FLORIO E LA SICILIA BORBONICA DELL’ULTIMO DECENNIO
Come si viveva nella Sicilia di metà dell’Ottocento, territorio autonomo del Regno delle Due Sicilie? Qual era la sua economia, nella quale la famiglia Florio era protagonista? Qual era la sua vita sociale? Nei libri di storia si descrive un territorio arcaico, selvaggio, con una popolazione priva dei fondamentali diritti naturali, sociali ed economici.
Si descrive l’arrivo di Garibaldi e l’annessione al Regno d’Italia come una liberazione. Fu veramente così? Ascoltiamo Raffaele De Cesare, che non è un furioso neoborbonico o un nostalgico del Regno di Napoli, ma fu giornalista e senatore del Regno d’Italia di idee liberali e unitarie. Ecco uno stralcio del suo saggio “La fine di un Regno” pubblicato nel 1900.
Fin dai primi tempi della luogotenenza del principe di Satriano, la città di Palermo cominciò a rivelare nella vita aristocratica una gaiezza, che non ebbe forse Napoli negli ultimi dieci anni di dominazione borbonica. La grande città tornava allo splendore dei suoi balli, dei suoi conviti, dei suoi teatri e delle sue pompe religiose. Pur non concentrando la vita economica e morale di tutta l’Isola, perchè Catania, detta l’Atene della Sicilia, e Messina, avevano vita propria con le loro Università e nobiltà e borghesia, resa ricca dai commerci, Palermo fu in ogni tempo la capitale dove affluiva la vita amministrativa dell’Isola, che per i Palermitani era semplicemente il Regno. […]
In quegli anni si venne affermando tutta la forza delle varie iniziative di quel grande cittadino, che fu Vincenzo Florio, benemerito della Sicilia più di qualunque Re o dinastia. Comparando la Sicilia all’Inghilterra, vedendo da vicino ed apprezzando tutto ciò che il popolo inglese ha di buono, di forte e di grande, e tuttociò che il popolo siciliano ha di comune con esso, nonché gl’insuperabili doni naturali, Florio ebbe il proposito di dare la ricchezza alla sua patria di adozione. Egli, non era siciliano. Nato a Bagnara nel 1800, andò col padre a Palermo, per aprir bottega di droghiere, che tuttora esiste, in via dei Materassai. Morto il padre, fu aiutato da uno zio. Da giovinetto viaggiò molto e molto apprese, e lavorando senza tregua, con lo spirito aperto alle più audaci iniziative, divenne il restauratore dell’economia siciliana. Istituendo fin dal 1846 la prima linea di navigazione a vapore, aprì la Sicilia al mondo, ma singolarmente all’America e all’Inghilterra. Istituì una fonderia di ferro, trasformò su basi razionali l’industria della tonnara, col magnifico stabilimento della Favignana, diè notorietà mondiale al vino Marsala, creandone un tipo più confacente al gusto generale, e ai prodotti principali dell’Isola fece acquistare un valore che non avevano. L’industria siciliana si affermò ad un tratto sul nome di Vincenzo Florio. Morì nel 1868, senatore del Regno d’Italia e molte volte milionario, né mai ricchezza al mondo potè dirsi di migliore acquisto della sua, come di lui scrisse lo Smiles, che gli diè un posto d’onore fra gli uomini più benemeriti del suo secolo. Il nipote ne continua l’opera e seguita ad illustrarne il nome onorato.
La vita nelle città era a un buon mercato inverosimile, e scarsi dappertutto i bisogni morali, anzi limitati alle classi più ricche. Nessuna legislazione fiscale inceppava il movimento della proprietà, e le fittanze a lunga scadenza, le enfiteusi temporanee e perpetue, le vendite, le espropriazioni e le stesse donazioni erano favorite da un sistema legislativo, che non le opprimeva, benché una gran parte delle proprietà immobiliare fosse gravata di vincoli enfiteutici. In Sicilia, più della metà del territorio, forse i due terzi, sottostà anche oggi ad enfiteusi e subenfiteusi, governate dalle antiche leggi.
Allora la situazione pareva peggiore della presente per l’inalienabilità dell’immenso patrimonio delle chiese, delle corporazioni religiose e di altri corpi morali: dico pareva, perchè questa grande manomorta rispondeva a fini sociali e morali che la rivoluzione, quando divenne governo, distrusse senza discernimento. Garibaldi e i suoi prodittatori la rispettarono, perché, tranne che richiamare in vigore la legge del 1848 contro i gesuiti e i liguorini, non fecero di più. Bisognava distinguere molto e procedere per gradi, ma invece si confuse tutto, si soppresse tutto, ignorandosi che la manomorta in Sicilia era diversa da tutte le altre.
Il principe di Castelcicala continuò, come aveva fatto Filangieri, ad applicare il sistema economico del governo di Napoli. Così, se nell’ottobre del 1849 Filangieri non aveva creduto pericoloso permettere l’esportazione di granoni e legumi, e nel luglio del 1853 aveva ritenuto utile vietare l’uscita dei grani, dell’avena, degli orzi e più tardi quella delle patate, Castelcicala, finito il pericolo, permetteva l’esportazione delle patate e delle paste lavorate, e se proibiva quella dei bovini e degli ovini, permetteva la libera importazione dei cavalli e degli animali destinati al macello ed esentava dal dazio d’entrata per un anno i formaggi e per tre mesi i carboni. La libera importazione degli animali da macello era necessaria, perchè nei sedici mesi di rivoluzione e di guerra se n’era fatto grande consumo. I raccolti e i bisogni della popolazione continuavano ad essere regolati dalla bilancia doganale.
Nella misura dei dazi di esportazione vi era trattamento di favore per la Sicilia. Così, quando nel 1856 venne ridotto il dazio di esportazione sugli olii di oliva, il dazio sugli olii di Sicilia fu della metà inferiore a quello, che colpiva gli olii del continente.
Era favorita la marina mercantile nazionale, perchè questi dazi salivano del doppio se l’esportazione si compiva con legni esteri. Grazie al Florio l’esportazione era più che triplicata. Gli zolfi, il sommacco, i vini, gli olii, le paste, gli agrumi erano i prodotti che l’Isola esportava, e il Governo, come si è veduto, ne favoriva l’esportazione, prendendo alla sua volta dai contribuenti siciliani il meno possibile. Essi si lagnavano a torto per questa parte. La Sicilia, che paga oggi 120 milioni d’imposte, ne pagava allora poco meno di ventidue, e se mancava di ferrovie e di strade, di telegrafi elettrici e di cimiteri, aveva il porto franco di Messina, l’esenzione dalla leva e dalla gabella del sale e la libera coltivazione del tabacco.
Il Governo si studiava di garantire ai poveri i generi di prima necessità a buon mercato, e la sicurezza alle classi benestanti. L’apparenza del benessere vi era tutta nelle grandi città marittime, le quali vivevano sfruttando le risorse della parte interna dell’Isola, la quale se non era nelle condizioni di cinquant’anni prima, descritte dal Meli, di poco ne differiva.