DIAVOLI e/o SANTI?
Ci sono vicende che hanno fortemente influenzato la condizione, tutt’ora persistente, di un Paese “a due marce” come il nostro. Prima fra queste proprio l’Unità d’Italia, che ha esacerbato nelle popolazioni del sud l’ostilità nei confronti di un nord che fu a tutti gli effetti invasore. La storia, quando non è narrata dai vincitori, cambia però direzione, restituendoci un racconto diverso, che tiene conto anche del punto di vista di quelli che hanno lottato, seppur invano, contro l’annessione a uno stato percepito allora come tiranno. Intorno al 1860 in Italia c’era una guerra, non regolamentata da leggi internazionali, senza regole né trincee, combattuta da militari e da civili, gente del popolo, sud contro nord. La guerra dei briganti, battezzata da alcuni “la guerra dei cafoni”, forse la prima guerra civile italiana.
Sono passati trent’anni da quando Claudio Pavone usò l’espressione “guerra civile” per la resistenza del ‘43-‘45, e ancora oggi gli storici su questa definizione scrivono libri, organizzano convegni, discutono. Figuriamoci quanti possono accettare di chiamare guerra civile quello che accadde nel Sud in rivolta contro coloro che venivano considerati stranieri invasori – detti “i Piemontisi,” ma in realtà nelle fila di soldati e ufficiali c’erano moltissimi italiani provenienti da altri parti della penisola, e anche non pochi stranieri. Effettivamente fu davvero una guerra civile, anche se la si volle occultare, mistificare. Le cifre ufficiali dei morti completamente sbagliate, il fenomeno del brigantaggio spacciato per semplice criminalità finanziata dalla Chiesa e dai Borbone per i propri fini, l’ostilità del popolo visto come ribellione di bifolchi ottusi davanti a ogni prospettiva di cambiamento, ufficialmente veniva raccontato questo. Tanto si volle negare che si stesse combattendo una guerra, che addirittura all’inizio del 1861 i soldati mandati al Sud si videro togliere l’indennità per la cosiddetta “entrata in campagna”. Malcontento e delusione alle soglie dell’Unità d’Italia. Leva obbligatoria per i contadini, esercito borbonico allo sfascio, tra i motivi che incitarono alla rivolta e al brigantaggio, secondo gli storici. Ma quale fu il peso dell’ignoranza della classe dirigente settentrionale sulle reali condizioni del meridione in questa vicenda? L’ignoranza della classe dirigente politica e di alcuni intellettuali del nord nasceva dal pregiudizio. Antonio Scialoja già nel ’55 aveva parlato degli abitanti della Sicilia come di «otto milioni e mezzo di pecore», il deputato della Sinistra Aurelio Saffi diceva dell’intero Sud che era un lascito della barbarie, e i meridionali in genere venivano considerati, da tutti, razza inferiore e infetta. Voci autorevoli dissertavano sul “sangue africano” della razza meridionale contrapposto a quello “ariano” dei settentrionali. Menabrea, prima di diventare capo del governo, aveva stilato un progetto per deportare in Argentina vagabondi, scontenti e miserabili del Sud. Le condizioni in cui vivevano i contadini, i minatori, i pescatori – ovvero la stragrande maggioranza della popolazione del Meridione – erano del tutto ignorate o liquidate come una conseguenza ovvia della loro inferiorità. Vivevano nei tuguri, non si lavavano, avevano stili di vita bestiali perché era nella loro natura.
La storia contemporanea si è sempre più allontanata dal concetto di brigantaggio come mero fenomeno criminale, e dall’altra parte, personaggi considerati eroi dalla storia ufficiale oggi potrebbero essere considerati criminali di guerra, come Nino Bixio. Garibaldi era all’oscuro sulle feroci rappresaglie e violenze dell’esercito sabaudo a danno anche dei civili? Certo che non ne era all’oscuro. La spedizione dei Mille non fa affatto accolta con quel tripudio che ci hanno fatto credere. All’inizio sicuramente c’era stato dell’entusiasmo dettato dalla speranza, perché i contadini si aspettavano quelle terre che erano state loro promesse, ma che la realtà fosse un’altra divenne presto chiaro. Bixio era il braccio destro di Garibaldi, e del massacro di Bronte, con la strage di civili che nulla avevano da spartire con i ribelli briganti, si gloriò. Ci furono eccidi ovunque, la storia riporta solo casi eclatanti come quello Bronte. Garibaldi era all’oscuro di altro: di tutte le manovre politiche che si ordivano e nelle quali lui rappresentava soltanto una figura di volta in volta giudicata scomoda o manovrabile. Su Nino Bixio c’è una cosa che pochi sanno. Si era formato nella marina militare, e dopo la presa di Roma ricominciò a navigare. Morì – non si sa bene di cosa: forse colera, forse febbre gialla, in Malesia, nell’isola di Sumatra, tre anni dopo che era partito sulla nave che lui stesso aveva costruito. Chissà se ebbe qualche rimorso. Farebbe piacere pensarlo.
Poi venne istituita la Commissione Massari, e la legge Pica.
La Commissione venne istituita alla fine del 1862 per studiare il fenomeno del brigantaggio, quindi anche indagarne le cause, e la relazione venne consegnata nel maggio del 1863. Rilievo massimo venne dato alla convinzione di Massari che Borboni e agenti clericali fossero i principali responsabili che, oltre a sobillare la popolazione, fecero arrivare ai briganti aiuti in denaro e informazioni. Per suffragare la tesi, Massari citò persino omelie di sacerdoti in appoggio ai briganti e contro gli usurpatori. Molta parte ebbero le testimonianze delle abitudini dei briganti, della loro estrema devozione di tipo superstizioso. Massari non accennò mai, neppure vagamente, a responsabilità governative, e spinse perché venisse immediatamente approvata una legge speciale fortemente repressiva: quella che sarà di lì a breve la legge Pica. Da notare questo passaggio dell’inchiesta: «Tra nemici di indole sì diametralmente opposta non sono praticabili le regole dell’arte della guerra. A combattere con efficacia il brigante è d’uopo adoperare le sue arti». Questo dava via libera a ogni sorta di crudeltà, con i soldati trasformati a loro volta in quei briganti che venivano definiti bruti. Ma a questo punto bisogna dire un’altra cosa fondamentale sull’inchiesta. Nonostante non venisse lambito l’onore del governo, ricordiamoci che Massari era un filocavouriano di ferro, nonostante vi fosse detto chiaramente che si trattava di una lotta tra civiltà e barbarie, e i briganti venissero descritti come bestie assetate di sangue, la relazione preoccupò chi la fece, sicuramente perché vi erano descritte le condizioni miserrime della popolazione, che dovevano essere ben terribili per far preferire a qualcuno la rischiosa vita del brigantaggio. La lettura della relazione avvenne, come si direbbe oggi, a porte chiuse. La lettura dei documenti fu impedita agli stessi deputati. Buona parte dell’enorme materiale dell’inchiesta sparì. Può sembrare pazzesco, ma non abbiamo ancora oggi la relazione integrale.
La legge Pica arriva, come richiesto da Massari, in tempi brevissimi. È operativa già dal 15 agosto del 1863, votata anche da non pochi deputati di Sinistra. Essendo ormai acclarato che il brigantaggio fosse una malattia da combattere con ogni mezzo e tutti coloro che lo appoggiavano non meritassero alcuna pietà: bastava un sospetto, una parola, per finire in galera o fucilati, vennero dichiarate in stato di brigantaggio molte province ad esclusione di alcune grandi città, in buona parte del Sud, con provvedimenti inumani: le condanne erano inappellabili, i fiancheggiatori condannati ai lavori forzati ma più spesso fucilati. Nasce qui il fenomeno del pentitismo: molti si consegnarono “spontaneamente” per avere salva la vita propria e dei congiunti, denunciando spesso persone che nulla di male avevano compiuto, ma erano semplicemente nemici personali. Così si consumarono legalmente, vendette, ritorsioni, usurpazioni. Solo nei primi mesi ci sarebbero state oltre 5 mila fucilazioni, e interi paesi distrutti, dati alle fiamme. La legge Pica, che avrebbe dovuto avere validità limitata, resterà invece in vigore fino alla fine del 1865.
L’unità d’Italia peggiorò la situazione del sud, in termini economici, determinando paradossalmente un divario sfociato nella questione meridionale, tutt’altro che risolta!
Dal punto di vista economico, sì. Le cifre sono molto chiare. Le riserve auree del Regno delle Due Sicilie costituivano, prima dell’annessione, quasi i due terzi dell’oro posseduto da tutti gli altri Stati, e furono letteralmente depredate dal Nord, senza che ne fosse restituito al Sud l’equivalente sotto forma di opere pubbliche o aiuti all’agricoltura. Le terre non vennero distribuite, ma finirono in mano ai soliti latifondisti o a una nuova borghesia che già si era o si stava arricchendo, come sempre accade nelle guerre. Cominciò presto l’esodo verso il Nord di chi non poteva più nemmeno mangiare, e le campagne si impoverirono ulteriormente mancando di cure, di nuove tecnologie. Poco più tardi ci furono terribili carestie e l’aggravarsi della situazione degli agricoltori a causa del protezionismo, che comportò l’impossibilità di esportare. Ferdinando II e Francesco II di Borbone diventarono quasi dei santi, nel ricordo. Perché distribuivano il pane quando andava male il raccolto, perché la leva militare non era così rigida da portare le famiglie alla fame. L’inchiesta di Stefano Jacini (1877-1886) mette perfettamente in luce lo stato di miseria, di denutrizione in cui versavano le popolazioni del Sud, le malattie. Ma nel ’69 non si era trovato di meglio che imporre la famigerata “tassa sul macinato” per raggiungere l’agognato pareggio di bilancio. A soffrirne, come di tutte le altre tasse che erano soprattutto indirette (mai inimicarsi i ricchi!), erano stati i poveri, quelli che vivevano di solo pane.
Molte le figure di briganti del centro e sud Italia divenute miti per le popolazioni locali. Tra queste Carmine Crocco. Può essere considerato prototipo dell’uomo che si ribella all’ingiustizia sociale e alle violenze dei potenti contro i poveri.
Non c’era in realtà solo questo afflato ideale, nei briganti, e ciascuno fa caso a sé. Crocco è stato il più famoso, “il Generalissimo”, anche perché ha avuto una vita avventurosissima, per le memorie che scrisse in carcere, e anche perché riuscì a vivere a lungo: in genere i briganti morivano presto, solo un po’ prima dei contadini e degli operai… Emblematica la sua storia personale. Un ricco prepotente aveva preso furiosamente a calci la madre di Crocco incinta, lei aveva abortito e non si era ripresa più, finendo in manicomio. In seguito il padre era stato accusato, senza alcuna prova, di aver sparato a don Vincenzo, il prepotente scalciatore. Da quel momento, la famiglia visse nella miseria. Le vicende di Crocco sono veramente incredibili, sembrerebbero eccessive persino per la trama di un film. Tradimenti, pentimenti, misteri svelati, riconciliazioni, intrighi, vendette, fughe. E gesti d’onore e d’amore: salvò la vita a un nobile che stava annegando, con la ricompensa fece uscire di galera il padre. Inoltre, non accettò il denaro che avrebbe voluto dargli il figlio del nobile responsabile dell’aborto e della follia della madre, che avrebbe voluto riparare al torto fatto. Crocco è famoso anche perché conobbe tutti i protagonisti di quell’epopea: a un certo punto si unì persino a Garibaldi, poi pensò di poter contare su Francesco II e sul papa. Gli avrebbero addebitato 67 omicidi. Nel 1870 fu condannato a morte, pena poi commutata in ergastolo.
Anche le donne ebbero il loro ruolo nel brigantaggio, con la differenza tra “donna del brigante”, e “brigantessa”.
Le donne dei briganti aspettavano a casa i loro uomini, li nascondevano, cercavano per loro cibi e informazioni. Se poi anche loro finivano alla macchia era per necessità, non avendo altra via d’uscita dato che erano sorvegliate, ridotte alla fame, isolate. Le brigantesse erano proprio come i briganti, perché i loro compagni erano briganti, ma sono anche state protagoniste di furti, rapine, saccheggi e omicidi al pari degli uomini.
Michelina De Cesare, è stata probabilmente la più bella e la più oltraggiata. Ribelle fin da bambina, presto vedova, si unisce al brigante Francesco Guerra e si dimostra abilissima nel progettare piani di rivolta. Venne tradita e uccisa insieme al suo uomo, di sera, mentre cercava riparo sotto una quercia. Le spararono alle spalle e, nuda, la esposero insieme a Guerra sulla piazza centrale di Mignano. Uno spettacolo vile e osceno che suscitò grida di ammirazione e che eccitò la morbosità della gente.
Francesca La Gamba si unì ai briganti per vendicarsi di un uomo che aveva respinto: un ufficiale francese. Lei lavorava in una filanda e aveva tre figli, per punirla del suo rifiuto, l’ufficiale fece affiggere per il paese (Palmi) manifesti che incitavano alla ribellione, e denunciò come loro autori i figli di Francesca, che vennero fucilati. La povera donna perse in maniera orribile anche un altro figlio, ancora lattante. Il brigante Francesco Moscato con cui si accompagnava e che ne era il padre, quando un giorno si accorse di un militare vicino al loro nascondiglio e il bambino cominciò a piangere, non ebbe remore a sfracellare il piccolo contro la roccia per non farsi scoprire. Francesca allora aspettò che si addormentasse, gli sparò, lo decapitò, e ne portò la testa fino a Catanzaro, dove chiese al Governatore la taglia su Moscato. Si racconta che il Governatore fosse a pranzo, e la donna rovesciasse la testa sulla tavola imbandita.
Nelle biografie delle brigantesse cambiano i nomi e i luoghi, i particolari e i volti, ma ci sono sempre disgrazie, soprusi, terribili ingiustizie che nessuno si preoccuperà mai di riparare se non la persona colpita, la quale, considerata la mentalità, l’ambiente, le condizioni in cui opera, crede che l’unico modo per reagire alle offese sia quello di lavarle nel sangue.
Ce ne furono molte, di brigantesse. Su di loro e su quello che di mostruoso erano capaci di compiere si favoleggiava. Venivano considerate spesso adoratrici di Satana, streghe, oltre che crudeli sanguinarie. E particolarmente si ricamava sulle loro sfrenatezze sessuali, sulla loro lussuria. Nessuno scrupolo, quindi, a esporre il cadavere nudo di Michelina al ludibrio: le brigantesse non erano considerate veramente “umane”.
Dall’epoca della capitolazione nel 1861 di Gaeta, ultima roccaforte borbonica, non si è mai spento il risentimento delle popolazioni locali verso tante repressioni e violenze. Sarà mai possibile arginare il divario tra nord e sud, in termini economici e… mentali?
Ma il divario rischia di colmarsi perché la crisi economica potrebbe mettere in ginocchio anche il Nord. Ma è ovvio che niente potrà migliorare finché si continuerà a considerare il Sud come un “problema”, un’appendice malata di questo Paese – in modo quindi non diverso da come lo consideravano i Piemontesi – da curare con elemosine a pioggia, investimenti destinati ad arricchire i soliti invece che ad apportare reali benefici a tutti, grandi opere che poi si rivelano inutili. I più intraprendenti lasciano la loro terra e risalgono la penisola, oppure vanno all’estero. È intollerabile che ancora debba continuare questo esodo. Ci vogliono tante cose: un’amministrazione efficiente, infrastrutture, soprattutto trasporti! Un serio piano per risollevare l’agricoltura e il turismo è fondamentale. Mancano gli ospedali, le università. Ci sarebbe anche l’opzione del federalismo: non si vuole sentire questa parola, ma non esiste alcun ragionevole motivo per non consentire al Sud di fare da solo, di spendere le proprie risorse come vuole, di darsi ciò di cui ha bisogno. Con l’aiuto del governo centrale? Aiuto si ma non la carità penosa. Non elargizioni per conquistarsi consenso elettorale.
“Molti si illusero di poterci usare per le rivoluzioni, le loro rivoluzioni, ma la libertà non è cambiare padrone” (dalle memorie di Carmine Crocco)
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