Alta Terra di Lavoro

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“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) introduzione di Gianandrea de Antonellis (V)

Posted by on Dic 20, 2022

“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) introduzione di Gianandrea de Antonellis (V)

Nota al testo

Il testo riprende quanto pubblicato dal giornale Lo Trovatore dal n. 93 dell’anno viii (martedì 5 agosto 1873) al n. 137 (15 novembre 1873); e, per quanto riguarda la seconda parte, dal n. 67 dell’anno IX (9 giugno 1874) al n. 111 (martedì 15 settembre 1874).

A scadenza trisettimanale (il giornale usciva il martedì, il giovedì e il sabato), la stesura si dilungò per un totale di 85 abbastanza brevi puntate (44 il primo volume, 41 il secondo) pubblicate in calce alla prima pagina.

I titoli dei capitoli sono originali con l’unica eccezione, nella seconda parte, del X (chiamato più logicamente Don Carlos rispetto all’ori­ginale, ma poco attinente, Versailles), del XIII (La battaglia, a cui si è aggiunta la specificazione di Montejurra) e dell’ultimo, che da Riepilogo diventa Epilogo.

Dal momento che l’opera non si presenta come di altissimo pregio linguistico, risiedendo il suo valore soprattutto – se non esclusivamente – nel contenuto, sono stati effettuati alcuni interventi per favorirne la leggibilità.

Innanzitutto nella trascrizione la punteggiatura è stata rivista e resa all’uso moderno.

Sono stati emendati gli errori evidenti, dovuti a palesi sviste o fraintendimenti del tipografo: ForcellaTribunali (I, 3); giocogiorno (I, 5); vitavista (I, 8); crederecedere; non volendovolendo (I, 9); riparareparare; ParcoQuarto (I, 10); conservaconcerto; EmiliaErminia (I, 11); glorificarsiglorificati (1, 12); pronunziavanoevidenziava; fiduciafiduciosa (I, 13); basettebaffetti (II, 5); AnconaCivitavecchia (II, 6); Carlo viFerdinando vii (II, 7); spiegaresperare; via delle Canottierevia de La Canebière (II, 8); camerierecarceriere; orizzontalmenteverticalmente (II, 11).

Sono stati adattati i pronomi: glile, li o loro; modificati i dittonghi uoo (in tuono per tono; giuoco, spagnuolo, etc.); de’dei; legati in sommainsomma; perciò chepoiché; corretto mai sempresempre; eliminate le prostesi: la e eufonica prima di esterminare e la i eufonica prima di ispirito, istanchezza, isdegnare, istare, isposa, isfuggire, ispionare, iscappare, ispalla, isbaraglio; è stata lasciata solo nel caso dei sostantivi Iddio e Ispagna.

Le maiuscole sono state rese all’uso moderno, e così i termini dritta destra, dritto diritto, intiero/interointero, vigliettobiglietto e gittaregettare e derivati.

In qualche frase è stato effettuato lo spostamento di un termine per rendere più chiaro il senso. Alcuni passaggi di significato oscuro sono state modificati: «rendendo una poco più qui» → «portando qualcuno poco più su» (I, 2); «cordato e di cuore» → «dotato di cuore» (I, 4); «ne toccò uno» → «ricevette un fendente» (I, 9); «un guanto» → «una colletta» (I, 10); «larghi» → «lauti» (I, 12).

Sono state sistemate le concordanze, ammodernati alcuni casi di consecutio temporum ed effettuate varie aggiunte tra parentesi quadre ([…]), mentre gli elementi pleonastici sono stati segnalati tra virgolette semplici (‹…›).

Infine, d’accordo con l’Editore, si è deciso di sostituire alcune enclisi con altrettante proclisi.

Ringraziamenti

Editore e Curatore desiderano ringraziare vivamente i dipendenti della Biblioteca Universitaria di Napoli (tra cui il signor Emanuele Santoro, che a suo tempo si fece carico della rilegatura e della catalogazione delle annate complete del giornale), grazie alla cui cortesia è stato possibile consultare e riprodurre i testi del giornale Il Trovatore.

Un ringraziamento particolare va infine al prof. Miguel Ayuso Torres.

Parte prima

Capitolo I. Il Ponte della Sanità

l cielo era nuvoloso, l’aria cupa e fredda, un vento di Nord fischiava orribilmente e faceva tremare tutti coloro che per la necessità dei loro affari erano obbligati a percorrere per lungo e per largo la nostra vasta città. La sera si avanzava e, con la sera, cresceva di più in più il freddo. Verso il largo dello Spirito Santo, salendo alla strada Sant’Anna dei Lombardi, un giovane di venticinque anni, della classe di quelli che il nostro volgo appella “mezzo galantuomini”, si avanzava a passi lenti e stanchi e si appressava al largo del Mercatello[1]. Un orologio lontano coi suoi lenti rintocchi batteva l’una ora di notte[2] e quel suono scendeva nell’anima di quel misero, coperto da laceri vestimenti, come suono di morte. Lo stomaco di lui per protratto digiuno soffriva orribili stirature, la sua vista si abbagliava ad ogni istante, e sul suo volto si leggeva la disperazione. Al sentire i rintocchi dell’orologio, egli stesso si fermò e poscia, come se avesse preso una più ferma risoluzione disse a bassa voce:

– L’ultima speranza che mi resta, è questa: tentiamola, altrimenti il mio fato è deciso.

Dette queste parole quasi mentalmente, avanzò il passo e giunse fino ad un piccolo e piuttosto lurido caffè che era d’accosto della chiesa, così detta di Caravaggio[3], ivi, aprendo la porta e slungando il collo al di dentro, prima guardò intorno e poscia, rivoltosi al principale, che era presso il bancone:

– Si è visto da questa parte il signor Gennaro Milone?

– Sì – rispose il caffettiere, – è venuto, ha sorbito il suo caffè ed è ritornato in sua casa da circa una mezz’ora.

Rinchiuse la porta il misero giovane, sfiduciato di più e rimase per qualche minuto con le braccia penzoloni lungo il corpo e con la testa bassa, indi ritornò a dire, come aveva fatto poco prima:

– È deciso: non c’è altro a sperare; andiamo.

Ciò detto, riprese la via dell’erta e salendo piano piano per la strada Santa Teresa, percorrendo la quale il freddo lo faceva quasi vacillare e tremava a verghe. Finalmente, dopo di aver fatti gli ultimi sforzi, arrivò al famoso Ponte della Sanità che tanti infelici ha visto precipitarsi dalla sua altezza e, chiudendo gli occhi e facendo una piccola orazione mentale con la quale raccomandò l’anima sua a Dio, si accinse a precipitarsi da quella Rupe Tarpea[4], come avevano fatto prima di lui tanti disperati che, non avendo più forza di lottare con la miseria ed i dispiaceri, avevano scelto quella specie di morte per togliere, in apparenza, alle pene il corpo ed alle sofferenze da cui erano tormentati ed ottenebrati dalla miseria non avevano pensato all’anima!

Mentre era per salire sul davanzale del Ponte, onde precipitarsi, intese afferrarsi da una robusta mano che lo trattenne dall’atto fatale ed una voce gli gridò:

– Che cosa fate, miserabile?

– Chi è che mi arresta? – rispose il giovine.

– Un amico. – riprese la prima voce.

– E v’hanno amici per i disgraziati miei pari?

– Tanto è vero che io son tale, che vi risparmio di commettere un suicidio. Perché volete eseguire una cosa così terribile e nel medesimo tempo così insensata?

– Guardatemi… – disse il disgraziato.

– Vi vedo, – rispose l’altro interlocutore – e mi accorgo che voi siete condotto al duro passo dalla disperazione e dalla miseria, ma ciò non toglie che il vostro non solo è un orribile delitto, ma un’opera da pazzo. La morte non rimedia certo ai vostri bisogni, ed è uopo[5] combattere e resistere da forte, prima di darsi per vinto in questo modo.

– Ho combattuto tanto, signore; ma ora non ne ho più la forza. Lasciatemi, deh! ve ne prego, lasciatemi eseguire il mio disegno! – e ciò dicendo accennava di nuovo a volersi precipitare.

– Sarei un assassino, se lo permettessi, e nel medesimo tempo uno stolto. M’accorgo dalla vostra fisionomia che voi siete un giovane svelto e d’ingegno.

– E a che mi vale l’ingegno, se da esso non ho potuto ricavar tanto da potermi sostenere e coprire le carni con vestimenta[6] meno lacere e consunte di quelle che indosso; e a che mi vale la buona volontà di lavorare, di adattarmi a tutto, anche a quelle opere manuali più basse, se non mi è possibile di poter lavorare tanto quanto basti per comprare un tozzo di pane od un poco di fuoco alla mia vecchia madre, che muore di fame e di freddo?

– Ma non avete parenti?

– Tutti in alto locati, e mi hanno scacciato.

– Non avete amici?

– I miei pari fanno schifo a coloro che un giorno gli stendevano cordialmente la mano; su di uno soltanto forse potevo ancora contare per procurarmi questa sera un piccolo sussidio, ma non ho potuto rinvenirlo ed ho dovuto abbandonare l’idea di vederlo; e la disperazione mi ha spinto…

– Or volete commettere una sciocchezza; ma via, finiamola, questa scena trista e dolorosa. Non dite che non avete amici: sono qua io per voi.

– Voi… ma voi?

– Son uomo che se non vi conosco, però ho cuore e guardandovi in faccia capisco a prima vista che voi siete ancora in tempo per potervi fare strada e lucrarvi onestamente un vivere per voi e vostra madre, e nel medesimo tempo giovare ad una causa che fa battere e palpitare mille cuori del più sacrosanto degli amori. Avete la forza di seguirmi?

– Fin dove?

– Alla contrada Pignasecca.

– A quale scopo?

– Lo vedrete; ma ad uno scopo che produrrà il vostro bene e quello di vostra madre.

– Me lo promettete?

– Vo lo giuro.

– Ebbene, vi seguo, quantunque il freddo e la fame mi abbiano talmente stremato di forze che difficilmente posso ripromettermi di dare ancora quattro passi.

– Rimedieremo anche a questo.

E preso il giovane sotto il braccio, lo fece entrare nella prima bottega di caffè che incontrarono sulla via e lo fece ristorare con una buona tazza di caffè e due prese di rum. Ciò fatto, postosi di fianco a lui ed affrettando entrambi per quanto più potevano il passo, rifecero la strada già battuta dal giovinotto, fino all’angolo del vicolo dei Bianchi allo Spirito Santo ed inoltratisi indi per quella piccola strada, dopo poco tempo, riuscirono al Largo Pignasecca e di là volgendo verso la destra per uno dei vicoli che in quella piazza mettevano capo, si avvicinarono prima e quindi penetrarono in una cànova[7], a quell’ora non molto inoltrata della sera piuttosto deserta di frequentatori.

– Buonasera, Marianna. – disse la guida del nostro protagonista, rivolgendosi alla padrona di quel negozio, donna in sulla cinquantina e piuttosto ancora di belle forme, come di cera[8] aperta e geniale.

– Buonanotte, don Antonio, – rispose la padrona – qual buon vento vi guida da queste parti?

– Imbandisci subito una buona cena per questo giovinotto; ma che sia tutta di roba sostanziosa e calda, perché egli ha lo stomaco vuoto da diverso tempo e tutte le membra tremanti pel rovaio[9] di questa sera.

– Marianna è sempre pronta per servire i buoni amici!

E profittando di un momento che il giovine si era seduto per stanchezza ad uno scanno, ella disse all’orecchio di don Antonio:

– E così…?

– Sarà un vostro novello affiliato e, se non m’inganno, ne faremo uno dei nostri principali agenti.

– Benissimo, quando è così, lauta e succulenta cena.

Ciò detto, Marianna si diede da fare e, preparata la tavola, corse a dare un occhiata al focolaio, provvisto di ogni bene di Dio, ed in un attimo imbandì al misero affamato un pasto che non cena, ma sontuoso pranzo si poteva chiamare.

Ernesto, che tale era il nome del giovinetto, sedutosi dinanzi la tavola, non capiva come mai avesse potuto esser fatto segno a tanta generosità, però l’istinto della conservazione e la rabida[10] fame che lo tormentava lo spinsero talmente a fare onore al desinare che egli si gettò quasi su quelle vivande ed in poco d’ora divenne satollo, e specialmente si confortò con dell’eccellente vino che Marianna gli aveva dato, scegliendolo tra i migliori che si tenevano nella sua cànova.

– Sei sazio? – disse don Antonio.

– Sì. Ma mia madre?

– Anch’essa lo sarà, figliuol mio. Marianna, apparecchia un’altra cena simile in un paniere.

– È testé fatto.

– Prendi anche un tabarro e dallo a questo giovine.

– All’istante. – e corse per le due incombenze.

– Ma signore, – disse Ernesto – come mai potrò sdebitarmi con la signoria vostra del tanto bene che mi fate, e qual merito ha potuto destare la vostra compassione per salvarmi dalla morte e poscia confortarmi in tal modo con sì gentile e fraterna premura?

– E non siamo tutti fratelli, – disse l’interpellato – e non abbiamo tutti l’obbligo di aiutarci scambievolmente, e non è questo il vero spirito della santa Religione del Cristo?

– È vero, ma…

Le parole gli furono troncate sulle labbra dall’arrivo di Marianna, la quale, preparata un’altra bella porzione di vivande, l’aveva accomodata in un paniere e gettando contemporaneamente sulle spalle di Ernesto un nero ferraiolo, glielo metteva fra le mani, raccomandandogli di affrettare il passo per poter portare il tutto ancora caldo e senza guastarsi alla sua genitrice.

Ernesto si apparecchiava a ringraziare i due, ma don Antonio non gli diede tempo e, ripresolo sotto il braccio, lo condusse fuori, dicendo di sfuggita alla donna:

– Domani non mancare.

– Sarò la prima.

Usciti che furono dall’osteria ed allontanatisi pochi passi dalla stessa, don Antonio domandò ad Ernesto dove abitasse ed avutone in risposta che la sua abitazione era nel così detto fondaco di San Paolo[11], presero per la via del Forno Vecchio, e nel giungere a Toledo, don Antonio ponendo un piccolo involto nelle mani di Ernesto, gli disse:

– Con questo domani cerca di comprarti un vestito più decente e poscia, verso le ventitré ore[12], fa di trovarti al Caffè di Testa d’Oro[13], dove io già sarò o arriverò in poco d’ora, e ti comunicherò delle cose le quali ti saranno di aiuto a farti comprendere la mia premura ed a farti capire il come tu dovrai non sdebitarti di quel poco che ho fatto per te; ma quello che potrai ancora fare per guadagnarti onestamente da vivere per te e tua madre, ed essere utile ad una causa che ha bisogno di forti uomini d’intelligenza e di ferina volontà. Addio, a ventitré ore.

– Non mancherò per certo.

Si separarono ed Ernesto, dal punto dove aveva lasciato il suo benefattore fino a casa sua, non vi pose nemmeno il tempo necessario a recitare un’Ave Maria, fantasticando però fra se stesso lungo la via e ringraziando nel medesimo tempo con tutta la possibile riconoscenza la divina Provvidenza, che in tanto stremo nel quale si era ridotto lo aveva fatto imbattere in un’anima pietosa, che l’aveva sottratto a così trista e terribile posizione.

Giunto a casa trovò che la misera madre, donna oltre i sessant’anni, afflitta per la sua lunga assenza fin dalle prime ore della mattina, non più resistendo all’ansia che l’assaliva ed al dolore da cui era compresa, s’accingeva a quell’ora già fatta tarda pel tempo trascorso ad uscir di casa, onde correre in cerca del suo figliuolo, che formava l’unica sua delizia e che il suo istinto materno le aveva già dipinto in preda a pericoli ed a rischi dei quali non poteva formarsi un certo criterio, ma che nella sua mente non cessavan di comparire spaventevoli ed orribili oltremisura. Visto però il figlio, gettò un grido e correndogli incontro:

– Figlio mio, figlio mio, – gli disse – a quest’ora sei di ritorno?

– Sedete, sedete, madre mia, – rispose Ernesto – sedete; voi siete ammalata, voi soffrite terribilmente, io lo so: ebbene ristoratevi in prima e poscia vi narrerò tutto quello che in questa giornata mi è successo.

Pose su di un piccolo tavolo il cibo portato, che per la rapida corsa fatta era ancora caldo, e fatto mangiare la povera donna e bere un bicchiere di vino generoso, prese a raccontarle tutte ciò che dalla mattina gli era accaduto. Tremava la povera madre al racconto di mille infortuni e disappunti provati dal figliuolo e, quando giunse al punto di saperlo deciso a precipitarsi dal Ponte della Sanità, inorridì e, spargendo copiose e calde lagrime, corse a stringerselo al seno, dicendo:

– No, no figliolo mio: qualunque circostanza imperiosa, qualunque pericolo il più grande possa mai raggiungerti, non darti giammai in preda a simiglianti risoluzioni; Iddio non abbandona giammai veruno[14] e tanto gli è vero ciò, che tu nel punto spaventevole in cui ti accingevi a commettere il più grave dei peccati, un suicidio, una mano compassionevole ti ha soccorso, ti ha salvato. Ma non sai chi era quel generoso signore che è venuto cotanto opportunamente in tuo aiuto?

– Ho inteso chiamarsi don Antonio; ma non so di lui più di tanto; egli mi ha fatto ristorare; ma non solamente questo: ha promesso farmi ottenere un qualche impiego, una situazione qualunque, ed in vista di ciò mi ha dato una posta[15] pel Caffè di Testa d’Oro alle ventitré ore di domani, regalandomi pure del denaro per comprarmi un più decente vestito.

– Del denaro! E che somma egli ti ha dato?

– Non lo so ancora, perché non ho ancora aperto il piccolo involto che mi ha consegnato.

– Vediamo, vediamo dunque a quanto ascende la somma che egli ti ha regalato!

– Vediamolo pure.

Ernesto caccia di tasca il piccolo involto ricevuto da don Antonio, lo svolge e vi trova racchiusa la somma di dieci scudi, dodici ducati Napolitani.

Dié un secondo grido di gioia la povera donna a quella vista, e disse:

– Veramente gli è un angelo cotesto signor don Antonio, figlio mio: dodici ducati, dopo di averti tanto di già beneficato; ma certamente egli dev’essere un uomo facoltoso e di gran cuore; speriamo dunque che voglia seguitarti a proteggere come ha fatto finora e che tu, mercé sua, possa diventar qualche cosa di grande ancora.

– Piano, piano, madre mia, piano, non correte tanto per la posta; pregate invece Iddio che per suo mezzo io possa trovarmi nel caso di poter lucrare un onesto pane, onde alimentarvi, unico mio pensiero, perché io non ho che voi, che m’interessi nel mondo.

– Ingrato!

– E perché mi date questo brutto nome?

– Non vi è dunque altra persona fuori di tua madre che interessi il tuo cuore?

– So di chi intendete parlare, madre mia; il mio cuore mi spinge verso colei di cui voi ragionate: Emilia.

– Che tanto ti ama, povera giovinetta.

– E che io adoro oltremodo, ma che non potrò sposare giammai.

– E perché?

– Le mie circostanze…

– Ma se desse si accomoderanno?

– Oh! forse allora; ma per ora… per ora è inutile pensarvi.

– E se quel signore…?

– Lo voglia il cielo! Oh! se per suo mezzo io veramente arriverò al punto di farmi una posizione, tu prima e poscia Emilia sarete quelle per le quali io faticherò e, stringendola come sposa al mio seno, dividerò il mio interesse e la mia affezione tra te e lei. Ella, lo so, nei giorni di miseria in cui ci ha spinto la morte immatura di mio padre, lavorando più assiduamente e con volontà al di là delle sue forze, ci ha sostentato e con tutto il buon volere e l’affezione ha diviso con noi il suo obolo ed il suo tozzo di pane. Se io potrò retribuirla…

– Eh! tu mi farai il più grande dei regali, facendomela stringere come figlia al mio seno.

Dopo questi ragionari[16], la povera vecchia, cadde in ginocchio dinanzi ad una Sacra immagine della Vergine Addolorata, e pregandola fervidamente, andò poscia a prendere un poco di riposo, invitata da Ernesto, che anche lui corse a gettarsi su di un lettuccio, che più ad un canile poteva paragonarsi che ad un letto; pure però, sia per la stanchezza, sia perché da poco confortato dal cibo, prese sonno immediatamente, sognando mille cose, fra le quali non ultima gli apparve la cara immagine di Emilia che formava la sua delizia e che, ad onta delle riflessioni fatte a sua madre, anelava ardentemente di chiamare sua sposa.


[1] Odierna piazza Dante.

[2] È il calcolo secondo la cosiddetta “ora di Spagna”, legato alle fasi solari: la locuzione “ora una di notte” indica un’ora dopo il tramonto, che varia leggermente a seconda della stagione.

[3] Santa Maria del Caravaggio, con annesso convento di Scolopi; è una delle quattro chiese che si incontrano lungo il perimetro di piazza Dante Alighieri, assieme a Sant’Arcan­ge­lo al Mercatello (angolo via Toledo), San Domenico in Soriano al centro dell’emiciclo e Santa Maria dell’Avvocata nel vicoletto omonimo. C’è anche la piccola cappella dell’Addolorata (angolo via Bellini).

[4] La rupe Tarpea è la parete rocciosa posta sul lato meridionale del Campidoglio a Roma, dalla quale venivano gettati i traditori condannati a morte, che in tal modo venivano simbolicamente espulsi dall’Urbe.

[5] Necessario.

[6] Abiti.

[7] Bottega dove si vende vino al minuto, talora anche pane e altri commestibili.

[8] Fisionomia.

[9] Vento di tramontana.

[10] Ràbido: rabbioso, furioso.

[11] Traversa di via San Paolo, dietro l’omonima basilica.

[12] È sempre il calcolo secondo la cosiddetta “ora di Spagna”: “ventitré ore” indica quindi un’ora prima del tramonto.

[13] Si trovava a Toledo, di fronte alla via dei Fiorentini (cfr. Salvatore Di Giacomo, “Via Toledo” al Quarantotto, in Napoli. Figure e paesi, Perrella, Napoli 1909, p. 279 e 281). Nel 1848 era uno dei punti di ritrovo dei Liberali.

[14] Alcuno.

[15] Un appuntamento.

[16] Ragionamenti.

Il passato e il presente ovvero Ernesto il disincantato, romanzo anonimo

Prima edizione: Stabilimento Tipografico Partenopeo, Napoli 1874

© 2016 Vincenzo D’Amico e Gianandrea de Antonellis

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