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DON LIBORIO ROMANO – IL BOIA DELLE DUE SICILIE (terza parte)

Posted by on Ott 30, 2017

DON LIBORIO ROMANO – IL BOIA DELLE DUE SICILIE (terza parte)

DI NUOVO COI COMPARI

Per qualche tempo se ne sta buono, poi lo spirito settario riprende il sopravvento e ricomincia a frequentare i suoi vecchi compari di libertinaggio politico che avevano costituito un comitato centrale segreto, con stampa clandestina che propugnava l’unità. La polizia lo cerca dappertutto, siamo nel 1859, non lo trova, sembra svanito nel nulla… e si capisce. Era stato nascosto dal conte d’Aquila, zio del Re, comandante dell’Armata di Mare, nella sua villa di Posillipo. Ecco come andarono i fatti secondo il fratello di don Liborio, Giuseppe Romano: “Il conte d’Aquila, vice-ammiraglio della real marineria, vedendo che i tempi correvano prosperi a libertà, senza romperla con i regii, carezzava i liberali, dichiarandosi convinto non potersi salvare la dinastia senza il ritorno alla costituzione del 1848. E però non di rado veniva in soccorso di qualche liberale, come è a tutti noto, e come tra gli altri fece, senza nostra richiesta, per mio fratello Liborio, e per me stesso… Nel 1859 ci avvisò che dovevamo essere arrestati dalla polizia, ci tenne per due giorni nascosti nella sua casina a Posilipo (sic, ndr), ed essendoci dopo rifugiati nella casa del ministro americano, il principe ci scrisse che erano stati già messi in libertà il marchese di Bella, e gli altri arrestati, e che perciò potevamo ritornare alle nostre case” (Liborio Romano, Memorie politiche, 1873).

RITRATTO DI DON LIBORIO

Secondo il fratello Giuseppe, Liborio Romano era “d’indole mite e pieghevole, non sollecito di molte forme, di facile contentatura nelle piccole cose; ma dove sorgeva il pensiero dello adempimento de’ proprii doveri, diligente e severo fino allo scrupolo. Provocatore non mai; ma, se provocato, capace della reazione piú viva. Professandosi piú devoto che avventurato cultore delle lettere, avea sommo culto pe’ letterati e per gli scienziati, vero affetto pe’ giovani d’ingegno, e per quelli che gli davan di sé liete speranze nell’agone del foro. Avea pronto e vivo l’ingegno, somma pazienza nella ricerca de’ fatti, e nello studio della teoria, facile la parola, piú assai lo scrivere ed il dettare… Desiderosissimo di un libero governo, cooperava efficacemente coi suoi amici politici per conseguirlo; e nonostante una certa naturale timidezza, avea bastevole coraggio civile, per compromettersi, e non curare i pericoli nello adempimento dei proprii doveri. Direi che la stessa paura di mancarvi gli tenesse luogo d’ardire. La politica non era la sua passione; anzi era aliena dalle sue abitudini di stretta legalità. Non avea l’ambizione, né la malizia, né gli scaltrimenti, né la coscienza dell’uomo politico. Pur non gli faceva difetto la pratica degli affari, la conoscenza degli uomini, ed al bisogno il pronto consiglio, il disprezzo delle ipocrite delicatezze, e l’energia dell’azione richiesta per conseguire un giusto fine. Vediamo il profilo che ce ne ha lasciato Costantino Nigra, l’astutissimo segretario della luogotenenza di occupazione a Napoli nella confidenzialissima al Cavour in data 17 marzo 1861: “… Romano non ha capacità di nessuna specie; non è cattivo di proposito deliberato, ma è debole, senza carattere, con una certa furberia tra contadinesca e curiale, di nessuna convinzione politica, e tenerissimo della sua popolarità buona o cattiva che sia, vera o falsa. Fin dal primo giorno che lo vidi, fui certo che avrebbe male amministrato, ma fui egualmente certo che avrebbe ben tosto perduto ogni prestigio, e sarebbe diventato di pericolosissimo che era, innocuo affatto. Quel che previdi, avvenne. Commise errori su errori; alcuni dei quali spiegabili per le circostanze veramente difficilissime. Nell’ultima riunione del Consiglio (di luogotenenza, ndr) io posi netto il partito. Invitai i consiglieri (cioè i ministri, formati da traditori tornati al seguito delle truppe di occupazione, nominati dal governo del Savoja II, ndr) a pronunciarsi tra Romano che voleva far nuove concessioni (in certe nomine) agli uomini del partito ultraliberale, e Spaventa che non voleva farne nessuna. La discussione s’inasprí e il ritiro di Romano, da me preveduto, avvenne...” (lettera n. 1285 del Carteggio Cavour – Nigra). Due profili chiaramente interessati, dunque non veritieri, al limite falsi.

L’ORA DI DON LIBORIO

Il precipitare degli eventi, il caos endemico suscitato dai rivoluzionari, e i mali consigli dei ministri “consiglieri” e dell’ambasciatore francese Brenier, che piú che consigliare imponeva diktàt, portarono alla dichiarazione dell’Atto Sovrano del 25 giugno 1860, quando invece bisognava, per salvare lo Stato, mettere in funzione il plotone di esecuzione. Quattro giorni prima, il giorno 21 giugno, il Consiglio dei Ministri, a cui il Re Francesco II non partecipò, ma vi parteciparono tre principi reali, deliberò la costituzione. “Tra i piú accesi fautori del nuovo ordine di cose, lo zio del Re conte d’Aquila sul quale premeva l’ambasciatore Brenier interessato ora piú che mai a far trionfare la politica e l’influenza francese. La mattina del 25 “l’atto sovrano” era firmato non senza un’estrema resistenza… convinto (Francesco II, ndr) che la costituzione avrebbe affrettata la rivoluzione” e nel contempo addolorato per il mutamento impostogli da apportare alla bandiera delle Due Sicilie, “talché ebbe un’invettiva contro l’Austria alla quale attribuiva la sua presente umiliazione” (Alfredo Zazo, La Politica Estera del Regno delle Due Sicilie, ediz. Miccoli, Napoli, anno 1940, pag. 355). Continua ancora Zazo: “La mattina del 25 Francesco II, deciso a non firmare il deliberato del Consiglio dei Ministri, ordinò che non fosse lasciato passare il conte d’Aquila che ne avvertí il Brenier. L’ambasciatore francese fece una scenata al Re, minacciando di andarsene se non accettava le condizioni suggerite dalla Francia. Il Brenier – dirà in seguito a Giuseppe Costantino Ludolf il Re – m’a mis tellement le couteau à la gorge, qu’il m’a été impossible de résister plus longtemps” (il Brenier mi ha talmente messo il coltello alla gola, che mi è stato impossibile resistere piú oltre). Dunque fu costituito un nuovo ministero presieduto da Antonio Spinelli, ex Sopraintendente degli Archivi di Stato, ex Consultore, ex Ministro di Agricoltura e Commercio, ex responsabile per la stipula di trattati di commercio con altri Paesi, “uomo di coscienza, non uno scettico vanitoso e inconsapevole come Liborio Romano” – come lo definisce Raffaele De Cesare (La fine di un Regno, pag. 805), ma non bisogna credergli, perché anche quel ministro fu accusato, e non mancano supporti, di alto tradimento. Lo Spinelli ebbe l’incarico di redigere una costituzione “sulle basi delle istituzioni rappresentative e nazionali” (secondo punto dell’Atto Sovrano). Inoltre, di concerto col conte d’Aquila, chiamò a far parte del ministero uomini nuovi tutti di tendenza liberale che poi erano “uomini del partito che intendeva all’annessione al Piemonte...” (Bianchini, I principali avvenimenti politici). Da tale scelta “derivarono due tristissime conseguenze, l’una che si veniva a dare alla fazione piemontese una suprema importanza che certamente non aveva e che era ancora lontana da acquistare, l’altra che si svelava vieppiú e si esagerava il pericolo della situazione e la debolezza del governo che invece era indispensabile fortificare” (Bianchini, ibidem). Uno “tra i piú distinti nel partito della rivoluzione“, Gaetano Ventimiglia, addirittura “domandò condizioni tali che da quel momento avrebbero distrutto la monarchia“: licenziare tutti gli Intendenti, quasi tutta la magistratura, la guardia urbana (programma attuato poi dal Romano) e, vergogna delle vergogne ,”esiliare cinquanta e piú persone che credevasi poter influire sul Re; allontanare i principi reali e la regina madre per far venire in Napoli trentamila soldati piemontesi e inviare altrettanti soldati napoletani in Piemonte” (Bianchini, ibidem).

di: RIN, dal PeriodicoDueSicilie 07/2000

da: http://www.adsic.it/storia/don_liborio_romano.htm

 

fonte brigantaggio.net

 

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