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ECCIDI GIACOBINI NELLA VALLE DEL LIRI NEL 1799 DI FERDINANDO CORRADINI

Posted by on Ott 27, 2023

ECCIDI GIACOBINI NELLA VALLE DEL LIRI NEL 1799 DI FERDINANDO CORRADINI

Non appena si nomina la Repubblica napoletana del 1799, il nostro pensiero vola, alto, a quelle poche decine di personaggi di estrazione nobile o altoborghese (costituenti il fior dell’intellettualità napoletana del periodo), furono giustiziati, soprattutto per volere dell’ammiraglio Nelson, dopo che in Napoli rientrò il legittimo Sovrano. Delle centinaia, forse migliaia, di nostri morti, appartenenti alle classi più umili della popolazione, trucidati senza neanche la farsa di un processo, nessuno si ricorda. Anzi, sembra quasi ci si vergogni di loro.

È opinione diffusa che l’esercito francese fos­se un’armata che veniva a “liberare” il regno di Napoli e a portarvi le nuove idee proprie della Rivoluzione. Evidentemente i componenti delle classi più umili della popolazione del Regno e della Valle del Liri non ebbero questa stessa sensazione, anzi, gli stessi insorsero come un sol uomo contro l’occupazione militare francese. Vari, come sempre accade, furono i motivi di queta insurrezione. Il primo, ritengo, fu di carattere prettamente nazionalistico: comunque si voglia porre la questione, le truppe francesi costituivano una forza a servizio di una potenza straniera che era venuta a sottomettere un antico Stato sovrano. Ma le principali motivazioni furono di carattere economico-sociale. Con la Rivoluzione il terzo stato (la borghesia) prese il sopravvento sul primo (i nobili) ed il secondo (il clero). Ma in questo passaggio di poteri chi ci rimise di più fu il quarto stato, di cui faceva parte la gran massa della forza-lavoro dell’epoca: la classe dei contadini. Costoro, tanto per fare qualche esempio, nell’ancien régime potevano utilizzare a costo zero i vasti terreni gravati di usi civici (di pascolo, di legnatico; ecc.) oppure a prezzo irrisorio di quei terreni che i nobili ed il clero concedevano loro in enfiteusi. Con la Rivoluzione zione tutto questo finì: i terreni costituenti la cosiddetta “manomorta” vennero venduti all’asta e ad acquistarli non furono certo i contadini, che non disponevano degli ingenti mezzi necessari. Ad acquistare tali terreni furono i membri della borghesia, che prese a concedere gli stessi ai contadini con contratti che prevedevano che tre quinti del prodotto andassero al proprietario (i contratti di “mezzadria”, che prevedevano la diisione a metà, sono una conquista dell’inizio del ‘900). La differenza non fu di poco conto. Nei precedenti rapporti di enfiteusi, il contadino­cessionario era tenuto a corrispondere al proprietario (nobile o prete) il “laudemio”, che era una forma quasi simbolica di pagamento, che più che un corrispettivo rappresentava una sorta di riconoscimento di proprietà che aveva lo scopo di impedire che il contadino-fittavolo, data la lunga durata del rapporto, potesse invocare in proprio favore l’usucapione del terreno. Ma vi era anche un’altra circostanza che differenziava di molto (a sfavore dei contadini) i due tipi di rapporto. L’enfiteusi, oltre che – come abbiamo visto – un costo notevolmente più basso, aveva una durata trentennale. I nuovi rapporti, per contro, erano risolvibili da entrambe le parti (e quindi anche dal proprietario) in qualsiasi momento. La qual cosa, com’è agevole intendere, creava non pochi problemi alla parte economicamente più debole. In definitiva, fu posta in essere una gigantesca “privatizzazione”, forse la più consistente che sia stata mai attuata nel corso della storia. E tutte le volte che vengono poste in essere operazioni del genere, sono sempre le parti economicamente più deboli ad avere la peggio. Non sarà fuor di luogo ricordare come all’epoca la terra costituisse la principale fonte di produzione di reddito. Stando così le cose, è agevole intendere perché alla Repubblica napoletana aderì entusiasticamente la borghesia.[1]

La mattina del 22 novembre 1798, alla testa dell’esercito capeggiato dal generale Made, Ferdinando IV re di Napoli mosse da San Germano (odierna Cassino). Nel pomeriggio dello stesso giorno giunse in Arce, dove pernottò nel palazzo Tronconi.[2]

La mattina del 23 partì alla volta di Roma, per scacciare i Francesi che l’avevano occupata. Nonostante la superiorità numerica dell’esercito napoletano, le truppe transalpine ebbero la meglio e, cogliendo l’occasione, il generale Championnet fece marciare i suoi uomini alla conquista del regno di Napoli. Il giorno 16 gennaio i Francesi presero Itri, dove, com’è scritto nel registro dei morti della collegiata di San Michele Arcangelo, “con nessun senso di umanità non solo per cinque giorni di seguito saccheggiarono questa terra, ma anche si impadronirono dei vasi sacri dei sacri templi, gettate a terra le particole consacrate … bruciarono le case di alcuni cittadini… ma inoltre i predetti Francesi colpirono a morte in vari modi i seguenti cittadini, molti dei quali non avevano cercato salvezza nella fuga e non avevano desiderato combattere contro i Francesi. Se bruciarono alcuni, altri colpirono con la spada, altri infine moriro­no per le sofferenze della guerra” … Nell’elenco degli uccisi figura Francesco Pezza di 67 anni, padre di quel Michele, destinato a diventare famoso con il nome di battaglia di Fra Diavolo. E ancora “Giovanni Battista de Simone che, ammalato, fu arso nella sua casa all’età di 73 anni. Giovanni Manzo, che legato a un albero morì tagliato a pezzi presso la cappella di Santa Apollonia all’età di circa 60 anni… Domenico Porcellati di anni 65. Costui era un mendicante sordo, muto dalla nascita, e quasi cieco” … I morti duante il saccheggio di Itri furono trentadue.[3] Com’è noto il 23 gennaio Championnet ebbe il pieno controllo di Napoli. Altri due centri in cui fu molto forte la resistenza antifrancese furono Castelforte e Minturno. Da qui di continuo uomini armati, con vere e proprie azioni di guerriglia, molestavano i convogli francesi che da Roma si portavano a Napoli percorrendo la via Appia, che costituiva una sorta di cordone ombelicale per le truppe transalpine. Per la stessa, inoltre, transitavano, in senso inverso, i convogli che portavano in Francia il frutto delle vessatorie tassazioni imposte al Regno. Per por fine a tali molestie, i Francesi raccolsero ottomila uomini che nella notte del 25 marzo attaccarono e presero Minturno. Nel registro dei morti della parrocchia di San Pietro sono annotati trecentosei nomi di “morti nel dì 25 e 26 marzo 1799 ammazzati da Francesi e da Polacchi … a colpi di scoppio (sic), baionetta, pistola, sciabola, accetta ed incendio” …  Nel registro della parrocchia di San Biagio sono annotati quarantatré persone uccise nella stessa notte, per un totale di trecentoquarantanove trucidati, pari a circa un ottavo della popolazione di Minturno dell’epoca. Fra le vittime vi furono anche tredici sacerdoti e trenta donne e perfino bambini di due ed un anno. Poco dopo gli stessi Francesi si portarono a Castelforte, che presero dopo l’eroica resistenza dei pochi armati rimastivi. Entrati nel paese uccisero quei pochi, per lo più anziani impossibilitati a muoversi, che vi trovarono e misero a sacco ed a fuoco tutto il paese. Gli uccisi in tale occasione furono quaranta. Fra essi vi furono don Francesco Rossillo, parroco di SS. Cosma e Damiano di 59 anni; Francesco Roberto di 88 anni; Gregorio di Biasio di 84 anni; Andrea Mendico di 85.[4]

Una notevole resistenza si ebbe anche in altri centri, quali San Germano (odierna Cassino), Arce Sara. In ciascuno di essi si costituì una banda armata, detta massa. Nel primo capeggiata dal fabbro Angelo Ricci, detto “Moliterno”. Nel secondo. da altro fabbro, a nome Pietro Guglielmi. Nel terzo dal mugnaio Gaetano Mammone, che si atteggiava a capo supremo. Venne così a crearsi una situazione di sostanziale anarchia, con la Repubblica ed i capimassa che si contendevano il controllo del territorio a suon di eccidi, stragi, incendi e saccheggi. Conseguenza naturale di tale stato di cose fu una grave crisi alimentare che ci è testimoniata da alcune lettere inviate a San Giovanni Incarico, sia dai francesi che dai capimassa, con pressanti e minacciose richieste di vettovaglie.[5] Ma il peggio doveva ancora venire e si ebbe nel maggio. Fu in questo mese, infatti, che le truppe francesi, che avevano sostenuto la Repubblica napoletana, transitarono per la Valle del Liri per raggiungere l’Alta Italia, ove erano state richiamate. Il giorno 10 tali truppe saccheggiarono Cervaro, Piedimonte e Villa Santa Lucia. Peggio toccò a San Germano (Cassino) ove nel corso del saccheggio e degli incendi i soldati francesi trucidarono dalle cento alle centocinquanta persone, quasi tutte anziane. Lo stesso giorno fu saccheggiata ed incendiata anche l’abbazia di Montecassino, ove furono distrutti numerosi codici e documenti.[6] Il giorno 11 saccheggiarono ed incendiarono, per l’ultima volta nella sua più che millenaria storia, Arce, dove, come ancora oggi ricorda disgustata la gente, adibirono la parrocchiale dei SS. Apostoli Pietro e Paolo a stalla per i loro quadrupedi. Nel corso del saccheggio trucidarono tredici persone, fra cui un bambino di otto mesi ed un vecchio di novant’anni, che non saranno certo andati in piazza a tumultuare contro la Repubblica.[7] Ma l’apice delle nefandezze fu raggiunto il giorno 12 ad Isola del Liri, che anche fu saccheggiata ed incendiata e dove, nella parrocchiale di San Lorenzo, che, come tutte le chiese godeva del diritto di asilo, furono trucidate cinquecentotrentasette persone che vi si erano rifugiate con la speranza di aver salva la vita. Nell’occasione perì, d’un tratto, più di un quarto della popolazione del paese. Nel registro dei morti della chiesa è annotato, nella lingua di Cicerone: “Memorando, né mai dimenticabile il giorno che fu di Pentecoste, 12 maggio 1799, che il Gallico furore noi e tutte le nostre case rovinò e travolse nell’ultimo eccidio. Nulla che il nemico ferro non avesse devastato e mietuto. Non gregge, non armento sicuro nella campagna nei presepi e negli ovili. Non uomo che scampasse da morte; non donna, ancorché fanciulla, risparmiata dalla militare licenza brutale. Né altari, né cose sacre le scellerate mani rispettarono.” Come è chiaramente indicato, nel corso dei saccheggi e degli incendi, i soldati, visto che ci si trovavano, si davano anche agli stupri.[8]

Il giorno successivo, transitando per Porrino, frazione di Monte San Giovanni, trucidarono dieci persone, fra cui una donna di settantadue anni che fu arsa viva.[9] La sera dello stesso giorno. La sera dello stesso giorno irruppero nell’abbazia di Casamari “quando or­mai la piccola comunità si accingeva al canto della compieta prima del magnum silentium che domina nella notte in un’abbazia di regola benedettina. Ed invece fu una notte di orrore, di spavento e di sangue, che ebbe funeste conseguenze nella vita della comunità”. Uccisero sei inermi frati, tre dei quali di nazionalità francese.[10]

Come si vede non poche furono le stragi e gli eccidi compiuti dall’esercito transalpino. Sugli stessi è stato calato un pietoso, quanto peloso, velo. Il lettore ora si chiederà come mai in questo scritto si faccia cenno soltanto alle nefandezze commesse dai Francesi. La ragione è semplice. Su quelle perpetrate dai capimassa (definiti sprezzantemente “briganti”) sono state scritte pagine su pagine, mentre (chissà perché) pochissimo inchiostro è stato versato per ricordare quelle poste in essere dai soldati transalpini, che pur appartenevano ad un esercito regolare, che, oltretutto, era alle dipendenze di una Repubblica che si diceva sostenitrice e propugnatrice di ideali di Liberté, Egalité e, quel che più conta, Fraternité.


[1] Un elenco di cittadini della Valle del Liri che aderirono alla Repubblica è in ANGELO NICOSIA, I Roselli e il Lazio meridionale nel movimento giacobino napoletano, Cassino 1990, pp. 81-89.

[2] Cfr. GIAMBATTISTA GENNARO GROSSI, Lettere istorico – filologiche – epigrafiche e scientifiche, Voi. II, riguardante Aree, Napoli 1816, p. 159.

[3] Sulle tracce del Colonnello Borbonico don Michele Pezza – Fra’ Diavolo, a cura di JOSÉ Russo e FABRIZIO ]ALONGO, Gaeta 1995, pp. 21-23.

[4] Per gli avvenimenti di Minturno cfr. ANGELO DE SANTIS, Il 1799 a Traetto (Minturno) in Terra di Lavoro, Spoleto 1926. Edizione anastatica della Rivista Il Golfo, Scauri 1999. Per quelli di Castelforte, MARCANTONIO TIBALDI, Narrazione della guerra seguita tra Castelforte ed i Francesi, Napoli 1799. Edizione anastatica della Rivista Il Golfo, Scauri 1999. Ringrazio l’avv. Cosmo Damiano Pontecorvo per avermi fornite entrambe le pubblicazioni.

[5] Il testo di tali interessanti lettere è in ANGELO NICOSIA, Una inedita corrispondenza del 1799 tra i paesi al confine pontificio in Rassegna Storica Pontina, 1, gennaio -aprile 1993, Latina 1993, pp. 153-166.

[6] Per tali avvenimenti cfr. GAETANO LENA, Le vicende di San Germano (Cassino) e di Montecassino nel ,1799 in Latium, Rivista di studi storici. Centro di Anagni del­l’Istituto di Storia e di Arte del Lazio Meridionale, 8 – 1991, pp. 141-174.

[7] Sulle vicende di Aree, cfr. FERDINANDO CORRADINI, Eccidi giacobini ad Aree nel 1799 in L’Inchiesta del 9 no­vembre 1997, p. 13 nonché idem La tragica fine di Pietro Guglielmi giovane brigante ‘sanfedista’ in L’lnchiesta del 13 settembre 1998, p. 14. Nel primo scritto è riportata la notizia, tratta anche dal registro dei morti della parrocchia, di altro eccidio posto in essere dai Francesi il 13 aprile: in tale occasione furono trucidate nove persone.

[8] V. BENEDETTO FORNARI, Assassinio nell’Abbazia. La rivoluzione francese in Ciociaria, Casamari 1987, p. 15.

[9] L’elenco di tali vittime è nel registro dei morti della parrocchia di Santa Margherita ed è stato pubblicato da FULGIDO VELOCCI, Quel tragico 1799: trucidati dieci inermi cittadini a Monte S. Giovanni Campano in Corriere del Sud Lazio del 18 dicembre 1999, p. 22.

[10] BENEDETTO FORNARI, op. cit., p. 16 e segg.

ATTI DEGLI ANNI SOCIALI 1998-1999 e 1999-2000
Casamari 2000

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