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FERDINANDO II DI BORBONE DI NAPOLI

Posted by on Set 21, 2024

FERDINANDO II DI BORBONE DI NAPOLI

Fu il sovrano più amato e più detestato d’Italia, l’uomo che con ostinata determinazione difese contro tutto e contro tutti, per ventinove anni, la corona che aveva cinto l’8 novembre 1830 allorché, appena ventenne, era succeduto al padre, Francesco I. Era un bel giovane, alto, di corporatura atletica, con occhi chiari e capelli castani; di affabili e cortesi maniere, umore gaio, mente sveglia, piglio militaresco. Nato nel ’10 a Palermo, qui aveva trascorso la fanciullezza. Parlava correttamente, oltre all’italiano, anche il francese, il tedesco, l’inglese e lo spagnolo, ma quando poteva consentirselo preferiva esprimersi nel più stretto vernacolo napoletano, efficace e plastico, adatto comunque al suo buon senso e al suo colorito umorismo.


Ebbe attitudine al comando e ferma volontà d’imperio, il che lo agevolò notevolmente quando procedette alla riforma dell’esercito, che era caduto nel più completo abbandono. Alla sua ricostituzione dedicò molte energie, tanto che nel 1848, quando la Sicilia ribelle si staccò dal Regno, egli disponeva di milizie ben disciplinate, bene armate, devotissime, che seppero riconquistare l’isola, sottraendola così ai maneggi e alle mire del governo britannico. In quella dolorosa circostanza venne bombardata Messina, e da quel momento al sovrano fu affibbiato l’appellativo di “Re Bomba”, insieme all’altro, “Spergiuro”, per avere, primo in Italia, giurato la Costituzione, per poi metterla nel dimenticatoio. Aveva inaugurato il suo regno suscitando ammirazione corale. Desideroso di esser moderno, ricco di entusiasmo giovanile, si era dedicato a una congerie di opere meritorie, dal risanamento delle finanze alla riduzione delle imposte, dalla riforma delle forze armate alle bonifiche, alla costruzione di ponti, strade, porti, scuole, ospizi, linee ferroviarie. Aveva incrementato la marina mercantile, divenuta per tonnellaggio la terza d’Europa. Aveva introdotto nella capitale l’illuminazione a gas. Aveva creato l’ufficio telegrafico. Aveva messo su fonderie, arsenali e il celebre, vasto opificio di Pietrarsa, il più grande e importante dell’industria italiana dell’epoca.

Parallelamente, ebbe sul piano politico gesti che gli accrebbero fiducia e simpatia.
Clemente verso i colpevoli di reati politici, il giovane monarca fece accogliere nei pubblici impieghi uomini che si erano compromessi durante i moti del 1820-’21. Restituì onori e cariche ad esponenti del decennio francese, graziò ufficiali che avevano congiurato per assassinarlo. La sua fama di promotore della modernizzazione politica ed economica fu tale, che nel 1833 i liberali, dopo un congresso a Bologna, gli offrirono la corona d’Italia. Ma egli rifiutò, perché rispettava i diritti delle altre Dinastie, compreso il potere temporale della Chiesa, e perché preferiva fermare lo sguardo entro i confini del Regno, il suo Regno.
I primi dieci-dodici anni della sua epoca furono abbastanza felici e registrarono un relativo benessere. Riordinata l’amministrazione dello Stato con criteri che ancora oggi la critica storica riconosce ammirevoli, ridotti balzelli e tasse, promossi commerci, industrie e agricoltura, il Regno prosperava e la popolazione aumentava. I risparmi erano altissimi, e solidissima era la rendita: nel Paese la circolazione di oro, argento e altre monete metalliche era doppia rispetto a quella di tutti gli altri Stati italiani messi insieme.
Fra tanta luce, ovviamente, non mancavano le ombre. Un governo paternalistico, che col succedersi di moti e di congiure finì, forse inevitabilmente, col diventare sospettoso di tutto e di tutti; una polizia che, soprattutto dal 1848 in poi, fu addirittura opprimente; una censura che per l’eccessivo zelo riusciva a coprirsi anche di ridicolo; un bigottismo che imponeva alle ballerine del teatro San Carlo di indossare brache sotto le gonne, e di colore verde, perché ogni altro colore avrebbe turbato i sensi degli spettatori…
In realtà, la tinta delle brache era stata all’inizio nera, perché così aveva deciso Maria Cristina, bella e santa principessa di Savoia, prima moglie di Ferdinando, che si tenne lontana dagli affari di Stato (e il Re, comunque, non avrebbe consentito che se ne occupasse neanche di striscio), ma che fu sempre vigile sulle questioni della morale pubblica. La figlia di Vittorio Emanuele I aveva sposato il Re delle Due Sicilie nel novembre 1832, nel Santuario di Voltri, a conclusione di trattative durate oltre un anno, e che furono portate a compimento per volere di Carlo Alberto. Questo matrimonio unì due temperamenti diversissimi tra loro anche per gusti e per educazione. Tanto lei era glaciale, riservata, schiva, severa e ascetica, quanto lui esuberante, cordiale, gaio, pronto all’arguzia e al motteggio, fino a diventare mordace e beffardo. Delicata creatura destinata alla gloria degli altari, educata alla rigida etichetta sabauda, Maria Cristina non si trovò bene dalle parti di Napoli, dove l’atmosfera era piuttosto allegra, remota comunque dagli algori torinesi. Ma non si può sostenere – come fecero taluni, compreso lo stesso Cavour – che costei soffrì tanti e tali patimenti da esser portata alla tomba. E’ quanto rivelano, del resto, le frasi di alcune sue lettere: “Ferdinando è un angelo, che più lo si conosce e più gli si affeziona”; “E’ un giovane veramente raro ai suoi tempi”; “Non posso essere più felice col caro Ferdinando [ … ], vi assicuro che non credevo mai che si potesse essere così felici in questo Stato”. E ancora più felice fu quando, il 16 gennaio 1836, diede alla luce l’erede al trono: Francesco. Anche se non sopravvisse a lungo a questa nascita: spirò quindici giorni dopo, lasciando il consorte in un tale stato di prostrazione che l’ambasciatore del Regno di Sardegna, in un messaggio inviato a Torino, così scriveva nell’aprile dello stesso anno: “Il fatale avvenimento del 31 gennaio ha recato al Re una scossa fisica e morale, della quale è tuttora lungi dal riaversi, ed ha quel principe immerso in una inazione perfetta, e perciò in una nocivissima stagnazione degli affari tutti”.
A un anno dalla morte della savoiarda, il giovane sovrano passò a nuove nozze con l’arciduchessa d’Austria Maria Teresa.
L’arciduchessa non era né bella né elegante, e tuttavia seppe ispirare a Ferdinando un sereno amore. Gli dette undici figli. Nei rapporti con lei, sobria, lontana dal lusso, incline alla vita domestica e familiare, non aveva problemi di etichetta, poteva parlare e agire con libertà, e giocare e ridere secondo la sua indole, senza timore di ferire una sensibilità diversa dalla sua e di essere magari – come invece accadeva con Maria Cristina – rimproverato. Fu dunque un amore teneramente corrisposto. E lo confermò un episodio, che ci attesta quanto profondo e fecondo fu il sentimento che legò l’austriaca al suo sposo. Quando, nel dicembre 1856, durante una parata militare, il soldato calabrese Agesilao Milano vibrò un colpo di baionetta al Re, ferendolo leggermente al petto, Maria Teresa, nel timore condiviso da altri che la punta dell’arma fosse stata avvelenata, si chinò sul consorte e volle succhiare il sangue della ferita, mettendo in pericolo la sua stessa vita. L’attentatore fu regolarmente impiccato cinque giorni dopo.
Marito fedele, padre affettuoso, Ferdinando fu spirito superstizioso oltre ogni limite: recitava giaculatorie o faceva gesti di scongiuro complicatissimi se incontrava una donna con la gobba, un uomo calvo o un monaco. Definiva il venerdì “giorno funesto” e riteneva menagramo il numero 13. Alla iettatura attribuì, durante la fatale malattia (il tifo petecchiale) che doveva troncargli la vita, la “colpa” della sua infermità.
I rapporti con i suoi più stretti collaboratori furono improntati ad un’attenzione vigile e a un lavoro laborioso, tipici del padrone che vuole al suo servizio dei perfetti esecutori di ordini. Anche nei periodi che trascorreva a Gaeta si occupava degli affari di Stato, compresi quelli meno rilevanti, e, dotato di una memoria formidabile, spesso metteva in imbarazzo i suoi ministri e i suoi segretari. Gli affari di politica estera erano un suo riservato dominio, e furono sempre ispirati al principio di ricercare e di intrattenere, nella massima dignità, buone relazioni con tutti i paesi, a patto che nessun governo straniero osasse ingerirsi nelle faccende interne del Regno.
Sapeva bene di essere inviso a molti. E sapeva perfettamente che Londra, Parigi e soprattutto Torino brigavano contro di lui e tramavano contro il Reame. Sapeva pure che l’opposizione al suo regime di quelli che chiamava “pennaruli”, gli uomini di cultura, era una minaccia pericolosa e pertinace, anche se i Settembrini, i Poerio, gli Spaventa, i De Sanctis languivano nelle prigioni o conducevano la vita errabonda degli esuli. Ma gli dava estrema fiducia la posizione geografica del Regno, bagnato su tre lati dai mari mediterranei, e col quarto lato confinante con gli Stati Pontifici. Era solito dire: “Siamo sicuri: confiniamo con l’acqua santa e l’acqua salata”. Che tuttavia non furono in grado, in seguito, di salvare il Regno.
Così parlò, quasi in delirio, il 20 maggio 1859, mentre, tormentato dalla malattia repellente e inguaribile, ricevette l’estrema unzione e la benedizione del Papa e nel suo letto di dolore, in una camera al primo piano della reggia di Caserta aspettava la morte liberatrice: “Lascio questa bella, cara ed amata famiglia [ … ]. Il Signore, in questo momento, mi concede la grazia di essere tranquillo e di non soffrire alcun dispiacere di staccarmi dalle persone e dalle cose più amate; lascio il Regno, le grandezze, onori, ricchezze, e non ne risento dispiacere alcuno [ … ]. Ho cercato di compiere, per quanto ho potuto, i doveri di cristiano e di sovrano. Mi è stata offerta la corona d’Italia, ma non ho voluto accettarla; se io l’avessi accettata, ora soffrirei il rimorso di aver leso i diritti dei sovrani e specialmente poi i diritti del Sommo Pontefice. Signore, Vi ringrazio di avermi illuminato. Lascio il Regno e il Trono come li ho ereditati dai miei antenati [ … ]”.
Di lì a pochissimo, i Savoia, imparentati con la Dinastia borbonica tramite Maria Cristina e suo figlio, Re Francesco II, non avrebbero sofferto alcun “rimorso” nell’abbattere e annettere l’infelice Regno del Sud.
Quelli erano i tempi, quelle le monarchie, quelli i granducati, i principati, le minori signorie dell’Italia dell’epoca. E fuori dalla favolistica post-risorgimentale, ma anche dalla propaganda sabauda e cavouriana, il Reame non era in condizioni civili e sociali peggiori di quelle esistenti nel resto della penisola. Se nel Lombardo-Veneto spiccava la buona amministrazione, le classi umili erano vessate tanto quanto nel Piemonte indebitato all’inverosimile con il capitalismo francese e chiuso nell’austerità militaresca, che faceva del Regno di Sardegna una sorta di Tebaide militaresca, con scuole militari e caserme come reticoli di conventi senza Dio. Mentre negli Stati della Chiesa povertà, brigantaggio endemico ed esazione sfibrante si viveva, ben più che nelle province del Reame, di agricoltura estensiva e di “limosine”. Certamente, carbonari e settari in genere contribuirono a tener vivo l’ideale dell’Italia unita, e per questo pagarono, anche con la vita, nelle Due Sicilie e altrove. E tra costoro gli “intellettuali” ebbero un ruolo fondamentale. Ma non per questo i Borbone disdegnarono arti e scienze.
Già nel 1735, secondo anno del suo regno, Carlo III aveva onorato il Vico, nominandolo “regio istoriografo”. Né fu, questo, un piccolo merito di quel sovrano, dal momento che la fama del Vico non era allora pari al valore dell’uomo. Solo più tardi lo riscoprirono altri scienziati e storiografi napoletani, dal Cuoco al Colletta, i quali scrissero mentre altrove balbettava il Cantù, e furono, peraltro, sempre avversi al regime borbonico, che ebbe invece fedele Carlo Troya, autore della Storia d’Italia nel Medioevo.
I Borbone favorirono ricerche nei campi dell’astronomia, della geologia, della meccanica, della marineria. La prima nave a vapore italiana fu la “Ferdinando I”, e così la prima compagnia di navigazione e il primo telegrafo sottomarino, inaugurato nel 1856 tra Reggio e Messina.
Esempi notevoli, e solo in parte esplorati ancora oggi, lasciarono nelle arti figurative e nell’architettura, nella quale si affermò subito un barocco orientato verso un sobrio neoclassicismo. Sempre Carlo III fondò, nel 1755, l’Accademia Ercolanese, destinata allo studio delle antichità e dei papiri venuti alla luce durante gli scavi archeologici, e alla messa in luce delle città sepolte dalla furia devastatrice del Vesuvio.
Nella pittura dominava il Solimena, la cui influenza di soave e decorativo colorista durò per vari decenni tra i suoi discepoli e seguaci, dal Conca al Mura e al Fischietti. In Sicilia, Vito d’Anna e Giuseppe Crestadoro attendevano a una pittura di natura essenzialmente decorativa. A tutti costoro doveva succedere, in pieno secolo XIX, per l’impulso dato nel 1815 da Ferdinando, che aveva chiamato alla cattedra di paesaggio della riordinata Accademia napoletana l’olandese Pitloo, la cosiddetta “Scuola di Posillipo”, di cui fu geniale campione il Gigante. E all’arte si accostarono le porcellane di Capodimonte, introdotte a Napoli dalla regina Maria Amalia. Costei, nativa della Sassonia celebre per le sue ceramiche, ottenne le segrete ricette di cottura del caolino, allora gelosamente custodite.
E vanno ricordati i musicisti, tra i quali il catanese Bellini, che a Napoli rappresentò in prima assoluta due sue opere. E, ricordando l’impulso dato al melodramma dai teatri, dal San Carlo al Real Collegio di Musica di San Sebastiano e al Conservatorio di Sant’Onofrio (il San Sebastiano diventato in seguito Collegio di San Pietro a Maiella), possiamo scrivere un altro gran nome: quello di Giovanni Paisiello, che il Collegio diresse, e che compose l’Inno ufficiale del Regno Borbonico. Senza dimenticare i fratelli Luigi e Federico Ricci, autori dell’indimenticabile “Crispino e la Comare”.
Il 3 ottobre 1839 fu inaugurato, sul percorso Napoli-Portici (Granatello), il primo “cammino ferroviario” italiano. Una locomotiva di fabbricazione inglese, battezzata “Vesuvio”, partì a mezzogiorno dalla stazione di Porta Nolana. Il convoglio era composto di nove vetture. Autore del progetto ferroviario, e concessionario della ferrovia per 80 anni, il francese Armand Aayard de la Vingtrie. “Questo cammino ferrato”, disse Ferdinando, “gioverà senza dubbio al commercio e io ho protetto in ogni modo questo primo saggio fatto di qua delle Alpi. Considerando come tale nuova strada debba riuscire di utilità al mio popolo, assai più godo nel pensiero che, terminati i lavori fino a Nocera e Castellammare, io possa vederli tosto proseguiti fino al lido del mare Adriatico”. Lungo questo primo percorso (otto chilometri), c’erano 67 varchi: ponti, acquedotti, incroci con vie pubbliche. Al viaggio inaugurale, al quale prese parte il Re, partecipò anche la signora Cottrau, che era in stato interessante. E la sua emozione fu tale, che, tornata a casa, fu presa dalle doglie e partorì un bambino, che sarebbe stato il futuro, valoroso ingegnere ferroviario Alfredo Cottrau.
Alle 16 la via ferrata fu aperta al pubblico. Si pagavano cinque grani per la prima classe, tre per la terza. In ottobre i viaggiatori furono 57.759; nei primi dodici giorni di novembre, 28.000; e 600 mila nel 1842 sul tratto Napoli-Torre del Greco. In seguito, le tariffe furono ridotte, e un ulteriore ribasso fu accordato per la terza classe “alle persone di giacca e coppola, alle donne senza cappello, ai domestici in livrea e ai soldati e bassi uffiziali del Reale Esercito”. Per il trasporto di un bue, di un toro, di una vacca, si pagavano cinque grani; per un cavallo, un asino o un mulo, tre grani e mezzo; e un grano e mezzo per un maiale, una pecora o un vitellino. Nell’estate del ’42 la linea fu prolungata fino a Castellammare; e, due anni dopo, era completata la deviazione fino a Nocera.
Solo Milano intuì l’importanza dei trasporti ferroviari, e realizzò la sua prima linea ferrata, di 13 chilometri. Ma un anno dopo l’entrata in funzione della Napoli-Portici.


Da Rovito a Sapri

Attilio ed Emilio, della famiglia veneziana dei baroni Bandiera, ufficiali della Marina austriaca, erano figli del comandante della squadra navale nel Mediterraneo, uomo ligio al dovere, fedele suddito dell’Imperatore austro-ungarico. Era stato Attilio ad incontrare a New York, dov’era esule, Piero Maroncelli, il compagno del Pellico nello Spielberg. E da lui, uomo dei moti del ’21, aveva preso il testimone, consegnato così alla seconda generazione del Risorgimento. All’epoca Emilio, di nove anni minore del fratello, era studente nel Collegio di Marina, ambiente sensibile alle nuove correnti di pensiero, con docenti italiani. Intorno al 1840, i due fratelli e i compagni più fidati fondarono la società segreta “Esperia”, d’ispirazione mazziniana. Che tuttavia, a differenza del Mazzini, che si rivolgeva soprattutto al popolo, cercava adepti nei ranghi dell’esercito e della borghesia, dal momento che la plebe “quasi sempre è per natura imprudente e per bisogno corrotta”, come recitava un comma dello statuto.
Capo effettivo degli Esperidi era Attilio, ma l’autorità suprema – col titolo di Dittatore – fu data al Mazzini, col quale i congiurati erano in corrispondenza. Il progetto dei Bandiera e del loro luogotenente, Domenica Moro, nobile e povero ufficiale di marina, prevedeva l’ammutinamento a bordo della fregata austriaca “Bellona”, ammiraglia della Squadra del Levante, e di altre unità minori. La piccola flotta, battendo bandiera italiana, si sarebbe dovuta trasferire di fronte alle coste meridionali italiane, per suscitare la rivolta e appoggiarla con le artiglierie. Mazzini da Londra, e i comitati mazziniani da Parigi e da Malta, consigliavano la prudenza.
Venne il ’44. Attilio si trovava con la “Bellona” a Smirne, quando ricevette l’ordine di rientrare: la trama era stata scoperta, e contro di lui era stata aperta un’inchiesta. Venne fuori anche il nome della spia: un tal Micciarelli, giunto dall’Inghilterra con una lettera di presentazione del Mazzini. Al Bandiera non rimase che la via della fuga: si rifugiò sotto falso nome a Sira, un’isoletta greca delle Cicladi. Intanto a Venezia Emilio scoprì per caso l’ordine del proprio arresto, e fu costretto anch’esso a fuggire: si recò a Trieste, e da qui raggiunse, travestito e con passaporto falso, l’isola di Corfù.
Man mano che l’inchiesta si allargava gli austriaci, costernati, scoprivano che una buona metà dell’Imperial Regia Marina Veneta era compromessa con l’ “Esperia”. Prima preoccupazione, coprire lo scandalo e risolvere la questione. L’arciduca Ranieri, Viceré del Lombardo-Veneto, fece sapere alla baronessa Anna, madre dei Bandiera, che Attilio ed Emilio sarebbero stati perdonati e reintegrati nel loro grado se fossero tornati in patria. La donna, sconvolta dalla tragedia familiare e dalle ire del marito, che disconobbe i figli, si recò a Corfù. Ma ogni suo sforzo riuscì vano. I Bandiera, il Moro e un gruppo di compagni prese il largo la notte del 12 giugno, a bordo del trabiccolo “San Spiridione”, comandato da un mazziniano di Napoli, Mauro Caputi. Erano in ventuno: patrioti di fede provata, come Anacarsi Nardi e Nicola Ricciotti, ma anche individui loschi, come Giuseppe Meluso detto “Nivara”, qualificatosi come guida, ma in realtà ex brigante, che aveva terrorizzato la Calabria; o come il corso Pietro Boccheciampe, che appena sbarcato corse a cavallo a Crotone, ad avvertire la polizia borbonica.
Non furono i gendarmi ad arrestare i Bandiera e gli altri. Li fermarono i contadini, che diedero loro addosso con fucili, forche e sassi. Due del gruppo, Tesei e Miller, caddero uccisi. Gli altri furono portati a Cosenza, a dorso di mulo. Al processo furono difesi da tre avvocati d’ufficio, uomini probi che fecero il possibile per salvarli dalle nove condanne a morte pronunciate. Lo stesso Attilio Bandiera suggerì l’estrema linea di difesa, sostenendo che si erano proposti solo di forzare la mano al Re perché concedesse la Costituzione e perché si mettesse, lui nato italiano, alla testa di un movimento di liberazione nazionale. In tal senso inviò al sovrano tre lettere. L’appello toccò sicuramente Ferdinando II, che era incline alla grazia. Fu il capo della polizia, il marchese di Pietracatella, ad insistere per la fucilazione. E il Re alla fine si lasciò convincere. Alle 7 del 25 luglio, vestiti di rozze tuniche nere, il capo avvolto di veli neri, come imponeva il “terzo grado di pubblico esempio”, i Bandiera e i loro compagni vennero condotti sul greto di un torrente, nel Vallone di Rovito. Caddero cantando “Chi perla patria muor, vissuto è assai”.
Vennero, nel ’48, i giorni delle barricate. Settembrini aveva indirizzato al popolo napoletano la “Protesta” contro il malgoverno borbonico. E aveva riferito al Metternich, da Napoli, l’ambasciatore austriaco Principe di Schwarzenberg: “Nel Regno si vuol cambiare l’indirizzo e forse anche la forma del Governo, del quale ci si lamenta e del quale, occorre convenirne si ha il diritto di lamentarsi.
L’amministrazione del paese è veramente deplorevole. I ricordi del 1820 non sono ancora interamente estinti.. I ministeri sono la vera sede della corruzione e dell’arbitrio. La massa del popolo è nella miseria… Il Re non è impopolare; si rende anche abbastanza universalmente giustizia alle sue buone intenzioni; ma siccome si vede che nei 15 anni di governo non è riuscito a migliorare lo stato delle cose, il paese si rafforza nell’ideale che è necessario un cambiamento del sistema”.
Furono repressi nel sangue movimenti scoppiati a Messina e a Reggio. La Sicilia rischiava di andare perduta. La certezza che, in caso di estrema necessità, l’Austria sarebbe venuta in soccorso, venne meno di colpo: da Vienna giunsero elogi e incitamenti, ma nessuna promessa in quel senso. Irritato, il Re rifiutò persino di aderire alla lega doganale stipulata tra Roma, il Piemonte e la Toscana, che aveva un preciso significato politico, costituendo la base di una vera e propria unitarietà italiana d’intenti antiaustriaci. All’isolamento seguì una nuova crisi. Rivolta in Sicilia e persino alle porte della capitale, nel Cilento. A quel punto, Ferdinando invertì la rotta: “Puisqu’il faut danser, dansons. Io sarò il re più costituzionale di tutti”, disse. La mattina del 29 gennaio ’48 i napoletani trovarono affisso il proclama che annunciava la concessione della Costituzione, un atto che avrebbe esercitato una grande influenza sullo sviluppo della vita politica italiana.
Non c’era uno Stato, in Italia, che potesse vantare in materia un’esperienza pari a quella napoletana, che aveva sempre studiato con interesse i problemi politico-giuridici, e che, tra Costituzioni progettate, concesse o anche attuate, aveva avuto in continente quella di Mario Pagano del 1799, quella di Bayonne del 1808, quella muratiana del 1815, in Sicilia quella del 1812, e per tutto il Reame quella spagnola dello stesso anno. Ora si provvide a dare una “Costituzione moderata; in grado di controllare e contenere il radicalismo e l’autonomismo provinciale; e ne fu prescelta una modellata su quella francese del 1830, della quale si accentuò in parte il carattere, appunto, moderato, e accentratore.
Quel che accadde è narrato dal legittimista Carlo Troya, storico, allora Presidente del Consiglio dei Ministri, e testimone della repressione sanguinosa da parte degli svizzeri del movimento insurrezionale. Scrisse Troya: “Il mio ministero fu il disgraziato risultato di parecchie coincidenze. Nel marzo ’48 il generale Pepe, che allora era reputato l’uomo più popolare a Napoli, in nome del popolo chiese per la Camera dei Deputati il potere assoluto per la revisione della Costituzione, l’abolizione della Camera dei Pari, il suffragio universale e la cessione di Sant’Elmo e delle altre fortezze alle guardie nazionali. Il Ministero Bozzelli, che aveva redatto la Costituzione, non volle difendere la sua opera e si dimise. Il Re aveva sentito che io avevo detto in conversazione che la Costituzione non doveva venire mutata prima di essere messa in prova. Egli sapeva che io ero intimo amico di Balbo, allora primo ministro in Piemonte, sapeva che eravamo tutt’e due storici, e credo che furono queste cose a suggerirgli l’idea di chiamarmi a formare il governo… Vidi che il posto era pericoloso, e pensai che fosse mio dovere non tirarmi indietro. Resistemmo alla corrente popolare. Invece di abolire la Camera dei Pari ne nominammo una… Ci rifiutammo di proclamare il suffragio universale. Di fatto, fummo un Ministero di resistenza … “.
“La mattina del 15 maggio, dopo tre ore di discussione, ero riuscito a convincere il Re a firmare un proclama, che [ … ] ammetteva che la Costituzione potesse essere modificata. Una copia fu mandata allo stampatore… Vennero da me il principe Ischitella e il generale Carrascosa a proporre che si ordinasse alle truppe di buttar giù le barricate. Io dissi che si doveva aspettare l’effetto del proclama; quando questo fosse stato pubblicato, le barricate sarebbero state abbattute da quegli stessi che le avevano innalzate. Passò mezz’ora e il proclama non veniva dagli stampatori. Io cominciai a sentirmi a disagio e chiesi al resto dei Ministri che andassero con l’originale alle barricate e lo leggessero al popolo… Pare che i Ministri, uscendo dal Palazzo, incontrassero una Deputazione della Camera dei Deputati che chiese insistentemente un’udienza. Essi tornarono indietro a questo scopo, e si fermarono tre quarti d’ora a discutere [ … ] finché non cominciò il fuoco. Probabilmente si trattò dell’atto di un mascalzone semiubriaco, ma se gli stampatori fossero stati un po’ più pronti, o se i Ministri fossero andati direttamente alle barricate e là avessero reso pubblico il proclama [ … ] quello sciagurato colpo non sarebbe partito e Napoli potrebbe essere ora un Regno costituzionale”.
L’esperienza costituzionale delle Due Sicilie era finita per sempre. La Dinastia si avviava rapidamente sulla via del tramonto.
Niente sembrava indicare in Carlo Pisacane un rivoluzionario. Figlio di Gennaro, duca di San Giovanni, presto orfano, entrato nell’Accademia militare della Nunziatella, eccellente nello studio, nella scherma e nell’equitazione, paggio di Corte, non tagliò i ponti con la società per ragioni politiche, ma sentimentali. Aveva ritrovato una donna conosciuta nell’adolescenza, Enrichetta Di Lorenzo, ora moglie di un Lazzari, e madre di tre figli. Moglie infelice. Il reciproco amore fu una rivelazione che li portò a fuggire: Livorno, Londra, Parigi, sempre braccati dalla polizia.
Decisiva la tappa parigina. Nella capitale francese i circoli erano dominati da correnti radicali che facevano capo agli apostoli del socialismo: Proudhon, Fourier, Blanc. Di costoro studiò avidamente il pensiero. Era anche vicino a Mazzini, ma del pensiero mazziniano respingeva l’ispirazione religiosa, essendo orientato in senso decisamente materialista. Era convinto che le masse popolari, incapaci di cogliere la portata di un programma di rivoluzione nazionale, avrebbero invece seguito con entusiasmo le bandiere di una rivoluzione sociale che assicurasse finalmente giustizia per tutti. Soluzione ultima, l’abolizione della proprietà privata, “fonte prima d’ogni nequizia umana”.
In nome di questi principi partecipò, col grado di capitano, alla prima guerra d’Indipendenza nel reggimento dei Volontari della Morte, poi alla difesa della Repubblica Romana. Dopo di che, fu di nuovo esilio: a Marsiglia, a Lugano, a Losanna. Enrichetta, sfinita dalle peregrinazioni, si stabilì a Genova. E qui Carlo la raggiunse, negli ultimi sette anni della sua vita. In questo periodo maturò il progetto che lo doveva travolgere. Scelto come settore d’attacco il Napoletano, decise di imbarcarsi a Genova, con una trentina di compagni, fingendosi lavoratore diretto in Africa, a Tunisi, per lavoro. Ad un certo punto il postale che collegava il capoluogo ligure alla città africana sarebbe stato incrociato da una goletta carica di armi, comandata da Rosolino Pilo. A quel punto i patrioti si sarebbero impadroniti del postale e avrebbero fatto rotta per Sapri, dopo una tappa nelle isole penali, dove avrebbero liberato gli ergastolani politici per ingrossare le loro file. A capo della spedizione Pisacane e gli altri avrebbero voluto Garibaldi, che declinò l’invito, sostenendo che non vedeva “probabilità di riuscita”, e che un’azione del genere avrebbe solo fatto “ridere la canaglia”. Allora l’incarico di capitanare l’impresa passò a Carlo, che ebbe al suo fianco il calabrese Giovanni Nicotera. Si fissò la data del 10 giugno ’57. Ma tutto andò all’aria: una tempesta aveva sorpreso Pilo e i suoi, che furono costretti a tornare a ;erra, dopo aver gettato in mare il loro prezioso carico d’armi.
Nuova data fissata, il 25 giugno, data di partenza del “Cagliari”, il vapore postale per Tunisi. Mazzini, disgraziatamente, acconsentì.
Neanche questa volta Rosolino Pilo riuscì a consegnare le armi, ma l’ammutinamento dei compagni di Pisacane diede buoni frutti: a bordo c’era un buon numero di schioppi. Raggiunta Ponza, Carlo liberò i galeotti: una minoranza di politici e una maggioranza di delinquenti comuni. Pisacane li imbarcò, ma il parroco dell’isola aveva già dato l’allarme.
Il 29 e il 30 i congiurati marciarono come in un deserto: la gente dei villaggi accoglieva i trecento con muta diffidenza, ritenendoli briganti evasi pronti al saccheggio. Intanto tre colonne, provenienti da Sapri, da Lagonegro e da Salerno, li circondarono, e i contadini, sobillati dai borbonici, si univano ai militari. Ci furono scontri sanguinosi. Pisacane riuscì a sfuggire, con una sessantina di compagni, alla strage. Passò la notte all’addiaccio. All’alba del 2 luglio fu segnalata la loro presenza intorno al villaggio di Sanza. Le campane suonarono a stormo, segnalando il pericolo, e i paesani si precipitarono brandendo vanghe, forche, roncole, spiedi: era il proletariato che Pisacane aveva sognato di redimere. Egli diede allora l’ultimo ordine: non opporre resistenza. E, mentre i suoi cadevano, si dice che sollevò la pistola e premette il grilletto, sparandosi a bruciapelo.

Ada Provenzano, Tonino Caputo, Bruno Alfano
Coll.: G. Decliva, F. Rey, A. Demario, E. Landi

fonte

https://www.bpp.it/Apulia/html/archivio/1999/II/ART/R99II021.html

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