlot segreto di Alfredo Saccoccio

   Un giorno Jim Tully leggeva, ad alta voce, a Chaplin, i panegirici che Faure, l’autore della “Storia dell’Arte” aveva scritto su di lui. Chaplin ascoltava con espressione di disprezzo: si capiva che riteneva Elie Faure del tutto scemo. Allo stesso modo,, non si curava delle opinioni di Gilbert Seldes, Konrad Bercovici, Max Eastman e altri scrittori d’arte. Ma quando George Jean Nathan scrisse che il genio di Charlot tutto nelle pezze dei suoi calzoni, egli rise amaramente.

   Chaplin era attratto dalla furfanteria di Frank Harris. La tragica sorte di Oscar Wilde lo commoveva e preferiva  questo scrittore ad ogni altro.

   Né il tramonto, né le stelle,né le montagne, che alla sera si coloravano di viola, lo attraevano. Una volta, parlando di Londra, manifestò il desiderio di morire nella nebbia. “Drappeggia i palazzi e nasconde la loro orribile bruttezza”.

   Era abile a difendewre se stesso “La sola cosa che ho cambiato durante la mia vita sono le mie maniere”. Continuamente Charlie era preoccupato dei suoi atteggiamenti. Assieme alle donne, questo era il problema più grave della sua vita.

   Non era ostile a nessuna razza e a nessuna religione. Una volta, mentre si parlava di negri, disse: “Non rido mai del loro “humour. Hanno sofferto troppo per divertirmi”.

La lista delle paghe date da Chaplin era la più bassa di Hollywood. Tuttavia aveva qualche momento di generosità. Edna Purviance, che fu, per molti anni, la sua compagna in tante commedie, riceveva da lui duecentocinquante dollari la settimana. Nemmeno quando lavorava essa percepiva uno stipendio maggiore, mentre altre attrici guadagnavano migliaia di dollari la settimana,  Ma Edna non lavorava più da una dozzina di anni.

   Un mendicante, abilissimo prestigiatore, spesso divertivs Chaplin per le strade di Londra. Quando il mendicante diventò vecchio ed infermo, scrisse una lettera chiedendo aiuto a Charlie, che  lo mise subito nella lista dei pensionati, commentando in calce: “E’ un vero grande artista”.

   Monta Bell, che divenne, più tardi, il direttore famoso, fu uno degli uomini che resero più servigi a Chaplin. Poiché il suo stipendio di 150 dollari alla settimana  gli pareva troppo basso, chiese, un giorno, a Chaplin un aumento di 50 dollari. Ma Bell non ottenne l’aumento. In quello stesso tempo, Chaplin aveva noleggiato cinque vecchi film  per un milione di dllari. Fu Bell che scrisse il libro sul viaggio di Charlie in Europa. Ne furono vendute meno di ventimila copie. “Non si fanno quattrini coi libri”, commentò Chaplin.

   Il suo cameriere goapponese, Kono, gli porgeva , ogni mattina, venticinque dollari per le piccole spese. Spesso, la sera, gliene restavano ancora molti.

   Ammirava Eleonora Duse e quando l’attrice italiana andò a Los Angeles un giornalista, conoscendo i rapporti di Jim Tully con Chaplin, gli disse che sarebbe stato interessante conoscere l’opinione dell’attore sulla delicata attrice italiana. Chaplin accettò, ma come se avesse  già prima preparata la cosa, arrivò tardi a teatro, quando già la Duse era in scena. Chaplin e Tully restarono inn piedi nel fondo del teatro. Quando le luci si acceseo, si avviarono per la corsia. Ricevendo un’ovazione, alla quale si era preparato, si guardò attorno con meraviglia, come se riprendesse coscienza di sè. La Duse lo affascinava. Gesticolando ed esclamando:”Meravigliosa! meravigliosa!”, uscì di corsa alla chiusura del sipario e lasciò Jim Tully somo, assieme al giornalista. a scrivere  la “sua opinione” sull’attrice. Non so se lesse mai quello che Tully scrisse, perché non ne fece mai parola con quest’ultimo, né accennò più alla Duse.

   Charlie era pronto nelle risposte. Quandi Eleanor Glyn  lo incontrò per la prina volta e gli disse : “Non sembrate così buffo come credevo”, Chaplin, seza turbarsi, le rispose : “Nemmeno voi”.

   La storiella che preferiva era quella di Giuseppe Grimaldi, il famoso “clown”, che era andato, una volta, da uno specialista di malattie nervose per farsi visitare: “ Vi consiglio di andare a vedere Grimaldi”, gli aveva detto lo specialista. “ Sono io Grimaldi”, aveva risposto freddamente il “clown””.

   Charlie non era ricercato nel vestire. Era più accurato nel truccarsi da mendicante che nel vestirsi da sera. Non si faceva la barba per parecchi giorni, Aveva l’abitudine do passeggiare su e giù per la scena, con la testa china, schioccando le dita e parlando fra sè e sè.

   E’ stato detto che la debolezza delle sue corde vocali gli impediva di parlare sullo schermo. Ciò non è esatto. Quando provava in coro una canzone francese, poteva pronunciare le parole, senza saperne il significato, camminando sulla scena cantando, mentre gli altri lo seguivano. Quando gli altri provarono a cantare senza di lui, si sentì subito che al coro mancava una voce ricca e squillante.

   Tranne le cose che riguardavano il palcoscenico e lo schermo, la sua conoscenza di altri argomenti era superficiale. Charlie amava il violino, ma non era capace di trarne  che pochi accordi.

   Raramente il Chaplin si curava della pubblicità sul suo nome. Lavorava con grande impegno e serietà. Una volta cghe Tully dormicchiava, mentre egli stava discutendo la sceneggiatura  de “La febbre dell’oro”, lo svegliò dicendogli: “Jim, siete uno “snob””. Fu uno dei pochi complimenti che Jim ricevette da lui.

   La sua generosità  si manifestava stranamente. Vi eranoi due sorelle a Londra che aveva conosciuto nell’infanzia. E quando gli scrissero raccontando la loro miseria, Chaplin fece pervenire a una di esse una piccola pensione, mentre all’altra non rispose nemmeno.

   Quando i suoi dipendenti avevano un’idea, per originale che fosse, dovevano dire: “Stavo proprio pensando a quella vostra idea, Chaplin”.

   Allorché il suo assistente direttore se ne andò improvvisamente a New York, senza chiedergli il permesso, tutti, allo studio, si chiesero se Chaplin l’avrebbe o no licenziato. Charlie non parlò mai di lui. Quando l’assistente improvvisamente ritornò, Chaplin gli disse : “Tornate al vostro lavoro e fate il bravo ragazzo”. Poi l’assistente fu nominato direttore di un altro studio. Ne diede avviso a Charlie, due settimane prima: questi fu cortesissimo con lui,dicendogli che era nel suo diritto di cercare di migliorare la propria sotuazione. Cinque minuti dopo, chiamò il suo amministratore e gli disse: “Licenziatolo immediatamente”. Charlie era scontento quando i suoi assisenti riuscivano in qualcosa e mnanifestava disprezzo quando si pronunciava il loro nome.

   Egli non si riconosceva eguale a nessuno. Quando si incontrò con un altro, grane comico, W. C. Fields, chiacchierarono amabilmente assieme, per qualche tempo, ma poi Fields raccontò che Chaplin non gli aveva affatto parlato del swuo lavoro cinematografico.

   Un giorno, passando per una strada di Hollywood, Chaplin e Tully incontrarono una comitiva matrimoniale, mentre Chaplin si stava facendo fotografare. Scorgendo  Charlie, uno del gruppo lo chiamò ed egli acconsentì a farsi fotografare assieme agli sposi.  Mentre se ne andava, si voltò più volte perr salutare. Alla fine esclamò : “Poveri diavoli!”.

   Una volta il discorso cadde sui bambini. Egli ricordò la morte del suo piccolo, che sua madre, Mildred Harris, aveva soprannominato “topolino”. Gli occhi di Chaplin si fecero più piccoli: “L’impresario dei funerali gli lasciò sul viso un sorriso”, disse. Poi si ferò un secondo: “E pensare che Jim non aveva mai riso in vita sua”.

   Charlie si unì a Lita Grey e in quel periodo Jim fu con loro. Era il tempo de “La febbre dell’oro”. Charlie cercava una prima attrice e la voleva sconosciuta. I nomi noti significavano danaro. Si presentarono molte belle donne, che fecero del loro meglio davanti all’apparecchio da presa. I provini  erano girati nella sala di proiezione, ma nessuino di essi piaceva al grande comico. Alla fine, Lita Grey apparve nello studio di Chaplin. Ella abitava con i nonni e con la madre messicana in un piccolo villino poco distante. Era poverissima. La sua bellezza faceva dimenticare il cattivo gusto dell’abbigliamento.Non aveva ancora sedici anni. Lita era orgogliosa come un pirata e trasandata come il vento. Aveva occhi neri, capelli neri e la faccia rotonda, ma le mancavano sensibilità, equilibrio e immaginazione. A scuola non erano mai riusciti a farla studiare.

   Quando le dissero che Chaplin non era nello studio, rispose :  “Aspetterò cinque minuti”. Se quel giorno non fosse stato segnato dal destino, certo l’attore non sarebbe capitato nello studio. Invece quella volta vi capitò proprio dentro i “cinque minuti”. La ragazza aveva lavorato con lui in un film, pochi anni prima, quando aveva appena dodici anni, e da allora era rimasta nella mente di Chaplin. Egli la salutò con entusiasmo e ordinò subito un provino.

   Prima di andare a colazione, Chaplin e Tully aspettarono di vederla sullo schermo. Benché ella avesse meno qualità di ogni altra ragazza apparsa fin allora, Charlie cominciò ad esclamare: “Meravigliosa! meravigliosa!”. Seduto vicino a lui e non desiderando guastare la sua posizione con una troppo grande sincerità, Tully se ne andò in ufficio.

   Di solito Chaplin lo teneva all’oscuro delle sue faccende e lo consultava di rado, ma quella volta, per chissà quale matto capriccio, l’artista uscì dalla sala di proiezione e lo seguì : “Che ne pensate, Jim?” gli domandò.

Tully rispose evasivo e, di rimando: “Che ne pensate voi, Charlie?”.

   Charlie camminava su e giù nervosamente per la stanza. In quel mentre, entrò Lita Grey: “Vi è piaciuto il provino, Charlie?” strillò. Egli divenne cauto. “Non c’è male, non c’è male”. Mostrarsi ammirato, significava destare la cupidigia della fanciulla, “Siete assunta”, disse ridendo. Essa saltò  su e giù come una pazza prendendogli le mavi , battendole fra le sue, esclamò : “Benissimo! benissimo!”. Fu steso il contratto. “Non badate allo stipendio”, le disse Chaplin sorridendo. Aveva assunto una “primadonna” a settantacinque dollari la settimana.

   Durante la sua relazione con la fanciulla, Charlie chiese, un giorno, a Jim Tully la sua opinione su di lei. Tully fu franco. Egli rifletté per qualche momento  : “Lo so”, gli disse. “L’altra sera la stavo tormentando. Ha ammesso che potevo piacerle perché ero Charlie Chaplin”. I suoi occhi si riempirono di noia. “Se fossi un misero impiegato, non mi avrebbe certo voluto bene !”.

   Dopo il loro matrimonio al Messico, Chaplin cercò di evitare Jim Tully. Passarono vari mesi. Tranne l’amore  per i giochi, Lita Grey non aveva niente in comune con lui. Presto vennero le delusioni e la stanchezza. Un giorno arrivò al Tully un ordine. “Venire stasera a vedere un incontro di pugilato col vostro direttore”. La condizione economica consigliava a Jim di obbedire.

   Chaplin e Tully non scambiavano una parola per mesi e mesi, il che non era insolito. Altri erano stati trattati allo stesso modo. Vagabondi della stessa razza, Charlie e Jim non davano peso a certe cose. Essi fecero, tutti e due, finta di non capir nulla. Non parlarono del passato. Chaplin aborriva i sentimentalismi.

   Charlie e Jim parlarono di pugilato. Quando uno dei combattenti fu lanciato alle corde da un colpo brutale, Chaplin chiuse gli occhi, mormorando :  “Terribile, terribile!”. Finito lo spettacolo, la folla, al solito, lo circondò. Sorridente, come sempre quando era in pubblico, se ne scappò via con Tully. Per ore intere, il suo autista portà Charlie e Jim lungo la sponda del Pacifico. All’alba i due arrivarono alla casa di Chaplin di Beverly Hills. Molte settimane passarono prima che Charlie rivolgesse a Jim di nuovo la parola.

   Charlie rifece pace con Lita Grey e la fanciulla, che poco prima aveva un solo abito di ricambio, si trovò, d’un tratto, in possesso di un’immensa fortuna. Chaplin non riuscì mai ad insegnarle a recitare, né mai riuscirono i migliori fotografi a fotografarla bene.

Quando Charlie si attendò nel Nevada, per girare “La febbre dell’oro”, fu accolto da cinquecento vagabondi. Erano stati scelti per la scena del passo Chilkoot ed erano paonazzi per il freddo.

“Vi applaudono, Charlie”, disse Jim Tully.

   “Lo so”. I suoi occhi guardavano un po’ sdegnosi, sotto le ciglia abbassate. “Vi piacerebbe tornare fra loro?” chiese a Jim.

“Forse starei peggio”.

Scrollò le spalle e soggiunse: “Ci dovrei stare io piuttosto che loro”.

   La sua avventura più umiliante fu con Pola Negri. Questa donna tempestosa lo trattò peggio di tutte le altre. Fu molto avvilito, quando seppe di essere stato soppiantato. “E con un simile salame!” borbottò con disgusto.

   Udendo la locuzione “à-propos”, chiese, un giorno, a Tully  che cosa significasse. Da allora, ogni cosa per lui diventò “à-propos”.

   Con il suo fratellastro, Sydney, si comportava da tuiranno. Senza la capacità ci Charlie, Sydney rimase sempre un “cockney” rifatto. Era diverso da Charlie: aveva la carnagione accesa, i capelli lisci divisi nel mezzo, e i modi di un impiegato di banca. Un giorno confessò a un giornalista della California che, nell’infanzia, insieme con Charlie, avevano tirato avanti con i rifiuti del cibo altrui.

   Poiché Charlie, in quel tempo, cercava di crearsi una discendenza dall’ aristocrazia di Fontainebleau, l’articolo del giornalista lo seccò moltissimo. Mandò a chiamare Sydney e lo isolentì. Sydney taceva senza guardarlo. Chaplin si mise a pestare il pianoforte e a grattare il violino e, per tutta la sera, restò sdegnato, senza più curarsi del fratello.

   Il solo uomo che ricevette da lui un alto stipendio fu Adolphe Menjou. Chaplin stava cenando, una sera, con Peggy Joyce, quando Menjou entrò nel ristorante.

   “Ecco l’uomo che può fare la parte principale di “Una donna di Parigi” ( un film del 1923, che non piacque al pubblico  e che scomparve, per alcuni decenni, dalla circolazione), disse Peggy.

   I commenti che giornali e riviste facevano ai suoi film lo annoiavano. Charlie amava gli animali: un giorno fermò la sua automobile per raccogliere un cane randagi, che poi lavorò con lui nella “Vita da cane” rimanendo nello studio fino alla fine dei suoi anni. Ogni volta che l’attore appariva, il cane lo seguiva. Ciò piaceva a Chaplin più degli applausi della folla.

   Charlie rese sereni gli ultimi anni di vita di sua madre e la circondò di cure affettuose. Era orgoglioso di lei: “Si può dire ciò che si vuole”, ripeteva, “ma non sarò mai più grande di lei Era una grande attrice. Era buona. Quand’ero ragazzino, mi dava tutto quello che aveva, senza chiedermi nulla: non le assomiglio”. Ella, per parte sua, lo chiamava “Il Re”. Le rughe del suo volto dicevano che aveva molto sofferto.

   Di suo padre, Chaplin parlava di rado. Era stato imbonitore di “music hall” e “dandy” di sale da ballo. Sbattuto dai venti delle vicissitudini teatrali per tutta Londra, morì giovane ancora.

   Charlie pigliava in giro il sentimentalismo degli altri, ma lui stesso era un sentimentale.

   Gli editori del libro di Thomas Burke “The Wind and the Rain” (Il vento e la pioggia) gli mandarono una copia di questa opera  sentimentale. Rinchiuso nel suo bungalow, Chaolin lo lesse e lo discusse in lungo e in largo concludendo: “E’ la mia Bibbia”.

   “Charlie”, insinuò Jim Tully, “sarebbe grazioso mandare agli editori di Burke un complimento per il libro”.

“Scrivetelo, lo manderò”. E così fece.

   Una sera, nel crepuscolo, Burke vagava con Chaplin per le strade dell’East End di Londra.

   Ricordando i tristi anni vissuti in gioventù in quegli stessi luoghi, i due viandantui rimasero a lungo silenziosi. Poi si fermarono  in un vicolo a guardare un gruppo di ragazzi che giocavano sotto la luce di una lampada gialla, in mezzo alla strada.

   Burke finalmente disse: “Charlie, se volete fare qualcosa di grazioso, andate a dire a quei ragazzi che siete Charlie Chaplin”.

   L’attore scosse la testa, dicendo: “Non mi piacciono i ragazzini”. Ripresero la via in silenzio.

   Charlie non beveva i liquori, fumava qualche sigaretta. La sua energia era enorme e le sue condizioni fisiche eccellenti. Poteva correre, per lungo tempo, senza affaticarsi.

Stancatosi improvvisamente degli altri, andò di nuovo a cercare Jim Tully, “E’ di umore nero”gli disse un compagno di lavoro.

   Presentendo ore di tedio, Tully andava vagando per Hollywood, in cerca di aiuto, allorché incontrò Lita Grey. L’esperienza gli suggeriva che se lei fosse entrata incidentalmente al ristorante “Montmartre”, dove dovevano cenare lui e Charlie, quest’ultimo l’avrebbe invitata a rimanere e lo avrebbe rimandato a casa.

   Mentre Charlie e Jim si avviavano verso la loro solita tavola, l’attore si fermò di colpo. A quella stessa tavola, stavano seduti due signori che Charlie considerava molto noiosi. Si volse, stanco, intorno, dicendo: “Non ho mai un momento per me”. E scappò via dal ristorante. Chaplin e Tully andarono in un altro ristorante, che era affollato. L’autista li seguiva con la vettura. Si decise alfine per l’”Ambassador Hotel”. Arrivati là, rimasero seduti alla stessa tavola per cinque ore. Tully non resisteva più.

   Charlie guardava i ballerini senza parlare. Una ragazza spagnola cominciò a civettare con lui. A Jim rinacque la speranza. Se almeno fosse venuta al nostro tavolo, egli l’avrebbe “tenuto per scusato”. Tully lodò la bellezza della ragazza. Chaplin la guardò attentamente. Disperato, Jim gli disse: “E perché non cercate di attaccare, Charlie? E’ veramente amabile”.

“E’ amabile tanto da farsi guardare, e non più”, gli rispose.

   Non sempre Chaplin era rispettoso con le giovani donne romantiche. Ad un circolo natatorio, sembrava che nulla potesse interrompere la monotonìa della loro compagnia. Una donna, accompagnata da una splendida ragazza sui sedici anni, chiese di poter conoscere il grande Chaplin. Finite le presentazioni, si chiacchierò un poco, finché Charlie le invitò, entrambe, al tavolo. La ragazza, che a quindici anni aveva preso la licenza inferiore, si preparava per la licenza superiore. Chaplin si interessava a lei e Tully osservava con compiacimento la maniera di procedere di quei due. Ormai Charlie  poteva mandare a casa l’amico. Finito il pranzo, l’attore invitò la ragazza a venirlo a trovare al suo studio l’indomani. Ritornando a Beverly Hills. Jim  parlò delle grazie della fanciulla, della sua bellezza, della sua intelligenza. Seduto in fondo alla vettura, egli approvava rapito. Dava ragione a Jim volubilmente. Questi era contento. L’indomani la ragazza venne allo studio, ma Chaplin rifiutò di riceverla.

   Dopo diciotto mesi, le strade di Chaplin e di Tully presero due direzioni diverse, ma non per colpa del primo, che non si separò dal secondo adirato, ma indifferente.

Più tardi citò il Tully in tribunale peer mezzo milione di dollari. La sua richiesta fu respinta dopo mezz’ora di dibattito e la corte emise sentenza in favore del Tully.

   Incontratolo in società, mentre la causa era in corso, Charlie si mostrò compito come un Talleyrand. Quando gli dettero da risolvere una ssciarada, egli scelse Jim per assisterlo. Gli fu suggerito che si trattava di una parola di quattro sillabe. Rise e disse: “Mio Dio, io non ne conosco nessuna”.

   Charlie invitò Jim ad andarlo a trovare il giorno dopo. Questi  se ne guardò bene. Poteva aver cambiato umore.

   Molto più tardi, al tramonto, Tully se ne stava in un locale di Sunset Bouulevard. Un uomo gli venne incontro. Le sue mani affondavano profondamente nelle tasche. Il cappello era calato sugli occhi. Le spalle erano curve come se sopportassero il peso del mondo. Egli non guardò passando oltre, silenzioso come un’ombra dello schermo, nell’oscurità. Era Charlie Chaplin, l’uomo più popolare del mondo.

   Jim Tully stava per gridargli: “Hello, Charlie”, ma si frenò. A Tully  gli rimase il rimorso di quel grido rientrato.

   Charlie era nello stato d’animo che Tully preferiva : quello di un essere abbattuto, semza la sua maschera, salito per cogliere una stella e che ha fatto cader giù una mela  polverosa.

Alfredo Saccoccio

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