Alta Terra di Lavoro

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CROCCO. Biografia di un brigante (V)

Posted by on Lug 17, 2024

CROCCO. Biografia di un brigante (V)

 Biografia di un brigante – Capitolo V – CON BORJES

Vivevo aggredendo, taglieggiando, uccidendo di tanto in tanto, quando da un pastore di Tricarico ricevetti un biglietto del brigante Serravalle in cui mi si chiedeva appuntamento alla masseria Carriera.

Fu qui, nell’ottobre del 1861, ch’io conobbi il Borjes generale spagnolo venuto per ordine di Francesco Il a tentare di sollevare i popoli delle Due Sicilie.

Quell’uomo forestiero che veniva da noi per arruolare proseliti e reclamava in conseguenza l’ausilio della mia banda, destò sin dal primo momento nell’animo mio una forte antipatia poi ché compresi subito che a petto suo dovevo spogliarmi del grado di generale comandante la mia banda, per indossare quello di sottoposto.

Egli, un povero illuso venuto dal suo lontano paese per assumere il comando di un’armata, aveva creduto trovar ovunque popoli insorti, e dopo un primo colossale fiasco dalla Calabria alla Basilicata, voleva convincer me ed i miei che non sarebbe stato difficile provocare una vera insurrezione, dato il numero della mia banda, l’ottimo elemento che la costituiva, le buone armi e gli eccellenti cavalli.

L’esperienza, maestra della vita, mi consigliava a non far appoggio sull’aiuto dei reazionari, se non volevo ripetere un’altra fuga come quella di Melfi; però era d’incitamento per noi, a non rifiutare il chiesto aiuto, il pensiero che guidati da un esperto uomo di guerra, avremmo potuto aver ragione sulla forza, conquistare paesi e città, ove non sarebbe stato difficile arricchire col saccheggio e coi ricatti.

Il Serravalle insisteva perché la domanda del Borjes venisse accolta incondizionatamente, ma tanto io quanto i miei eravamo titubanti, anzi propensi a rifiutare, male assoggettandoci a discipline militari abituati a vita libera, e quello che più importava al libero ladroneggio.

Dopo lunghe trattative e convenzioni verbali sull’uso della forza, sull’ordinamento del comando, sulla mercede giornaliera, mi unii colla mia banda al generale spagnolo e con lui iniziai nuove gesta brigantesche, sotto la tutela però di movimento politico.

Quale sia stato l’itinerario stabilito dal Borjes nel suo piano d’invasione della Basilicata ora io non rammento con esattezza, egli aveva precisato essere sua intenzione assoggettare i centri minori, dar loro nuovi ordinamenti di governo, arruolare reclute, armi e cavalli e poscia gettarsi sulla città capoluogo di provincia, ove comitati segreti lavoravano a preparare armi ed armati pronti ad insorgere quando avremmo attaccato.

Da Lagopesole, di boscaglia in boscaglia con marce lunghe e forzate eseguite quasi sempre di notte per strade mulattiere e sentieri quasi impraticabili, noi giungemmo alle sponde del Basento, raccogliendo per via numerose reclute.

Primo paese di attacco fu Trivigno. Il 2 Novembre dal bivacco del bosco di Brindisi della Montagna avanzammo pel bosco.

A Trivigno e la sera del 3 sull’imbrunire discendemmo sul paese prendendo posizione di attacco, ammassati al coperto di un’antica chiesetta in rovina, e propriamente nel punto detto Calvario, che dista dal paese circa 200 metri.

La guardia nazionale, un centinaio di militi, avuta notizia del nostro avanzare, era corsa arditamente alle armi, e non consapevole delle nostre forze, avanzò fuori paese per affrontarci.

Accolti a fucilate da’ miei, i militi presero posizione rispondendo tosto al nostro fuoco, ma per il loro scarso numero e per la disagevole condizione loro di fronte ai nostri appiattamenti, dovettero in breve ritirarsi.

Rientrati in paese. si asserragliarono nelle prime case in modo da poterci battere al momento del nostro ingresso e con un nutrito fuoco fatto dalle finestre e dai tetti, obbligarci alla ritirata.

Ma io non ero tanto ingenuo da farmi cogliere al laccio; ordinai ad una centuria d’avanzare sulla strada al coperto, sostando a conveniente distanza per aprire un vivo fuoco, mentre diversi plotoni per direzioni opposte dovevano tentar l’entrata in paese per prendere alle spalle i difensori.

Durò per tre ore la lotta veramente accanita, poi i gagliardi difensori ridotti a mal partito dalla deficienza di munizioni, abbandonarono ogni pensiero di difesa, lasciando il paese in nostra piena balia.

Quello che successe di poi lo seppero i disgraziati cittadini, i miei compagni anelanti di sangue e più ancora di bottino, appena penetrati in paese cominciarono a scassinare porte per rubare tutto ciò che loro capitava di meglio nelle case. Chi resisteva, chi rifiutava di consegnare il denaro od i gioielli, era scannato senza pietà. Così fu ucciso Michele Petrone e poscia la sua consorte che si rifiutarono di consegnare le nascoste piastre al Ninco-Nanco.

Un vecchio ottantenne certo Salsano, trovato a letto perché infermo fu bruciato vivo dopo di averlo arrotolato nelle matarasse unte di petrolio. Il notaio Guarino, uomo facoltoso e colto, era stato preso in ostaggio sperando ricavarne un grosso ricatto; ma mentre lo si accompagnava per le vie, venne da uno sconosciuto ucciso con due schioppettate.

Questo assassinio che fu addossato a me, seppi di poi ch’era stato compiuto per opera di un suo compaesano unitosi in città alla nostra banda, che vendicava con quella fucilata molte angherie ricevute.

Il paese fu posto a ferro e fuoco; vidi coi miei propri occhi cader rovinato il palazzo di certo Maggio, ricco proprietario del luogo; vennero distrutte dall’incendio le abitazioni dei fratelli Brindisi, quella del Salsano e venti altre che ora non mi ricordo.

Fui alloggiato in casa del Sindaco nel miglior palazzo rimasto incolume fra tanta distruzione e di là ho potuto assistere a numerosi atti di barbarie ferocemente compiuti da’ miei masnadieri ebbri di furore e di sangue. Per conto mio limitai l’impresa a raccogliere ducati, imponendo taglie ai più facoltosi sotto pena d’incendio e di morte.

Le stragi e le carneficine di Trivigno segnano una triste pagina nella storia della mia vita; Borjes, non ingiustamente ne attribuì la colpa a me solo, egli però allora non comprese che se le stragi ed il saccheggio fossero state risparmiati, sarebbe mancato a lui in seguito tutto intero l’appoggio della mia banda.

I miei uomini erano stanchi per le lunghe marce eseguite, stanchi di un’inerzia e di un rigorismo contrario alle loro abitudini di vita sciolta; passando rispettosi presso centri abitati avevano mal rassegnati, visto sfumare le speranze di ricco bottino, di desiati piaceri, compenso meritato alle lunghe fatiche, ond’io a stento ero riuscito a trattenerli dal compiere atti di ribellione; se avessi cercato risparmiare Trivigno, la mia masnada, già malcontenta, si sarebbe forse ribellata anche contro di me.

Il giorno 5 Novembre la mia banda occupò senza colpo ferire il piccolo villaggio di Calciano sulla destra del fiume Basento ove si moltiplicarono gli atti brutali senza riguardo a persone e cose.

M’imbatto sulla pubblica via in una donna barbaramente trucidata e vedo tutto all’intorno innalzarsi un denso fumo, sono i miserabili casolari di quei coloni posti a fuoco dopo il saccheggio. Il paese è povero, ciò non pertanto impongo qualche piccola taglia e raccolgo denari.

Da Calciano la colonna marciò su Garaguso, altro piccolo gruppo di case sulla sinistra del torrente Salandrella. A mezza via fummo ricevuti dal parroco, che ci benedì implorando pietà e protezione pe’ suoi fedeli. Il paese è risparmiato, succedono piccoli disordini causa l’efferatezza di qualcuno de’ miei, ma poca cosa di fronte alle stragi di Trivigno ed alle distruzioni di Calciano.

Il mattino dopo l’occupazione di Garaguso si attacca Salandra.

Il paese è asserragliato; la guardia mobile e la guardia nazionale forti di 200 fucili hanno occupato il castello feudale e dall’alto della piccola rocca fanno una resistenza validissima. Abbiamo dalla nostra qualche morto e diversi feriti, tra i quali il mio servo, persona fedelissima, ma il popolino è ostile ai signori e dall’interno del chiuso paese mormora e minaccia. Ci viene aperto il passaggio e noi avanziamo in città distruggendo e devastando. I difensori del castello sono nostri prigionieri, qualcuno è malmenato, qualche altro ucciso, i più sono salvi. Il saccheggio e l’incendio durano tutta la notte; i morti sono parecchi, qualcuno è trovato carbonizzato tra le fumanti macerie.

Lasciata Salandra avanzammo su Craco ove incontrammo a mezza via una processione di donne e fanciulli con a capo il curato colla croce. Venivano a chiedere clemenza per il loro paese e clemenza fu accordata, poiché non si verificarono che piccoli disordini difficili ad evitarsi con tanta gente e più specialmente con gente di tal natura. Da Craco dopo di aver guardato il fiume Agri (forse voleva dire il torrente Sauro affluente dell’Agri) arrivammo ad Aliano.

Questo paese di circa 4 mila abitanti al mio giungere era quasi disabitato, poiché i signori ed i borghesi erano fuggiti tutti verso Corleto Perticara e Stigliano, lasciando in paese la sola pIebaglia. Fui accolto abbastanza bene da quella misera gente; mi collocai nel palazzo d’un signore, fuggito colla famiglia a Montalbano Jonico, ove venni trattato da vero sovrano dal fattore e dai suoi.

E già cominciavo a credermi padrone, e dicevo tra me e me che dopo tutto mi sarei accontentato di quel piccolo ducato, purché mi si lasciasse in pace, signore e padrone di riscuotere i frutti delle mie terre, quando a disturbare le mie fantasticherie pensò il sottoprefetto di Matera, che invidioso della mia felicità aveva raccolto 1200 uomini fra un battaglione di fanteria, di bersaglieri e guardia nazionale, ed in due colonne, per strade convergenti, li aveva indirizzati contro di me.

Era di mattino ed io facevo colazione, quando entrò da me il capitano di guardia e con tono scherzevole mi disse: «signor duca di Aliano, abbiamo alla nostra portata una discreta forza; essa è partita da Stigliano ed è diretta contro di noi; i nostri informatori che l’hanno accompagnata, riferiscono che da Matera sono partiti oltre 1200 uomini in due colonne comandati da un maggiore. I soldati che vengono da Stigliano (3 compagnie del 62° fanteria ed un battaglione di gua rdia mobile) a detta delle nostre spie è truppa molto stanca per la lunga marcia da Matera a qui».

Ordinai al capitano di raccogliere tutta la banda e d’aspettarmi all’uscita del paese; salutai la serva, una simpatica brunetta molto cortese, salutai il fattore e lo pregai di ringraziare a nome mio il lontano padrone, raccolsi le mie armi e con vivo rincrescimento lasciai la mia piccola reggia.

Frattanto la truppa era scesa nella pianura detta Taverna del l’Acinello e si disponeva a passare il torrente Sauro miserissimo di acque. Ci separava dai soldati un miglio forse. Chiesto parere ai capi fu unanime il consiglio di attaccare la truppa al fiume, mentre i cavalieri con largo movimento di fianco dovevano al momento opportuno piombare addosso alla guardia mobile.

Dato gli ordini necessari e prese le disposizioni opportune, scendemmo di corsa al piano camminando al coperto per sentieri costeggiati da fitte siepi; giunti presso il letto del torrente sostammo aprendo tosto il fuoco.

La truppa aveva occupata una forte posizione costituita da un piccolo poggio boschivo a ridosso del torrente, presso il molino Aciniello; essa, appostata dietro i fitti pioppi, faceva un fuoco indiavolato contro di noi e già parecchi della banda erano caduti uccisi.

La prevalenza nostra numerica marcatissima teneva a stento fronte all’ardire di quei dannati piemontesi, che agli ordini di un valoroso capitano alternavano il fuoco con continui attacchi. Avendo io scorto i miei cavalieri che stavano per avvolgere la posizione, decisi di avanzare attaccando.

Non ne ebbi il tempo, poiché per tema di essere accerchiate, le due compagnie del 620 fanteria, che più ci minacciavano da vicino, si ritirarono combattendo e presero posizione ai piedi di una collina.

Nel mentre i miei, dopo un nutritissimo fuoco, avanzavano a sbalzi di corsa, avvertii Ninco-Nanco, che comandava i cavalieri, di portarsi al coperto sul margine del bosco, per poter piombare sul fianco delle truppe, in caso di attacco alla baionetta.

Lo spavento massimo degli uomini della mia masnada, è quello che nei combattenti incuteva in me una forte preoccupazione per l’esito della lotta, erano gli attacchi alla baionetta. Quella lotta corpo a corpo contro gente che non misurava pericolo, che avanzava intrepida sotto il nostro tiro, colle baionette in canna, al grido di «Savoia», faceva scorrere nelle vene un brivido di freddo anche ai più forti, già temprati a dure prove.

La milizia mobile spostandosi a destra verso Stigliano, offrì per un momento il fianco a facile bersaglio dei cavalieri; ne colse a tempo il destro l’astuto Ninco-Nanco e coi suoi 100 uomini piombò all’improvviso sulla colonna provocando dapprima confusione e poscia spavento che originò una fuga disordinata.

La vittoria era sicura per noi, tanto più che la milizia mobile fuggendo aveva trascinati seco non pochi sbandati delle compagnie del 62° fanteria. Conveniv a far pagare a caro prezzo l’audacia dei componenti quelle due magre compagnie, che osavano tener testa a oltre mille di noi, ed a tal fine disposi perché fosse preclusa ogni via di ritirata.

Il capitano comandante, credo si chiamasse Pellizza animava i suoi bravi piemontesi colle parole e coll’esempio, e, armato di fucile come un soldato semplice, continuava a far fuoco contro di noi, senza curarsi del nostro accerchiamento. Mentre durava viva la lotta, uno dei miei, strisciando carponi al suolo riuscì ad avanzarsi sin presso la posizione nemica, e con un aggiustato tiro colpì alla fronte il valoroso ufficiale, che cadde morto sul colpo.

A tal vista i pochi superstiti spararono le ultime cartucce e poscia, quando si videro minacciati da ogni lato, si raccolsero e con un disperato assalto si aprirono la via tra i miei, riuscendo a porsi in salvo, non inseguiti, per la via di Stigliano.

Il trionfo era completo per noi, che restammo padroni del campo e dei non pochi fucili dei morti, e di quelli buttati via dai militi della sbandata guardia mobile. Quando giunsi presso il morto capitano, trovai che gli avevano già staccata la testa dal busto. I miei ne incolparono un soldato ungherese caduto prigioniero, e ne attribuirono la causa alla speranza di aver salva la vita compiendo un atto da vero brigante; forse la testa del valoroso capitano Pellizza fu staccata da’ miei compagni di mestiere, per farne omaggio all’uccisore, sta in fatto che per impedire ulteriore scempio sul corpo di un eroe morto lontano dal suo paese, ed a servizio del suo Re, Borjes impose e riuscì ad ottenere che quel cadavere e gli oggetti trovatigli indosso venissero consegnati al vicino convento di Stigliano, perché l’Autorità Prefettizia ne disponesse come meglio credeva.

I cittadini di Stigliano erano preparati ad accogliere l’Esercito come salvatore del loro paese; ne attendevano il ritorno alle porte per accompagnarlo trionfante in città, quando i primi militi della guardia mobile giunsero apportatori dell’avuta sconfitta.

La notizia che, noi in numero di quasi duemila armati, eravamo vittoriosi oltre Taverna Capo Rotondo, tolse a quei miseri, ogni desiderio di festa, ogni pensiero di lotta, e mentre la truppa continuava la ritirata su 5. Mauro Forte, essi, fatto in fretta e furia un fascio del loro meglio di casa (denari, gioielli, vestiti) colle mogli, coi figli, per la rotabile che conduce a 5. Mauro s’incamminarono sotto la protezione della truppa.

Questa massa abbastanza considerevole di persone (in Stigliano erano rimasti i poverelli) camminava a piedi pel polveroso stradone e formava direi quasi l’avanguardia, poiché dietro venivano i militi della guardia mobile ed in ultimo i superstiti delle compagnie del 620 fanteria, come a protezione estrema contro l’audacia brigantesca.

Certo che il nome mio doveva essere ben noto in quei paesi e più che il nome le mie gesta, quale generale d’una banda di duemila armati con 300 cavalieri, per incutere tanto spavento nelle popolazione. Concorrevano ad aumentare la paura le esagerate asserzione di atti ferocissimi da noi compiuti. Non nego che il Coppa, il Ninco-Nanco, il Caruso stesso, abbiano qualche volta commessi atti feroci sui feriti, e qualche altra fatto scempio dei cadaveri dei caduti, ma nego che da me non si sia mai dato ricovero ad alcuno, e che vigesse in conseguenza l’ordine di uccidere borghesi, ufficiali, soldati che cadevano nelle mie mani.

Padrone di un paese imponevo ai ricchi onerose taglie indispensabili pel vettovagliamento dei miei uomini, né pretendevo di più; non avevo per altro tanta autorità sui numerosissimi compagni da imporre ad ognuno il rispetto della proprietà della famiglia,. onde più d’una volta è successo che i signori dopo di aver dato a. me la metà dei loro averi, dovettero dare l’altra metà ai sottocapi, e vedersi per di più violate le donne senza poter reagire pena la vita.

Questa era quindi la causa vera per cui noi eravamo temuti. quali flagelli di Dio, e fu la ragione unica che indusse i signori di Stigliano a cercare la salvezza loro nella fuga. Cammina vano, come già dissi, tutte quelle persone sulla strada che da Stigliano conduce a S. Mauro, protetti dalle truppe, quando ad un tratto s’incontrarono inaspettatamente con 100 de’ miei cavalieri che rientravano in paese dopo un lungo servizio di esplorazione.

Questo distaccamento aveva avuto l’ordine di eseguire un largo movimento sulla sinistra del Gorgoglione, per piombare all’improvviso a tergo della posizione occupata dalle truppe, e per assicurarmi che l’altra colonna, partita da Matera e segnalata da alcuni giorni a Tricarico, non fosse giunta a portata tale da poter muovere in rinforzo immediato delle truppe da me sconfitte.

L’incontro quindi fu del tutto fortuito; i miei vedendo quella gente in fuga cominciarono a far bottino, ma quando si accorsero della presenza della truppa fuggirono a rotta di collo rientrando al luogo del nostro bivacco.

Caruso, che aveva il comando di quel distaccamento, mi raccontò la commovente scena di quello scontro impreveduto. All’apparire dei primi cavalieri della banda, tutte quelle persone, che spaventate fuggivano per porsi in salvo da un pericolo imminente, si credettero perdute, per cui emettendo grida e lamenti, rincularono sulla guardia mobile. E poiché la strada non era spaziosa ed in quel punto correva a mezza costa, così buona parte di persone precipitò in un sottostante burrone, mentre altre fuggivano, gridando, per l’aperta campagna. E tra quelle tremila persone scorgevi la balia con al seno il signorino poppante, seguita dalla signora paurosa, convulsa per la sorte del suo piccolo nato, e più oltre servi fedeli trascinare a stento vecchi padroni resi incapaci dall’emozione e più ancora dalla paura. Qualche famiglia s’era fatta accerchiare dai propri guardiani armati sino ai denti, e sotto la protezione di questa gente fidata aspettava trepidante la fine del dramma, sicura che i suoi difensori si sarebbero fatti trucidare prima di cadere. Non mancavano neppure i signori rimasti soli a difendere se stessi, causa non ultima le iniquità commesse verso il popolo, abusi vergognosi, avarizia, prepotenze, violenze d’ogni specie, sempre impunite, sempre tollerate Ancor oggi si dice che la reazione fu il frutto dell’ignoranza, ciò sarà vero, anzi è verissimo, ma, a promuovere la reazione vi concorsero pure questi arrabbiati signorotti di provincia, i quali con sfacciata millanteria dicevano: «E’ venuto il tempo nostro» Ed i poveri oltraggiati risposero: «E’ venuto pure il nostro teme così in molti paesi si ebbero uccisioni, assassinii, depredazioni; i frutti della guerra civile.

Fui ricevuto in Stigliano dal prete, un grasso parroco, vestito per le grandi occasioni, che mi venne incontro ed offrendomi il Crocifisso a baciare invocò la pietà e la misericordia pei suoi fedeli rimasti in paese. Prevaleva in me e nei componenti la mia banda un sentimento di religione che ci faceva timorosi di fronte a Dio; ognuno di noi aveva appeso al collo il sacro abitino coll’immagine della Madonna, ch’egli invocava a salvezza della vita ne conflitti, onde la preghiera del prete e la vista del Crocifisso, esercitarono su me e sulla mia banda un forte ascendente.

A dimostrare quanto avesse agito sull’animo mio la parole grave del sacerdote, sta il fatto che ordinai fossero immediatamente liberati i soldati prigionieri dando loro due ore di tempo per allontanarsi dal paese.

Imposi ai miei con insolita insistenza, il massimo rispetto per le persone, minacciando punizioni severe a chi disubbidiva, e così, rassicurato il clero, mi disposi ad entrare in paese. Avevo avuto l’invito di occupare il palazzo del principe Colonna, e mi dirigevo all’alloggio indicatomi, quando il prete invocò la mia clemenza verso una quarantina di detenuti rinchiusi nel carcere mandamentale. Ordinai tosto si spalancassero le prigioni e si desse senz’altro libertà a tutti, qualunque fosse il delitto o la colpa commessa.

La mia banda ebbe pure essa alloggi sontuosi, poiché essendo vuoti i palazzi dei signori, ivi accasermarono le centurie.

Giunto al palazzo Colonna, una cosa veramente reale (nei tempi del vassallaggio la famiglia Colonna dominava per tutto il contado), venni ricevuto come si suol ricevere un pezzo grosso. Ed in quel momento rappresentavo qualche cosa di grosso ancor io, poiché dopo tutto a questo mondo per non restar piccoli bisogna aver virtù di far macellar uomini.

Napoleone I era figlio di un povero cancelliere, eppure macellando milioni di uomini, compreso mio zio Martino, arrivò ad essere un grand’uomo, ma finalmente, per aver voluto troppo, perdé tutto, e come me, finì la vita prigioniero, lui a 5. Elena, guardato a vista dai soldati inglesi, io nel bagno di 5. Stefano, sotto la rigida sorveglianza delle sentinelle dell’esercito italiano.

E pensare che io mi sarei accontentato della signoria di quel paesetto di Aliano, e devo invece morire nel bagno penale! Ma pazienza, morrò benedicendo, ringraziando la clemenza di S.M. Vittorio Emanuele, il quale firmò la grazia che commutava la pena della morte in quella dei lavori forzati. Ringrazio, non perché ho potuto vivere di più, ma per aver liberato i miei parenti dall’obbrobrio di sentirsi dire: «Siete nipoti dell’impiccato».

Nella mia abitazione reale, io, abituato alla rozza vita dei campi, non mi trovai a disagio, e seppi tosto adattarmi alle esigenze della vita signorile. La sera in quella sala da pranza, dove chi sa quanti baroni, conti, duchi, marchesi e forse qualche Re, avevano cenato; colà cenai anch’io. La mensa era sontuosa, la servitù galante; ebbi il primo posto, quindi per ordine sedettero a tavola circa trenta persone. La gente di servizio in completa toeletta di gran gala, dipendeva da’ miei cenni.

L’andirivieni di piatti uno più finissimo dell’altro durava da circa mezz’ora, ed io non avevo assaggiato cibo di sorta, mentre i miei ufficiali in en che non si dica divorando fecero onore alla mensa imbandita non per noi di certo, ma per il decapitato capitano e per il suo seguito. Poco dopo il mio servo fedele (Dio l’abbia in pace poiché più tardi mori per me), mi portò del pane, un pò di caciocavallo, due mele, delle noci e cinque uova sode, e questo fu il pranzo mio per quella faticosa giornata.

La sera prima in quella medesima sala da pranzo era stata tenuta una lunga conferenza sul conto nostro tra il capitano ucciso ed il fior fiore dell’aristocrazia del paese. Ed a tavola si era brindato alla mia cattura ed a quella di Borjes; però il capitano Peilizza (da quanto mi fu riferito) la sera antecedente alla sua morte era di umore tetro e pare abbia presagito la sua fine, poiché ebbe a ripetere a più riprese: «Non mi avranno mai vivo nelle loro mani, saprò morire come si conviene».

Al mattino, impressionato forse dal meschino contingente di soldati ai suoi ordini, coi quali doveva tener fronte a forze dieci volte superiori, il prode capitano, dopo aver misurata tutta la grave responsabilità che su lui cadeva, si era fatto triste e pensieroso, e coi compagni, pur fingendo celiare, parlava loro di morte sicura. Forse nell’animo di quel valoroso coll’avvicinarsi del momento critico, veniva meno, quella speranza ch’egli aveva nutrito di aver un appoggio sicuro nella guardia mobile. Forse un interno presentimento lo faceva avvertito che nell’ora estrema, sarebbe rimasto solo coi suoi piemontesi a combattere venti contro uno; sta però di fatto ch’egli nel dipartirsi dall’alloggio usò la frase «addio» in risposta al «arrivederci» de’ suoi padroni di casa.

Finito il pranzo ognuno se ne andò pei fatti suoi ed io fui accompagnato nella mia camera da letto.

Quella notte non potei chiudere occhio, passeggiai, pensai, ripensai, ma la mia coscienza mi rimordeva, vedevo innanzi a me il capitano ucciso, i soldati massacrati, mutilati; sentivo risuonare all’orecchio il lamento dei moribondi contro i quali i miei compagni avevano inveito egualmente per rendere più cruda la morte; ad uno ad uno mi si presentavano innanzi, quale terribile fantasma, i mille caduti nei passati scontri, e dalle vuote occhiate uscivano scintille di fuoco, mentre mormoravano sommessi mille imprecazioni al mio indirizzo.

Agitato, eccessivamente nervoso, mi alzai a sedere sul letto. La mia testa pareva un vulcano; avevo la gola arsa, i polsi battevano forte forte, pareva che il cuore dovesse uscire dal petto.

Ma un pensiero venne tosto a sollevare l’abbattuto mio spirito ed a tranquillizzare la coscienza: mia madre!

«E la tua povera madre morta nell’ospedale dei pazzi, chi la piange? E la tua mendicità chi la considera? dicevo fra me e me; della tua schiavitù che n’ebbe pietà? Forse quel signorotto che ti accettò al suo servizio per darti due franchi al mese ed un tozzo di pane nero per satollarti? Era forse una carità servire notte e giorno esposto alle intemperie, al gelo, alla pioggia, al crudo inverno, ed agli schiaffi dei crudeli castaldi? Carità sarebbe stata se tu avessi ricevuto tanto pane quanto il padrone tuo ne 4ava ad uno dei suoi trenta cani di lusso; se avessero speso per te, pel tuo benessere fisico e morale, la millesima parte di quello che si spendeva per mantenere bestie di lusso. Ma invece tu eri sfruttato, ed il frutto del tuo lavoro serviva alle gozzoviglie dei tuoi padroni. Se ti avessero lasciato continuare la scuola dello zio Martino, non avresti più tardi preso il feroce tipo del selvaggio e forse saresti stato sempre un buon padre, un onesto cittadino ma….

Ero immerso in questi ed altri pensieri, quando la tromba brigantesca squillò i segnali della diana.

Mi alzai di buon umore; mezz’ora dopo il capitano di servizio mi informò che tutto procedeva regolarmente. Borjes aveva ordinato che la cavalleria all’alba perlustrasse il terreno all’ingiro per un percorso di sei miglia almeno, raccogliendo notizie sopra ogni cosa di anormale che si presentasse alla vista sua, e ne riferisse immediatamente.

Rimasto solo nel mio palazzo principesco incominciai a percorrere le splendide sale fermandomi nella galleria cosiddetta dei quadri. Osservando qua e là attrasse la mia attenzione uno splendido quadro rappresentante il principio di una battaglia.

Gli arcieri scaramucciavano, i frombolieri lanciavano sassi, i pedoni con lancia e picca in testa e i cavalieri a lancia calata erano pronti al cimento.

Fra tutti spiccava la figura nobile di un cavaliere, ritrattato a dimensioni più grandi degli altri che combattevano. Egli inforcava un cavallo coperto di ferro come coperto di ferro era il suo corpo dalla corrazza lucente; teneva nella destra, in atto di comando, un enorme spadone; era grave nell’aspetto, aveva l’occhio fisso dove la battaglia incominciava.

Non so con quanta realtà, ma sta in fatto che m’immaginai dovesse quel cavaliere rappresentare qualche persona della famiglia Colonna di Stigliano, onde rivolsi a lui la parola, come se parlassi ad essere animato, e così dissi:

«Signore, il tuo portamento mi dice che abituato all’arte della guerra sei valoroso e non paventi la morte. Saresti a caso più valoroso di me? Scommetto che ieri in Stigliano saresti fuggito come tutti gli altri, non ostante l’enorme spadone che tieni nella destra. Vuoi tu essere più valoroso del capitano Pellizza che morì gridando «Viva il Re»? Ebbene vuoi sapere chi fece cadere quell’eroe un ragazzo di sedici anni che approfittando della sua sveltezza, scivolando di cespuglio in cespuglio cauto ed inosservato giunse a trenta metri da lui, e gli piantò nel cuore una palla di mezz’oncia.

«I tuoi virtuosi antenati, al par di te cavalieri, combattendo t’hanno trasmesso in eredità la virtù di saper condurre gli uomini al macello, e tu ora coltivi quelle virtù; sei principe, gran signore,. ti hanno dipinto su questa tela per memorare la tua schiatta, che vuoi di più?

«Ma per me povero figlio della miseria, chi sarà quel pittore che dipingerà la mia entrata in Stigliano?

– nessuno, e chi vuoi che abbia cura di un ladrone plebeo? Oh allora sarebbe bella e finita!

«Si finiamola, non pensiamo all’infamia del mondo, poiché è appunto per l’infamia di D. Vincenzo C….. che io turberò finché posso le case di voi signori prepotenti e nobili».

A Stigliano ci fermammo due giorni, il 10 e l’11 novembre. I signori erano fuggiti tutti perciò decidemmo continuare la nostra avanzata tanto più che Borjes aveva desiderio di giungere presto. su Potenza.

Ed eccoci sul misero villaggio di Cirigliano dove in mancanza di meglio troviamo pochi fucili per armare le nuove reclute, buoni maiali ed ottimo vino per le nostre mense. Dopo il rancio è fatta la paga alla masnada e subito dopo si parte per Gorgoglione che viene occupato senza colpo ferire.

Le spie ci avvertono che per la valle dell’Agri una forte colonna di soldati avanza verso di noi. La scacco di Stigliano aveva fortemente impressionati non solo le popolazioni ma eziandio il Governo. Prefetti, sottoprefetti, commissari regi invocavano dal ministero pronti e numerosi rinforzi di truppa per tener fronte a tanta invasione, mentre i liberali più arditi e valorosi incorando i timidi ed i paurosi andavano raccogliendo per i piccoli paesi e per i centri maggiori le milizie nazionali.

Da S. Arcangelo, da Montemuro per tutta la valle dell’Agri i militi cittadini s’erano riuniti ed avevano combinato colle truppe regolari un movimento avvolgente, fiduciosi di arrivarci addosso all’improvviso non lasciandoci via di scampo.

Si tiene consiglio tra i capi e prevale l’idea di evitare lo scontro guadagnando le boscaglie della montagna. Pratici del luogo ed abituati alla vita della macchia, non ci tornò difficile sfuggire al piano di guerra del comandante le truppe ,e mentre si credeva di sorprenderci in baldoria a Guardia Perticara, noi il 13 eravamo ad Accettura, Oliveto e Garaguso, pernottando in quest’ultimo paese.

Il 14 la nostra colonna pernottò a Grassano e resistette ad un attacco, datoci dalle truppe regolari. Dopo una viva schioppettata tra i nostri avamposti e la colonna che c’inseguiva, sul cader della sera la truppa, poca forza, rimase in posizione, e noi, prima ell’alba lungo il letto d’un torrentuccio asciutto, arrivammo non inseguiti a S. Chirico che fu occupato senza colpo ferire.

Attacchiamo Vaglio, paese a sei miglia da Potenza, che resiste con ammirabile valore al nostro attacco. La minaccia di distruzione, se non si arrende, non fa che accrescere nei cittadini l’ardore della difesa; i nostri parlamentari sono accolti a fucilate; abbiamo diversi morti. Divisi in quattro colonne attacchiamo contemporaneamente da quattro parti, ed occupiamo il paese mentre nel convento, fortemente occupato, si continua a resistere. I nostri, inferociti dall’inaspettata difesa, uccidono quanti incontrano per via, uomini, donne, e danno fuoco al convento.

Il paese è posto a saccheggio, chi più può più ruba. Lasciamo il convento in fiamme. Giorno 16 novembre. Siamo nella vallata di Potenza chiamati a liberare i carcerati politici ivi rinchiusi.

Siamo in trattative segrete con comitati reazionari; è quasi sicuro che al nostro approssimarsi si avrà un’insurrezione generale.

In tutti vi è forte speranza di ricco bottino e di molti piaceri.

Presiede il comitato segreto reazionario il signor un ex capopopolo del 1860, liberale dalla sola fascia tricolore, che non avendo potuto arricchire nella rivoluzione, perché il triumvirato Àlbini, Boldoni, Mignogna aveva provveduto lui a tutto, cambiò bandiera e si fece borbonico, come era prima del 1860.

Ma pur troppo codesto camaleonte politico, ancora una volta mutò colore, avverti il Comandante la piazza, indicò il luogo ove eran deposte le armi, ch’egli aveva poco prima segretamente ricevute, intascò i ducati del Borbone, e si vantò di poi di aver salvata la Basilicata. Perché non potessero smascherarlo, fece trucidare sulla piazza S. Gerardo di Potenza (novembre 1861) cinque persone, quelle stesse che da lui avevano ricevuto ordine di conserva re le armi spedite da Napoli.

Con mio dolore dovetti abbandonare l’impresa di soggiogare Potenza e tornarmene colla coda fra le gambe come cane scortato.

Ripieghiamo su Pietragalla ove arriviamo sull’imbrunire e siamo accolti a fucilate. La guardia mobile si chiude nel castello ducale e resiste per tutto il giorno successivo ai nostri vigorosi attacchi. Abbiamo numerosi feriti e qualche morto ma siamo compensati da un ricco bottino. Il paese è in fiamme; arrivano in rinforzo dei cittadini le milizie di Acerenza e quelle di Forenza e siamo costretti ad abbandonare l’impresa.

Comincia il freddo intenso, le piogge insistenti cagionano molte malattie, i miei sono mal ridotti e quel che è peggio mal disposti a proseguire nell’impresa. Borjes corre pericolo d’essere ucciso dai suoi masnadieri.

Ad Avigliano troviamo la popolazione in armi e siamo respinti. La dissoluzione si fa strada tra noi, il comandante francese vuole imporsi su Borjes, la guerra civile è imminente tra la banda.

22 Novembre. Ci gettiamo su Bella piccolo paese non molto di stante da Ruvo del Monte.

Partii di notte in testa ai miei compagni, e giunsi allo spuntar del sole alle porte del paese, ove feci sostare la mia banda. Come per Ruvo inviai al Sindaco una missiva intimando il pagamento d’una taglia ed il vettovagliamento per i miei uomini e cavalli.

Mi si rispose col suono delle campane, segnale di allarme e di difeso a tutt’oltranza.

Accettai la sfida e dopo nove ore di combattimento ferocissimo, riuscii a costringere i cittadini armati a ridursi nel castello feudale, che non mi fu possibile conquistare. Padrone del paese,. metà in fiamme, requisii buoi, capre e tutto quello che mi fu possibile ritirandomi poscia sui monti non molestato.

Lasciamo i monti e ci avviciniamo a Muro Lucano che da informazioni dei confidenti sappiamo ben difesa. Al francese manca il cuore di attaccare per paura di un rovescio, scendiamo lungo il Platani e arriviamo a Balvano accolti a festa da quei popolani, che ci offrono ogni ben di Dio.

Da Balvano ci gettiamo su Ricigliano ove siamo accolti a suon di musica e coi preti in commissione di ricevimento.

Il paese è saccheggiato, i signori spaventati offrono ospitalità e sono svaligiati, chi si lamenta è ucciso.

Cade la prima neve sui monti, l’inverno è alle porte, tra noi le diserzioni si succedono in massa, la banda è evidentemente stanca e desidera tornare al suo antico mestiere non volendo più saperne di brigantaggio politico.

Ritorniamo in Basilicata ed attacchiamo Pescopagno che dopo aspro combattimento occupiamo in parte saccheggiando, distruggendo, incendiando. Le spie ci avvisano che numerose colonne di truppe regolari si avvicinano a noi, abbandoniamo il paese, inseguiti dai militi cittadini che avevano resistito nel rafforzato palazzo baronale.

Per sfuggire l’accerchiamento ci diamo ai monti dividendoci in gruppi; punto di riunione Castello di sopra nella foresta di Monticchio.

Borjes è liquidato definitivamente, se ne parte co’ suoi spagnuoli e con pochissimi fedeli; in tutto una trentina.

La sua partenza non ci commuove anzi l’abbiamo voluta stanchi del suo comando.

Mi libero di molto elemento superfluo, dando loro appuntamento alla vegnente primavera.

fonte

http://www.archeopolis.it/Pubblica/genzano/brigantaggio/index.htm?crocco_autobiografia.htm&2

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