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Dostoevskij sul Risorgimento italiano

Posted by on Ott 13, 2024

Dostoevskij sul Risorgimento italiano

Dostoevskij assunse la direzione della rivista conservatrice Graždanin (“Il Cittadino”),dove iniziò a pubblicare dal 1873 II Diario di uno scrittore,una serie di articoli d’attualità, tra questi anche uno sull’Italia.

Prendete, per esempio, il conte di Cavour – non è un’intelligenza, non è un diplomatico? Io prendo lui come esempio perché ne è già riconosciuta la genialità e inoltre perché è già morto. Ma che cosa non ha fatto, guardate un po’; oh sì, ha raggiunto quel che voleva, ha riunito l’Italia e che ne è risultato: per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, […] un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!

(tratto da: Il Domenicale, 23.10.2004 (anno III), n. 43, p. 3, Fëdor M. DOSTOEVSKIJ (1821-1881), “Diario di uno scrittore”,ed. it. a cura di Ettore Lo Gatto (1890-1983), Sansoni, Firenze 1981, pp. 925-926.

“La guerra contro il brigantaggio, insorto contro lo Stato unitario, costò più morti di tutti quelli del Risorgimento. Abbiamo sempre vissuto su dei falsi: il falso del Risorgimento che assomiglia ben poco a quello che ci fanno studiare a scuola!” Indro Montanelli

“Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti”.  Antonio Gramsci

“Come ha potuto solo per un momento uno spirito fine come il tuo credere che noi vogliamo che il Re di Napoli conceda la Costituzione. Quello che noi vogliamo e che faremo è impadronirci dei suoi Stati” Camillo Benso conte di Cavour (lettera a Ruggero Gabaleone di Salmour,politico e diplomatico piemontese)

“Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esser preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio”. Giuseppe Garibaldi

Anche il Risorgimento andrebbe rivisitato

Molto chiara e illuminante la risposta data dal giornalista, storico e scrittore Paolo Granzotto a un suo lettore:

La pagina più nera della storia d’Italia e ancora coperta dal segreto militare a distanza di 140 anni dagli avvenimenti. Nonostante il Risorgimento stia lentamente subendo un processo di rivisitazione in chiave neoborbonica, grazie all’impegno di alcuni storici coraggiosi, che lavorano in contrasto all’ortodossia accademica, a Roma, presso lo Stato Maggiore dell’Esercito, si conservano, inaccessibili agli studiosi, 150.000 pagine che contengono la verità sull’insurrezione meridionale contro i piemontesi. Quel controverso periodo capziosamente definito brigantaggio.

I documenti che potrebbero finalmente fare luce sulla distruzione di interi paesi, sulla deportazione dei suoi abitanti e sulla fucilazione di migliaia di meridionali subiscono ancora «Il complesso La Marmora», dal nome del generale che diresse per anni la repressione nel Mezzogiorno, prima di divenire capo del governo.

Achille Della Ragione, Napoli

Lei fa bene a prendersela, caro Della Ragione, ma badi che gli archivi non potrebbero altro che confermare quello che già si sa, si sapeva e si è sempre taciuto. Non la «rivisitazione», ma la «visitazione» storica sull’annessione del Regno delle Due Sicilie (che non è necessariamente filoborbonica: lo diventa per contrasto alle menzogne antiborboniche della storiografia risorgimentalmente corretta) può contare su una buona mole di documenti, di relazioni, di diari e perfino di materiale fotografico. A proposito sappia, caro Della Ragione, che presto uscirà in abbinato al Giornale una collana di libri (La biblioteca storica del Giornale) su vicende e personaggi di quel periodo. Cominciando con colui che fu all’origine di molte nostre avventure e disavventure: Napoleone. Certo, quello è un dente che ancora duole. Ancora si fa fatica non dico ad ammettere, ma solo a sospettare che i Savoia avallarono una guerra di conquista coloniale accompagnata da brutalità, soprusi ed efferatezze. Si preferisce continuare a credere che il Regno sia stato «liberato» e i sudditi dei Borbone volontariamente, entusiasticamente, si siano gettati nelle braccia dei piemontesi salvatori (salvo naturalmente pochi delinquenti, i «briganti», giustappunto). Sui Mille, su Garibaldi, sullo scappellamento (mai verificatosi) di Teano gli storici si dilungano, compiaciuti. Ma delle cannonate dell’esercito piemontese, cioè di un esercito che invase il Regno senza aver dichiarato guerra, zitti e mosca. Qualche riga su Gaeta che l’eroe Cialdini seppe da par suo costringere alla resa e che Persano, anticipando la vergogna di Lissa, cercò di espugnare dal mare, ma dovette filarsela -ovvero ritirarsi, ovvero fuggire- inseguito dai pernacchi che la guarnigione gli indirizzava dagli spalti. Per il resto, silenzio, anche su Civitella del Tronto, capitolata solo il 20 marzo del 1862. Finita, a viva forza, nel dimenticatoio Civitella s’è presa però una bella rivincita: la fortezza è infatti diventata meta di centinaia di migliaia di turisti desiderosi di toccar con mano, se così si può dire, la storia patria. Un successo che a qualcuno fa venire il mal di fegato, al Comune di Torino, per esempio.

Deve sapere, caro Della Ragione, che un paio di mesi fa i civitellesi si sono rispettosamente rivolti al sindaco Chiamparino per chiedere fossero loro restituite tre bocche da fuoco che i gloriosi piemontesi, una volta occupata Civitella, si portarono via quale trofei di guerra. Si tratta di due colubrine del Seicento e una bombarda, detta «la scornata», del 1741, particolarmente cara ai civitellesi perché, oltre a sparar palle sui piemontesi del generale Ferdinando Pinelli, le sparò anche sui soldati di Napoleone (gli stessi ai quali i «patrioti» giacobini napoletani, le Fonseche Pimentel eccetera, aprirono le porte non prima d’aver steso i tappeti rossi). Insomma, Civitella del Tronto cittadina tosta, è. E rivoleva i suoi cannoni. Ma la Torino sabauda glieli ha negati, consentendo solo un prestito della durata di un anno. Dopo di che dovranno tornare dove giacciono (probabilmente assieme ad altri trofei di guerra, come le teste mozze dei «briganti» chiuse in vasi pieni di formalina) da quasi centocinquant’anni: negli scantinati di qualche civico deposito torinese. Io sono uomo d’ordine e mai ho istigato alla sovversione. Ma invito i civitellesi a non restituire quei cannoni. Se li tengano. E se c’è da difenderli dai birri piemontesi; sappiano che mi offro volontario, pronto a salire sulle mura e a battagliare, ovviamente con le stesse armi che i lazzari di Gaeta opposero al grande ammiraglio Persano.(Paolo Granzotto)

(Tratto da: Il Giornale,20 agosto 2003)

di EDN

«L’unico grande diplomatico del secolo XIX è stato Cavour e anche lui non ha pensato a tutto. Sì, egli è geniale, ha raggiunto il suo scopo, ha fatto l’unità d’Italia. Ma guardate più addentro, e cosa vedete? Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, ma non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? E’ sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, […] un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!» Fëdor Michajlovic’ Dostoevskij, Diario di uno scrittore, ed. it. a cura di Ettore Lo Gatto, Sansoni, Firenze 1981, 1877, Maggio-Giugno, capitolo secondo, pp. 925-926.

Le ferite del Risorgimento

Nel 1863 – è ben raccontato nel libro “La Rivoluzione italiana” di Patrick Keyes O’Clery, pubblicato anch’esso da Ares – il console inglese a Napoli, Bonham, denunciò le condizioni delle carceri partenopee ancor più atroci dopo l’arrivo dei piemontesi. E, dopo un dibattito parlamentare, l’Inghilterra spedì nell’Italia del Sud Lord Seymour e Sir Winston Barron che confermarono i termini della denuncia. In quello stesso anno, sempre nel Parlamento inglese, Disraeli disse: «Desidero sapere in base a quale principio ci occupiamo delle condizioni della Polonia e non ci è permesso di discutere su quelle del Meridione italiano. È vero che in un Paese gli insorti sono chiamati briganti e nell’altro patrioti, ma, al di là di ciò, non ho appreso da questo dibattito nessun’altra differenza». E, quando nel 1867 il generale pontificio Kanzler entrò a Monterotondo, dopo la battaglia di Mentana e la sconfitta di Garibaldi, un giornale di Londra registrò che gli abitanti lo avevano accolto come «un liberatore» anche perché «erano stati derubati di tutto dai garibaldini e le offese fatte alle loro donne li avevano particolarmente esasperati».

(Paolo Mieli – 08/03/2011.FonteCorriere della Sera)

150 righe sull’Unità d’Italia

fonte

italozambrotta.net

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