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Crisi agraria e pellagra, i problemi dell’Italia unita [ di Rosa Ventrella ]

Posted by on Gen 3, 2020

Crisi agraria e pellagra, i problemi dell’Italia unita [ di Rosa Ventrella ]

L’Italia post-unitaria si trova a fronteggiare molteplici problemi, economici e sociali, che alimentano povertà e miseria tra la popolazione del Regno.
È soprattutto la popolazione delle campagne a subire i contraccolpi maggiori.

Negli ultimi decenni dell’Ottocento si verifica un processo di profonda trasformazione dell’agricoltura italiana, soprattutto nelle regioni settentrionali, che avrà come conseguenza lo sviluppo in senso capitalistico dell’attività agraria, accompagnato a un fenomeno di crescente proletarizzazione della classe contadina e di frazionamento della proprietà, a cui poi si aggiungeranno altri mutamenti, come l’utilizzazione di nuove tecniche di produzione, l’avvicendamento di nuove colture, il maggiore sviluppo dell’indirizzo zootecnico e molto altro ancora.
Questa vera e propria crisi agraria provoca più miseria che benessere, e si riversa sull’agricoltura italiana, con tutti i suoi effetti più dirompenti, dopo il 1880, colpendo i mercati con un brusco calo dei prezzi di molti prodotti agricoli, trascinati al ribasso dalla concorrenza, già allora, dei prodotti stranieri, in particolate di Cina e Giappone.
La crisi colpisce un po’ tutte le categorie agrarie e, in primo luogo, i proprietari, grandi e piccoli, abituati a fare una stima dei profitti sulla base degli anni precedenti, e ora, invece si vedono colpiti da un forte calo degli introiti.
Chi versa in condizioni ancora più drammatiche sono gli affittuari, i mezzadri e, ovviamente, i contadini salariati, che pagano più di tutti, l’impoverimento dei loro padroni. I proprietari terrieri, infatti, già in crisi per il crollo dei prezzi sul mercato, non possono permettersi di continuare ad assumere contadini e sfruttano manodopera solo nella misura minima necessaria, ricorrendo sempre più spesso a lavoratori avventizi, pagati interamente in denaro, e disposti ad offrire il lavoro delle loro braccia solo nei periodi di reale necessità, con contratti a breve termine.
È la genesi del precariato, a tutti noi tristemente noto!
Un’altra faccia della crisi è l’aumento della pressione esercitata sul lavoro contadino. Se si guadagna meno e se i prezzi sono calati, per recuperare le perdite è necessario fare pressione sui lavoratori perché producano di più e contrastino la concorrenza.
È soprattutto a seguito della progressiva infiltrazione di nuovi ceti borghesi nel possesso della terra, che si punta sempre più sull’utilizzo di nuovi metodi di produzione e nuove tecniche colturali, ma soprattutto, come già detto, sull’aumento della produttività dei campi.
Ne consegue che molti contratti di mezzadria, per esempio, sono sostituiti da altri basati sull’affitto a grano, per cui i contadini sono costretti ad adibire gran parte del terreno a frumento e a utilizzare gli altri prodotti per pagare i debiti.
Il mais diventa l’unico alimento per il sostentamento della famiglia, in molte campagne, soprattutto del nord.
Si tratta, infatti, di un tipo di coltura che si inserisce bene nelle rotazioni agrarie e non ha bisogno di trattamenti particolari.
L’avvento quasi esclusivo della dieta maidica è quindi la conseguenza di una crescente pressione sui contadini che fa diventare il mais l’unico alimento per loro accessibile.
La geografia di diffusione della coltivazione del mais, coincide terribilmente con quella di propagazione della devastante piaga della pellagra, malattia che provoca migliaia di morti in molte regioni italiane.
La pellagra si ferma a ridosso dell’Italia centrale, dove la sua diffusione è ostacolata dalla vasta persistenza del sistema mezzadrile, e rimane completamente sconosciuta nel sud, dove il mais è scarsamente coltivato.
Le zone più colpite sono la Lombardia, il Veneto, l’Emilia Romagna, ma la malattia semina molti morti anche in Piemonte, Umbria, Marche, arrestandosi proprio a questa altezza.
Le prime rilevazioni sulla malattia risalgono già alla prima metà del Settecento, in Lombardia e in Veneto, quando però era ancora difficile individuarne la presenza, perché raramente i contadini ricorrevano alle cure mediche; spesso la malattia si confondeva con altre, soprattutto con altri tipi di malattie della pelle come la lebbra.
In Piemonte, invece, la malattia compare ai primi dell’Ottocento, così come in Emilia, a partire dalla fascia appenninica.
Una delle prime inchieste statistiche sui pellagrosi nei comuni rurali della Lombardia, è quella di Balardini, nel 1830, dalla quale si rileva come la malattia sia più diffusa nelle zone di collina e di pianura, più esigua invece in montagna.
Questo dipende dal fatto che qui l’alimentazione è un po’ più varia e comprende altri cereali, come per esempio la segale, usata per la panificazione.
Anche la zona risicola della Lombardia sembra faccia da barriera naturale alla diffusione della malattia, perché il pagamento in natura, permette alla manodopera bracciantile di nutrirsi di riso, un alimento ricco proprio di vitamina PP, quella di cui è carente invece il mais.
La malattia porta sintomi devastanti: alterazioni cutanee, soprattutto su mani, viso e collo, che portano prima a un cambiamento di colore (la pelle diventa rosso scuro) e poi a desquamazioni, senso di indebolimento agli arti inferiori, dimagrimento, forti squilibri mentali, fase quest’ultima in cui la malattia diventa incurabile.
Il fatto che la pellagra abbia più incidenza in estate porta alcuni medici a pensare che, in qualche modo, tra le cause scatenanti, sia implicato il sole, ma questo dipende dalla alimentazione ciclica dei contadini, che è arricchita con verdure durante l’estate, e invece quasi interamente maidica durante l’inverno, per cui la malattia esplode proprio dopo la stagione invernale, quando si fanno sentire gli effetti di una prolungata denutrizione.
Nel 1878 viene indetta un’inchiesta, da parte della Direzione dell’Agricoltura, sulla pellagra, la prima fatta dal Regni Unito, che dovrebbe fornire dati sulla diffusione della malattia, ma anche consentire una classificazione sociale dei ceti più colpiti.
La classe bracciantile è tra le più esposte, ma anche i mezzadri impoveriti e figure che vivono un po’ ai margini della società, in condizioni di assoluta povertà, come mendicanti o anche muratori e filatrici, staccatisi dalla vita dei campi e attratti da nuove attività manifatturiere, ancora, però, poco proficue.
Dai risultati dell’inchiesta risulta un incremento enorme del numero dei malati in Lombardia, Veneto ed Emilia, anche se, mentre in Lombardia, per esempio, la malattia sembra che abbia raggiunto il massimo della sua espansione, in Veneto, al contrario, è in continua crescita. Su 97.000 casi accertati circa il 91% si trova proprio in queste tre regioni. C’è però molta incertezza sulle cause della malattia, anche se appare, ormai chiaro a tutti, il suo legame con il mais.
Tuttavia si pensa che le colpe siano da attribuire al largo uso di mais marcio, mal cotto e mal conservato.
Uno dei primi medici ad avanzare un’ipotesi sulla causa della pellagra, è il dottor Balardini, che chiama in causa un fungo tossico: Sponsorium maidis, che si svilupperebbe sul mais avariato.
Anche Lombroso, più tardi, sosterrà la teoria tossicozeista, affermando che Balardini, avesse sbagliato solo sul nome dell’agente tossico, che secondo Lombroso sarebbe il Penicillum glaucum.
Lombroso sostiene la sua tesi sulla base di una serie di ricerche, basate sulla somministrazione, prima su animali, poi su individui, di un certo quantitativo di tintura di mais ammorbata; i sintomi riscontrati vanno da diarrea a prurito a sete, voracità, insonnia, disturbi nervosi, ma niente che possa sostenere legami con l’insorgere della pellagra.
Per molto tempo, tuttavia, la teoria di Lombroso rimarrà quella più accreditata, anche perché alle autorità pubbliche fa comodo crederlo, perché eviterebbe di risolvere la vera causa del mal della pellagra, che è un male sociale, a cui solo il generale cambiamento delle condizioni di vita dei contadini potrebbe porre fine.
Infatti dal 1880 il Consiglio d’Agricoltura approva alcuni provvedimenti, per contrastare la malattia, tutti derivanti, però, dalla convinzione che la sua causa sia il mais guasto e non il mais in sé: si vieta lo smercio e il consumo di mais avariato, si risanano le case coloniche e si controllano i sistemi idrici, si costruiscono forni pubblici per distribuire pane ben cotto, ed essiccatoi, decreto questo scarsamente attuato, anche per la diffidenza dei contadini a essiccare artificialmente il mais.
Ovviamente i risultati di questi interventi sono molto scarsi, perché non estirpano il problema alla radice.
L’unica risposta delle classi dirigenti, al dilagare del morbo, è l’aumento della costruzione dei manicomi, ultima dimora nella quale i pellagrosi, in preda ormai alla fase terminale della malattia, che provoca disturbi psichici notevoli, trovano rifugio.
L’aumento proprio alla fine degli anni Ottanta della follia pellagrosa, dimostra l’inconsistenza delle cure varate dalle autorità pubbliche.
Solo molto tempo dopo, si scoprirà la vera causa: una forte carenza di acido nicotico, molto scarso nel mais; quindi si tratta di una malattia da denutrizione.
A un certo punto, però, succede qualcosa che fa retrocedere in modo quasi naturale il morbo. L’inchiesta sui malati del 1899, infatti, dimostra una diminuzione dell’endemia pellagrosa, e certo non per merito delle misure profilattiche prese dalle autorità, ma per le trasformazioni socio-economiche innescate dal nuovo scenario aperto proprio dalla crisi agraria, che influiscono sull’alimentazione contadina.
Per effetto del calo dei prezzi, di cui si è parlato, e delle innovazioni tecniche e colturali avviatesi a fine secolo, vengono a esaurirsi quelle contingenze che portavano i contadini a nutrirsi quasi esclusivamente di mais.
Innanzitutto il crollo dei prezzi permette l’accesso a molti prodotti, prima troppo costosi per i lavoratori della terra, ma questo non spiegherebbe niente se non fosse collegato al fatto che il salario in natura, in maggioranza costituito da mais, viene ampiamente sostituito dal salario in denaro, che consente ai lavoratori agrari di poter gestire i propri soldi con l’acquisto di prodotti anche più pregiati.
A ciò si aggiunge un uso maggiore di concimi chimici e la sostituzione, nelle rotazioni agrarie, sempre più spesso, del mais con foraggiere e pianti industriali.
Anche la forte spinta all’emigrazione contribuisce ad alleggerire la pressione demografica nelle campagne, e non si può ovviamente dimenticare il peso delle lotte sindacali, che sorreggono la crescente sostituzione del salario in natura con quello in denaro.
La conseguenza di tutto questo è che agli inizi del Novecento la pellagra è quasi del tutto scomparsa in Piemonte, e più tardi in molti centri della Lombardia.
In Veneto resiste più a lungo, pur scomparendo progressivamente a ridosso del primo conflitto mondiale.
Solo le Marche registrano un aumento della malattia tra il 1900 e il 1905, ma la causa è da addurre, con ogni probabilità, alla forte arretratezza delle campagne, qui ancora immuni dal progresso tecnologico che coinvolge altre regioni.
Nel 1910 il numero di malati è sceso a 33.861 casi, la maggior parte dei quali malati cronici, che già da tempo si trascinavano dietro i segni della malattia, mentre i nuovi casi diminuiscono fino a scomparire del tutto.

fonte http://www.tuttostoria.net/storia-contemporanea.aspx?code=481

1 Comment

  1. straziante leggere i risultati di un’annessione forzata, detta unità d’Italia… da ciò la più alta percentuale di emigrazione soprattutto nel Veneto, verso Stati Uniti e Argentina registratasi negli ultimi decenni dell’ottocento. caterina

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