Alta Terra di Lavoro

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FATTI E FIGURE NOTEVOLI DAL 1800 AL 1859 A MONTENERO DI BISACCIA

Posted by on Ott 5, 2023

FATTI E FIGURE NOTEVOLI DAL 1800 AL 1859 A MONTENERO DI BISACCIA

Dal 1806 che Napoleone I oppose agl’Inglesi il famoso “blocco continentale” per impedire loro l’accesso nei porti d’Europa e quindi lo smercio dei loro prodotti e dei generi coloniali, la Torre di Montebello era guardata da un drappello di Guardie Civiche di Montenero e dei paesi circonvicini, per impedire lo sbarco degli Inglesi e dei Corsari che sotto la loro bandiera infestavano l’Adriatico.

Alla foce del Tecchio avveniva non di rado lo sbarco di merci inglesi, che di contrabbando s’introducevano nel Regno. La moglie di Gioacchino MuratCarolina Buonaparte, mentre fu regina del Napoletano esercitò su larga scala tale contrabbando e, per mezzo di un Ufficiale dell’Esercito, nativo di Campomarino, Costanzo Norante, in questi paraggi, dalla foce del Trigno a quella del Fortore. L’altro posto di guardia permanente era nella Torre di Petacciato, guardata dai militi della Civica di Guglionesi. Da che gl’Inglesi s’impossessarono di Lissa nel 1811 tentarono diverse volte di sbarcare nei pressi di Montenero, e le guardie monteneresi ne li tennero lontani o li ributtarono a fucilate. Gl’Inglesi tiravano cannonate, le cui palle or sì or no giungevano oltre la spiaggia: i monteneresi si riparavano dietro rialzi di arena che facevano da trincea, lungo la riva, e di lì sparavano. Sbarcarono una volta al Tecchio in più decine, assalirono la Torre di Petacciato ove ammazzarono un certo Gizzi, Guardia Civica, e a tamburo battente avanzavano verso Montebello. I monteneresi bravamente, e ferendone qualcuno, li costrinsero a ritirarsi sui battelli, per raggiungere i quali dovettero alcuni percorrere a nuoto buon tratto di mare. Le palle inglesi raccolte sulla spiaggia nei pressi di Montebello erano a Montenero adoperate nei giuochi di Carnevale. Gran carestia ci fu nel 1817: il grano salì sino a ducati 24 la salma (L. 102) ed il granone a ducati 17 (L. 71,25). Oltre i tanti del paese che andavano accattando, vi giungevano a torme i poveri d’altri luoghi, specialmente montanari abruzzesi. A primavera cominciarono a sfamarsi d’erbaggi; e ne morirono molti allora, e poi sempre più nell’estate, tanto che i morti a Montenero giunsero a 560. Non s’era provata così dura fame nel 1763 e 64, quando una gragnuola sterminatrice e generale caduta l’11 giugno del 1763 nell’agro di Montenero distrusse completamente i campi a cereali, tanto che nel maggio del 1764 il grano salì a ducati 16 la salma (L. 68) e l’orzo, le fave e il granone a ducati 9 (L. 38,25). Il popolo sentiva imperioso il bisogno della libertà e delle riforme. La rivoluzione aveva scavata la fossa al dispotismo. Il servo di ieri non tollerava più le catene, si ribellava ai soprusi, alle vessazioni, alle prepotenze dei signorotti. “A lu cafone corna e bastone“, questo era il ritornello allora ricorrente sulla loro bocca. Non più cieco, il popolo, lavorato dalla propaganda della grande rivoluzione, reagiva ad ogni iniquità. L’idea di una patria libera, indipendente e democratica si allargava, conquistava le masse. Esponenti dell’agitazione patriottica ed umanitaria erano i professionisti, che si tiravano dietro anche artieri e proprietari tra i più intelligenti. Solo il contadino, abbruttito e incosciente, rimaneva attaccato al vecchio regime. Della rivoluzione del 1820-21 gli effetti in Montenero si risentirono non meno che negli altri piccoli Comuni della provincia. La setta dei Carbonari v’aveva non piccolo numero d’affiliati d’ogni classe. La parte più eletta della cittadinanza: il medico, l’avvocato anche il giudice, il parroco, si riuniva nelle farmacie. Qui potavano discorrere del più e del meno, scambiarsi idee, illuminarsi scambievolmente e… divertirsi. Le farmacie si trasformarono in circoli politici in cui persone della stessa fede fraternizzavano. La polizia borbonica, ritenendo tali riunioni pericolose e sovvertitrici dell’ordine pubblico, cominciò a proibirle e a perseguitare il farmacista ed altri professionisti. Tuttavia gli amici, i compagni, come si dicevano, continuavano a riunirsi nelle case, negli ospedali, nei palazzi, nelle cascine, nelle sacrestie e perfino nelle caserme. Così sorsero le Società segrete, tra esse quella dei Carbonari, i cui membri non erano che gli antichi patrioti della Repubblica Napoletana cresciuti di numero per l’adesione dei giovani. Nel 1837 il colera morbus fece in Montenero 365 vittime, dal 29 giugno all’8 agosto. Il primo ad essere attaccato fu D. Giuseppe di Vito fu Polidoro. In ogni famiglia erano costernazione, pianto, lutto. Alcuni si allontanarono dal paese per starsene in campagna o in altro Comune. Si ricorda che D. Zenone Sacchi, essendo con la moglie e coi figli andato a Montecilfone, di dove era la moglie stessa, appena giunti morirono lei e lui. Di quanti erano attaccati dal male morivano quasi tutti. I cadaveri, poichè a quel tempo si seppellivano ancora in Chiesa, si fu costretti, dato il gran numero, a mandarli a gettare in due grotte presso la Cappella di Bisaccia e propriamente verso il Tratturo. I più ragguardevoli venivano però seppelliti in Chiesa. Non campane a morto, non funerali, non funzioni in Chiesa: nella Piazza lì presso si era eretto un altare, ove si celebrava a cielo scoperto sino a quando il morbo funesto non cessò del tutto. Nella fretta di sgombrare le abitazioni dei cadaveri, si dettero parecchi casi di morte apparente; onde ci furono quelli che, portati a seppellire, tornarono in vita e, per non essere stati a tempo soccorsi, morirono di terrore. Una tale Colucci, collocata nella cassa mortuaria, sul punto di portarla fuori da casa, dette segni di vita: così scampò dalle mani dei becchini e morì vecchissima. Nel 1855, che il colera fece strage a Vasto ed altrove, a Montenero non ne morirono molti, cosicchè il morbo fu appena avvertito. Assunto al trono Pontificio Giovanni Mastai Ferretti col nome di Pio IX, i primi atti da lui compiuti come sovrano nel 1846: amnistia per tutti i detenuti politici e riforme governative in senso liberale, destarono le più liete speranze nei liberali di tutta Italia. Per conseguenza il Governo Borbonico, insospettito, temeva ribellioni e sovvertimenti, e la Polizia era in moto. Ci fu nel settembre del 1846 una denunzia alla Polizia, nella quale si dava l’allarme per prevenire moti rivoluzionari che si affermava prepararsi in Guglionesi. Si designavano capi il Dott. Giacomo De Santi, l’avv. Adamo MassariAdamo PizziGiuseppe De Lellis. Che costoro si mostrassero entusiasti di Pio IX e si tenessero certi che il Governo si avesse a cambiare di assoluto in costituzionale, l’avevano mostrato apertamente, ma che avessero organizzato una ribellione in modo da tenersi sempre pronti e che si fossero finanche preparate le armi e le bandiere tricolori, non era affatto vero. Ai primi di novembre un distaccamento di truppe con artiglieria e cavalleria piomba su Guglionesi e si minacciava di cannoneggiarla. I quattro su nominati si erano posti in salvo fuggendo a nascondersi. A Montenero si rifugiò il Massari, il Pizzi tenevasi in campagna, il De Santis e il De Lellis se ne andarono altrove. Le ricerche per averli in mano furono senza risultato, e poi avendo il Vicario del Vescovo di Termoli, Colapietro, interceduto e dato assicurazione sotto la sua responsabilità, che nulla di quanto denunciato era vero ma era tutta una calunnia, le truppe, non molto dopo, lasciarono Guglionesi. Il Colonello Catrofiama, che le comandava, vene a Montenero con alquanti dragoni a cavallo; vi si trattenne una serata, ed alloggiò in casa del medico Luigi Palombo. La mattina del 16 novembre partì per Vasto, dove era già arrivato un distaccamento di 400 uomini di cavalleria e 240 di fanteria. Nel passare da Portamancina pel Tratturo rasente la Portella, sgridò alcuni, tra cui l’allora chierico Enrico Argentieri, perchè al suo passaggio non si erano levato il cappello. Quì rimase con pochi cavalieri da 5 a 6 giorni il tenente Diaz. La polizia era in faccende; e anche da Montenero erano arrivate delle denunzie a metterla in moto. Gli autori di cotesti rapporti si disse essere stati Carlo di Tullio e Quirino Ricci. Che Ferdinando II di Borbone aveva promesso la costituzione il 27 gennaio 1848, giunse qui notizia ufficiale il 2 febbraio. Ci furono dimostrazioni di gioia da parte dei pochi veri liberali e ce ne furono anche da parte degli arruffoni, che, come sempre in simili casi, sperano salire, cavar profitto, pescare nel torbido. Parecchi di costoro corsero al campanile e si diedero a suonare le campane a festa, s’invitò l’Arciprete, De Bellis D. Antonio, a voler cantare il Te Deum, ed egli non si fece pregare troppo. La Chiesa s’empì subito di curiosi d’ogni età e sesso e, dei galantuomini, quasi tutti i funzionari: Sindaco, Eletti, Decurioni, Cancelliere (oggi Segretario), il Sottocapo Urbano non il capo Urbano. Cantato il Te Deum, l’Arciprete non mancò di improvvisare un breve discorso elogiando il Re. Al grido di “Viva il Re!” si riuscì di Chiesa. D. Carminantonio Sacchetti, che si mostrava dei più entusiasti, non s’asteneva di manifestare il suo maltalento contro certuni. si fece presso il Sottocapo urbano prof. Ambrogio Carabba, e con mal garbo gli disse: “Via quell’insegna del dispotismo”. Gli strappò dal cappello la coccarda rossa, che era la divisa della Guardia, e gettatala nel fango vi diede su con la punta del piede insozzandola, e la lasciò lì. Il Carabba finse o ritenne quell’atto, ingiurioso e peggio, non fatto a sè ma al governo dispotico, che si credeva ormai finito. Ma quell’atto costò ben caro poi a D. Carminantonio, e assai più gli sarebbe costato se il Carabba non avesse cercato di attenuarlo, anche con suo rischio, presso l’istruttore del processo che se ne fece e presso le altre Autorità poliziesche, nel tempo che imperversava la reazione (scorcio del 1849 e dopo). Il Sacchetti e suo cugino Liborio Sergente, nativo di Vasto e ammogliato con la signorina Maria Giuseppa di Pietro, partirono subito per Campobasso, dopo la pubblicazione qui della Costituzione dell’11 febbraio e ne tornarono anche subito dopo procacciatasi la nomina di Capitano della Guardia Nazionale l’uno, e di Luogotenente l’altro. Comparvero la domenica a mattina, insigniti il cappello di coccarda, fatta di fettucce a nastri rossi, bianchi e turchini, svolazzanti. Passando per l’atrio della Chiesa, sorridenti e festosi, compiaciuti di se stessi, facevano mostra del loro grado. Il prof. Gaetano Carabba, incontrandoli all’ingresso della Chiesa, non meno di loro sorridente e festoso li salutò, congratulandosi con essi. Il Sergente, che al primo vederlo aveva mostrato in viso un che di beffardo, restò un po’ sconcertato al complimento del Carabba, da lui tenuto per uno di quelli che avversavano la nuova forma di governo mentre ne era entusiasta di cuore, ed il fratello Ambrogio più di lui. A venti anni e più sentiva e capiva più del Sergente, che appena sapeva leggicchiare, e non meno del Sacchetti che pur aveva un certo nome d’uomo istruito. Abolita la Guardia Urbana e costituitasi la Guardia Nazionale, ci fu in Chiesa una funzione per giuramento: le guardie, con bandiera tricolore in testa, raccoltesi e schierate lì, dopo il canto del Te Deum, tenendo aperto l’indice, l’anulare e il pollice della mano destra e chiuse le altre due dita, a simboleggiare la S.S. Trinità, ad alta voce ripetendo la formula, gridarono all’unisono: “lo giuro”. Nella primavera di quell’anno si vociferò essersi formata una piccola comitiva di ladri di cui faceva parte, e forse era capo, un prete di Guglionesi, Ionata. Costoro catturarono Pasquale Luciani, esigendone pel riscatto più centinaia di ducati. La famiglia di costui andò in cerca di danaro a prestito, ed una parte ne ebbe da D. Nicola Maria Iavicola fabbricante di cera. Rilasciato, il Luciani sporse querela contro Ionata ed altri ignoti perchè, diceva, travestiti, ma si sospettava essere non tutti Guglionesani, e tra essi due o tre monteneresi. Quando il processo fu istituito l’autorità giudiziaria volle fare un esperimento di fatto. Fece in una stanza rinchiudere buon numero di preti, fra cui Ionata; e poi vi fece entrare il Luciani per vedere se costui riconoscesse fra gli altri il prete che lo aveva catturato. Egli riconobbe ed additò Ionata. E cotesto prete fu condannato a molti anni di carcere e non fu messo in libertà che nel 1860 per l’indulto che fu dato da Garibaldi. E’ noto che egli aveva dato incarico ad una commissione affinchè fosse compilata una lista dei detenuti politici e di altri che meritassero di essere indultati; e vi fu compreso, per raccomandazioni, il prete Ionata considerato reo politico. Nell’eccidio del 15 maggio avvenuto in Napoli all’apertura della Camera legislativa, durante il sanguinoso conflitto tra i cittadini e le truppe regie specialmente dei reggimenti svizzeri di cui il Borbone teneva assoldati ben 12.000, si trovò D. Raffaele Iavicola, che era andato a farsi visitare da quei medici per una malattia che gli si era manifestata. Anch’egli, come asseriva, aveva combattuto sulle barricate, e ne raccontava tante particolarità. Dopo questa fatele giornata, le cose sarebbero andate di male in peggio, e la nuova forma di governo non avrebbe avuto durata. Il che poi si avverò sia per i disastri dell’esercito Piemontese guidato da Carlo Alberto e dei volontari di tutte le altre province italiane, sia pel richiamo delle truppe borboniche e pontificie che erano partite per l’alta Italia a congiungersi con l’esercito di Carlo Alberto. A Montenero non si faceva più con regolarità il servizio giornaliero delle Guardie Nazionali. Il Capo e Sottocapo, Liborio Sergente e Carminantonio Sacchetti, lasciavano fare quel che le guardie volevano, così che fu chiuso il corpo di guardia. Ma questo lasciar andare tornò di danno allo stesso Capo. Costui si era bisticciato col Canonico D. Vincenzo Palombo di Luigi, e il giorno 13 novembre, dopo che il Sergente insieme a Nicolangelo Sozio aveva fatto bisboccia in casa di un vinaio, mangiando maccheroni conditi d’olio e d’aglio e bevendo non poco, s’imbatterono essi col Canonico Palombo. Tornarono a bisticciarsi; il Sozio dette uno schiaffo al canonico. Andò costui a casa, si armò di stile, ne fece parola al padre e allo zio Antonio, e corse in cerca del Sergente e del Sozio. Trovatili nel largo presso la chiesa, in vicinanza della casa di Antonio Valerio – ora del dott. Giocondo – e della farmacia di Aurelio Sacchetti, si avventò contro il Sozio che si difese con una chiave ben grossa, quella della Segreteria Comunale, ed essendo accorso il Sergente, ebbe costui un colpo di stile al ventre e ne morì il giorno appresso, la mattina verso le otto. Col Canonico erano accorsi anche il padre e lo zio per difenderlo; e tutti e tre furono processati poi, il primo come reo principale e gli altri due come complici. Il Canonico fu condannato a 20 anni di reclusione. Vi stette finchè per l’indulto di Garibaldi fu messo in libertà nel 1860. Lo zio e il padre furono assolti. Intanto Luigi, per gli strapazzi sofferti e dispiaceri, poco meno di un anno sopravvisse a tanta sciagura e morì il 2 novembre del 1849. In quel torno la figlia di lui, D. Ersilia, maritata a Gissi in Florio Masciarelli, tra pel dolore di queste disgrazie di famiglia e per esserle morto un bambino, venne in tale disperazione che si precipitò da un balcone della casa nel sottoposto precipizio e vi restò morta, in Gissi. La costituzione data da Ferdinando II nel 1848 era di 92 articoli. Erano due le Camere, una dei Deputati rappresentanti del popolo da cui venivano eletti, e l’altra dei così detti Pari eletti dal Re a vita. Sciolta la Camera elettiva dopo il 15 maggio, fu riconvocata nel 1849. Ma dopo la battaglia di Novara, avendo l’Austria rioccupata la Lombardia e poi la Venezia, Ferdinando sciolse di nuovo la Camera, nè la riconvocò più. Intanto era con parte dell’esercito andato verso Roma in aiuto dei partigiani del Papa contro Garibaldi, il quale respinse i borbonici e inseguì il Re sino a Fondi, e fece tale resistenza al Generale Carrabba che era col Re, da quelle parti, che lo steso Generale fu costretto a ritirarsi. Roma poi fu assediata dai francesi e da un corpo di spagnuoli, e presa. Nelle province napolitane si era sossopra, e la polizia borbonica si dava a perseguitare tutti i liberali e li incarcerava e sottoponevano a processi. A Montenero ci fu un tale Carlo di Tullio, il quale girava attorno con un foglio in cui si supplicava il Re di abolire la costituzione, e costringeva tutti i notabili a sottoscriverlo. Nicolamaria Iavicola, con parecchi altri, non solo non volle firmare, ma essendo supplente (Vice Pretore) sequestrò quel foglio. Ne seguì che tanto lui quanto gli altri che non lo firmarono furono puniti, quale col carcere come D. Peppino Sacchetti e quali coll’esilio in diversi luoghi: D. Carminantonio Sacchetti nel Convento di S. Elmo a Guglionesi, D. Raffaele Iavicoli a Isernia; D. Ambrogio Carabba fu arrestato e condotto a Campobasso dove l’Intendente (ora Prefetto) che vi era, Domenico Lopane, lo sottopose alla sorveglianza e lo fece rimanere parecchi giorni a sua disposizione. Finalmente lo rimandò a casa sotto mandato; onde non poteva assentarsi dal paese che con un foglio di via con ordine di presentarsi al Sindaco o Giudice (ora Pretore) o ad altre Autorità di polizia, che dovevano firmare quel foglio e all’andata e al ritorno, e sorvegliare lui, come si fa ora di un ammonito. Si formò poi un libro presso la polizia del Capoluogo della provincia nel quale erano annotati col nome attendibili tutti i sorvegliati. Essi rimasero per tal modo esclusi da tutte le cariche pubbliche; e tale stato di cose durò parecchi anni. Si ebbero più volte delle perquisizioni domiciliari e prima l’ebbero D. Carminantonio Sacchetti ed il fratello Luigi, e furono processati per armi che si trovarono nelle loro case. Ne ebbe una D. Ambrogio Carabba, accusato di tenere scritti e libri proibiti e sovversivi, ed uno schioppo. Furono sequestrati un libro di poesie del poeta Giuseppe Regaldi, libro che aveva nella prima pagina effigiate due bandiere tricolori, e un libretto manoscritto, diversi componimenti che in quel tempo aveva fatto. Il giudice che venne a fare quella perquisizione era un certo Lombardi, e il cancelliere, Trotta. D. Ambrogio ch’era assente si trovò in quel punto a ritornare e fu arrestato. Egli era professore nelle scuole secondarie esistenti allora in questo Comune, dal 1838, e fu destituito. Don Carminantonio Sacchetti fu anche denunziato per atti di disprezzo contro il re Borbone. Anche il nipote Federico Sacchetti di Luigi fu denunziato e processato per aver nominato con parole sconce il Re nello scacciare da un terreno di sua proprietà un branco di pecore del gregge di Casa Reale che dagli Abruzzi tornavano in Puglia.

fonte

http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Storia/Altre/Montenero.htm#fatti

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