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Francesco d’Aquino, Principe di Caramanico, Viceré di Sicilia

Posted by on Ott 27, 2024

Francesco d’Aquino, Principe di Caramanico, Viceré di Sicilia

Presentiamo una indagine storica sul vicerè Francesco Maria Venanzio d’Aquino, principe di Carramanico, uno dei protagonisti della Sicilia del Settecento.

Nasce a Napoli il 27 di febbraio del 1738, figlio del duca di Casoli. Nel 1770 sposa la duchessa di Maddaloni. Fu venerabile della Loggia massonica della Vittoria. La sua formazione, fu quella dell’uomo di corte, “colto, senza essere profondo” formatosi nei salotti dell’alta società napoletana, poco incline alla comprensione dei reali problemi del paese, ma tale forma mentis veniva mitigata dal pragmatismo politico di cui era dotato. Come Domenico Caracciolo, fu ambasciatore del Regno di Napoli a Londra, dal 1780 al 1784 e a Parigi, dal 1784 al 1786. Fu membro del Consiglio di Stato, dell’ordine di S. Gennaro, era un uomo gradito ai reali e soprattutto alla regina Maria Carolina. Nel 1786 venne chiamato a sostituire il Caracciolo nel viceregno di Sicilia. La sua nomina a viceré, non fu casuale, fu promossa dal Caracciolo, il quale sperava in un proseguimento della stagione riformatrice nell’isola, e, secondo le male lingue, fu consigliata anche dall’Acton per allontanarlo da corte. Il 21 di aprile dell’anno 1786 sbarcò a Palermo. Il Protonotaro del Regno ci ha descritto, minuziosamente, come avvenne il suo sbarco:

“Essendo riscontrato il Pretore di questa Capitale Marchese di S. Croce, mercé di una veridica relazione di torrari come trovavasi alla veduta una gran nave, verso le ore 12 fece di tutto avvisato il Protonotaro del Regno, ond’egli passar potesse le ulteriori necessarie notizie. Già fu che esso Protonotaro si conferì da S.E. D. Gioaichino Fons de Viela, che si ritrovava ad occupare la carica di Presidente interino di questo Regno, cui pervenne che visitar dovesse S.E. Sig. Viceré, affin di farle la benvenuta e nello stesso tempo esso Sig. Protonotaro del Regno fece arrivar la sua prevenzione al Senato, Primo Titolo Sagro Conseglio, e Nobiltà, affin che’ li medesimi con esatto puntualità si fossero ritrovato al molo ed ivi frontispicio alla Quinta casa dell’espulsi Gesuiti, ove era disposto un decorato ponte per ricevere il novello viceregnante. Indi abbassò alla marina, ove ritrovata la feluga, che noleggiato avea a bella posta s’imbarcò sollecitamente alla volta di quello. E poscia che giunge passò a S.E. i suoi convenevoli. Si viddero fratanto su di un’a [incomprensibile] feluca arrivare gli Ambasciadori del Senato, che furono appunto il Principe di Scordia, ed il Duca di Villareale, quali secondo si è veduto pell’addietro pratticae in somiglianti incontrò, fatta prima intesa S.E. del loro arrivo, mercé il Mazziero del Senato passaron quindi a salire nel sidetto bastimento, ove vennero ricevuti da S.E. alla porta di quella camera, e salutati col disparo di cinque pezzi, ed indi fatteli accomodare, e coprire insieme, esposero essi la loro imbasciata, e preso poscia congedo, furono da S.E. accompagnato sino alla porta della stessa camera, ove ricevuti l’avea, e salutati per la seconda volta col disparo di cinque pezzi.
In questo frattempo si presentò l’aiutante reale del Sig. Presidente Interno del Regno D. Gioachino Fons de Viela a protestarle, che in quel momento il Sig. Presidente non era a portata di potere usare i suoi convenevoli.
Approsimatosi frattanto il bastimento al molo, ed approdato, fu ritenuta S.E. il detto Ponte della Nobiltà, Titolo, Senato informa e da Sagro Conseglio.
Mentre S.E. Sig. Viceré si portava alla casina del Duca di S. Martino, veniva preceduto dal riferito Sagro Conseglio, standole a man destra il Titolo, e da sinistra il Pretore, seguito dietro da tutto il Senato, e Nobiltà, salirono sino all’appaltamento per esso lui preparato, e S.E. loro licenziò.
La stessa mattina de’ 21 Aprile si vidde il Sig. D. Gioachino Fons de Viela Presidente Interino del Regno conferire personalmente nella casina del Sig. Duca di S. Martino per fare al novello Sig. Viceré una visita di complimento, per uno fu ricevuto alla punta della scala ed ivi occupata una ugual sedia, si assisevo a fianchi, e dietro qualche tratto di tempo licensiandosi fu accompagnato da S.E. alla medesima scala ove era stato incontrato; complimento in vero che avrebbe dovuto adempiere il Fons de Viela a bordo della nave, ma come il disbarco fu all’istante, non ebbe egli tempo di adempierli allora”.

Da qui cominciò la sua carriera di viceré, vedremo, nel seguente paragrafo, com’è passata alla storia la sua politica. Reale riformatore o semplice emulatore della politica caraccioliana? O timoroso del baronaggio? I punti di domanda, con cui abbiamo deciso di chiudere il paragrafo precedente, sono cruciali, secondo il nostro parere, per iniziare a ragionare in maniera organica e completa sulla figura del viceré Caramanico. Il lettore si starà chiedendo, il perché delle nostre insinuazioni, chiamiamole così per il momento, sulla condotta politica del viceré. La risposta a tali quesiti, proveremo a darla dopo aver esaminato minuziosamente, le maggiori riforme, ma anche le battute d’arresto che subì la sua opera e, ancora, il rapporto che Caramanico instaurò con la nobiltà palermitana. Inizieremo, proprio, a descrivere questo rapporto, poiché è un aspetto che lo contraddistingue, nettamente, rispetto al suo predecessore. Il viceré Caramanico, al contrario del Caracciolo, non disdegnava la compagnia dei baroni, anzi, si trovava a suo agio tra i lussi, gli sfarzi e le feste che frequentemente si svolgevano tra la nobiltà di Palermo; per queste ragioni, il baronaggio, dopo l’esperienza col Caracciolo, non vedeva nel Caramanico la causa di tutti i loro mali, nonostante egli fosse venuto in Sicilia per proseguire la stagione delle riforme, cominciata dall’ex viceré. Era una figura amata, sia dal semplice popolo, per il quale fece tanto e bene per migliorare le loro condizioni, che da quello altolocato. Questa simpatia, che riuscì a conquistare da coloro che, fondamentalmente, erano i suoi avversari politici, fu figlia, di un approccio più morbido, più di apertura verso lo stile di vita del baronaggio, al contrario, del suo predecessore che disdegnava enormemente gli usi e i costumi del baronaggio siciliano. Secondo noi, volendo essere un pò strateghi, un pò calcolatori, questo atteggiamento, quest’apertura del Caramanico verso il baronaggio altro non era che un’applicazione pratica del classico detto «tieni stretti gli amici, ma ancor più stretti i tuoi nemici». Alcuni storiografi dividono l’esperienza politica del Caramanico, in due momenti; uno in cui la stagione delle riforme prosegue con ardore e risolutezza, alla stregua del Caracciolo e sotto la supervisione di quest’ultimo, divenuto nel frattempo primo ministro alla corte di Napoli; il secondo in cui, sia il viceré che la corte di Napoli, perdono vigore nella lotta alla feudalità, che imputano ad un ammorbidimento del viceré verso il baronaggio; a tempo debito affronteremo questo aspetto, che rimandiamo più in là nella trattazione. Il modus operandi che abbiamo deciso di adottare, nella disamina del lungo viceregno del Caramanico, è quello di dividerlo in tre, tanti quanti furono i suoi mandati da viceré, e analizzeremo anno per anno i maggiori avvenimenti e le riforme più importanti.

Il primo viceregno del Caramanico (1786-1789)

Qual miglior modo, di iniziare la trattazione sul primo viceregno del Principe di Caramanico, se non riportando il modo in cui egli si presentò al Parlamento di Sicilia, durante il suo discorso inaugurale:

“[…] E poicché non solo Messina, ma altre Università del Regno Bramano aiuto, e sollievo mi cade qui in acconcio, il rammemorare a così ragguardevole adunanza, fornita di molto senno e prudenza le istanze di uno de’ Bracci, che dolente d’essere più degli altri gravato nella ripartizione de’ pubblici pesi nell’ultimo General Parlamento domandò la nuova numerazione delle anime, e l’estimo de’ beni per equilibrarne i pesi della quale proposta, sebbene avessero dissentito gli altri due Bracci, tuttavolta il Re Nostro Signore riguardando con occhio di Padre le angustie del primo, ne accolse benignamente le suppliche, rivolgendo tutte le sue cure a cercare i mezzi più pronti, e i più efficaci e meno dispendiosi, onde sia possibile il ripartire con uguaglianza i pubblici pesi.
 Secondando dunque le giuste, e provvide intenzioni della Maestà Sua ordinate al comune bene delle Università e degli ordini tutti, ed in particolare dell’infima classe, la quale se resterà oppressa, ne seguirà che verrà a languire e perire anche la più nobile e doviziosa, porto ferma opinione, che il General Parlamento, e specialmente i due Bracci, che dissentirono, accasi di virtuosa gara fra loro l’ingegneranno, di escogitare il modo, come condurre ad effetto un disegno, ed un’opera tanto salutare della quale procede la eguale distribuzione di tutti i pubblici pesi. Per la qual cosa non solo accoglierà la Maestà Sua con singolare compiacenza gli atti di rispetto di ossequio e di fedeltà che avrà ciascheduno Braccio palesati nel confermare, e prorogare con prontezza, ed ilarità gli additati donativi, ma avrà particolare riguardo, ed userà le maggiori beneficenze verso quei due Bracci i quali non migliore avvedimento calcolando il loro privato interesse, avranno procurato di sollevare le Università tutte del Regno, e singolarmente quella infima classe, che incessantemente travaglia, per li ricchi, e che altro non ritrae dal suo giornaliero sudore, che un miserabile sostentamente per se, e per la sua famiglia. Il Principe di Caramanico”.

Cosa si evince dalle parole, su riportate, del Caramanico? Per prima cosa, era necessario compiere l’opera di «numerazione delle anime, e l’estimo de’ beni», ovvero sia trionfare dove il Caracciolo fallì. Seconda cosa, inserì nel suo discorso le problematiche, le condizioni critiche e al limite dell’umana decenza in cui la maggior parte del popolo versava. Ciò che è degno di nota, fu la reazione dei bracci del Parlamento alla richiesta del viceré di procedere alla numerazione delle anime e all’estimo dei beni:

“Essendo non poche Università del Regno decadute non solo per le varie vicende de’ tempi, che per sinistri avvenimenti ai quali molte di esse hanno soggiaciuto, ond’e’, che lo stato loro merita tutti i possibili riguardi, per occorrersi al diario aiuto, e sollievo, e [incomprensibile] le conseguenze di maggior danno, che non potrebbe, che risultare di molto pregiudizio agli ordini tutti del Regno medesimo. Siccome il Parlamento Generale ha in questa adunanza tenuto nella seria considerazione lo stato delle cose tutte, e le provvide intenzioni della Maestà Sua che sono state al Parlamento stesso manifestate per escogitare il modo, come ridurre ad effetto la numerazione delle anime, e l’estimo de’ beni, per potersi in tal guisa distribuire egualmente i pubblici pesi; così non volendo il Parlamento da se, e non potendo anche in si breve tempo pensare, e proporre alcuno espediente all’oggetto divisato, ha creduto più proprio lasciare tutto all’arbitrio di Sua Maestà, e far dipendere dalla medesima le risoluzioni su l’assunto suddetto, nella certezza, in cui vive che non possono, che essere dirette al pubblico bene, ed alla comune felicità. E quindi nell’atto che tutto rimette alla Paterna cura della Maestà Sua, si avanza a pregarla, che pella esecuzione de’ mezzi che si degnerà di risolvere, voglia compiacersi d’incaricare la Deputazione del Regno, come quella, che pel canale della medesima sono cose somiglianti providenze anche per le Sovrane Sue determinazioni”.

Tra le righe sopra citate, si evince, nonostante il falso placet di «lasciare all’arbitrio di Sua Maestà, e far dipendere dalla medesima le risoluzioni su l’assunto suddetto», la volontà del baronaggio, cioè del Braccio baronal-militare e del Braccio baronal-ecclesiastico, di mantenere lo status quo; perché, il lettore si starà chiedendo, affermate questo? La risposta è semplice, chiedere al re di affidare e di incaricare la Deputazione del Regno, di essere lo strumento di esecuzione delle sovrane risoluzioni, e poiché la Deputazione era un organo a maggioranza baronale ed ecclesiastica, cui poco poteva opporsi la minoranza del Braccio demaniale, significava a conti fatti non fare proprio nulla e preservare i propri privilegi, con una chiara e limpida politica ostruzionista. Dopo questa breve introduzione al viceregno del Caramanico, entriamo nel vivo della sua azione politico-riformatrice. A questo proposito Caracciolo, nel 1786, nelle sue nuove vesti di Primo Ministro, a Napoli, non aveva dimenticato il baronaggio, e aggiungeremo che neanche il baronaggio lo aveva dimenticato, diede un’altra batosta alla nobiltà feudale, fece tutto ciò che era nelle sue facoltà, riuscendo a far avocare al re la nomina, usurpata dal Parlamento siciliano, dei membri della Deputazione del Regno di Sicilia. Parlare del Caracciolo, anche durante l’analisi della politica del Caramanico è inevitabile, poiché egli fu sempre presente, sempre attivo nella lotta al privilegio, anche quando divenne Primo Ministro restò una spina nel fianco del baronaggio, fino alla sua morte.
Tornando al Caramanico, l’11 di settembre del 1786, un dispaccio reale dispose che i conti delle amministrazioni delle università baronali siano presentati dai giurati, entro un mese, al Tribunale del Real Patrimonio e non ai baroni delle università stesse; questo dispaccio è molto significativo, voleva dire togliere linfa vitale alla nobiltà feudale, poiché estromettere i baroni dal rimettere i conti delle università equivaleva ad evitare e cancellare molti abusi che durante tali atti venivano dagli stessi praticati. Inoltre nel suddetto dispaccio si fa menzione di un episodio, di cui già ci siamo occupati nelle pagine precedenti:

“[…]Antonino Faldetti, e Giuseppe La Mandola, i quali doleansi dell’aggravio delle Università Baronali per la tanta spesa delli Dispacci Patrimoniali, e per il pagamento loro ingiunto di annue onze cinquecento quaranta all’Avvocato Fiscale, a tre nuovi Razionali, e tre Coadiutori del Real Patrimonio per la discussione delli di loro Conti; Ha determinato, e vuole S.M., ch’essa Giunta dia corso allo stabilimento di essi soldi, giacché si è assicurata, che le dette Università si dispendiassero in somme molto maggiori, quando li Conti rivedevansi da Baroni, ascendendo allora le dette spese per sole cento venti Università, per cui si sono finora liquidate, ad annue onze mille, e dodici, onde con nuovi sistemi vengano a fare un risparmio notabilissimo, il quale deve liquidarsi interamente, per sapersi a che somm’ascendevano le dette spese di tutte le altre Università, quando i Conti rivedevansi da’ Baroni; Ed intanto vuole S.M., che la detta Giunta medesima ripari a tutti gli abusi delle frequenti e gravi spese, a cui soggiacciono le Università per li suddetti Dispacci Patrimoniali[…]”.

I baroni non stettero con le mani in mano, mentre il loro mondo andava via via disfacendosi, presentarono ricorso alla sovrana risoluzione, il 20 di marzo dell’anno 1787:

“[…] per lo esame de’ conti delle Università Baronali, e quindi implorarono, che tali conti si dovessero dalli rispettivi Giurati tramandare ai propri Baroni, per esaminarli, e querendarli, ed indi rassegnarli fra un mese colle loro querende al Tribunale del R.P. Che senza crearsi nuovi Uffiziali a soldo sopra le dette Università, si dovessero rimettere li cennati conti ad uno de’ Razionali Ordinari per riferirli all’Avvocato Fiscale, il quale dovesse perciò godere once cento sessanta l’anno, ed al rispettivo Razionale designato per ogni Valle darsi ciascun conto tarì dodici, e così praticandosi sarà inutile la elezione di tre nuovi Razionali, ed altrettanti Coadiutori proposta dal riferito Tribunale, e le Università non soffriranno il peso delle annue once cinquecento quaranta, da assegnarsi alli medesimi. Che nel caso si domandassero dispense dai Giurati, o licenze per fare spese straordinarie, non possa il Tribunale medesimo accordarle, se non previo l’informo del Barone, Che sospender si debba il soldo a quei Giurati, e Sindaco, che per lo addietro non l’ha goduto. E che finalmente in tutte le provvidenze, che i Giurati ricercano, o loro si comunicano dal Tribunale per via di Dispacci, non debbano le Università soffrire peso alcuno, ma tali Dispacci debbano spedirsi ex officio.[…] La Giunta delli Presidenti, e Consultore unitamente coll’Avvocato Fiscale, ed il Conservatore del Real Patrimonio informando di resulta dell’esame fatto degli accennati Articoli, […] ha proposto con sua rimostranza, che qui rimise V.E. in lettera de’ 30 Novembre dell’anno prossimo caduto, di doversi eseguire rispetto allo esame de’ conti delle Università Baronali la Sovrana determinazione degli 8 Luglio dello stesso anno, perché il dritto de’ Baroni non può considerarsi in altro, che come primi Cittadini delle Università possono assistere, o far assistere i loro Procuratori nel Tribunale, e presso i Razionali, che dovranno vedere i conti, per notarvi i loro dubbi, le avvertenze, e le fiscalie, potendo essi chiederne copia per tramandarla ai loro Agenti, e Segreti sopra luogo, onde riportarne le notizie opportune: e lo stesso potrano praticare, quando le Università chieggano nel Tribunale le licenze per fare spese ultra statum, e sarà allora delle ispezione del Tribunale il risolvere, se in tali casi debbano ricevere informi, ed Istruzioni dai rispettivi Baroni. Per quanto poi riguarda il soldo solito assegnarsi dal Tribunale ai Giurati, e le spese, che costoro fanno nella spedizione de’ Dispacci; la mentovata Giunta è stata di parere, che il Tribunale non debba abbonare alcuna somma, ancorché minima, a beneficio de’ Giurati a titolo di soldo, di Patente, di Sindicato, o latro, e che si debbano spedire ex officio i Dispacci per la elezione così de’ Giurati, come di tutti gli altri Officiali delle Università, fino a tanto che Sua Maestà non risolverà altrimenti rispetto al dritto di Patente, da doversi forse pagare per la elezione de’ Giurati, a tenore della riserva del noto Circolare, come fin’oggi si è eseguito in conformità di Biglietto del passato Viceré Marchese Caracciolo, essendo altresì di sentimento, che tutti i Dispacci riguardanti spedizioni di affare delle stesse Università, qualora siano per informi, o per notizia necessarie alla risoluzione, che dovrà prendere il Tribunale sulla pendenza, di cui mai si trattasse, si debbano spedire gratis, con pagarsi unicamente il solito dritto del Dispaccio continente la risoluzione richiesta al Tribunale […]”.

Il suddetto contiene anche il parere fornito dalla Giunta dei Presidenti e Consultore alle pretese dei baroni, la quale ha ritenuto di doversi «eseguire rispetto allo esame de’ conti delle Università Baronali la Sovrana determinazione».
Nell’aprile del 1787, il viceré, abrogò il rito di Alfonso d’Aragona che prevedeva le tre sentenze uniformi, e del cosiddetto perpetuo silenzio nelle cause feudali, alle quali si estendeva la stessa procedura delle cause allodiali.
Una causa molto importante si stava svolgendo in Napoli, con la quale si voleva annullare del tutto la prerogativa del mero e misto imperio; strascichi e dispute circa quest’annosa questione abbiamo rinvenuto tra le carte dell’Archivio di Stato di Palermo, qui di seguito ne riportiamo qualche esempio, in cui i cittadini di alcune baronie lamentavano di subire abusi e angarie, nonostante la mancanza di concessione del mero e misto imperio:

“Pretende il sacerdote Don Rocco Maria Minneci con petizione avanzata nel Tribunale della Gran Camera Civile di non essere i naturali della terra di Motta Di Affermò di cui n’é il Barone il Principe di Torremuzza Don Gabriele Lancillotto Castello tenuti a macinare le olive né i trappeti del proprio barone, che anzi di restare in loro arbitrio di poter macinare ove più piacere loro”.

E ancora:

“[…] con un giudizio in cui si pretende di annullare la privativa dei Trappeti d’Oglio goduta fin da tempi immemorabili sempre pacificamente dai Baroni di quella Terra predecessori dell’oratore per causa onerosa in riguardo di tanti commodi e vantaggi conceduti a quei naturali […]”

E si prosegue ancora, a suon di reclami e denunce:

“L’esposto qui unito del Sacerdote Don Rocco Maria de Minneci raggirarsi a dimostrare, che lo stato di Motta d’Affermo ed altri fondi siano di Real pertinenza. Il Supremo Consiglio di Azienda lo rimette a V.E. nel Real Nome, acciò l’Avvocato Fiscale del Real Patrimonio senta il ricorrente e riferisca indi quel che gli occorra”.

Fate attenzione alle date, per comprendere la durata media di una causa:

“Coll’ingionto ricorso chiede il sacerdote Don Rocco Maria de Minneci il salvocondotto per non essere molestato dal principe di Torremuzza contro di cui ha fatto delle dinunzie per alcuni fondi, che possiede di pertinenza del fisco; e nel Real Nome lo passa a mani di V.E. il supremo consiglio di azienda, acciò dia la provvidenza che stimi conveniente… Il sacerdote don rocco maria de minneci dinunzia coll’annesso ricorso, che il Principe di Torremuzza esercita indoverosamente il diritto di legnare nel Bosco della terra della Motta d’Affermo; ed il Supremo Consiglio di Azienda lo dirige a V.E.; acciò il Tribunale del Real Patrimonio proveda… preteso di sostenere che per la reintegrazione alla Real Camera della cennata Baronia, concorra la circostanza che la concessione fattane dal Re Alfonzo contenesse la clausola pro heredibus ex corpore descendetibus, e che la costoro linea fusse da gran tempo estinta… riferisca l’occorrente sulla dedotta concessione, colla clausola descendetibus ex corpore, ed estinzione di linea, per la sua sovrana intelligenza ed opportuna risoluzione”.

Ed infine nel 1794:

“uno de capi della denuncia prodotta dal sacerdote don rocco maria minneci a carico del principe di torremuzza, vi è la mancanza di concessione del mero e misto che esto principe esercita nelli feudi delle baronie di Motta d’affermo e di Spataro”.

Tutte queste testimonianze, ci provano, innanzitutto la lentezza della giustizia, e che nonostante la grande opera del Caracciolo e un buono approccio del Caramanico, c’era ancora tanto da fare nella lotta all’abuso e al privilegio.
Sempre nel 1787, il regio erario rivendica l’ufficio della posta in possesso del marchese di Villafranca, per via della lentezza delle cause, tal diritto di regalia venne riscattato solamente nel 1834. L’anno 1788 è importante, poiché si assistette all’emanazione di vari provvedimenti anti- feudali, tra i più importanti è bene ricordare, quello del 7 di marzo, nel quale si vietano i dazi che molte università esigono per il passaggio del bestiame nelle pubbliche piazze, nelle regie e pubbliche “trazzere”:

“[…] Volendo perciò Noi estirpare queste abusive anziché temerarie esazioni come ripugnanti alla legislazione, ed impeditive del Commercio, e dell’Agricoltura, ci siamo determinati spedire le presenti nostre Lettere Circolari, in vigor delle quali incarichiamo, ed ordiniamo a tutti i Senati, Secreti, Proconservadori, Giurati, Capitani, Giudici, Fiscali, Proprietari, o Gabelloti di Baglia, di Erranteria, di Feudi, Territori, e Tenute, e ad ogn’altra qualsivoglia Persona, sia privata, o che abbia Officio in tutte le Città, e Territori, tanto demaniali, che Baronali, acciò non si dia il menomo impedimento, o molestia a qualunque sorta di Bestiame Bovino, Vaccino, Pecorino, Caprino, Porcino, come ancora a qualunque sorta di armento, che passa andando, o ritornando per le Regie, o pubbliche Trazzere di ogni parte di questo Regno per qualunque uso, o di arbitrio de’ feudi, o per ogn’altro traffico, e Commercio, senza che da veruno si ardisca di chiedere per tal passaggio alcuna somma per Carnaggio, Erbaggio, Baglia, Erranteria, revisione di Patenti, o altro qualunque sia pretesto […]”.

Il 21 di marzo fu emanato un ordine viceregio col quale si stabilì, che le regie tande, incluse quelle del tabacco, dovevano corrispondersi ogni quadrimestre e che ad esse andavano precedentemente ipotecati tutti gli introiti delle rispettive università.
L’8 di novembre, un dispaccio estese delle disposizioni già sancite a Napoli, per cui restava abrogato qualsiasi diritto privativo da parte dei baroni, a meno che quest’ultimi provassero di avere una concessione dal momento dell’investitura del feudo.
Un’ulteriore scossa alla compagine feudale, fu quella di una nuova interpretazione data al capitolo Volentes, con la quale si dichiarò che i feudi siciliani erano tali e quali, nella loro intrinseca natura giuridica, a quelli napoletani, per cui, in quanto tali, erano passibili di reversione al fisco, ed inoltre, non potevano più essere alienati dal feudatario privo di prole e di legittimi successori, ed ancora non era più lecita l’estensione dei gradi di successione. Il nuovo anno, 1789, si aprì con la pubblicazione di un bando che dava seguito al dispaccio emanato l’8 novembre 1788, relativo all’abrogazione dei diritti privativi dei baroni:

“[…] Per via del Supremo Consiglio di Azienda di Real Ordine degli 8 del passato Novembre mi si dice quanto segue = Ecc.mo Signore = Avendo i Rappresentanti de’ Cittadini di Motta d’Affermo, Tusa, Naso, Castelbuono, Pettineo, e Ficarra fatto presente al Re, di non potere ora mai più resistere alle tante angarie, estorsioni, ed esorbitanze, che dispoticamente da loro rispettivi Baroni si esercitano colle usurpate prestazioni, e dritti proibitivi di Trappetti, Molini, Forni, Macelli,, Fondachi, Taverne, Terragi, Terragiuoli, Galline, Orsaglie, ed altri simili, per qual motivo sono stati necessitati d’introdurre in cotesti Tribunali dispendiosi litigi, ad oggetto di farne dichiarare la loro insossistenza; giacché l’esercizio di essi lede non solo la Suprema Regalia, ma ben anco è d’impedimento alla industria, alla Coltura, ed al Commercio: E trovandosi dall’Augusto Re Cattolico, non men che dal benigno nostro Sovrano emanate varie provvidenze in questo Regno per simili casi, e specialmente con tre Reali Dispacci, due de’ quali per la Real Segreteria di Stato, e Casa Reale sotto li 27 Dicembre 1766, e 3 Gennaio 1776, e l’atro sotto il primo Dicembre 1786 per la Real Segreteria di Stato, e Guerra, co’ quali si sono dichiarati illegittimi tali dritti proibitivi, prestazioni, esazioni, riscossioni, e Dazi di qualunque genere, che non venissero sostenuti da espressa Litteral concessione fatta dal Fisco unitamente col Feudo […]”.

Il 4 di maggio 1789, abolì le servitù personali, anche temporanee assicurando così la completa libertà degli individui.
Proibì ai baroni di partire senza il placet del viceré, la sanzione per chiunque trasgredisse, fu la perdita del feudo. Per impedire, inoltre, esazioni di tasse arbitrarie nel conferimento degli uffici giudiziari nei feudi, impose di attenersi ad una tariffa ufficiale. Tutte queste misure erano atte a reprimere il privilegio, gli abusi e la corruzione; misure che disciplinavano municipi, incoraggiavano il commercio, impedivano arbitri e favoritismi.
Il Caramanico, inoltre, meditava una riforma radicale della Giunta di Sicilia, ancora di salvezza del baronaggio a Napoli. Procedette ad una riforma dei codici e ad un un riordino delle prammatiche del regno. Tirando le somme, riguardo il primo viceregno del Caramanico, è fuori dubbio che egli abbia continuato a coltivare il campo seminato dal Caracciolo, continuando la lotta al privilegio, all’abuso, al feudo in se stesso come concezione ormai non più al passo con i tempi, ragion per cui, naturale conseguenza della sua opera, fu la fiducia che i sovrani gli accordarono per altri tre anni come viceré di Sicilia. Un aspetto, secondo noi, fondamentale da sottolineare è, che il secondo viceregno del Caramanico iniziò all’alba di un evento che sconvolse tutti i regnanti d’Europa, un evento peculiare nel suo genere, ma neppure troppo, che a posteriori sembra quasi fosse la naturale conseguenza del fenomeno illuminista, dei suoi ideali, che aprirono la porta che condusse alla rivoluzione francese, e proprio i francesi , che al suon di liberté, egalité, fraternité, si scagliarono, con ferocia inaudita, contro l’assolutismo e i suoi rappresentanti, ossia i nobili e la casa reale. Possiamo affermare, che tale evento, di cui si fa menzione, con parole di sdegno e orrore, tra i documenti dell’Archivio di Stato di Palermo, scosse il re Ferdinando, ma soprattutto la regina Maria Carolina, la quale in quell’infausto evento perse la sorella Maria Antonietta, regina consorte di Francia; i reali napoletani, in questo clima di terrore, temerono, seriamente, che un contagio rivoluzionario si potesse estendere fin nel loro regno.
Il nostro punto di vista, supportato dai documenti dell’Archivio di Stato di Palermo, riguardo queste affermazioni, che imputano l’indebolimento dell’azione riformatrice, o ad una perdita di vigore del Caramanico o della corte di Napoli, ai nostri occhi appare una teoria troppo semplicistica e riduttiva che non considera ciò che accade al di fuori dei confini dei regni di Napoli e Sicilia, ma anche la perdita di un alleato forte e risoluto qual era il Caracciolo. La nostra teoria, conforme con quella di altri storiografi, prende le mosse dalla concezione che la rivoluzione, fu un evento che ebbe un’onda d’urto tanto estesa, per cui i sovrani, terrorizzati, si videro costretti ad allentare un pò la presa.
Lo sdegno della casa reale di Napoli, per il bagno di sangue di Parigi, lo si evince dai molti bandi antifrancesi, che furono pubblicati negli anni seguenti la rivoluzione. Analizzeremo tutto ciò in maniera più dettagliata nei prossimi paragrafi.

Il secondo viceregno del Caramanico (4 luglio 1789-1792)

Il 4 di luglio del 1789, fu una data particolare, il viceré Caramanico, prendeva possesso, del secondo triennio del suo viceregno, mentre a Napoli moriva, a causa di un colpo apoplettico il marchese Caracciolo, suo illustre predecessore. Dieci giorni dopo, il 14 di luglio, il popolo di Parigi prendeva la Bastiglia dando avvio alla rivoluzione francese. Esaminiamo, adesso, come si evolse la politica del principe di Caramanico alla luce di eventi di tal portata.
Il 30 di luglio emanò un bando con cui dava istruzioni sulle gabelle e sull’estrazione dell’olio. Con ordine viceregio stabilì di esigere il diritto di cassa e di extra regno, su qualunque genere di “tonnina” sia fritta che salata. Ciò che vogliamo far comprendere, è che tali bandi, i quali apparentemente disciplinano aree meno importanti del commercio e della vita del regno, sono, altresì, importantissimi poiché mostrano come il viceré tentasse, in ogni modo, di regolamentare ogni area, sia essa istituzionale, economica e culturale, anche se però non erano queste le riforme che avrebbero distrutto i residui del feudalesimo. Continuò a lastricare strade, racimolando i fondi necessari riconfermando la tassa sulle carrozze per altri quattro anni, in modo da finanziare una così importante e fondamentale opera, indispensabile per lo sviluppo dei collegamenti nell’isola e di conseguenza dell’economia.
Anche le riforme culturali furono degne di nota, incentivò la creazione di istituti superiori; portò a compimento la riforma dell’università di Catania; diede impulso all’istruzione primaria, che riteneva necessaria per l’elevazione morale del popolo; tutto ciò si inserisce, in quel quadro di migliorie della morale e dei costumi del regno.
Nello stesso anno emanò un bando contro le società segrete, con la finalità di impedire che idee rivoluzionarie potessero propagarsi tra il popolo. Il 5 di dicembre del 1789 venne annunciata la “censuazione” dei demani comunali lo sviluppo dei collegamenti nell’isola e di conseguenza dell’economia.
La Giunta delle censuazioni, censì molte terre di molti comuni, altre strappate agli usurpatori (non di rado capitava che le terre comunali venissero usurpate), altre ancora svincolate dai diritti di servitù attiva che ne impedivano il libero uso, tali diritti vennero sostituiti da una rendita (cd. strasalto), in favore di coloro che vantavano quei diritti. Molte di queste terre, una volta censite, furono divise in lotti e date in enfiteusi a borghesi e contadini.
Il 1790 fu un anno un pò fiacco dal punto di vista dell’azione riformatrice, anzi si fece qualche passo indietro, si annoverano provvedimenti quali, il decreto vicereale che disponeva l’utilizzo della lingua italiana, al posto di quella latina, negli atti pubblici dei Tribunali del regno. Le riforme languivano, qualcuna venne anche revocata; avvenne in febbraio, che un provvedimento andò a paralizzare gli effetti del decreto emanato riguardo i diritti proibitivi, probabilmente la paura di un Francia bis fece adottare questa linea.
Si proibì con una prammatica del 28 di giugno, di prendere i voti monastici prima di aver
compiuto ventuno anni. Come già detto, nulla di eclatante accadde durante l’anno, riteniamo di dover segnalare altri due provvedimenti, il primo, un dispaccio reale, del 13 di maggio, con cui si proibisce al segreto di Milazzo di esigere i diritti di estrazione sugli oli che si estraggono per immetterli nel porto franco, il secondo, un ordine viceregio che stabilisce l’esatta osservanza delle circolari che regolano la materia frumentaria. Analogamente al 1790, il 1791 non passò alla storia come un anno epico dal punto di vista della lotta al baronaggio, riteniamo opportuno, comunque, citare due provvedimenti, uno emanato il 13 di settembre, un ordine del governo che vieta ai baroni di non avere ingerenza alcuna negli affari delle università né nelle elezioni degli ufficiali e del maestro notaro della Corte Giuratoria, l’altro è un ordine viceregio con cui si dispone, che prima di rimuovere o eleggere i professori delle Università del Regno, i giurati delle rispettive università comunichino le dovute motivazioni al Tribunale del Real Patrimonio per evitare l’abuso capriccioso che certi giurati fanno di questo diritto.
Il 1792 iniziò con la promulgazione di un bando, il 17 di gennaio, con il quale si vietò di effettuarsi concessioni di beni feudali, allodiali e regali per via di private scritture o di atti pubblici simulati. Dopo circa un mese, precisamente il 18 di febbraio, emanò un bando in correlazione col primo, che vietava, anch’esso, di concedere beni feudali, allodiali o regali tramite private scritture o atti pubblici simulati ma obbligava «doversi tutti effettuare, e stipolare per via d’atti pubblici nella sua vera natura, e forma pro ut de jure senza palliatura alcuna, né simulazione».
Con questo ultimo atto, riteniamo che non ci sia più nulla da portare in evidenza per quanto riguarda il secondo viceregno del Caramanico. È arrivato il momento di andare ad affrontare, l’ultima fase del governo del viceré in Sicilia.

Il terzo viceregno del Caramanico (12 maggio 1792-1795)

Il terzo viceregno del Caramanico, ha un che di peculiare dal punto vista formale, poiché da tempo immemore la suddetta carica aveva durata triennale, mentre per quanto riguarda il caso in esame gli fu accordato un rinnovo per ben sei anni, ciò lo si evince da una lettera di John Acton inviata al Caramanico stesso, dai toni cordiali e di ammirazione da parte dei reali per il lavoro svolto:

“È tanto pienamente il Re soddisfatto della saviezza e prudenza da V.E. dimostrata costantemente in tutto il corso de’ due trienni che ha esercitata l’importantissima e raguardevolissima carica di Viceré di codesto Regno, e dell’immancabile di lei zelo per Real servizio, e per la felicità e tranquillità di codesti suoi amatissimi sudditi ed è tanto universale e vivo il desiderio, manifestato al Real Trono da tutti gli ordini di codesto Regno per la continuazione dell’E.V. nel suo applaudito Governo, che la M.I. si è determinata a confermarla da Viceré anche per altri sei anni coll’istesse facoltà, prerogative, ed emolumenti che ha goduti per lo passato; Sicura S.M. che nell’ulterior corso di codesta carica V.E. continuerà a distinguersi coll’istessa lode e sovrana approvazione nel Real Servizio, e nel promuovere il bene di codesto Regno. Con mio vero e particolare piacere lo partecipo di Real Ordine a V.E. per sua intelligenza, e regolamento, e perché ne passi l’avviso a chi convenga prevenendola che in appresso le sarà rimessa la corrispondente Patente”.

Dopo la conferma dell’incarico, il 18 di giugno, emanò un bando con cui si vietava ai giudici di accordare «dispense nelle obbligazioni, o alienazioni di beni soggetti a fidecommesso, di chiese, dotali, e di pupilli», con ciò si voleva arginare un reiterato abuso di giurisdizione da parte dei magistrati. Venne introdotto inoltre, un dazio delle barriere, i cui proventi furono utilizzati per la manutenzione delle strade già lastricate.
Il 29 di settembre un bando reale, concedeva a tutti la sovrana risoluzione di ricorrere al Tribunale del Real Patrimonio per poter godere del reale indulto nelle cause riguardanti tanto il regio erario quanto le università. L’ultimo provvedimento del 1792, che vogliamo portare in evidenza, è un bando viceregio del 15 di dicembre, con cui vietò la concessione di «licenza d’arme»,al fine di evitare l’incremento di omicidi e altri delitti che turbano la pace e l’ordine del regno.
Il 1793 fu un anno notabile, poiché il 16 di settembre venne emanato un bando che ordinava l’espulsione di tutti i francesi dai domini del regno, e che fossero scacciati da tutti i porti della Sicilia tutti i bastimenti francesi sia mercantili che da guerra, onde potere evitare che il seme dell’anarchia si propagasse nel Regno. Si rese inoltre pubblica la notizia relativa all’alleanza stipulata con l’Inghilterra e le altre nazioni in guerra con la Francia. Il motivo di ciò, ci sembra pleonastico ripeterlo, è legato agli accadimenti che sconvolsero la Francia, con la rivoluzione francese. L’1 ottobre venne emanato un ordine viceregio relativo ai conti dell’amministrazione del civico patrimonio, relativi agli introiti e agli esiti, per appurarne le frodi e le negligenze. Si ordinò altresì di esaminare i conti dell’amministrazione frumentaria.
Il 1794, abbiamo ritenuto di doverlo menzionare poiché il Caramanico ordinò, con un bando, a tutti i tribunali, i magistrati e le curie del regno che ogni qual volta per una causa si fossero date fino a tre sentenze conformi, fosse passata in giudicato senza permettere un quarto grado di giurisdizione. Con quest’ultimo bando si volle dare un taglio netto, a tutti i sotterfugi usati dai baroni per piegare al loro volere la giustizia, ricorrendo qui e la a diverse giurisdizioni.
Il 10 gennaio 1795, Francesco Maria Venanzio d’Aquino, principe di Caramanico e viceré di Sicilia, spirò; alcuni credono per avvelenamento, altri, e probabilmente hanno ragione, a causa di una malattia al fegato che lo tormentava da tempo.

Autore articolo: Davide Alessandra

Davide Alessandra, laureando in giurisprudenza e studente di archivistica, paleografia e diplomatica presso la scuola dell’Archivio di Stato di Palermo.

Fonti:

ASP, Protonotaro del Regno, 1066, p. 128, Arrivo di S.E. l’Ecc.mo Sig. D. Francesco d’Aquino, Principe di Caramanico, Viceré di Sicilia, 21 aprile 1786;
ASP, Parlamento di Sicilia tomo III (1754-1782), Parlamento CXVIII, 1786, Discorso inaugurale del Principe di Caramanico al Parlamento;
ASP, Parlamento di Sicilia tomo III (1754-1782), Parlamento CXVIII, Dichiarazione di tutti i tre Bracci, che compongono il Generale Parlamento, in seguito delle manifestate intenzioni di Sua Maestà circa alla numerazione delle anime, ed all’estimo de’ beni;
ASP, Real Segreteria, Incartamenti, vol. 5240, Denuncia di Don Rocco Maria Minneci avanzata al Tribunale della Gran Camera Civile, 10 agosto 1787;
ASP, Real Segreteria, Incartamenti, vol. 5240, Lettera del Principe di Torremuzza al viceré di Sicilia;
ASP, Real segreteria, Incartamenti, vol. 5240, Lettera di Giuseppe Palmieri al Viceré Principe di Caramanico, 10 Dicembre 1791;
ASP, Real segreteria, Incartamenti, vol. 5240, Lettera di Giuseppe Palmieri al Viceré Principe di Caramanico, 7 gennaio 1792;
ASP, Real segreteria, Incartamenti, vol. 5240, Lettera di Giuseppe Palmieri al Viceré Principe di Caramanico, 4 Febbraio 1792;
ASP, Real segreteria, Incartamenti, vol. 5240, Lettera di Giuseppe Palmieri al Viceré Principe di Caramanico, 11 Agosto 1792;

ASP, Miscellanea Archivistica I, Collezione Della Rovere, p. 163, 7 marzo 1788;
ASP, Miscellanea Archivistica I, Collezione Della Rovere, p. 166, 21 marzo 1788;
ASP, Miscellanea Archivistica I, Collezione Della Rovere, p. 167, 23 gennaio 1789, Abrogazione dei diritti proibitivi esercitati dai baroni;
ASP, Miscellanea Archivistica I, Collezione Della Rovere, p. 175, 30 luglio 1789;
ASP, Miscellanea Archivistica I, Collezione Della Rovere, p. 194, 5 settembre 1789;
ASP, Miscellanea Archivistica I, Collezione Della Rovere, p. 266, 28 giugno 1790;
ASP, Miscellanea Archivistica I, Collezione Della Rovere, p. 263;
ASP, Miscellanea Archivistica I, Collezione Della Rovere, p. 265;
ASP, Miscellanea Archivistica I, Collezione Della Rovere, p. 277;
ASP, Miscellanea Archivistica I, Collezione Della Rovere, p. 278;
ASP, Miscellanea Archivistica I, Collezione Della Rovere, p. 234;
ASP, Miscellanea Archivistica I, Collezione Della Rovere, p. 233;
ASP, Real Segreteria Incartamenti, 5153, Napoli 21 maggio 1792;
ASP, Miscellanea Archivistica I, Collezione Della Rovere, p. 257;
ASP, Miscellanea Archivistica I, Collezione Della Rovere, p. 276;
ASP, Miscellanea Archivistica I, Collezione Della Rovere, p. 283;
ASP, Miscellanea Archivistica I, Collezione Della Rovere, p. 308;
ASP, Miscellanea Archivistica I, Collezione Della Rovere, p. 311;

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