Alta Terra di Lavoro

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“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) a cura di Gianandrea de Antonellis (IX)

Posted by on Gen 1, 2023

“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) a cura di Gianandrea de Antonellis (IX)

Capitolo IX. Il duello

Molte volte Ernesto, sebbene ammaliato dalla bellezza e dall’amore di Erminia e gettato perciò nel fondo della più sozza passione, pure rientrava per qualche istante in sé stesso e specialmente allorquando i fatti che si andavano svolgendo e le necessità della rivoluzione portavano che Erminia troppo vivamente doveva far giocare le sue fisiche qualità per abbindolare un qualche importante merlotto che non poteva esser vinto in altro modo che mercé le attrattive della medesima; allora il suo cuore si sentiva punto da un acuto dardo e la sua fantasia giocava in maniera da farlo delirare; ma però le grazie della sua amante, le ragioni dell’opera che insieme portavano a compimento e le proteste della bella – la quale sosteneva essere essa interamente passiva in tutto ciò che faceva e che egli, sol egli era colui che veramente amava – lo persuadevano, quantunque in qualche momento non poteva persuadersi della figura non troppo lusinghiera che egli faceva.

Avvenne però il caso che – precisamente nel tempo in cui il Pio Re Ferdinando ii, ammalatosi in Bari, principiava a far sorgere nei petti dei rivoluzionari la dolce speranza che i loro disegni avrebbero potuto ottenere un felice risultato – fu d’uopo di abbattere una delle principali colonne dell’esercito borbonico, stanziato in quelle parti e propriamente nella limitrofa provincia di Capitanata.

Il Comitato direttivo annetteva moltissima importanza alla caduta di questo personaggio e tutta la premura faceva perché egli fosse stato a qualunque costo soggiogato.

L’opera era molto difficile: Ernesto ed altri agenti avevano sondate le acque ed avevano visto esser egli uomo incorruttibile sotto tutti gli aspetti; profferte di denaro erano state respinte, promesse di onori non avevano prodotto effetto, ogni qualunque specie di blandizia non aveva prodotto verun buon esito e quasi si disperava di adeguare al suolo un colosso, vinto il quale con molta facilità si avrebbe potuto ottenere un magnifico intento finale.

Ultima via restava quella delle donnesche seduzioni. Il personaggio di cui si parla era uomo poco al di là dei quarant’an­ni, di prestante aspetto e di modi vivaci e geniali. Dopo di aver escogitato tutti i mezzi, si era venuto a sapere che egli non era totalmente alieno dai piaceri femminei e perciò immediatamente si era dato ordine a talune adepte di seconda sfera di assaltare la piazza con tutta la possibile astuzia e finezza; ma diverse di queste signore si erano cimentate e sempre ne erano uscite sconfitte e non avevano potuto riuscire in nulla; fu giocoforza indirizzare sui suoi passi la scaltra e famosa Contessa.

Erminia, ricevute le opportune istruzioni, postasi di accordo con Ernesto ed un altro agente inferiore che doveva aprirle la via fingendosi un capocomico girovago, il quale di unita[1] alla prima donna di una compagnia, trovandosi in ristrettezze, andavano cercando di trovare un qualche teatro onde potersi trattenere e metter su delle rappresentazioni, e siccome ‹a quella emergenza› non troppo si pensava in quelle province ai divertimenti pubblici, così il voluto[2] capocomico, volendo indirizzarsi alle autorità della piccola città dove stanziava il personaggio da conquistare che comandava un buon corpo di truppe, ebbe l’accorgimento di raccomandarsi a lui, pregandolo che con la sua influenza avesse visto di far sì che la sua compagnia avesse potuto venir sulla piazza a recitare e guadagnarsi un onesto pane. Il finto capocomico era uomo tale da sostener benissimo la sua parte, perché un tempo veramente aveva esercitata la professione di commediante; perciò stabilite così le cose, si passò immediatamente alla esecuzione del meditato progetto.

La coppia stabilita si presentò a casa del bravo Militare, mentre Ernesto, anch’egli camuffato da comico, attendeva su di una locanda l’esito delle pratiche per poi, come capo di questa semiartistica cospiratrice spedizione, dar conto ai suoi superiori di tutto ciò che si faceva.

Il Militare, che gentilissimo uomo era ed amante in certo modo del teatro, accolse benissimo la virtuosa coppia e [fin] da principio, interessandosi del fatto e della posizione piuttosto triste di quei due, promise di far tutto il possibile per giovar loro presso le autorità, promettendo che se avesse potuto riuscire a far loro ottenere ciò che bramavano, si sarebbe anche cooperato per un buono abbonamento fra i militari, i quali quasi tutti sono amanti del divertimento del teatro; e siccome i finti comici si annunziavano per gente oppressa dalla miseria e quasi quasi facevano credere esser privi di tutto per procurarsi alloggio e vitto, il Militare offrì gentilmente [di ospitare], fino a che le cose fossero andate innanzi, e l’uno e l’altro in casa sua. Con molta riconoscenza fu accolta la profferta ed immediatamente si principiarono le pratiche per venire allo scopo prefisso.

Il Militare però, che come abbiamo detto non era tanto austero in fatto di bel sesso, incominciò ad adocchiare l’avve­nen­te prima donna; ed essa, che non era venuta ivi che a quello scopo, corrispondeva con tutta affabilità e gentilezza alle premure del Militare, di talché fin dalla prima visita le reti furono gettate.

Il dopo pranzo, il Militare si condusse presso le principali autorità della Città, che a tanto intercessore nulla negarono; e fino a che non venne la sera il permesso di poter venire a dar delle recite si era ottenuto.

Fatto questo e senza perder tempo, il finto capocomico immediatamente finse partire per siti vicini dove era il rimanente della compagnia per andarla a prendere e portarla il dopo dimani nella piazza, rimanendo l’incarico alla prima donna di far girare un foglio di appalto[3] e raccomandandola caldamente al buon Militare, che promise proteggerla ed aiutarla, seguitando a tenerla in casa sua, cosa che sì voleva, ma che solamente ad Ernesto dispiaceva, che prevedendo tutto ciò che sarebbe succeduto, fremeva di sdegno di dover assistere in disparte a ciò che egli chiamava suo disonore.

Le cose nel corso della notte e nel giorno seguente precedettero come si era immaginato. Il Comandante, soggiogato dalla bellezza della prima donna, cadde nelle sue reti; fatto questo la signora incominciò a persuaderlo circa il vero oggetto della sua venuta presso di lui ed ebbe la fortuna di veder quasi coronata la sua pratica, perché egli quasi quasi cedette ai suoi seducenti discorsi ed in fine cadde completamente nei lacci tesigli, tanto che con la sua disfatta poscia a tempo e luogo fu uno di quelli che più contribuirono all’esito del trionfo della rivoluzione.

I comici sparirono. Il Militare, conscio del vero oggetto della finzione, aiutò a spargere una menzogna con la quale si constatava la non venuta di costoro al paese; ma con mille pretesti ritenne però presso di sé la prima donna, che ormai tutto il paese caratterizzava come la sua innamorata, mormorandone e sparlandone un poco, ma poi ridendone, come in questi casi suole avvenire.

Tutta questa commedia era succeduta in dieci giorni; Ernesto aveva immensamente sofferto, ma aveva tollerato, perché la necessità, finché la cosa non fosse riuscita, glielo imponeva; ma postosi poi egli di accordo col Militare per gli affari della propaganda, mal soffriva che Erminia avesse seguitato a rimanere in casa del Militare e cercava tutti i mezzi per farla partire. Colui però non voleva e cercava trattenerla e la stessa Erminia ‹che›, quantunque sempre innamorata di Ernesto, pure non poteva in verun modo sciogliersi dal Militare, si adattava a rimanere ancora presso del suo novello amante, che in sostanza non era uomo da prendersi a gabbo.

Ernesto, non volendo più tollerare un tale stato di cose, principiò a borbottare, a mettersi in disaccordo con il Militare, a maltrattare Erminia incolpandola di tradimento, di civetteria e facendolo in modo che il Militare, uomo di mondo, accortosi da queste cose che fra i due c’era qualche antecedente concerto, salì in tutte le furie e con modi alteri e privi di cerimonie proverbiò talmente Ernesto che questi, mal sapendo resistere agli insulti che riceveva, si risentì anch’egli ed in un animato diverbio sorto fra entrambi corse una sfida ed il giorno susseguente i due rivali andarono a battersi.

Erminia, sebbene le dispiacesse il fatto, pure per non trovarsi imbrogliata in cose che avrebbero potuto comprometterla, nottetempo fuggì da quel paese e si ritirò in altra vicina città, dove poteva essere validamente protetta da quelli del suo partito.

Il giorno venente Ernesto andava in cerca di Erminia, ma inutilmente la ricercò: ella era sparita; intanto egli dovette sempre correre e battersi a cimentare la sua vita per una donna che non era sua, che egli si era ostinato a credere sua, accecato da una passione che formava la sua vergogna e che uccideva un’altra donna appassionata, affettuosa, degna di ogni premura e di tutta la possibile fedeltà.

[Scesi] quindi sul terreno, l’arma prescelta era la spada; il Militare aveva per suo secondo un suo collega, mentre Ernesto aveva dovuto ricorrere a uno di quelli da lui conosciuti per caso che, addetti come agenti subalterni nell’associazione rivoluzionaria, si prestavano a malincuore ad un fatto privato, comprendendo che qualunque avesse potuto essere l’esito del duello, gli interessi della causa erano sempre pregiudicati, poiché Ernesto, se vinto, non avrebbe potuto più agire; se vincitore, avrebbe dovuto fuggire immediatamente e quindi non assistere agli affari che in quel momento avevano bisogno di somma ed indefessa assistenza.

Il duello cominciò: il Militare era valentissimo schermitore, mentre Ernesto, quantunque non nuovo alla trattazione delle armi, pure non era tale da poter resistere alla bravura del suo avversario.

Al primo assalto, fosse fortuna, fosse negligenza del rivale di Ernesto, che avendo [ri]conosciuto la sua debolezza lo trattava con poca importanza, un piccolo colpo di spada al braccio fece rimanere ferito il Militare, ma questa piccola ed insignificante ferita accese maggiormente il suo sdegno e alla seconda messa in guardia non trattò più la faccenda con quella leggerezza con la quale l’aveva da principio intrapresa e vi si pose con tutta l’arte e lo sdegno possibile, in maniera che non appena Ernesto ebbe tempo di parare il primo ed il secondo colpo che al terzo ricevette un fendente sotto la mammella destra che poco mancò non lo avesse trapassato da parte a parte, facendolo piombare al suolo dando un grido ed invocando sua madre.

Caduto Ernesto ferito, fu immediatamente accudito da un chirurgo che era venuto sul luogo a presenziare il combattimento; ma costui nell’esaminare la ferita, quantunque avesse annunziato non esservi pericolo imminente per la vita del ferito, pure non potette fare a meno di dire che la ferita era molto grave e vi sarebbe abbisognato molte cure e lungo tempo fino a che non avesse potuto compiersi la guarigione.

Trasportato Ernesto nella locanda dove si trovava alloggiato, cominciò dall’accorgersi di aver bisogno di cure amorevoli e pietose nello stato in cui si trovava ed essendosi informato, per mezzo di persone della sua setta, della signora Contessa, cagione di tanto suo malanno, seppe che costei essendosi prima allontanata dal paese per qualche giorno, era quindi ritornata di nuovo, trattenendosi tranquillamente presso il Militare che tanto malamente lo aveva ferito.

Il dolore di Ernesto a tale scoperta fu immenso ed allora cominciò un poco a comprendere il passo falso che aveva fatto, allontanandosi dalla sua buona Emilia e quasi di lei dimenticandosi, per immergersi in un amore che, mentre formava la sua rovina, gli era nel medesimo tempo di vergogna e di rossore.

Fece dal suo compagno scrivere a Napoli, dando notizie di sé alla sventurata genitrice e facendole comprendere qual fosse il suo stato non perché avesse sperato di vederla al suo fianco, ma per raccomandarle la misera giovinetta che troppo tardi si accorgeva esser più degna del suo amore rispetto alla scaltra Contessa la quale, dopo di avergli fatto perdere quasi la vita, lo aveva totalmente abbandonato non curandosi più di lui né punto né poco.

Il maggior dolore di Ernesto era quello che, mentre egli si trovava in quello stato, pendente tra la vita e la morte, i suoi superiori, o sia i capi del Comitato Napolitano, scrivevano ad ogni ordinario impartendogli ordini sopra ordini che egli non poteva più adempiere pel momento, stante lo stato in cui si trovava, e per conseguenza coloro lo minacciavano di togliergli la fiducia ed il potere che gli avevano accordato, dicendo che per futili e private ragioni ed anzi per turpitudini del genere di quella di cui si trattava, un buon patriota non doveva mettere a repentaglio la vita tanto preziosa agli interessi comuni.

Tutte queste cose esacerbavano la sua ferita, di modo che egli invece dei pochi giorni nei quali il chirurgo gli aveva assicurato che avrebbe potuto durare per guarirsi, l’affare era andato piuttosto in lungo ed Ernesto forse non avrebbe potuto sfuggire alla morte, se dopo giunta in Napoli la notizia di tanta disgrazia, la signora Martina ed Emilia non si fossero affrettate ambedue a correre in soccorso dell’ammalato e con le loro tenere cure non avessero blandito le sue sofferenze e i suoi dolori, non dipartendosi neppur per poco dal suo letto e curandolo con tutta l’affezione ed amorevolezza possibile.

Capitolo X. La rivoluzione

Re Ferdinando era morto. Francesco ii, il figlio della Santa, era sul trono. La guerra di Lombardia terminata, il Regno d’Italia cominciato a sorgere.

Il generale Garibaldi con i suoi Mille, partito da Quarto, era sbarcato a Marsala e la Sicilia conquistata a forza di disfatte e di tradimenti, come abbiamo di già dimostrato.

Garibaldi aveva passato il Faro, le Calabrie avevano anche cominciato a cedere allo strombazzato nome di questo preteso uomo straordinario, molto ben posto in vista da chi aveva bisogno di lui per illudere gli sciocchi, che lo denominavano liberatore, mentre egli non era altro che uno strumento, un braccio necessario pel momento, ma destinato ad esser posto da parte quando non sarebbe stato più necessario.

Francesco ii diede la sua Costituzione e tutti i buoni si rallegrarono di tale risoluzione, perché supponevano che tutti, in quella occasione, invece di allontanarsi dal legittimo sovrano, vi si sarebbero stretti ai fianchi discacciando gl’invasori e facendo trionfare il sacro diritto del Sovrano legittimo, il quale solo era chiamato da Dio a far felice l’intero Regno, Giardino dell’Europa, Eden dell’Universo.

Ernesto in tutto, quel tempo, confinato da prima in un letto, assistito da sua madre e da Emilia, rientrato quasi in se stesso, deplorava tutto il male che aveva fatto e risolveva di ritornare ad amare sinceramente colei che, senza curare un lungo viaggio, i disagi di un’andata e le privazioni che lo stato del suo amante, pel momento non più nella posizione in cui era a Napoli, le faceva soffrire.

A poco a poco la ferita andava guarendosi. Ernesto riprendeva la sua pristina[4] sanità e l’assicurazione del suo protettore lo confortava che se egli avesse ripreso con alacrità il suo lavorio a cui era adibito in pro della società, sarebbe del tutto stato perdonato ed anzi avrebbe potuto vantaggiare [piuttosto] che scapitare negl’interessi e nella considerazione in cui era tenuto.

Un ordine pressantissimo dopo poco altro tempo l’obbligò, sebbene ancora ammalato, a ritornare in Napoli; egli obbedì e di concerto con sua madre ed Emilia postosi in viaggio, si affrettò talmente che giunse tre giorni prima di quello che l’ordine gli ingiungeva di praticare.

Durante il tempo della sua convalescenza, l’amor suo tutto casto, santo e veramente onesto si era risvegliato per la buona donzella; aveva promesso di sposarla appena sarebbe giunto in Napoli e durante il viaggio non trascurò un istante di dare tutte le possibili assicurazioni sia a lei, che alla madre.

Giunto in Napoli e presentatosi subito al signor don Antonio, al quale confessò tutta la sua debolezza ed il suo premeditato matrimonio, ottenne da costui parole confortevoli ed incoraggianti per questo secondo progetto, ma però molti avvisi ed insinuazioni di ben guardarsi dalla signora Contessa: tigre in umane sembianze, Taide spudorata la quale, siccome ogni giorno diventava più necessaria per lo sviluppo, così più distendeva il suo impero sugli uomini e sulle cose a questa appartenenti, senza trovare opposizioni o soffrire ostacoli; e perciò lo consigliava a guardarsene, stante che ella avrebbe potuto fare qualche altro tristo gioco, se nel caso tornasse ad impicciarsi di lui, come era facile, essendo donna di somma ardenza[5] e volubilità. Ernesto promise di far tesoro delle parole del suo amico, ma in cuor suo però stabilì sempre più di non allontanarsi dal primo progetto, cioè di sposare al più presto la giovane da lui amata, colla qual cosa sperava potersi egli accomodarsi e tranquillizzarsi; e togliere una volta per sempre alla signora Erminia qualunque speranza potesse ancora nutrire circa il suo amore.

***

Tutti i nostri lettori ricorderanno il giorno 28 giugno 1860.

Quel giorno memorabile il Governo tollerò che all’ombra dello Statuto costituzionale si fosse commesso dal popolo – o sia dal Comitato rivoluzionario – un eccesso talmente infame e degradante, che forse non se ne riscontra l’eguale negli annali di tutti i tempi e di tutte le antecedenti rivolture.

Un’orda di popolaccio sfrenato e pagato, avendo alla testa i più famigerati sfaccendati e camorristi della città, la percorse per lungo e per largo, insultando ai buoni e minacciando tutti quelli che non si associavano alle loro nefandezze, ed in tutti i dodici quartieri assalendo gli uffici di Polizia, depredarono, saccheggiarono, incendiarono tutto ciò che lor si faceva dinanzi, manomettendo, ferendo e trucidando puranche coloro che erano preposti all’ordine pubblico, col pretesto che essi non erano stati fin allora che i tiranni e i carnefici del popolo; ma in sostanza per levare di mezzo quelli che tutti conoscendo i patrioti, li avevano fino a quel momento tenuti d’occhio e forse in migliori occasioni avrebbero saputo riconoscerli ed assicurarli completamente alla giustizia.

I mobili furono infranti, gli archivi e tutte le carte necessarie bruciate, e molti individui ebbero la fortuna di salvarsi mercé una pronta fuga o mercé l’aiuto di qualche anima pietosa, che mossa a compassione di coloro che cadevano per la buona causa, pensavano a salvarli e a non farli incorrere in un cataclisma generale.

Presso la stazione di Polizia del Quartiere Montecalvario, una delle più importanti perché quella nella quale più erano le carte penali che vi si conservavano, trattandosi di una popolazione più facinorosa di tutte le altre di Napoli, in dove le risse ed i reati di sangue avvenivano molto più spesso, avvenne una scena che si lega alla nostra storia e che si deve narrare, onde poter rannodare le fila di tutto ciò che ci resta da dire.

Don Bartolomeo, fra gli altri affari leciti ed onesti che trattava, vi era quello di dar denaro a prestanza con usura scandalosa, come di già abbiamo detto; nel far ciò egli, quantunque patriota accanito, come si è detto, non guardava troppo al colore di chi andava a chiedergli in prestito ed anzi, sarei per dire, aveva molto più di preferenza per coloro che servivano il governo costituito, che tutti quelli che vendevano lucciole per lanterne circa il futuro, sembrandogli che il presente ed anche il passato fosse un poco più certo e sicuro del dì là da venire.

Don Bartolomeo dunque aveva qualche tempo prima dato un piccolo capitale di poche centinaia ad un Ispettore di Polizia, uomo franco ed integerrimo sia nell’adempimento dei doveri della sua carica, sia in tutte le altre cose che aveva a fare e specialmente nel pagamento delle sue obbligazioni. Costui aveva puntualmente pagato a don Bartolomeo il suo debito, rimanendo solamente ancora scoperto di una cinquantina di scudi che una grave malattia di sua moglie non aveva potuto far passare con la solita puntualità nelle mani dell’usuraio; egli aveva chiesto scusa a don Bartolomeo, avanzando pel ritardo anche qualche cosa di più sull’interesse che egli soleva prendere ed il creditore, compiacente sia per l’indicata causa, sia perché, essendo il debitore un Ispettore di Polizia, egli temeva, mostrandosi austero, di poterlo disgustare e – stante tutto quello che ci era di sotto – potersi inquietare.

Le cose stavano in tal modo, quando accadde l’affare delle polizie; l’Ispettore in parola era di guardia al posto di Montecalvario, e siccome integerrimo, ripetiamo, e rigoroso nell’eser­ci­zio delle sue funzioni, era uno di quelli non troppo ben guardato dagli abitanti del rione che, saputolo di guardia, immaginarono subito di farlo vittima del loro furore. Giunto questo fatto a conoscenza di don Bartolomeo, per impedire un guaio – non certo per compassione del disgraziato suo debitore, ma perché gl’importava moltissimo di riavere il suo denaro e pensava che, se quegli fosse pericolato, lo avrebbe per certo perduto – corse sopra luogo ed arrivò nel momento più terribile del saccheggio. Il primo che vide fu Ernesto, che alla testa di molti facinorosi guidava quel movimento; per rendersi anch’egli popolare, avendo scorta una donna che chiedeva a diversi lazzari la grazia che non bruciassero una materassa ed invece la donassero a lei, che non aveva come dormire con due sue figliuole, spinto da santa o ipocrita indignazione, si pose a gridare:

– No, no, non la sentite, amici miei, non la sentite: se essa non ha come dormire, facciamole invece una colletta perché si faccia un lettuccio; ma che una cristiana, una donna onesta con due figliuole zitelle giaccia sopra di questa materassa sulla quale hanno dormito quegli assassini e forse vi hanno commesso migliaia di turpitudini e nefandezze non sia mai: nel fuoco, nel fuoco, presto, nel fuoco!

E dicendo questo egli pel primo aiutò a gettare la materassa nelle fiamme, girando poscia per fare una colletta dal ricavato della quale, destramente fatte sparire due o tre monete d’argento le più di valore, consegnò il resto alla sventurata che, nulla sapendo del giuoco di bussolotti già eseguito, lo ringraziò e chiese per lui dal Cielo mille e mille benedizioni.

Ottenuta questa popolarità, don Bartolomeo, [avuto] anche da Ernesto il diritto di finir di dirigere quella sommossa, perché egli si recava in altri siti distanti, corse su per le scale in cerca dell’Ispettore, il quale fino a che non aveva ben compreso la forza del pericolo che correva, era rimasto imperterrito al suo posto; ma conosciuto poscia di che si trattava, non avendo potuto fuggire, si era nascosto rannicchiandosi in uno stipo a muro, attendendo un momento favorevole per prendere il largo come meglio avesse potuto.

Don Bartolomeo girò per tutte le stanze e non trovandolo lo chiamava a voce alta; arrivato nella camera dove quegli era nascosto, udito dall’infelice che vi stava celato, costui si fece coraggio e, aperto un poco lo stipo, lo chiamò così dicendo:

– Don Bartolomeo, don Bartolomeo siete voi?

– Sono io, sono io; che vado appunto in cerca di voi, amico mio.

– Che il Cielo vi benedica, voi siete arrivato in tempo per liberarmi da questi cannibali, da queste tigri furibonde che mi ucciderebbero, se qui mi vedessero.

– Io sono qui per salvarvi. – disse don Bartolomeo.

– Benedetto Iddio! Datemi dunque un mezzo per farmi fuggire di qua.

– Eccolo: bello e trovato!

E cacciato di tasca un foglio di carta bollata di già scritto e presa una penna ed un calamaio, disse:

– Firmate questo foglio ed io mi comprometto non solo di salvarvi, ma farvi accompagnare fino a casa con tutta la possibile tranquillità dagli stessi popolani che ora vi minacciano la vita.

– Che cosa è mai questa carta?

– È una piccola memoria per tutti i futuri “chi sa”[6] riguardanti il debito che ancora avete verso di me.

L’Ispettore prese la carta e, quantunque pressato orribilmente da don Bartolomeo perché avesse firmato senza indugiare, lesse sino alla fine lo scritto e qual fu la meraviglia quando in esso trovò registrato un titolo di credito a favore di don Bartolomeo molto maggiore di quello che da principio era stato, per più della meta di già pagato.

– Don Bartolomeo, – disse l’infelice – ma questa che voi mi fate non è un’amicizia: è un assassinio che venite a farmi. Questa è una obbligazione che io non debbo più pagare.

– Lo so bene; né io intendo di esserla pagata; ma essa serve per tutti i futuri “chi sa”, e poi sapete che io sono un amico, un uomo onesto ed anche se questa carta da voi firmata sia tale da costituire una somma per tre volte maggiore di quella che in sostanza mi dovete, pure sono sicuro che avrete fiducia in me, che pel momento vi salvo da sicura morte, mentre che voi siete inviso a tutto il quartiere e difficilmente potreste sfuggire al­l’im­peto di questi furibondi; ma nel salvarvi guardo anche i miei interessi, i quali col tempo saranno poi da entrambi regolati in miglior maniera; ma adesso, stante il pericolo che correte ed i guai del momento, potrebbero vacillare ed allora, se ciò fosse, quantunque io rimanessi possessore di questi titoli, che cosa ne farei?

Mentiva però don Bartolomeo, in tal modo parlando, perché egli, prima di recarsi colà, aveva da altra via saputo che la moglie dell’Ispettore aveva avuta, per la morte di una prossima parente, una piccola eredità, la quale fra qualche giorno tutto al più poteva essere realizzata e perciò aveva divisato di poter in tal caso far un buon affare, prendendosi nelle mani un obbligo che poi a suo tempo e luogo avrebbe fatto comparire agguantandosi tutto ciò che dalla piccola eredità sarebbe di già entrato in casa del debitore.

L’Ispettore, sebbene tremasse per la sua vita, che vedeva in quel momento minacciata, non troppo diede ascolto alle parole del serpente seduttore; ma riconsegnandogli la carta esclamò:

– Mio caro don Bartolomeo, ciò che voi mi dite è bello e buono; ma io non posso mettere il mio nome ai piedi di una carta che potrebbe fortemente pregiudicarmi. Io sono padre di famiglia ed in qualunque evento questo scritto formerebbe la intera rovina della mia famiglia.

– Ma voi sarete ucciso!

– Giacché voi tanto me lo assicurate, la stessa certezza del pericolo mi rende ardito e mi ritorna il coraggio. Tenterò qualche via di salvezza e giacché da principio mi sono qui nascosto, non supponendo che la cosa avesse preso un aspetto tanto spaventevole ed attendendo un momento propizio per andar via tranquillamente, ora farò in modo che mercé qualche travestimento, mascherandomi di maniera da non essere conosciuto, possa sfuggire alla vigilanza di questi assassini e tornarmene come meglio possibile a casa mia. Voi, se avete amicizia e compassione di me in questo momento, giacché avete influenza su costoro, mi aiuterete a travestirmi in qualche modo e metterete tutto il vostro a salvare un amico, che vi sarà eternamente riconoscente e non appena sarò fuori di pericolo sarete soddisfatto del resto che ancora debbo effettivamente darvi.

– E non volete…?

– Firmare questa obbligazione? Non mai.

– E dubitate di me?

– Non di voi, ma della nequizia di questo mondo.

– Voi offendete, così parlando, la mia riputazione, ed io potrei farvene pentire, volendo.

– Ma pentire di che cosa mai? Io non offendo nessuno quando guardo con attenzione gl’interessi della mia famiglia.

– Voi siete un ingrato!

– Io sono un uomo d’onore e se voi siete anche tale, dovete mostrarmelo in questo funesto momento.

– Voi dovete firmarmi questo scritto.

– Non lo farò.

– Per Dio, che lo farete!

– No.

– Pensateci, Ispettore!

– Ci ho pensato. Ed ora che conosco e vado a comprendere lo scopo della vostra insistenza, anche che fossi di già col pugnale alla gola non cederei in verun modo!

– Lo vedremo!

– Lo vedremo!

– Firmate! – gridò don Bartolomeo spumante di rabbia.

– No. E sgombratemi il passo, altrimenti, prima che i vostri uccidano me, ucciderò voi.

– Griderò, e…

– Silenzio!

Ciò detto, l’Ispettore, che uomo piuttosto forte era, afferrò l’usuraio e condottolo in un’altra piccola stanzetta ve lo rinchiuse a doppio giro di chiave e quindi con quanta sollecitudine poteva, spogliatosi degli abiti che indossava e ricopertosi di taluni cenci che rinvenne opportuni, tintasi malamente la faccia tentò di fuggire, precipitandosi per le scale, mischiandosi in mezzo a quelli che scendevano e salivano e caricandosi anch’egli di qualche mobile, che pensava di gettare in mezzo alla pira che ardeva nel largo Baracche[7].

Don Bartolomeo però, che non aveva potuto difendersi dalle strette dell’Ispettore, aveva dopo pochi momenti di smarrimento pensato a rifarsi ed a precipitare il misero Ispettore nella rovina. Si aggrappò ad un alto finestrino che era nella stanzetta in cui era stato rinchiuso e cominciò a gridare:

– Arrestatelo, arrestatelo, egli fugge, si è travestito! Venitemi ad aprire, correte, o che l’Ispettore – e ne pronunziò il nome – sfuggirà alle vostre vendette!

Alcune megere di quelle che se ne trovano spessissimo ed in gran quantità in quel quartiere, intesero la voce di don Bartolomeo, corsero ad aprire la porta e trovando colà rinchiuso il signore tanto caritatevole che aveva fatto la colletta per la loro comare pochi minuti prima, lo fecero tosto uscire ed udendo da lui che l’odiato Ispettore, tanto ricercato e non potuto finora rinvenire, era fuggito e forse stava ancora per mezzo a quelle vie, si affrettarono a volare sull’orme del disgraziato e raggiuntolo e, ad onta del travestimento, riconosciutolo presso il fuoco dove stava per gettare quel mobile che aveva recato con sé, lo indicarono ai loro uomini, i quali scagliandosi come cannibali sul disgraziato, schiaffeggiatolo e maltrattatolo in modo da renderlo più che uomo una bestia, lo ferirono malamente con diversi colpi, dai quali non restò ucciso perché, trovandosi a ritornare in quel sito Ernesto, effettivo regolatore di quella masnada, impedì l’omicidio.

Terminato questo brutto episodio ed informatosi Ernesto del come era ciò succeduto, appena ne seppe l’origine, mosse amari rimproveri a don Bartolomeo, il quale invece di addolorarsi e di mostrarsi mortificato, fregandosi le mani, disse:

– Mio buon amico, voi siete giovine e non volete persuadervi di certe cose, perché mi sgridate?

– Perché voi falsate la causa alla quale servite e rendete più che[8] accetto, odioso il nostro operare. Chi volete che s’interes­si di una causa che principia a mostrarsi al pubblico mercé soprusi ed omicidi? Il Comitato ha ordinato che non si fosse fatto altro nella occasione presente che bruciare le carte, sperperare i locali, ma non venire ad atti violenti e specialmente evitare spargimento di sangue, perché in effetti noi siamo tutti, tutti fratelli.

– Sciocchezze…

– Non qualificate in tal modo gli ordini di chi può comandarci, altrimenti io sarò costretto a denunziarvi ed a voi potrebbe esser pure inflitta una qualche pena pel male che avete prodotto al meschino Ispettore.

– Infliggere pena a me, a me? Ma, Messere Ernesto, sapete o non sapete chi sono io?

– Il Cassiere del Comitato, ma non siete altro che un Agente subalterno come me.

– Io sono il tutto in questo momento. Ah! caro mio, credete forse che ora siano i fatti di due anni [or] sono, quando voi foste aggregato alla nostra corporazione. Allora le cose camminavano diversamente, presso di me esistevano molti denari del Comitato, dei contribuenti; ma adesso che questi denari sono stati esauriti, perché le molte spese occorse hanno fatto erogare tutto quello che era in serbo, io, corpo di Bacco!, io sono quello che pel momento ho fatto fronte alle ingenti spese necessarie per portare la faccenda al punto in cui siamo. Ah, ah, ah! M’infliggano i signori del Comitato, m’infliggano una punizione, li sfido, ah, ah, ah!, li sfido: e sfido tutti voi altri chiacchieroni fanciulloni che prendete seriamente questo preteso risorgimento della Italia, che lavorate per questa celebre causa con tutta la possibile coscienza! Andate là, andate là, che questo non è altro che una cuccagna, e chi non prende la cosa su questo piede è un asino, una bestia, un ridicolo e per conseguenza, bell’amorino, capite la faccenda e piegate le spalle ai fatti e non mettete in campo utopie inesistenti e sciocche, le quali non conchiudono cosa alcuna e fanno ridere coloro che hanno giudizio e fior di senno.

– In tal modo parlate?

– Parlo come direbbe il nostro primo e più grande Poeta

… Per ver dire,

Non per odio d’altrui, né per disprezzo.[9]

– Ma in questo caso la causa sarebbe perduta!

– Ma gli scrigni di chi ha interesse che questa causa faccia le spese dei propri vantaggi si accresceranno.

– In tal caso è un opera egoistica quella che noi propugniamo!

– Non lo avevate ancora compreso?

– E l’amor di patria?

– Utopia!

– Ed il bene della Nazione?

– Bugia!

– Ed il sangue sparso di tanti martiri per essa?

– Follia!… Sciocchezza di tanti pazzi, che non sapendo fare di meglio si sono fatti uccidere, spianando a quelli che restano ancora in vita la via per un benessere futuro ed una ricchezza, guadagnata da cento e pagata da ventidue milioni[10].

– Mio Dio!…

– Non vi meravigliate, giovinotto! Guardate bene intorno, escogitate tutto quello che si fa e vedrete che tutto ciò che vi ho detto non è che un Evangelo; e tutte le belle parole che altri vi dirà e vi ha detto finora magnificando un’opera di distruzione più che di risorgimento, vi ha ingannato.

– Ed allora perché tanta gente concorre a portarla innanzi?

– Gli sciocchi, perché illusi; i furbi, perché interessati.

Ciò detto il signor Bartolomeo, abbottonatosi il soprabito, fuggì velocemente da quel sito, lasciando il povero Ernesto immerso in mille penose riflessioni e quasi quasi pentito di tutto quello che aveva fatto fin allora ed in quel giorno specialmente, ma riflettendo che ormai, trovandosi in mezzo alla pasta, non poteva più retrocedere, potendo in altro caso pagar con la vita la sua diffalta[11].

La giornata proseguì in quel modo: i giusti furono perseguitati ed i perversi andarono in trionfo; il governo lasciava fare e da lì a pochi giorni una novella Polizia da quelli medesimi che fino allora erano stati perseguitati[12], ed erano ora i persecutori, si vide sorgere. In quei pochi giorni fino al memorabile giorno 7 settembre, oh!, se si potessero osservare tutti i fatti che andavano accadendo ed i soprusi e le infamie che si commettevano da questi pretesi riformatori e padri dalla patria, quanto si verrebbe conoscendo di nequizia, di scelleranze[13], di immoralità, che tuttodì si commettevano per ottenere il perfido scopo di distruggere il buono, l’ottimo preesistente, per edificare un futuro, che non si può appellare con altro nome, che con quello di pessimissimo!

Francesco ii, ingannato dal suo Primo Ministro[14], aveva dato le spalle a Napoli e partiva dalla sua Capitale, non come un Re alla testa ancora di un fiorente esercito ed accompagnato dall’amore del suo popolo, ma qual fuggitivo o vinto Monarca.

Garibaldi percorreva trionfante, con l’aiuto dei rivoluzionari, quasi tutte le province continentali del Regno, seguito dal suo così detto glorioso esercito – o sia da orde che non avevano sembianze né di milizie, né di masse, ma di semplici bande di briganti, alle quali era affidato il famoso risorgimento della Penisola.

L’unico atto che quest’uomo per molte ragioni straordinarie compì, da far veramente strabiliare l’universo, fu quella di aver mostrato un coraggio a tutta prova coll’essersi arrischiato a penetrare nella città seguito da soli sette individui, mentre che ad ogni piè sospinto poteva per lui squillare l’ultima ora, non essendo poi tutti gli abitanti di Napoli traditori o fedifraghi.

Ma quella prova di coraggio data da Garibaldi fu l’effetto vero dell’entusiasmo che forse egli solo possedeva in mezzo a tutti gli altri patrioti interessati o in persona sua era effetto di calcolo di future speranze di grandezze?

Su questo dibattuto punto facciamo discendere un fitto velo e nascondiamo dietro il sipario le scene di questo dramma compitosi sotto i nostri occhi, ma non ancora ben compreso, sebbene da tutti veduto e palpato.

L’entrata in Napoli del generale Garibaldi, accompagnato da soli sette seguaci, è un grande avvenimento e se non altro mostra che in certe occasioni certi tali uomini dotati di coraggio ed audacia a tutta prova sono strumenti della Provvidenza, la quale, quando i popoli hanno colma la misura delle empietà, li sa punire in mille modi diversi.

Il governo dittatoriale ebbe principio: una effimera abbondanza persuase i nostri popolani che l’età dell’oro tanto decantata dai poeti era pur finalmente venuta; i balzelli levati, i prezzi dei generi commestibili ribassati, i piccoli commerci fiorenti, insomma tutto vantaggioso a pro del popolo, il quale correva su tutte le bocche, mentre era l’ultimo ad essere considerato da chi, lavorando per sé, non pensava nemmeno al proprio padre o al proprio suo germano[15].

Il popolo napolitano, entusiasta in tutto in suo cuore, trovò in quella occasione di che sbizzarrirsi, di che aver campo a godere. Nel giorno 7 settembre mille episodi romanzeschi o pittorici coronarono la giornata. Avresti veduto in tanto tafferuglio, in mezzo ad una folla compatta ed armata, spirante gioia e mostrando il fuoco del proprio Paese in tutte le azioni, non succedere un solo fatto doloroso. I nemici perdonarsi, gli amici stringere le destre degli amici con tutta l’espansione del cuore, i ricchi soccorrere i poveri senza esserne richiesti, le donne affratellarsi con le altre donne, tutti gridare a squarciagola quella parola, che facevo battere il cuore a tutti gl’ingenui, a tutti coloro i quali avrebbero giurato non esser quella una commedia, ma un fatto vero e patente; che non un male pel proprio Paese, ma invece un sommissimo bene pur tutti, una grande manifestazione, mentre dessa non si componeva che:

Primo: di moltissimi uomini e non delle migliori risme, prezzolati a tanto al giorno, i quali avevano l’obbligo di percorrer tutte le vie, di mostrarsi in tutti i luoghi i più frequentati, gridando “evviva!” senza riposo, predicando alle masse ignoranti alcune massime delle quali essi medesimi non comprendevano né la forza né il significato; infine di incutere terrore mercé un apparato di forza e di armi delle quali si faceva pubblica mostra senza ritegno e senza vergogna alcuna.

Secondo: di una quantità di altri uomini i quali dirigevano queste secondarie operazioni, spargendo a piene mani il denaro non proprio, facendone però prima sparire una grossa porzione e conservandola a base di futura ricchezza, scopo principale di tanta baldoria, ragione fondamentale di tutto quel subbuglio e del predisposto cambiamento di governo.

Terzo: di altri non pochi i quali, nullatenenti, per essere sempre stati poco favoriti da Madonna Fortuna e desiosi far parlare di loro e di agguantare il più che potevano, per conseguenza mestavano, percorrevano i gruppi per mettersi in vista, essendo stati fino allora celati a tutti e non avendo potuto mai raggruzzolare un centesimo.

In quarto luogo: dai pochi, pochissimi illusi che senza comprendere il male che facevano, strascinati dal comune andazzo, agivano in buona, buonissima fede e rischiavano la vita, i beni e l’avvenire, precipitandosi come Curzio in una voragine[16] che doveva col tempo ingoiare tutte le ricchezze del Regno a danno di tutti noi ed a solo benefizio di quelli i quali, pescando nel torbido, non facevano altro che il solo loro bene.

Il memorabile 7 Settembre e tutto il tempo che al medesimo fece seguito trascorse; la battaglia dei Ponti della Valle[17] fu guadagnata, come tutte le altre combattute in quel tempo dai rivoluzionari, mercé di un altro spudorato tradimento. Capua aprì le sue porte al nemico e Re Francesco ii, rinchiusosi nella fortissima Piazza di Gaeta, si vide assediato da un nemico che non aveva giammai offeso, col quale non aveva giammai avuto che fare neanche durante la presente rivoluzione: da un esercito bello e formato di Piemontesi, comandato da un generale del medesimo Regno, avendo in alto spiegata la bandiera di re Vittorio Emmanuele, che entrava in ballo senza presentire offesa, senza dichiarazione di guerra e per la sola ragione del più forte che veniva a dire al più debole: «Esci di casa tua, poiché dessa mi necessita».

Ernesto in tutto il periodo che era trascorso era stato oltremodo occupato per gli affari a lui affidati e sebbene avesse sempre pensato di menare a compimento il progetto di matrimonio con Emilia ed aveva di già dati dei passi per questo scopo, non aveva potuto pensarvi definitivamente, aspettando sempre tempo più opportuno per mantenere la promessa fatta e sistemarsi, mercé un grosso o lucroso impiego che gli era stato promesso dai suoi superiori.

La Contessa non gli era più apparsa ed egli se n’era dimenticato, quasi come di un brutto sogno già fatto.

Ma era veramente Erminia scomparsa dalla scena in tutto il tempo di cui abbiamo finora discorso?

Lo vedremo fra breve.


[1] Di unita: assieme.

[2] Preteso.

[3] Un foglio di appalto:non è chiaro se “girare” si riferisca a far firmare il contratto con il Comune per la rappresentazione oppure a diffondere un volantino pubblicitario.

[4] Originaria.

[5] Passionalità.

[6] Opposizioni.

[7] All’incrocio tra Vico Lungo Tre Regine e Vico Figurella a Montecalvario.

[8] Più che: anziché.

[9] Francesco Petrarca, «Italia mia, benché ’l parlar sia indarno», Canzoniere, cxxviii, 63-64.

[10] Il numero della popolazione residente sulla penisola italiana nel 1860.

[11] Mancanza, colpa.

[12] Cioè dai camorristi.

[13] Scelleratezze.

[14] Liborio Romano, giurista liberale, coinvolto nei moti del 1820 e del 1848, quindi esiliato, fu assurdamente chiamato da Francesco ii a dirigere il Ministero di Polizia, che infiltrò di camorristi.

[15] Fratello di sangue.

[16] La leggenda narra che nel 362 a.C. nel Foro Romano si aprì una voragine apparentemente senza fondo. I sacerdoti interpretarono il fatto come un segno di sventura, predicendo che la voragine si sarebbe allargata fino ad inghiottire Roma, a meno che non si fosse gettato in quel baratro quanto di più prezioso ogni cittadino romano possedeva. Il giovane patrizio Marco Curzio, uno dei più valorosi guerrieri dell’esercito romano, convinto che il bene supremo di ogni romano fossero il valore e il coraggio, si lanciò nella fenditura armato ed a cavallo, facendo così cessare l’estendersi della voragine. Questo autosacrificio agli dei inferi (Dii Manes) era detto devotio.

[17] Parte della battaglia del Volturno, svoltasi tra il 1° e il 2 ottobre 1860.

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